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Gli effetti dell’ammissione alla liquidazione coatta amministrativa (anche bancaria) sul giudizio di cassazione
La messa in liquidazione coatta amministrativa di una banca non comporta l’interruzione del processo di legittimità. Tuttavia, poiché anche nella liquidazione coatta amministrativa tutti i crediti vanno fatti valere e devono essere accertati secondo la disciplina concernente la formazione dello stato passivo, la domanda formulata a tali fini in sede di cognizione ordinaria, se proposta prima dell’inizio della procedura concorsuale, diventa improcedibile e tale improcedibilità è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di Cassazione, discendendo da norme inderogabilmente dettate a tutela del principio della par condicio creditorum.
Di Alessio Bonafine -
1.Il caso
A seguito dell’apertura di un conto fiduciario, la Banca veniva convenuta in giudizio dal proprio correntista, il quale lamentava di avere appreso solo successivamente la tipologia altamente speculativa dell’investimento effettuato e di non avere prima ricevuto alcun tipo di documento informativo. Domandava quindi la dichiarazione di nullità o l’annullamento o la risoluzione del contratto con il risarcimento del relativo danno.
La Banca si costituiva e chiedeva il rigetto delle domande avversarie precisando che l’apertura del conto era avvenuta a fronte dell’adesione dell’attore ad una campagna promozionale e sostenendo pertanto la completezza delle informazioni fornite, oltre che della documentazione predisposta e consegnata.
Il Tribunale, riconoscendo l’eccedenza del valore delle operazioni compiute sul conto dell’attore rispetto al limite concordato([1]), riteneva tuttavia maturata la prescrizione quinquennale propria, per la sua natura extracontrattuale, della responsabilità precontrattuale. Conseguentemente, rigettava la domanda e condannava l’attore al pagamento delle spese di lite.
La pronuncia veniva rovesciata dalla Corte d’appello che, sul presupposto dell’avvenuto superamento della soglia di investimento e della prescrizione decennale della responsabilità della Banca, condannava quest’ultima al risarcimento del danno determinato sulla base della perdita del valore di investimento, detratta la quota consentita.
Avverso la sentenza d’appello il cliente proponeva comunque ricorso per cassazione e la Banca resisteva con controricorso e ricorso incidentale, altresì evidenziando – attraverso la memoria ex art. 378 c.p.c. – come nel corso del giudizio di legittimità fosse stata ammessa alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.
2.Cenni sugli effetti dell’apertura della procedura di liquidazione coatta
La disciplina degli effetti della ammissione della banca alla procedura di liquidazione coatta amministrativa è dettata, per quanto di interesse, dall’art. 83 TUB, rubricato «Effetti del provvedimento per la banca, per i creditori e sui rapporti giuridici preesistenti».
La norma prevede che dalla data di insediamento degli organi liquidatori (e comunque dal sesto giorno lavorativo successivo alla data di adozione del provvedimento che dispone la liquidazione coatta) sono sospesi il pagamento delle passività di qualsiasi genere e le restituzioni di beni di terzi.
Inoltre, e in particolare, dal medesimo termine si producono gli effetti propri della dichiarazione di fallimento([2]), volti a creare la massa attiva nell’interesse dei creditori, e trova quindi applicazione la regola per cui contro la banca in liquidazione «non può essere promossa né proseguita alcuna azione […] né, per qualsiasi titolo, può essere parimenti promosso né proseguito alcun atto di esecuzione forzata o cautelare».
All’ammissione alla liquidazione, in altri termini, segue l’effetto della improponibilità dell’azione ovvero quello della sua improseguibilità, a seconda che si guardi a giudizi non ancora instaurati o già pendenti.
Tale effetto perdura fino alla conclusione della fase amministrativa di accertamento dello stato passivo davanti agli organi della procedura e da esso deriva che qualsiasi credito deve essere fatto valere in sede concorsuale, nell’ambito del procedimento di verifica affidato al commissario liquidatore, mentre il giudice può conoscerne in sede ordinaria solo in un momento successivo, pronunciando, ad esempio, sulle opposizioni allo stato passivo([3]).
La domanda proposta nelle forme della cognizione ordinaria che sia volta a far valere un credito nei confronti del soggetto sottoposto a liquidazione coatta amministrativa([4]), infatti, non può proseguire verso la decisione con quelle stesse forme, perchè il petitum sostanziale a base dell’iniziativa necessariamente ricade nell’ambito dell’accertamento di una passività a carico della procedura per il quale occorre quindi fare applicazione delle regole proprie dell’accertamento del passivo.
Si tratta evidentemente di un regime che impatta innanzitutto sulla posizione dei creditori ed ispirato dall’esigenza di proteggere la massa dalle azioni individuali([5]). Da qui l’esigenza di regolamentare la sorte dei procedimenti da queste scaturenti.
La conclusione dell’interruzione del processo già pendente deriva da un duplice ordine di ragioni.
Innanzitutto, la considerazione per cui a seguito della sottoposizione alla liquidazione coatta amministrativa si determina la perdita della capacità (anche) processuale della banca([6]). Inoltre, il dettato dell’art. 80, comma 6, TUB che, nel prevedere che «per quanto non espressamente previsto si applicano, se compatibili, le disposizioni della legge fallimentare», sembra giustificare la conclusione per cui l’art. 83, comma 3, TUB va inteso come di significato analogo all’art 43, comma 3, l. fall.([7]), con la conseguenza che opererebbe un’ipotesi di interruzione finanche ex lege, senza necessità quindi di osservare le formalità di cui ai primi due commi dell’art. 300 c.p.c.([8]).
Poggiato su queste basi – che la sentenza in esame pare condividere, nella misura in cui esclude che l’ammissione alla liquidazione coatta possa determinare l’interruzione del processo proprio richiamando i principi elaborati con riferimento alle norme sul fallimento – il caso sottoposto alla Cassazione offre innanzitutto l’occasione per tornare (per quanto necessariamente in modo sommario) sul tema della applicabilità degli artt. 299 ss. c.p.c. al giudizio di legittimità.
3. L’interruzione del giudizio di legittimità
In mancanza di una norma chiara – come quella dell’art. 359 c.p.c. per l’appello – la questione ha costituito teatro di vivace dibattito, rispetto al quale sembra possibile evidenziare una chiara linea evolutiva delle posizioni.
La giurisprudenza da sempre tende ad escludere in maniera netta l’applicabilità delle norme sull’interruzione al giudizio di cassazione, essenzialmente in ragione della considerazione per cui una volta instaurato con la notificazione del ricorso e con il deposito dello stesso, il giudizio di legittimità prosegue motu proprio, sicché non avrebbe senso immaginare che in esso possano assumere rilevanza gli eventi interruttivi pensati per il giudizio di merito ispirato al principio dispositivo([9]); così trovando riparo anche dal pericolo di disparità di trattamento rispetto al procedimento di merito (e, invero, pure di quello innanzi al Consiglio di Stato, in quanto comunque strutturato come giudizio anche nel merito della controversia)([10]).
Eppure, una diversa sensibilità per la tematica sembrava potere emergere già alla luce della pronuncia con cui la Corte costituzionale – pur senza ritenere ammissibile la questione prospettata – aveva evidenziato la carenza della normativa vigente, astenendosi dall’intervenire con una sentenza manipolativa o additiva solo in ragione dell’esistenza di ulteriori e diverse alternative utili alla risoluzione dell’inconveniente segnalato([11]).
In questo senso, anche la dottrina aveva profuso impegno in vista del raggiungimento di una differente ricostruzione, in particolare facendo leva sulla necessità di garantire in modo pieno il diritto di difesa quale prima garanzia del contraddittorio([12]).
E, in effetti, anche in ragione di tali prime aperture, la Cassazione, segnando l’allontanamento dall’orientamento all’epoca assolutamente prevalente, avrebbe presto aperto (o, per lo meno, tentato di aprire) alla rilevanza degli eventi interruttivi pure nel giudizio di legittimità.
A tale conclusione giungendo, in particolare, considerando, da un lato, l’opportunità di non valorizzare eccessivamente il mancato richiamo espresso all’istituto della interruzione, atteso che «il silenzio della legge non sempre è interpretabile come esclusione dell’ipotesi non considerata»([13]); dall’altro, la comune appartenenza dei giudizi di appello e di cassazione alla categoria di quelli ordinari di cognizione, sì che «debbono ritenersi dettate per tutti i tipi di procedimenti di cognizione le norme relative alla regolarità del contraddittorio (sanzionate dal precetto costituzionale dell’art. 24, comma 2) e le altre disposizioni fondamentali di cui è pacifica la riferibilità anche al giudizio di cassazione»([14]).
D’altronde – e offrendo risposta all’argomento dell’impulso officioso del procedimento – l’impatto di un evento interruttivo sul contraddittorio non pare possa ragionevolmente essere del tutto escluso nemmeno innanzi la Cassazione, per lo meno in ipotesi particolari in cui il medesimo si verifichi in prossimità di fondamentali scadenze processuali, come quelle legate alla partecipazione alla (compianta)([15]) udienza di discussione, all’integrazione del contraddittorio nel corso del giudizio ex artt. 331 e 375 c.p.c., ovvero al rideposito del fascicolo di parte o alla rinnovazione della notificazione. Tutti atti di impulso di parte non surrogabili dall’impulso d’ufficio.
Cionondimeno, la riluttanza al riconoscimento del valore degli eventi interruttivi nel procedimento di legittimità sarebbe emersa nuovamente a distanza di soli due anni; questa volta finanche con pronuncia delle Sezioni Unite([16]).
L’idea da cui muove la Corte è che sia errato pensare che agli squilibri del contraddittorio generati dagli eventi di cui agli art. 299 ss. c.p.c. si possa offrire risposta solo attraverso l’interruzione del processo, che è istituto ispirato dall’esigenza di tutelare non solo la parte a carico della quale si è verificato l’evento interruttivo, ma pure l’altra affinché non subisca un pregiudizio da tale situazione.
In quest’ottica, i limiti applicativi della interruzione ben possono essere modellati dal legislatore e controbilanciati da un obbligo di attivazione (ad esempio, a carico della parte nella ipotesi di revoca della procura) utile a paralizzare le conseguenze dell’evento in termini di compromissione del contraddittorio.
Pur ammettendo quindi l’esistenza di attività sottratte all’impulso d’ufficio, il silenzio del legislatore sull’applicabilità degli artt. 299 ss. c.p.c. non sarebbe superabile, nemmeno in via analogica visto il divieto dell’art. 14 delle preleggi.
Il tutto, peraltro, senza esporre a dubbi di incostituzionalità la mancata previsione, perché in un sistema in cui la lesione del diritto di difesa sarebbe scongiurata dalla considerazione per cui tutte le attività difensive successive al ricorso e al controricorso avrebbero comunque solo valore complementare([17]), dovrebbe piuttosto ritenersi «che la struttura del giudizio di legittimità impone un particolare onere di attenzione per la parte», che la espone «alle conseguenze derivanti da eventi che essa avrebbe potuto e dovuto conoscere» e che tuttavia non si è attivata per prevenire.
Sostanzialmente, nell’accennato contesto, escluso valore interruttivo alla morte della parte in ragione del principio della ultra-attività del mandato([18]), l’evento al quale la Cassazione ha finito per riconoscere rilevanza, sebbene non sotto l’egida della interruzione, è stato la morte dell’unico suo difensore([19]), senza valore restando invece la sua sospensione o radiazione dall’albo.
Anche quella appena indicata, invero, è apertura seguita a numerose tappe interpretative che non è possibile ripercorrere compiutamente in questa sede.
Basti però evidenziare come a fronte delle ripetute denunce del rischio di compromissione del diritto di difesa anche in sede di legittimità in dipendenza di un evento interruttivo non riconosciuto come tale, pure la Corte costituzionale è tornata a prendere posizione.
In ultimo, in relazione alla questione di legittimità degli artt. 301 e 377, comma 2, c.p.c. per violazione degli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, e 111 Cost., il giudice delle leggi – pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità prospettata ritenendo da ricondurre alla discrezionalità del legislatore la soluzione dei problemi implicati dal riconoscere rilevanza, nel giudizio di cassazione, ad eventi lato sensu interruttivi – ha osservato che «è del tutto ovvio che il carattere officioso del procedimento di cassazione è irrilevante al fine di bandirne l’istituto dell’interruzione, così come è ovvia l’inconsistenza logica e giuridica del tentativo di giustificare tale conclusione con il preteso, scarso valore – rispetto a quella che si esprime con il ricorso – delle successive attività difensive […]: tentativo che si risolve nel graduare inammissibilmente l’importanza degli strumenti difensivi, i quali, per ciò solo che sono previsti dalla legge processuale, debbono, tutti, poter essere utilizzati dalla parte per far valere le proprie ragioni»([20]).
Il diritto alla difesa, a maggior ragione nell’ambito di un giudizio ad alto tasso tecnico come quello innanzi la Cassazione, trova momento non sacrificabile nella assistenza professionale, sicché è evidente che la morte del difensore, incidendo inevitabilmente sulla sua portata sostanziale e non già meramente formale, giustifica a pieno il ricorso a rimedi non dissimili da quelli offerti nelle fasi di merito in ossequio al principio del giusto processo.
E’ significativo, semmai, che la Cassazione, al netto di queste aperture, abbia poi comunque preferito mantenere fermo il principio della non interruzione del giudizio di legittimità finendo per accordare soddisfazione alle richiamate esigenze attraverso rimedi processuali formalmente diversi.
Così, anche di recente, a fronte della morte del difensore (non già sostituito dalla parte che sia venuta a conoscenza dell’evento con congruo anticipo rispetto all’adempimento processuale altrimenti pregiudicato dalla assenza dell’avvocato) ha concluso per il riconoscimento della sola possibilità per la Corte di disporre rinvio con contestuale comunicazione del provvedimento alla parte personalmente([21]) affinché questa possa procedere alla nuova nomina([22]).
4.La soluzione
Per valutare l’influenza interruttiva della ammissione alla procedura di liquidazione coatta, la Cassazione ha preso le mosse dagli approdi già raggiunti in punto di rapporti tra giudizio di legittimità e fallimento.
Così, ha innanzitutto aderito all’insegnamento per cui l’intervenuta modifica (per effetto del d.lgs. n. 5/2006) dell’art. 43, comma 3, l. fall. – nella parte in cui recita che «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo»([23]) – non comporta una causa di interruzione del giudizio in corso in sede di legittimità, atteso che in quest’ultimo, proprio in quanto dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione (per le ragioni esposte sopra) le comuni cause di interruzione del processo([24]).
Tuttavia, per come già osservato, in ragione del richiamo speso dall’art. 83, comma 2, TUB (e più in generale dall’art. 201, comma 1, l. fall.) alla disciplina del fallimento, si applica anche alla procedura di liquidazione coatta l’art. 52 l. fall., secondo cui ogni credito (anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile), nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato, salvo diverse disposizioni di legge, secondo le norme dettate per l’accertamento del passivo e l’eventuale giudizio di opposizione. Si tratta della regola per cui il concorso dei creditori va declinato non solo in ottica sostanziale (vale a dire come partecipazione proporzionale alla distribuzione del ricavato nella liquidazione fallimentare)([25]) ma pure con logica formale, ai fini cioè dell’accertamento unitario concorsuale.
Con maggiore impegno esplicativo, tutti i crediti verso l’istituto in liquidazione, ivi compresi quelli prededucibili, devono essere accertati e vanno fatti valere secondo le norme che ne disciplinano il concorso e le relative azioni, ad eccezione di quelle in tema di opposizioni allo stato passivo, sono soggette alla regola della improponibilità/improseguibilità fissata dall’art. 83 TUB, letto in combinato e in funzione del richiamato art. 52 l. fall.
Un’improponibilità/improseguibilità, peraltro, rilevabile d’ufficio anche in Cassazione, in quanto prevista da norme inderogabilmente dettate a tutela del principio della par condicio creditorum([26]). Quella di cui si discorre, in effetti, si atteggia quale exceptio litis ingressum impediens([27]), diversa anche da quella relativa alla competenza perché riferita al rito e non ai confini del potere giudiziario, e quindi anche preliminare rispetto ad essa([28]).
E’ per questo che la domanda che si voglia proporre per far valere nelle forme del giudizio ordinario una pretesa soggetta ad una procedura concorsuale, in quanto articolata secondo un rito diverso da quello stabilito come necessario per la realizzazione del concorso e, pertanto, inidonea a consentire l’emanazione di una decisione di merito, va dichiarata inammissibile/improponibile/improcedibile([29]), considerati – a fortiori in questo caso – i confini sfumati tra le nozioni.
Si tratta, pertanto, di una declaratoria funzionale alla chiusura in rito del processo e perciò differente da quella prevista dall’art. 51 l. fall. (come richiamato anche dagli artt. 201 l. fall. e 83 TUB) in relazione alle azioni individuali esecutive e cautelari. In questo caso, infatti, l’improponibilità/improseguibilità non comporta l’anticipata chiusura per estinzione, ma il solo blocco temporaneo dell’esecuzione (sotto forma di divieto di avvio o prosecuzione)([30]), fino a quando la procedura concorsuale non sia revocata o chiusa([31]); una regola di sospensione([32]), quindi, confermata dal principio della conservazione degli effetti del pignoramento (pur con loro assorbimento nella «misura cautelare ed esecutiva più generale del fallimento»)([33]), come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità([34]).
Nel ragionamento della Cassazione l’idea che gli artt. 299 ss. c.p.c. non possano trovare applicazione in sede di legittimità è pertanto conservata. L’improcedibilità, infatti, non è dichiarata in ragione del valore interruttivo della ammissione alla procedura. Anche perché, se così fosse stato, essa sarebbe risultata distonica con la regola generale che, in caso di perdita della capacità di stare in giudizio, prevede l’interruzione del processo, con conseguente necessità di sua prosecuzione/riassunzione.
Piuttosto, l’effetto della chiusura del giudizio è ricollegato alla ratio del concorso formale e quindi alla necessità di garantire tutela alle ragioni sottese alle modalità di accertamento concorsuale dei crediti.
La coerenza del sistema da questo punto di vista è salva. Guardando alla formula della declaratoria, sembrerebbe però possibile spendere una rapida considerazione conclusiva.
La Corte ha dichiarato l’improcedibilità della domanda pur dando atto dell’ammissione della banca alla procedura di liquidazione «nel corso del giudizio di legittimità». Proprio in considerazione di tale circostanza, la dichiarazione della sua improseguibilità sarebbe parsa più coerente con le definizioni condivise.
L’improcedibilità, in effetti, segue all’omesso compimento di un atto «neutro rispetto al merito della vicenda processuale» di una sequenza «non meramente eventuale ma prescritta come doverosa» e, soprattutto, «attinente alla fase ‘iniziale’, di ‘avvio’ di un procedimento»([35]). Ed è in quest’ultima ottica che essa si distingue dai casi di improseguibilità dei procedimenti.
Ci si rende conto, però, di come quello appena compiuto possa risultare inutile esercizio classificatorio, anche perché è la stessa sentenza a segnare il senso di una evoluzione verso l’improcedibilità («[…] diventa improcedibile […]») utile (verosimilmente) ad una sostanziale sovrapposizione dei concetti. E, d’altronde, in mancanza di precise definizioni normative delle categorie impiegate dal legislatore con riferimento alle vicende che possono interessare l’inizio o la prosecuzione di una procedura giudiziaria (si pensi proprio alle ipotesi di improcedibilità, inammissibilità, improponibilità, improseguibilità e irricevibilità diversamente collocate tra codice di rito e norme ad hoc) è inevitabile una condizione di dubbio scaturente anche da un certo margine di fungibilità dei termini, che «infatti talvolta possono sembrare intercambiabili perché non sono in modo univoco e costante impiegati dal legislatore ad indicare ciascuno un fenomeno diverso, ma, lasciati così liberi di valere secondo il loro significato palese e atecnico, possono invece designare diversi modi di reagire allo stesso fenomeno»([36]).
([1]) Il collocamento era avvenuto sul presupposto che la componente azionaria dell’investimento non dovesse superare il 30%, mentre nella fattispecie era stata raggiunta la soglia del 49,51%.
([2]) Sono richiamati, più specificamente, gli effetti previsti dagli artt. 42 (che sancisce la perdita in capo all’imprenditore dell’amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti alla data del fallimento, ivi inclusi quelli che pervengono al fallito durante il fallimento), 44 (che dispone l’inefficacia rispetto ai creditori di tutti gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento), 45 (secondo cui sono senza effetto rispetto ai creditori le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo il deposito in cancelleria della sentenza dichiarativa di fallimento) e 66 (che disciplina l’azione revocatoria ordinaria in sede fallimentare, stabilendo che il curatore può chiedere l’inefficacia degli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori secondo le norme del codice civile) l. fall. In termini più generali, infine, il rinvio è speso anche alle disposizioni del titolo II, capo III, sezione II e sezione IV della legge fallimentare.
([3]) Sono infatti sottratte al descritto regime l’opposizione allo stato passivo (artt. 87 e 88 TUB), le insinuazioni tardive (art. 89 TUB) e le contestazioni alla documentazione finale di liquidazione (art. 92 TUB).
([4]) Non ricade invece nel campo applicativo dell’art. 83, comma 3, TUB l’azione volta a far accertare la sola intervenuta estinzione di un credito vantato contro un’impresa da una banca in l.c.a., senza che contro di essa siano fatti valere crediti restitutori o risarcitori, anche destinati a compensazione; v. Trib. Vicenza 19 maggio 2020, in ilcaso.it. Ciò in quanto le domande restano procedibili/proseguibili quando non risultino idonee ad incidere sulla formazione dello stato passivo e non possano quindi trovare risposta, né positiva, né negativa, in sede concorsuale; v. Trib. Venezia 4 luglio 2019, n. 1546, in Il diritto degli affari, 2019, 1 ss. V. anche Cass. 19 giugno 2017, n. 15066.
([5]) Boccuzzi, La liquidazione coatta amministrativa, in Trattato delle procedure concorsuali (a cura di Jorio e Sassani), V, Milano, 2017, 899 ss., spec. 1023. Sul tema, ma senza pretesa di completezza, v. anche Donvito, Roddi, Ferraioli, Silla, Commentario alla nuova legge bancaria, Milano, Pirola Editore, 1993, 160; Condemi, Eccezioni al divieto di intraprendere azioni esecutive o cautelari, in Codice della banca (a cura di Capriglione e Mezzacapo), Milano, 1990, 862.
([6]) Cfr. Cass. 14 maggio 2014, n. 10456, che proprio valorizzando questo argomento ha riconosciuto ricollegato all’ammissione alla liquidazione coatta l’effetto dell’interruzione del processo in corso. V. anche Cass. 20 marzo 2017, n. 7037, pur se relativamente ad una società di capitali diversa da istituto bancario.
([7]) Cfr. Cass. 19 giugno 2017, n. 15066; Trib. Venezia 4 luglio 2019, n. 1546, in Il diritto degli affari, 2019, 1 ss.; Trib. Treviso 22 gennaio 2019, n. 126, in dejure.it. Data la omogeneità di ratio tra le due procedure concorsuali, tale conclusione è accolta nonostante, in senso contrario, potrebbe osservarsi, da un lato, che l’art. 43 l. fall. non è tra le norme fallimentari indicate espressamente applicabili alla l.c.a. bancaria dall’art. 83, comma 2; e, dall’altro, che la tesi che vuole nell’art. 80, comma 6, TUB, un rinvio mobile alla legge fallimentare dovrebbe comunque considerare che la disposizione è rimasta sempre invariata nella sua formulazione dal 1993, a fronte dell’introduzione dell’art. 43 nella legge fallimentare solo nel 2006. A ciò si aggiunga anche che un rinvio all’art. 43 l. fall. non è speso nemmeno dall’art. 200, comma 1, l. fall. che, unitamente all’art. 201, comma 1, l. fall. costituisce il corrispondente, nella legge fallimentare, dell’art. 83, comma 3, TUB.
([8]) Così, Trib. Verona, 9 ottobre 2017; contra, Trib. Vicenza, 17 ottobre 2017, n. 2856, secondo cui la norma dell’art. 43, comma 3, l. fall., «in quanto speciale e derogatoria della disciplina di cui agli artt. 299 e 300 c.p.c., non può trovare applicazione a preferenza della normativa generale se non espressamente richiamata», sicché – non ritrovandosi tale espresso richiamo né nell’art. 83, comma 2, né nell’art. 80, comma 6, TUB – in difetto della dichiarazione da parte del procuratore finalizzata al conseguimento dell’effetto interruttivo (oppure dei necessari requisiti formali previsti dall’art. 300 c.p.c.), il processo prosegue tra le parti originarie. Entrambe le pronunce sono reperibili in dejure.it.
([9]) Ex multis, Cass. 30 dicembre 1971, n. 3774; Cass. 10 maggio 1975, n. 1811; Cass. 9 agosto 1983, n. 5325; Cass. 23 gennaio 1984, n. 560; Cass. 9 aprile 1988, n. 2797; Cass. 22 giugno 1990, n. 6311. In dottrina v. Calamandrei, Furno, Cassazione civile, in Nss. Dig. it., II, 1958, 1089; Fazzalari, Il giudizio di cassazione, Milano, 1960, 123; Calvosa, Interruzione del processo civile, in Nss. Dig. it., VIII, 1962, 928; Punzi, L’interruzione del processo, Milano, 1963, 266; Finocchiaro, Interruzione del processo, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 428; Cavalaglio, Interruzione del processo di cognizione nel diritto processuale civile, in Dig. civ., X, Torino, 1993, 74; Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile, 2001, I, 2, 1905.
([10]) Cass. 9 aprile 1988, n. 2797.
([11]) Corte cost. 20 dicembre 1988, n. 1110.
([12]) Amplius, Ciaccia Cavallari, Prospettive di interruzione nel procedimento in Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 188 ss.; Saletti, Interruzione del processo, in Enc. giur., XVII, Roma, 1989, 3; Califano, L’interruzione del processo civile, Napoli, 2004, 240 ss.
([13]) Nello stesso senso muovono le considerazioni di Califano, op. cit.; Id., Sub art. 299 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile (diretto da Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella), III, Torino, 2012, 575, il quale, osservando come il procedimento in Cassazione «grondi di previsioni di garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa», conclude affermando che in assenza di una previsione legislativa che espressamente escluda l’applicabilità delle norme sull’interruzione al giudizio in Cassazione esse devono ritenersi senz’altro richiamabili.
([14]) Cass. 22 agosto 1990, n. 564.
([15]) Amplius, Sassani, La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, 43 ss.; Panzarola, Presente e passato della Cassazione civile ita-liana fra nomofilachia e giustizia del caso concreto, in Il processo, 2018, 79 ss.; Comoglio, Giudizio di legittimità, trattazione camerale “non partecipata” e processo “equo”, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1028 ss. Cfr. anche i contributi raccolti in Foro it., 2017, V, sotto il titolo Il procedimento in Cassazione «ipercameralizzato» e a firma di Dalfino, Il nuovo volto del procedimento in Cassazione, nell’ultimo intervento normativo e nei protocolli di intesa, 2 ss.; Costantino, Note sulle «misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la corte di cassazione», 7 ss.; Campese, Il nuovo giudizio camerale civile di cassazione, 17 ss.; Damiani, Il nuovo procedimento camerale in cassazione e l’efficientismo del legislatore, 23 ss.; Scarselli, In difesa della pubblica udienza in cassazione, 30 ss.; Amoroso, La cameralizzazione non partecipata del giudizio civile di cassazione: compatibilità costituzionale e conformità alla Cedu, 35 ss.; Fuzio, Il procuratore generale nel giudizio civile di cassazione, 41 ss.; Curzio, Il ricorso per cassazione: viaggio all’interno della corte, 48 ss.; Grasso, L’applicazione dei magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali di legittimità, 56 ss.
([16]) Cass., sez. un., 14 ottobre 1992, n. 11195, in Nuova giur. comm., 1993, 632 ss. con nota critica di Silvestri, L’interruzione del processo in cassazione. Conformi, senza pretesa di completezza, Cass. 19 novembre 1993, n. 11418; Cass. 26 giugno 1997, n. 5719; Cass. 8 febbraio 1998, n. 1082; Cass. 24 febbraio 2001, n. 2734 (in GT Riv. giur. trib., 2001, 1337 ss., con nota critica di Glendi, Negata interruzione del processo in cassazione: tra «Cesare» e «Ponzio Pilato» se il povero «Cristo» muore non succede niente); Cass. 10 aprile 2003, n. 5672; Cass. 14 novembre 2003, n. 17295; Cass. 18 agosto 2004, n. 16138; Cass. 8 giugno 2004, n. 10824; Cass. 13 ottobre 2010, n. 21153; Cass. 5 luglio 2011, n. 14786; Cass. 17 luglio 2013, n. 17450; Cass. 23 marzo 2017, n. 7477; Cass. 15 novembre 2017, n. 27143; Cass. 22 gennaio 2020, n. 1289.
([17]) Ex multis, v. Cass. 18 agosto 2004, n. 16138; Cass. 28 marzo 2003, n. 4767 e i precedenti ivi richiamati.
([18]) Cfr. Cass., sez. un., 21 giugno 2007, n. 14385; Cass. 31 ottobre 2011, n. 22624; Cass. 3 dicembre 2015, n. 24635.
([19]) V. tra le altre, Cass., sez. un., 13 gennaio 2006, n. 477.
([20]) Corte cost. 18 marzo 2005, n. 109, in Giur. it., 2005, 1876 ss., con nota di Conte, Morte del difensore e processo in cassazione: «prudenti» sviluppi giurisprudenziali delle Sezioni unite.
([21]) Sugli inconvenienti pratici conseguenti a tale formalità v. Finocchiaro, L’interruzione «dimezzata» in cassazione, in Riv. dir. proc., 2006, 1430 ss., spec. 1435.
([22]) Cass. 8 aprile 2020, n. 7751. In questo senso, già Cass., sez. un., 13 gennaio 2006, n. 477; Cass. 20 settembre 2013, n. 21608; Cass. 17 luglio 2015, n. 14901.
([23]) Come noto, la norma ha equiparato la dichiarazione di fallimento alla morte o alla perdita della capacità della parte avvenuta prima della costituzione in giudizio, così prevedendo l’interruzione automatica del processo. La sua ragione d’essere va essenzialmente recuperata nella volontà, da un lato, di offrire al curatore maggior tempo per valutare l’opportunità del subentro nel giudizio e, dall’altro, di evitare che la prosecuzione dei procedimenti pendenti per mancata dichiarazione dell’evento possa favorire la formazione di titoli esecutivi tendenzialmente inutili, in quanto opponibili solo al fallito tornato in bonis; cfr., a titolo esemplificativo, Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 293.
([24]) Cfr. Cass. 18 aprile 2002, n. 5626; Cass. 14 dicembre 2004, n. 23294; Cass. 10 dicembre 2007, n. 25749; Cass. 15 novembre 2017, n. 27143; Cass. 17 marzo 2020, n. 7358. Con specifico riferimento all’inidoneità dell’ammissione alla liquidazione coatta a valere come evento interruttivo in cassazione v. già Cass., sez. un., 23 ottobre 1986, n. 6224; Cass. 22 marzo 2004, n. 5699.
([25]) Pajardi, op. cit., 316.
([26]) In questo senso, già Cass., sez. un., 8 aprile 2002, n. 5037; Cass. 15 maggio 2001, n. 6659; Cass. 11 ottobre 2012, n. 17327; Cass. 20 agosto 2013, n. 19271; Cass. 13 agosto 2015, n. 16844; Cass 20 marzo 2017, n. 7037; Cass. 19 giugno 2017, n. 15066.
([27]) Cfr. Di Corrado, Sub art. 52 l. fall., in La legge fallimentare (a cura di Ferro), Padova, 2007, 360.
([28]) Ex multis, Cass. 18 maggio 2005, n. 10414; Cass. 10 aprile 2017, n. 9198. Amplius sul tema, anche per ulteriori riferimenti, v. Fanelli, L’ordine delle questioni di rito nel processo civile di primo grado, Pacini giuridica, Pisa, 2020, in corso di pubblicazione.
([29]) Cass. 23 aprile 2003, n. 6475; cfr. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2012, 98.
([30]) Per queste ragioni, secondo Leuzzi, Note sui rapporti fra espropriazione singolare e procedure concorsuali, in inexecutivis.it, § 9, il ricorso al concetto di improponibilità/improseguibilità sarebbe improprio. Si noti, comunque, che ai sensi dell’art. 41, comma 2, TUB, l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore; d’altronde, è lo stesso art. 51 l. fall. a precisare l’inoperatività del divieto in esso contenuto nei casi previsti dalla legge.
([31]) Un caso diverso è quello in cui, invece, il bene venga separato dal complesso di quelli della procedura concorsuale, ad esempio perché di difficile ed esosa gestione anche nell’ottica del possibile realizzo di liquidazione. In tale ipotesi, in effetti, dovrebbe ritenersi immaginabile una immediata reviviscenza dell’azione individuale anche in pendenza della procedura concorsuale, con legittimazione passiva in capo al debitore proprio in ragione del fatto che il procedimento riguarda rapporti non (più) compresi nella procedura. Il principio si ritrova anche in giurisprudenza: v. Cass. 18 ottobre 2011, n. 21494, che ha riconosciuto la legittimazione del fallito nel giudizio avente ad oggetto la revocatoria fallimentare del fondo patrimoniale. Ciò perché i beni del fondo, pur appartenendo al fallito, rappresentano un patrimonio separato destinato al soddisfacimento di specifici scopi che prevalgono sulla funzione di garanzia per la generalità dei creditori, sicché essi non possono considerarsi «compresi nel fallimento» ai sensi dell’art. 51 l. fall.
([32]) Cfr. Pajardi, op. cit., 312. Nel senso della sospensione del procedimento esecutivo individuale fino alla chiusura della procedura di concordato è stato inteso anche il divieto di agire fissato dall’art. 168 l. fall. Ne consegue che in caso di chiusura del concordato o di ritorno in bonis dell’imprenditore, si riattiva la legittimazione del creditore ad agire in via esecutiva, anche con riferimento ai procedimenti già instaurati, sebbene nel rispetto dei limiti del piano, in caso di omologazione. Tale conclusione sembra sorretta anche dalla lettura dell’art. 182-bis l. fall. che, con riferimento agli accordi di ristrutturazione, a fronte dello stesso divieto prevede espressamente la sospensione dei procedimenti in corso; così, Farina., Il nuovo regime della domanda di concordato preventivo: abuso del diritto ed effetti sulle procedure esecutive e cautelari, in Dir. fall., 2013, 79. In giurisprudenza, ex multis, v. Cass. 22 dicembre 2015, n. 25802, che alla dichiarazione di improponibilità/improseguibilità dell’art. 168 ha ricollegato l’ingresso del processo in una situazione di quiescenza. Contra, a sostegno della tesi della improseguibilità con contestuale estinzione, Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare (a cura di Bricola, Galgano, Santini), Bologna-Roma, 1979, 243. Amplius, anche per ulteriori riferimenti, v. Spagnuolo, Sub art. 168l. fall., in Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti (a cura di Nigro, Santoro, Sandulli), I, Torino, 2014, 177 ss.
([33]) Pajardi, op. loc. ult. cit.
([34]) Cfr. Cass. 15 aprile 1999, n. 3739; Cass. 24 settembre 2002, n. 13865. Per queste vie, anche i rapporti tra l’art. 51 e l’art. 107 l. fall. (che prevede l’eventuale subentro del curatore nel procedimento esecutivo già pendente), escono chiariti nel senso della non rilevabilità d’ufficio della improponibilità/improseguibilità; cfr. Poli, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Manuale di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali (a cura di Trisorio Liuzzi), Milano, 2011, 121. In altri termini, l’art. 107 prevede una forma di sostituzione automatica (e dunque senza necessità di un suo intervento ovvero di un provvedimento del giudice dell’esecuzione) del curatore al creditore procedente. Se però il curatore decide di non subentrare nel procedimento esecutivo (e, quindi, di domandare al giudice la declaratoria di improponibilità/improseguibilità), esso entra in una fase di quiescenza funzionale allo svolgimento unitario del processo di fallimento in cui, pur non potendo essere compiuti ulteriori atti (ex art. 626 c.p.c.), non perdono effetti quelli già posti in essere. Per le stesse ragioni – poiché, cioè, il curatore è già subentrato automaticamente nella titolarità degli effetti del pignoramento – il giudice dell’esecuzione che su impulso di questi dichiari l’improponibilità/improseguibilità dell’esecuzione individuale avviata non deve, ad esempio, ordinare la cancellazione della trascrizione del pignoramento immobiliare; cfr. Leuzzi, op. ult. loc. cit.
([35]) La China, Procedibilità (condizioni di), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 800. Sul tema v. anche, ma senza pretesa di completezza, Lugo, Inammissibilità ed improcedibilità (diritto processuale civile), in Nss. Dig. it., VIII, Torino, 1962, 483 ss.; Fabbrini, L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi d’impugnazione, Milano, 1968; Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975; Forni, Orientamenti in tema di improponibilità, inammissibilità, improcedibilità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 1318 ss.; Cerino Canova, Consolo, Inammissibilità e improcedibilità: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XVI, aggiornamento, Roma, 1993, 1 ss.; Tombari Fabbrini, Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per raggiungimento dello scopo, in Foro it., 1993, I, 3019 ss.; Caporusso, La “consumazione” del potere d’impugnazione, Napoli, 2011; Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012.