Ancora conflitti tra competenza interna civile e penale: il conflitto tra prevenzione penale e competenza funzionale del giudice del lavoro

Di Riccardo Fratini -

Sommario: 1. Il caso. – 2. Il decisum. – 3. Si tratta realmente di una questione di competenza? Il dettato delle Sezioni Unite. – 4. Gli esiti nel caso di impugnazione ordinaria. – 5. La soluzione alternativa della sentenza che giunge al medesimo esito.

1.La sentenza n. 14214/23 del 15 dicembre 2022 costituisce un’ulteriore pronuncia in materia di conflitto di competenza tra giudice penale e giudice civile sollevato dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale penale di Roma nei confronti della sezione lavoro del Tribunale civile della medesima città.

Il conflitto di competenza era stato sollevato con riferimento alla domanda di ammissione al credito di lavoro relativo al periodo in cui un lavoratore asseriva di aver svolto attività di lavoro subordinato in favore di società soggetta a confisca quale misura preventiva penale.

In un precedente procedimento, la difesa del lavoratore aveva già adito il giudice del lavoro per l’accertamento del predetto credito, ma si era visto dichiarare improcedibile il ricorso con sentenza n. 7022/2015, sul presupposto che tale accertamento competesse al giudice penale in applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 159/2011, che regola il procedimento speciale di confisca previsto in caso di criminalità organizzata.

Anche il giudice penale, tuttavia, riteneva la propria incompetenza, così sollevando come previsto dalla legge il conflitto innanzi alla Corte di cassazione.

2.La Corte di cassazione attribuiva in definitiva la competenza al giudice del lavoro, individuando il discrimen nell’incertezza del credito vantato, il quale sarebbe potuto rientrare nella competenza del Tribunale penale solo laddove i crediti risultassero da atti certi antecedenti alla data del sequestro.

L’accertamento di lavoro subordinato, invece, non rientrerebbe nella competenza speciale di tale giudice, in quanto il legislatore non avrebbe attribuito un generale potere di accertamento in capo al Tribunale della prevenzione, ma soltanto un potere di verifica delle condizioni che reggono la procedura di ammissione che potrebbe avere solo base documentale.

Ne conseguirebbe la competenza residuale per materia della sezione lavoro sui rapporti ex art. 409 c.p.c., con conseguente devoluzione della controversia al Tribunale civile di Roma, sezione lavoro.

3.La principale questione che viene sollevata dalla decisione attiene non al risultato (piuttosto ovvio) nel senso di indicare come funzionalmente competente il giudice del lavoro, ma piuttosto quella già molto discussa relativa alla possibilità di qualificare la questione in termini di conflitto di competenza.

La Corte cita a sostegno della tesi affermativa il disposto di cui all’art. 28, c. 2, cod. proc. pen., a mente del quale «le norme sui conflitti si applicano anche nei casi analoghi a quelli previsti dal comma 1». Il riferimento è al comma precedente dello stesso articolo, secondo cui: «. Vi è conflitto quando in qualsiasi stato e grado del processo:

a) uno o più giudici ordinari e uno o più giudici speciali contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona;

b) due o più giudici ordinari contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona».

Il conflitto così delineato può essere risolto dalla Corte di cassazione ai sensi degli artt. 30 e 32 cod. proc. pen., come avvenuto nel caso in commento, ma vale la pena di discutere sull’analogia tra il conflitto qui sorto e quelli espressamente contemplati dal comma 1 dell’art. 28 cod. proc. pen.

Esso, infatti, presuppone in entrambe le ipotesi che il conflitto sorga tra giudici diversi, mentre nel caso di specie il conflitto non è tra diversi giudici ma piuttosto configura una questione di rito applicabile dal medesimo giudice, individuato sempre e comunque nel Tribunale di Roma, nelle sezioni civili o in quelle penali (la questione relativa al conflitto tra prevenzione penale e giurisdizione civile è molto risalente, si veda ad es. P.V. Molinari, Rapporti ed interferenze tra misure di prevenzione patrimoniali e fallimento. Un caso analogo di conflitto?, in Cass. pen., 2000, p. 749; P. Dell’Anno, E’ davvero ipotizzabile un conflitto di competenza tra giudice penale e giudice civile?, in Cass. pen., 2000, p. 91).

La Giurisprudenza aveva già chiarito in passato come il giudice civile e quello penale sono entrambi magistrati ordinari ed esercitano il medesimo potere giurisdizionale, per cui la violazione delle norme relative al riparto degli affari civili e penali non pone una questione di giurisdizione (così affermavano le Sezioni Unite con l’ordinanza 25 maggio 2005, n. 10959, in Rep. Foro it., 2005, Giurisdizione civile, n. 91, confermata dall’ordinanza 29 luglio 2013, n. 18189, in Rep. Foro it., 2013, Giurisdizione civile, n. 56 o Competenza civile, n. 112). Invece, in altra ottica, la Cassazione Penale in altri casi si pronunciava riconoscendo la sussistenza di un difetto di giurisdizione in favore della giurisdizione civile, specialmente in relazione alle controversie volte a regolare gli interessi di soggetti terzi in relazione a beni immobili oggetto di confisca definitiva (Cass. 2 novembre 2020, n. 30422; Cass. 29 aprile 2013, n. 18859; Cass. 25 marzo 2010, n. 15444; Cass. 28 aprile 2009, n. 20793; ampiamente sul tema dei conflitti di competenza e giurisdizione per come regolati dal c.p.p., G. M. Baccari, La cognizione la competenza del giudice, in G.M. Baccari, G. Ubertis, G.P. Voena (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano 2011, 451 ss.).

Anche con riferimento alla possibilità di qualificare il riparto tra gli affari civili e quelli penali come conflitto di competenza, la giurisprudenza civile aveva già in passato più volte affermato che il problema della ripartizione della potestas iudicandi, nel plesso giurisdizionale ordinario, tra il giudice civile ed il giudice penale non pone una questione di competenza, secondo la nozione desumibile dal codice di procedura civile, configurabile esclusivamente in riferimento a contestazioni riguardanti l’individuazione del giudice al quale, tra i vari organi di giurisdizione in materia civile, è devoluta la cognizione di una determinata controversia; per cui la violazione delle relative norme non può costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 cod. proc. civ., dovendosi altresì escludere la configurabilità di un conflitto negativo ai sensi dell’art. 45 dello stesso codice (così l’ordinanza 28 maggio 2019, n. 14573, in Rep. Foro it., 2019, Competenza civile, n. 91, in linea con la precedente ordinanza 26 luglio 2012, n. 13329; ma nello stesso senso è anche l’ordinanza 2 agosto 2019, n. 20830).

L’opposta soluzione favorevole alla qualificazione della ripartizione in termini di questione di competenza, tuttavia, era stata prospettata dall’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite n. 14174 del 2 marzo 2021 (segnalata nell’Osservatorio sulla Cassazione civile pubblicato a cura di B. Limongi in Riv. Dir. Proc. 2021, apparsa con commento di R. Villani, Alle Sezioni Unite stabilire chi decide la competenza se il conflitto tra giudice penale e giudice civile causa stasi processuale; in www.ilprocessocivile.it, 29 giugno 2021, con nota di C. Asprella, Conflitto negativo tra giudice civile e penale e regolamento di competenza: la parola alle Sezioni Unite, in ilprocessocivile.it, 29 giugno 2021 e con nota di G. Tota, Conflitto negativo di competenza tra giudice civile e giudice penale e regolamento ex art. 42 c.p.c., in www.judicium.it), sul presupposto che le Sezioni Unite avevano precedente riconosciuto come questione di competenza persino il riparto, all’interno del medesimo tribunale, tra la sezione specializzata agraria e quella ordinaria tabellarmente competente (sentenza 16 luglio 2008, n. 19512) e tra due sezioni civili, quando una delle due sezioni contesti la propria competenza riconosciuta, invece, dall’altra (v., tra le altre, le ordinanze 7 ottobre 2004, n. 19984, e 21 maggio 2015, n. 10508). Inoltre, la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione aveva interpretato con larghezza la fattispecie legale in discussione e vi aveva ricompreso anche i casi di conflitto di competenza tra giudice civile e giudice penale, se e in quanto essi determinino una situazione di stasi processuale eliminabile solo con l’intervento della Corte regolatrice (v., in particolare, le sentenze 2 aprile 2004, n. 19547 e 15 marzo 2019, n. 31843;).

Le Sezioni Unite, interpellate sul punto, si sono pronunciate con sentenza 6 dicembre 2021, n. 38596 (apparsa con nota di F. Nicolai, Sul rapporto tra sezioni civili e penali di un medesimo ufficio, in Riv. Dir. Proc., 2022, 3, 1101), e hanno, tuttavia, confermato la tesi negativa, sul presupposto che l’art. 46 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (legge che regola l’ordinamento giudiziario, poi anche “o.g.”) stabilisce che: «Il tribunale ordinario può essere costituito in più sezioni”, cui sono devoluti “promiscuamente o separatamentegli affari civili, gli affari penali e i giudizi in grado di appello» e l’art. 47 o.g. attribuisce al medesimo Presidente la funzione di provvedere alla direzione dell’ufficio nel suo complesso ed egli «nei tribunali costituiti in sezioni, distribuisce il lavoro tra le sezioni». A parere delle Sezioni Unite dalle disposizioni ricordate le diverse sezioni del Tribunale costituiscono mere articolazioni interne, facenti parte di un unico ufficio giudiziario e ciò determina, per conseguenza che non possono avere riparti o conflitti di competenza con altre sezioni del medesimo ufficio giudiziario, in quanto la questione di competenza è questione meramente interna al processo civile.

Secondo la Corte «si può utilizzare – al più – la nozione di “competenza in senso lato” o di “competenza interna”, al fine di indicare la concreta assegnazione della causa ad una determinata sezione, nell’ipotesi di uffici giudiziari complessi suddivisi in varie sezioni tra cui si distribuiscono gli affari».

Per la stessa ragione, le Sezioni Unite avevano affermato parimenti l’inapplicabilità dell’art. 28 c.p.p., per assenza di “conflitto” così come indicato in quella disposizione.

L’art. 28 c.p.p., offre all’interprete, e quindi al giudice penale, uno spazio di applicazione che non è dato al giudice civile. Solo nel processo penale è dettata dal legislatore una clausola generale, contenuta nel comma 2, di detta disposizione, concernente i “casi analoghi” a quelli delineati dall’art. 28 c.p.p., comma 1, lett. b), il quale si esprime nel senso che vi è conflitto di competenza quando «due o più giudici ordinari contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona». Tuttavia, secondo le Sezioni Unite, «l’art. 28 c.p.p., comma 2, non regola direttamente un “caso analogo” a quello che può darsi nel campo civile, bensì, ed è cosa diversa, regola, affidandone l’esercizio al giudice del singolo procedimento, l’applicazione della norma sui conflitti, rendendone possibile un perimetro operativo più ampio rispetto ai conflitti tra organi di giurisdizione penale».

In aggiunta, l’applicazione analogica dell’art. 28 c.p.p. presupporrebbe la presenza di una lacuna normativa che, a parere della Corte, non sussiste nel caso di specie, giacché la questione di articolazione interna agli uffici e di ripartizione del lavoro potrebbe più efficacemente e con maggiore aderenza al dato normativo risolversi mediante la remissione della questione al Presidente del Tribunale, il quale avrebbe, nell’ambito dei propri poteri, la facoltà di riassegnare il provvedimento alla sezione competente internamente.

L’art. 168 bis c.p.c., infatti, sulla designazione del giudice per la trattazione della causa, dispone che il presidente del tribunale designa il giudice davanti al quale le parti debbono comparire e, nei “tribunali divisi in più sezioni”, assegna la causa ad una di esse, onde il presidente di questa provvederà alla designazione del giudice per la controversia. E l’art. 83 ter disp. att. c.p.c., in tema di ripartizione delle cause tra sede principale e sezioni distaccate o tra diverse sezioni distaccate del tribunale, dispone che il giudice, se ravvisa l’inosservanza (anche nel mero fumus) delle regole di attribuzione, dispone la trasmissione del fascicolo d’ufficio al presidente del tribunale, che provvede con decreto non impugnabile. Non dissimile la soluzione offerta negli artt. 273 e 274 c.p.c., rispettivamente in tema di litispendenza e di pendenza di cause connesse. Il comma 2 di entrambe le disposizioni stabilisce, infatti, che in tali casi «il giudice istruttore (…) ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire», o, nel secondo caso, «ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni».

Le Sezioni Unite ammettono, in conclusione, che «un problema di difetto di tutela può tuttavia porsi qualora come nella specie – il giudice adito, anziché rimettere la controversia al presidente del tribunale ritenendo non individuata la sezione corretta, abbia pronunciato in rito, con una declaratoria di inammissibilità o di improcedibilità della domanda, liquidando anche le spese processuali».

A questo tema, tuttavia, la Corte offre la soluzione dell’impugnazione ordinaria, a seconda del tipo di provvedimento pronunciato, ritenendo comunque, però, inammissibile il regolamento di competenza.

Sopravvive, a parere della Corte, tuttavia, un’ipotesi residua di ammissibilità del regolamento di competenza, laddove il principio dell’apparenza e dell’affidamento processuale sia chiamato in causa da una pronuncia nella quale il giudice abbia erroneamente qualificato la propria decisione come decisione di competenza, «espressamente o comunque in modo inequivoco», «creando le condizioni per una tutela dell’affidamento della parte in ordine al regime di impugnazione, dipendendo dall’esito positivo di tale accertamento l’ammissibilità del proposto regolamento» (Cass., ord. 24 giugno 2021, n. 18182; e già Cass., ord. 1 marzo 2019, n. 6179; Cass., ord. 29 marzo 2018, n. 7882, non mass.; Cass., ord. 23 ottobre 2017, n. 25059; Cass., ord. 6 marzo 2014, n. 5313; Cass., sez. un., 11 gennaio 2011, n. 390)

Si dovrebbe, quindi, dire che ciò non sia avvenuto nel caso in commento, dal momento che il Tribunale del Lavoro si era pronunciato nel senso dell’inammissibilità ed a quel provvedimento la difesa avrebbe potuto proporre appello avverso la declaratoria.

4.Resta fuor di dubbio che questa interpretazione, pur autorevolmente e molto limpidamente espressa dalle Sezioni Unite lascia ancora molti dubbi sul piano pratico dell’applicazione.

Se infatti è chiaro che l’errore originario è stato commesso dal giudice del lavoro nel caso in commento, che ha dichiarato inammissibile il ricorso invece di rimetterlo al Presidente del Tribunale, una volta che tale errore sia stato commesso, se la difesa del ricorrente avesse proposto appello avverso la sentenza, come indicato dalle sezioni unite, l’esito di tale impugnazione sarebbe rimasto un punto di incertezza.

Non è chiaro, infatti, sotto quale profilo tale sentenza sarebbe viziata, consistendo il vizio indicato dalle Sezioni Unite nella violazione delle norme sull’ordinamento giudiziario.

Se infatti l’appello fosse da ritenere fondato, la Corte d’Appello, sezione lavoro, ben avrebbe potuto giudicare direttamente in grado di appello la controversia, sul piano pratico, se non fosse per il combinato disposto degli artt. 354, 161 e 158 c.p.c., dalla lettura dei quali emerge che sarebbe affetta da nullità e quindi soggetta a remissione al primo giudice la sentenza viziata relativamente alla costituzione del giudice.

La nullità di cui all’art. 158 si riconduce (F. Marelli (a cura di), E. Canali (aggiornato da), sub art. 158 c.p.c., in Codice di Procedura Civile Commentato, Banca Dati Leggi d’Italia), a tre differenti categorie: ai vizi derivanti dalla violazione delle leggi sull’ordinamento giudiziario concernenti la nomina e le altre condizioni di capacità del giudice, ai vizi derivanti dalla violazione delle disposizioni concernenti la legittimazione del giudice al compimento di atti processuali ed infine ai vizi derivanti da violazioni delle leggi sull’ordinamento giudiziario concernenti il numero dei giudici necessari per comporre i collegi giudicanti.

L’ipotesi in parola potrebbe astrattamente rientrare tra i vizi derivanti dalla violazione delle disposizioni concernenti la legittimazione del giudice al compimento di atti processuali, ma sul punto non vi è giurisprudenza che possa dare una risposta definitiva.

Determina la nullità per vizi relativi alla costituzione del giudice, tuttavia, la partecipazione al collegio di giudice autorizzato dal capo dell’ufficio ad astenersi (Cass. 1566/2000; Cass. 14676/1999), la pronuncia da parte di persone estranee all’ufficio e non investite della funzione esercitata (Cass. S.U. 5414/2004; Cass. 12969/2004; Cass. 13980/1999), la cessazione della preposizione all’ufficio del giudice in data anteriore a quella della pronuncia (Cass. 16216/2017), la pronuncia della sentenza da parte di un giudice diverso da quello che ha assistito alla precisazione delle conclusioni (Cass. 1473/1999) e alla discussione della causa (Cass. 15629/2005; Cass. 9968/2005); l’assegnazione della causa alla sezione stralcio al di fuori dei presupposti (Cass. 21816/2006), la decisione in sede di giudizio di rinvio da parte di un collegio di cui faccia parte anche uno solo dei giudici che avevano partecipato alla decisione cassata (Cass. S.U. 5087/2008). Nel rito del lavoro risulta affetta da nullità assoluta ed insanabile, ex art. 158, la pronuncia giudiziale d’appello assunta da un Collegio diverso da quello dinanzi al quale ha avuto luogo la discussione. Il principio suddetto, peraltro, non si estende alle udienze svolte in precedenza, di mero rinvio o di decisione sulla istanza di sospensione della provvisoria esecutività della pronuncia gravata (Cass. 6857/2012).

Risulta difficile con un ragionevole grado di certezza affermare la completa analogia tra queste ipotesi e quella in esame.

Ad acclarare l’ipotesi della remissione al primo giudice, tuttavia, dovrebbe porsi l’interpretazione sistematica in chiave di ragionevolezza, soprattutto laddove il risultato di questo ragionamento non fosse la permanenza del provvedimento al giudice civile o del lavoro, ma piuttosto l’invio al giudice penale da parte della Corte d’Appello.

Nonostante sia astrattamente possibile in sede di appello penale condurre l’attività che si sarebbe astrattamente potuta svolgere in primo grado quanto al dibattimento (art. 602 c.p.p.) ed all’istruttoria (art. 603 c.p.p.), ciò snaturerebbe completamente le garanzie che in quella giurisdizione maggiormente garantista fornisce il doppio grado di giudizio di merito.

Se ne deduce che la soluzione più ovvia per l’errore commesso dal giudice di primo grado sia la ragionevole dichiarazione di nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice, con remissione della causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c. per la prosecuzione del processo innanzi al Tribunale, sia che sia competente per funzione il giudice penale che quello civile o del lavoro.

5.Un altro esito problematico riguarda l’ipotesi di sollevamento del conflitto ex art. 28 c.p.p. o di regolamento ex art. 45 c.p.c. che sia effettuato d’ufficio dal secondo giudice che si ritenga incompetente, il che è quanto avvenuto nel caso in esame.

In questa eventualità, una soluzione sembra offerta dal principio dell’affidamento enunciato dalle Sezioni Unite, che ritengono in questo caso ammissibile il regolamento per tale strada, che pure in punto di diritto non lo sarebbe.

La sentenza in epigrafe, tuttavia, ha ignorato totalmente il dettato delle Sezioni Unite ed ha aggirato il problema applicando l’art. 28 c.p.p. come faceva la giurisprudenza precedente.

In questo senso, dunque, la sentenza sembra aver disatteso il dettato delle Sezioni Unite, dando invece continuità alla precedente giurisprudenza consolidata nelle sezioni penali.

L’esito, tuttavia, è il medesimo e il regolamento di competenza in questo caso sembrerebbe ammissibile, anche perché in caso contrario la causa non avrebbe una dichiarazione del giudice corretto a cui tornare e cadrebbe nel vuoto normativo dell’impasse.