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Annotazioni di ordine processuale sull’applicazione del criterio di soccombenza ai fini della compensazione delle spese di lite
Di Chiara Briguglio -
Tribunale ordinario di Aosta, 19 gennaio 2023
In considerazione dell’esito complessivo del giudizio – caratterizzato dal rigetto dell’eccezione pregiudiziale della convenuta di carenza di legittimazione passiva e dal mancato accoglimento delle domande attoree per effetto del riscontrato decorso del termine di prescrizione, senza alcuna ulteriore statuizione sul merito della vertenza – è ravvisabile una reciproca soccombenza delle parti, tale da escludere i presupposti per una pronuncia ex art. 91 c.p.c. di condanna di una delle parti alla refusione in favore dell’altra delle spese processuali, spese che invece vanno integralmente compensate ex art. 92 c.p.c.
***
«Fin dall’atto di citazione, del resto, parte attrice ha prospettato la responsabilità extracontrattuale. In tale contesto, non è ravvisabile il difetto di legittimazione passiva eccepito (con riferimento alla legitimatio ad causam) dalla convenuta in via pregiudiziale. Al riguardo, premesso che – ai fini della sussistenza della legittimazione (sia dal lato attivo sia dal lato passivo) – occorre avere riguardo alla prospettazione fornita dalla parte attrice, si evidenzia infatti che [omissis] ha agito proprio nei confronti del soggetto (l’odierna convenuta) di cui ha prospettato la responsabilità extracontrattuale e, quindi, ha individuato – in base alla prospettazione fornita – il responsabile dei danni di cui ha chiesto il risarcimento; tale prospettazione è sicuramente idonea a fondare la legittimazione. Diversa dalla legittimazione è invece la questione concernente la titolarità (sia dal lato attivo sia dal lato passivo) del rapporto di debito/credito dedotto in causa, pure oggetto di eccezione da parte della convenuta nell’ambito dell’esame del merito della vertenza […] conclusioni di merito; tale questione attiene infatti al merito della vertenza: “La “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite” (Cass. civ. sez. 1 sentenza n. 7776/2017).
Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, è dunque irrilevante – ai fini della verifica della legittimazione ad agire – l’assenza di un rapporto contrattuale con [omissis], non allegato né presupposto dall’attrice in relazione alla domanda formulata nei confronti dell’odierna convenuta. Va dunque rigettata la domanda pregiudiziale della società convenuta [omissis] a conseguire la declaratoria di carenza della propria legittimazione passiva e la conseguente declaratoria di improcedibilità della domanda attorea.
Quanto all’eccezione preliminare di prescrizione del diritto fatto valere dall’attrice, eccezione sollevata dalla convenuta medesima con riferimento sia all’art. 125 del Codice del Consumo di cui al D.Lgs. n. 206/2005 […] sia all’art. 2947 c.c. […] deve innanzitutto evidenziarsi che nel caso di specie non viene in realtà in rilievo una fattispecie riconducibile alla normativa dettata a tutela del consumatore […].
Con riferimento alla prescrizione prevista dall’art. 2947 c.c., l’eccezione risulta fondata, trattandosi di fatti risalenti ad oltre un decennio prima dell’instaurazione del presente giudizio senza che medio tempore risulti eseguito alcun atto interruttivo, ai sensi dell’art. 2943 c.c., nei confronti dell’odierna convenuta».
Sommario: 1. Il caso di specie – 2. Cenni sistematici sul criterio di soccombenza e causalità ai fini della compensazione delle spese di lite – 3. Indirizzi applicativi nella giurisprudenza di legittimità: uno sguardo al panorama casistico – 4. Osservazioni sulla condanna alle spese come sanzione all’abuso del processo: una differente lettura – 5. Considerazioni conclusive
1. La sentenza del Tribunale di Aosta, che qui si annota, ha ad oggetto un’azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., intentata da una società di fornitura di giranti nei confronti del produttore per il difetto del prodotto fornito. Nel corso del giudizio, la convenuta eccepiva in via pregiudiziale il proprio difetto di legittimazione passiva, chiedendo la conseguente declaratoria di improcedibilità della domanda attorea. A ciò si aggiunga (in quanto non del tutto irrilevante per una corretta impostazione delle considerazioni che seguiranno) che sempre la convenuta, in via preliminare, strutturava il proprio assetto difensivo eccependo la prescrizione del diritto fatto valere dall’attrice, in forza sia dell’art. 125 del Codice del Consumo (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 206) sia dell’art. 2947 c.c.
Rispetto ad una tale duplice prospettazione difensiva, articolata fra rito e merito in via rispettivamente pregiudiziale e preliminare (ciò che ai nostri fini è la medesima cosa) il giudice accoglie l’eccezione di prescrizione e, al contempo, rigetta l’eccezione pregiudiziale di rito relativa al difetto di legitimatio ad causam, sul presupposto che l’attrice avesse agito «proprio nei confronti del soggetto di cui ha prospettato la responsabilità extracontrattuale e, quindi, ha individuato – in base alla prospettazione fornita – il responsabile dei danni di cui ha chiesto il risarcimento». Sul punto, poi, il Tribunale prosegue precisando che – secondo un granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità – la legitimatio ad causam attiva e passiva «consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione di parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite» [1].
A definizione della causa civile di primo grado, da ultimo, il giudice dispone la compensazione integrale, tra le parti, delle spese processuali.
2. La pronuncia merita attenzione nella parte in cui, pur avendo il giudice decretato la soccombenza sul piano sostanziale dell’attore a motivo dell’accoglimento dell’eccezione di prescrizione, viene nondimeno prevista la compensazione delle spese di lite, ai sensi dell’art. 92 c.p.c. In primis, il tema lambisce la corretta individuazione e la definizione operativa dell’istituto della soccombenza, che si atteggia a prius logico (ma anche ontologico[2]) della decisione del giudice sul capo di condanna alle spese. La ratio di una simile configurazione va rintracciata in quell’antico principio per cui «l’attuazione della legge non deve rappresentare una diminuzione patrimoniale per la parte a cui favore avviene»[3], sintetizzata efficacemente nel broccardo latino victus victori.
Orbene, affinché il giudice possa ordinare la compensazione ex art. 92, comma 2 c.p.c., è necessario che si versi in un’ipotesi di soccombenza parziale reciproca[4], che si verifica, di regola, allorché «sia l’attore che il convenuto abbiano ottenuto una soddisfazione solo parziale delle posizioni fatte valere in giudizio» [5]. Entro questi termini di (prima) approssimazione della questione ivi affrontata, non pare irrilevante evidenziare che tale criterio rappresenta pur sempre un “precipitato processuale” del più generale principio fissato dall’art. 91 c.p.c. (meglio noto come criterio di causalità) [6], in forza del quale le spese del giudizio vengono rifuse da parte del soggetto totalmente soccombente a favore dell’altro[7]. Ora, anche nell’alveo ermeneutico e applicativo della causalità si ritiene doveroso accogliere una nozione oggettiva di soccombenza, tale per cui una parte subisce l’affermazione giudiziale di una pretesa fondata o, specularmente, aziona una pretesa infondata[8]. A ben vedere, poi, la summenzionata correlazione tra l’art. 91 c.p.c. e 92 c.p.c. non può essere spiegata – sic et simpliciter – nei termini di un mero completamento logico-giuridico, dovendosi piuttosto inserire anche una finalità di giustizia sostanziale: ecco che, infatti, la causalità viene in rilievo per correggere un’eccessiva (e problematica[9]) estremizzazione del criterio oggettivo della soccombenza, «nel senso che sarebbe stato tenuto all’obbligo di rifusione soltanto quegli che fosse rimasto soccombente avendo dato però origine alla lite» [10].
Tornando al caso che ci occupa, pare – in ogni caso – opportuno parametrare il concetto di “soccombenza in senso oggettivo” anzitutto (e preliminarmente) sul piano del diritto sostanziale: occorre, per meglio intendersi, guardare alle sorti del cd. “rapporto giuridico fondamentale” dedotto in giudizio (così come viene delineato nel dictum dell’organo giudicante[11]) per stabilire – concretamente – la vittoria di una parte. Alla luce di questo modus operandi, è indubbio che l’accoglimento, da parte del giudice, dell’eccezione di prescrizione del diritto ad ottenere il risarcimento del danno extracontrattuale ex art. 2043 c.c. ponga il convenuto in una posizione di favor assoluto in punto di merito, paralizzando de plano la pretesa azionata dall’attrice. Ad abundantiam – come si legge nel provvedimento in commento – il giudice corrobora la situazione di vittoria sostanziale in cui versa il presunto debitore, precisando che l’eccezione di carenza di legitimatio ad causam (comunque rigettata) non investe (rectius: non scalfisce) la definizione del thema decidendum sul merito[12], rappresentando una questione pregiudiziale di rito. Ebbene, nonostante l’inquadramento dianzi riportato, al momento della determinazione del criterio per la liquidazione delle spese, il Tribunale di Aosta vanifica questo impianto di “architettura processuale” pur puntualmente argomentato, disponendo la compensazione ex art. 92, comma 2 c.p.c.
Riprendendo talune delle considerazioni dogmatiche dapprima formulate, a parere di chi scrive, la decisione non pare né ispirata dal criterio oggettivo della soccombenza, né – tantomeno – a quello della causalità. Ragionando sulla base del primo, infatti, non è possibile decretare una soccombenza parziale reciproca, dal momento che la pretesa risarcitoria, risulta in nuce totalmente priva di fondatezza, essendo intervenuto – medio tempore – il fenomeno estintivo della prescrizione. Parimenti, facendo perno sull’applicazione del secondo criterio, non risulta rispettata la regola in forza della quale «chi litiga […] lo fa a suo rischio e pericolo; se soccombe, deve rimborsare le spese all’avversario, il cui diritto non deve risultare menomato dall’esigenza del processo» [13].
Nonostante la linearità della questione trattata nel provvedimento in epigrafe, che rende altrettanto facile una presa di posizione, si tenterà, nel paragrafo a seguire, di riflettere ulteriormente sulle ragioni di una simile decisione, coordinando l’istituto della responsabilità per le spese processuali con le questione relative all’abuso del processo.
3. Passando in rassegna gli orientamenti consolidatisi nella giurisprudenza di legittimità, pur non essendovi un monolitico e costante principio di diritto, è dato riscontrare una certa tendenza ad accogliere una nozione di soccombenza sostanziale. Si legge, non a caso, che «il rigetto delle eccezioni preliminari di rito o pregiudiziali di merito, infatti, non dà luogo ad una “soccombenza reciproca” in senso tecnico, se la parte che le sollevò sia comunque risultata vittoriosa nel merito» [14]. Più in generale, per una fedele applicazione del criterio per la compensazione ex art. 92, comma 2 c.p.c. è possibile tracciare un fil rouge, partendo da alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Prime – inter alia – sono quelle sentenze che, sempre in materia di spese processuali, confermano la lettura della soccombenza in senso oggettivo così come viene, qui, approfondita: avendo riguardo, cioè, al petitum mediato della domanda giudiziale (non anche alle singole questioni risolte in senso sfavorevole alla parte totalmente vittoriosa nel merito).
Da qui si deduce il principio di diritto per cui «In tema di spese giudiziali nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra basata sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, essendo – in realtà – onere del giudice valutare nel suo complesso l’oggetto della lite» [15]. Come è facile intuire, il pregio di un simile indirizzo consiste nel rifuggire da un rigoroso automatismo nella determinazione della soccombenza, valorizzando – piuttosto – un approccio valutativo che guardi all’oggetto della causa nel suo complesso[16].
Allo stesso modo, non mancano nemmeno statuizioni (del tutto condivisibili) del Supremo organo nomofilattico che sembrano ritagliare – expressis verbis – una definizione ad hoc di soccombenza (o quanto meno una nozione che tenga conto delle peculiarità connesse alla responsabilità per le spese processuali): si giunge, così, ad affermare che «La reciproca soccombenza che giustifica la possibile applicazione della regola della totale o parziale compensazione delle spese di giudizio, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., deve ravvisarsi sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, se articolata in più capi con accoglimento di uno o alcuni e rigetto degli altri, sia se la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo» [17].
La prassi che emerge da quest’ultimo sviluppo, mutuato dal panorama casistico, è quella di “tarare” la soccombenza sull’intera domanda, sia che essa faccia capo ad un regime di cumulo oggettivo, sia che essa esaurisca la materia del contendere venendo semplicemente articolata in più capi. Nessun riferimento viene, invece, effettuato in relazione a singolequestioni (peraltro pregiudiziali di rito, come nel caso di specie), giacchè – si ipotizza – esse non siano idonee a definire nel merito la res in iudicium deducta, riguardando solamente la corretta instaurazione del contraddittorio e del processo in generale (la pronuncia in commento aveva ad oggetto – lo si ripete – l’eccezione di legitimatio ad causam). Depone, d’altro canto, a favore di questa ricostruzione anche l’ulteriore, non irrilevante, argomento di natura sistematica secondo cui nella congerie eterogenea delle sentenze non definitive (siano esse su questioni di rito che, invero, di merito) non è previsto il capo sulla liquidazione delle spese.
Gettando, poi, uno sguardo verso gli altri plessi dell’ordinamento, e in particolare nell’ambito del processo amministrativo, la querelle ivi affrontata trova una sua pronta risoluzione, asserendosi in via generale che «Nel processo amministrativo la mera soccombenza su una questione preliminare in rito non è di per sé ragione sufficiente a giustificare la compensazione, anche parziale, delle spese di lite a fronte della ben più radicale soccombenza sostanziale del ricorrente» [18]. Di più, si stabilisce a chiare lettere che «La circostanza che, nel procedimento giurisdizionale, vengano disattese le eccezioni pregiudiziali in ordine alla legitimatio ad causam dell’associazione ricorrente non equivale a soccombenza virtuale nel processo della parte che ha frapposto dette eccezioni» [19]. Ecco, allora, che si potrebbe adottare un approccio ispirato al coordinamento comparatistico endosistemico e ragionare di conseguenza[20].
4. Eppure, nonostante l’impostazione e l’excursus sin qui offerti sembrino incentrarsi e avvalorare una nozione oggettiva di soccombenza, è comunque ragionevole interrogarsi sull’opportunità per il giudice di disporre la compensazione delle spese di lite, qualora le difese di una delle parti abbiano integrato un comportamento riconducibile alla figura del cd. abuso del processo. Da qui si snoda un’indagine volta a comprendere se (ed in quali termini) sia possibile derogare al criterio di soccombenza di chiovendiana memoria per “sanzionare” chi, tra i litiganti, abbia causato un “dispendio” di energie e/o un allungamento delle tempistiche processuali, rivelatosi ex post inutile o privo di fondamento.
In dottrina, peraltro, non mancano voci favorevoli a questa ricostruzione. Si fa riferimento, più in particolare, alla possibilità di attribuire la responsabilità delle spese partendo dalla violazione dei doveri di lealtà e probità imposti all’art. 88 c.p.c., o dalla implementazione del principio di autoresponsabilità delle parti. Su quest’ultimo versante si è affermato che «chi agisce in giudizio deve sapere che in caso di soccombenza verrà condannato al pagamento delle spese processuali e questa consapevolezza, ottenuta riducendo la possibilità per il giudice di compensare le stesse, deve guidare chi intende assumere l’iniziativa processuale a farlo solo nel caso in cui vi sia margine per un esito almeno in parte a sé favorevole» [21]. In questo modo, diventa di immediata evidenza che il regime delle spese finisce per condizionare le scelte delle parti[22]. E ciò – si ritiene – sia a monte del processo (vale a dire dalla sua instaurazione con domanda o ricorso introduttivo) sia nel corso dello stesso (in relazione, dunque, alle difese che si intendono proporre).
Più corposa è, invece, la riflessione sviluppatasi attorno alla violazione dei doveri di lealtà e probità di cui al citato art. 88 c.p.c., intesa quale fonte della condanna ad una rifusione alle spese che – evidentemente – perde la sua funzione indennitaria per acquisire un’attitudine “para-sanzionatoria”[23] rispetto a «iniziative emulative o dilatorie» [24] delle parti. Proprio a motivo di questa peculiare attitudine che qui si intende analizzare, taluni rilevano che « la condanna alla refusione delle spese è sempre e comunque indotta, in una connotazione di tipo stricto sensu sanzionatoria, dalla responsabilità conseguente alla mala gestio del processo, val dire, dall’irrituale adempimento del diritto soggettivo o delle facoltà processuali, o, addirittura, come inadempimento degli obblighi o dei doveri processuali, giusto il profondo portato dell’art. 88 c.p.c.» [25]. In questo senso considerato, bisogna – anzitutto – intendersi sul significato da assegnare ora al concetto di lealtà, ora a quello di probità, atteso che la rubrica dell’art. 88 c.p.c. non costituisce, di certo, un’endiadi[26]. La prima nozione, a ben vedere, presuppone una relazione con un altro soggetto e, quindi, un «rapporto di correttezza con l’altra parte o con un terzo» [27], mentre la seconda sembra potersi inscrivere in un contesto gius-pubblicistico e, più precisamente, nel comportamento virtuoso (probo, appunto) tenuto dal civis all’interno della comunità[28].
Alla luce di queste brevi annotazioni, non pare incoerente con una lettura costituzionalmente orientata[29] del Codice di procedura civile asserire che il contegno del convenuto, consistente nella proposizione di un’eccezione del tutto infondata, che – però – impegni il giudice (prima ancora che la parte avversaria) in un periglioso e lungo[30]iter di “verifica e accertamento” processuale, abbia tutti i requisiti per configurare un abuso del processo, per lo meno sotto il profilo della inosservanza del dovere le lealtà. Ecco che, si potrebbe integrare dialetticamente l’affermazione secondo cui l’obbligo di lealtà implicherebbe «il rispetto della relazione processuale che intercorre tra i litiganti» [31], aggiungendo, all’interno di questa relatio, anche la figura del giudice.
D’altro canto, a sostegno di questo ragionamento, vi è lo stesso tenore letterale dell’art. 92, comma 1 c.p.c., laddove prevede che il giudice possa condannare una parte al rimborso delle spese per la trasgressione del dovere di cui all’art. 88 c.p.c. «indipendentemente dalla soccombenza». È sulla base di questo, ulteriore, argomento che una certa parte della dottrina deduce il cd. «il definitivo sganciamento della condemnatio in expensis dal fatto oggettivo della soccombenza» [32], ancorandola alle condotte delle parti e alle conseguenze che queste hanno sul concreto svolgimento del processo.
La nozione di abuso che deve darsi per presupposta, per ciò che qui rileva, è, pertanto, strettamente connessa ad un uso distorto delle prerogative difensive e delle facoltà processuali spettanti alle parti, tali ostacolare una definizione immediata della lite. Si affaccia, in altri termini, la tesi che rende l’abuso «autonomamente perseguibile ed in qualche modo sanzionabile, a prescindere dall’esito della lite (e quindi ad onta di una parziale soccombenza di chi lo abbia subito…)» [33].
5. Volendo formulare alcune considerazioni conclusive e sintetizzare le posizioni sin qui assunte, è possibile affermare che la compensazione delle spese di lite nei confronti di un soggetto soccombente solo sulla questione della legitimatio ad causam (ma interamente vittorioso sul merito!) determina un palese sviamento dal criterio oggettivo della soccombenza, che suscita, di certo, non poche perplessità sul piano della giustizia sostanziale. Si è al cospetto, infatti, di una pretesa radicalmente infondata, essendosi fatto valere in giudizio un diritto andato incontro ad una vicenda estintiva, idonea – ex se – ad assorbire ogni altra questione e ad inibire qualsiasi ulteriore sindacato del giudice in punto di merito. Cionondimeno, dai rilievi critici formulati nel paragrafo precedente, emerge il versante della giustizia processuale (o, per meglio dire, il versante del giusto processo), che pure potrebbe giustificare la decisione del giudice di compensare integralmente le spese tra le parti, in considerazione dell’eccezione di rito relativa alla legitimatio ad causam, sollevata dal convenuto e rigettata dal giudice.
È facile intuire, quindi, come le precedenti annotazioni consegnino una nozione di soccombenza caratterizzata da una natura ibrida, che si compone sia di una valutazione delle ragioni delle parti sul merito della controversia (in riferimento, quindi, alla res in iudicium deducta), sia di una valutazione complessiva dei contegni che le parti stesse assumono all’interno del processo. A parere di chi scrive, la responsabilità per le spese di lite potrebbe essere un fertile terreno di riflessione giuridica per un nuovo compromesso tra la ricerca di una giustizia sostanziale e una maggiore attenzione rivolta una giustizia formale non fine a sé stessa, per un dialogo equo tra il quid della tutela giurisdizionale dei diritti e il quomodo della difesa tecnica.
In altri termini, l’istituto della condanna alle spese di lite ben si presta a contemperare la “ragione pura e semplice” di chi agisce (o resiste) in giudizio con le modalità attraverso cui questa “ragione” viene fatta valere, che non devono recare nocumento alla controparte né – tantomeno – appesantire inutilmente (o pretestuosamente) l’attività cognitiva e istruttoria del giudice, se non strettamente necessari per la definizione del thema decidendum.
[1] Cass. civ., 27 marzo 2017, n. 7776, www.dejure.it
[2] L’essenza ontologica e sostanziale della soccombenza viene argomentata da CHIOVENDA (Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, Napoli, 1936, 516), che parla di “fatto oggettivo della soccombenza” in riferimento alla situazione sostanziale dei litiganti quale risulta dal dictum del giudice. La gemmazione di questo pensiero è contenuta in CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901, 246, dove, per descrivere la nozione di soccombenza, si richiama la posizione sostanziale del “vinto nella lotta giudiziale”, ma anche all’interno dei Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1928, laddove si afferma che «Soltanto nel momento della pronuncia di merito, quando cioè si determina la soccombenza, nasce non già il diritto del vincitore alle spese, ma l’obbligo del giudice di condannare il soccombente nelle spese stesse […]». Il pensiero dell’A. è, peraltro, fortemente influenzato dagli autori dottrina tedesca, tra cui WALDNER, Die Lehre von den Processkosten (Teoria delle spese processuali), Vienna, 1883, passim; GORRES, Die Haftung fur den Ersatz von Kosten und Schaden nach Deutschem Prozessrecht, in Riv. pel proc. civ. tedesco, 1906, 313 ss.
[4] La tesi che rende operativa la compensazione delle spese di lite a fronte dell’istituto della soccombenza parziale reciproca trova vario seguito in dottrina. Per tutti, v., SATTA (Commentario al Codice di procedura civile, I, 1959, Milano, Casa editrice dr. F. Vallardi, 307), laddove si afferma che «la regola della condanna nelle spese sulla base della soccombenza non patisce eccezione nel caso in cui la soccombenza sia reciproca […] e ciò è fin troppo evidente». Seguendo un’altra prospettiva di riflessione giuridica, che non si pone in netto contrasto con la prima ma si atteggia a suo completamento logico, si è affermato che «la soccombenza reciproca non è motivo di compensazione vera e propria, ma rappresenta piuttosto la ripartizione dell’onere delle spese giudiziali sulla base di tale criterio» (ANDRIOLI, Commento al Codice di procedura civile, I, Napoli, 1943, 241). In senso conforme, in dottrina, cfr., COMOGLIO, in COMOGLIO, CONSOLO, SASSANI, VACCARELLA (a cura di), Commentario del Codice di Procedura Civile, vol. I., Padova, 2012, 1216.
[5] Così CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, 85. Per una completa definizione del fenomeno processuale in esame, cfr. LUISO (Diritto processuale civile, vol. II, Milano, 2021, 307), secondo cui la soccombenza parziale reciproca «si ha quando il giudice abbia accolto solo in parte la domanda, e correlativamente abbia accolto solo in parte le difese del convenuto. La soccombenza parziale reciproca è una soccombenza reale, non virtuale, per cui ciascuna delle parti è legittimata a prendere l’iniziativa per impugnare».
[6] La stretta correlazione tra il principio di causalità e il criterio della soccombenza è variamente affermata in dottrina. Per un maggiore approfondimento dell’argomento cfr., – inter alia – SATTA, Commentario al Codice di procedura civile, cit., 300 ss; LUPANO, Responsabilità per le spese e condotte delle parti, Torino, 2013, 21 ss; CORDOPATRI, La condanna alla rifusione delle spese di lite e l’evoluzione del principio di soccombenza, in Giusto proc. civ., 2014, 379 ss; COMOGLIO, in COMOGLIO, CONSOLO, SASSANI, VACCARELLA (a cura di), Commentario del Codice di Procedura Civile, cit., 1172.
[7] In questo senso è orientata anche la Suprema Corte di Cassazione, che recentemente ha statuito che: «La nozione di soccombenza in senso tecnico è il presupposto per decidere dell’applicabilità dell’art. 91 c.p.c., recante la disciplina dell’ipotesi di soccombenza integrale di una delle parti, ovvero dell’art. 92, comma 2, c.p.c., che disciplina l’ipotesi di soccombenza reciproca. Nel primo caso, la regolazione delle spese di lite avviene sulla base del principio di soccombenza, con la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale delle spese di lite; nel secondo caso sulla base del principio di causalità degli oneri processuali, con possibile compensazione, totale o parziale di essi» (Cass. civ., Sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438, www.onelegale.it).
[8] Questa la riformulazione della nozione di soccombenza dovuta a CARNELUTTI, che rimarcando notevolmente il fondamento oggettivo della soccombenza, non esita ad affermare che in materia di spese processuali «la radice della responsabilità sta dunque nella relazione causale tra il danno e l’attività di un uomo» (Causalità e soccombenza in tema di condanna alle spese, in Riv. dir. proc., 1956, II, 241 ss; ID, Limiti della responsabilità processuale della parte, in Riv. proc. civ., 1960, 135 ss). Nello stesso senso si orienta SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1987, 120, secondo cui «si preferisce costruire l’obbligo del rimborso alle spese sul concetto obiettivo di rischio, e quindi sul fatto sul fatto obiettivo della soccombenza»; PAJARDI, La responsabilità per le spese e i danni nel processo, Milano, 1959, passim; SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, 321 ss.
[9] Per una comprensione più estesa dei risvolti problematici di una (fin troppo) rigida applicazione del criterio di soccombenza, v., CORDOPATRI, L’abuso del processo e la condanna alle spese, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 249 ss; ID, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 877 ss.
[10] GRASSO, Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, in Commentario al Codice di procedura civile, ALLORIO (a cura di), I, Torino, 1973, 1032. A ciò si aggiunga, per finalità di completezza, che il principio di causalità di cui all’art. 91 c.p.c. viene invocato anche in considerazione della regola, positivizzata all’art. 92, comma 2 c.p.c., che facoltizza il giudice di disporre discrezionalmente la compensazione delle spese.
[11] L’esigenza di stabilire la soccombenza sulla base di una valutazione complessiva della lite (e non sulle singole questioni di rito affrontare dal giudice nell’iter di trattazione della causa) emerge – sia pure lato sensu – da alcuni indirizzi della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «Il criterio della soccombenza, al fine di determinare l’onere delle spese processuale, non si frazione secondo l’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche fase o grado la parte poi soccombente abbia conseguito un esito lei favorevole» (Cass. civ., 8 gennaio 1997, n. 84, www.onelegale.it. In senso conforme – ex multis – v., Cass. civ., 22 novembre 1995, n. 12082; Cass. civ., 10 dicembre 1988, n. 6722, www.onelegale.it). Questo meccanismo operativo, tuttavia, è destinato a subire una deroga laddove la sentenza di primo grado sia stata appellata solo limitatamente al capo di liquidazione delle spese di giudizio: in questo caso il giudice sembra dover condannare l’appellante, soccombente in secondo grado, al pagamento delle spese di quest’ultimo, nonostante avesse ottenuto, in primo grado, una pronuncia favorevole in punto di merito (per una più ampia analisi del fenomeno derogatorio cfr., Cass. civ., 26 marzo 1983, n. 2149, www.onelegale.it).
[12] Il giudice, sul punto, fa perno sulla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. civ., 27 marzo 2017, n. 7776, www.dejure.it), secondo cui la legitimatio ad causam attiva e passiva «consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione di parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite».
[13] Così, SATTA, Diritto processuale civile, cit., 120 ss.
[14] Cass., civ., ord., 28 novembre 2016, n. 31176, www.italgiure.giustizia.it.
[15] Cass. civ., Sez. I, 24 gennaio 2013, n.1703, www.onelegale.it.
[16] La valorizzazione tale approccio discrezionale nella valutazione della soccombenza è ben riflessa, ad esempio, in Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 20 dicembre 2017, n. 30592, www.onelegale.it, a tenore della quale si statuisce che «La valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente». In senso conforme cfr., – ex multis – Cass. civ., Sez. VI – 3, Ordinanza, 26 maggio 2021, n. 14459; Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 31 gennaio 2014, n. 2149, www.onelegale.it
[17] Cass. civ., Sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438, www.onelegale.it. In senso conforme, cfr., – ex multis – Cass. civ., Sez. VI – 2, 23 settembre 2013, n. 21684, dove si legge che «La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo»; Cass. civ., Sez. I, 24 aprile 2018, n. 10113, www.onelegale.it.
[18] Consiglio di Stato sez. III, 12 maggio 2017, n.2219, www.dejure.it.
[19] T.A.R. Roma, (Lazio) sez. III, 02 aprile 2007, n.2809, www.dejure.it
[20] D’altronde un principio di adattamento sembra già potersi rintracciare, per lo meno laddove la stessa Corte di Cassazione non esita ad affermare che «La pronuncia che, nonostante la soccombenza totale di una parte, sancisca la compensazione delle spese di giudizio deve essere annullata se la motivazione è incomprensibile. Infatti, in presenza di una parte risultata totalmente vittoriosa, la deroga al criterio della soccombenza è consentita solo in presenza di gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente indicate» (Cassazione civile sez. VI, 24 marzo 2020, n.7489, www.dejure.it).
[21] GHIRGA, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2014, 458. Per una più ampia visione della condanna alle spese come strumento di repressione del cd. abuso del processo, cfr. ID, Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012, 77 ss, dove l’A., pur non scardinando in toto il criterio della soccombenza oggettivamente intesa (meglio noto come regola del “victus victori”), muove dalla considerazione empirica secondo cui «a nessuno può sfuggire il fatto che è ben possibile che colui che è risultato vincitore abbia tuttavia abusato degli strumenti processuali». In questo senso considerato, si arriva ad affermare che la questione del riparto delle spese tra le parti risponde «da un lato, all’esigenza pratica di individuare un soggetto al quale addossare i costi della giustizia, dall’altro, e nell’ottica dell’economicizzazione di una risorsa scarsa, […] dovrebbe funzionare da norma che spinge la parte a responsabilizzarsi nell’uso degli strumenti processuali e nell’esercizio delle prerogative riconosciute dal sistema». Mosso da un intento destruens rispetto a questa ricostruzione appare, invece, CORDOPATRI (Un principio in crisi: victus victori, in Riv. proc. civ., 2011, 272 ss), secondo cui il richiamato broccardo “victus victori” «non ha mai inteso significare, durante tutta la traiettoria della parabola storica, la coincidenza fra la soccombenza come fatto oggettivo e la condanna alla rifusione delle spese. Al contrario, esso ha inteso significare […] soltanto ed esclusivamente la condanna alle spese del litigante soccombente che fosse in mala fede». Radicalmente contraria è, invece, la voce di DE CRISTOFARO (Doveri di buona fede e abuso degli strumenti processuali, in Giust. proc. civ., 2009, 994), che esclude che la responsabilità per le spese processuali possa collegarsi alla buona fede processuale e alla tematica dell’abuso del processo, rimanendo interamente parametrata sulla regola del victus victori.
[22] GHIRGA (Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo, cit., 2014, 458) parla, più correttamente, di «criterio orientatore nelle scelte di chi vuole utilizzare una risorsa scarsa quale quella della giustizia».
[23] Differente è, invece, il contributo di VERDE (L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085), secondo cui non è sufficiente a fondare la nozione di abuso del processo il richiamo agli obblighi di cui all’art. 88 c.p.c., «perché la norma […] avendo come oggetto il comportamento, e non l’atto, può giustificare soltanto una sanzione di tipo risarcitorio». In modo non dissimile, PANZAROLA (Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2016, 23 ss), che disattende il tentativo di utilizzare «l’art. 88 c.p.c. come “cavallo di Troia” per introdurre tra le pareti del processo i principi sostanziali ai quali (ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.)», ritenendo che si tratti di un’operazione arbitraria, «impiegata quale mezzo per soddisfare un fine indebito». Nella stessa direzione di senso, ID., Principi e regole in epoca di utilitarismo processuale, Bari, 2022, 67 ss, dove l’A., sostenendo l’impossibilità di fondare la categoria generale dell’abuso del processo sulla base dell’art. 88 c.p.c., aggiunge che tale concetto «tratteggiato dalla giurisprudenza non può guadagnare la dignità di concetto praticamente utile o assurgere ai fastigi della teoria generale […]. L’abuso del diritto si inserisce armoniosamente nella cornice del diritto privato che pullula di clausole e principi generali, non invece nell’ambito del codice di rito, nel quale da sempre proliferano le “regole”, capaci di intralciare l’azione più di quanto non l’assistano nel suo svolgimento», concludendo che «la nozione di abuso del processo concede “una certa” libertà nella determinazione delle forme dell’agire delle parti nel giudizio, ma una discrezionalità estrema».
[24] GHIRGA, Nota a Cass., civ., Sez. III, sentenza 24 luglio 2012, n. 14699, in Riv. dir. proc., 2013, 1517. L’espressione evoca un’antologia non rintracciabile a priori (e quindi soltanto valorizzando un approccio casistico) di contegni processuali e tecniche difensive complessivamente volte a dilatare il processo a discapito della ragionevole durata ex art. 111 Cost.
[25] Così, CORDOPATRI, Un principio in crisi: victus victori, cit., 273.
[26] Questa l’interpretazione fornita da GRADI, L’obbligo di verità delle parti, Torino, 2018, 754. In senso contrario cfr., COMOGLIO, in Commentario del Codice di procedura civile, cit., sub art. 88, 1124.
[27] GRADI, L’obbligo di verità delle parti, cit., 754. In senso conforme, cfr. TRUJILLO, Etica delle professioni legali, Bologna, 2013, 115 ss. Coerente con questa lettura è, del resto, l’esegesi dell’art. 88 c.p.c. offerta da CALAMANDREI (Un caso tipico di malafede processuale (1941), ora in Opere giuridiche, I, 482.), all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1940, nella parte in cui si chiedeva se, a mezzo di detta norma, il legislatore avesse voluto rendere operativa «una specie di exceptio doli generalis, opponibile, indipendentemente da speciali sanzioni di nullità, contro tutti gli atti processuali mossi da intenzione sleale».
[29] I referenti normativi dell’uno e dell’altro corpus sopra richiamato non possono non essere da un lato l’art. 88 c.p.c., qui oggetto di indagine e analisi critica, e dall’altro l’art. 111, comma 2 Cost. Per un maggiore approfondimento sul punto, v., CORDOPATRI, Un principio in crisi: victus victori, cit., 277, laddove si ribadisce che «l’art. 88 c.p.c. finisce per innervare il contraddittorio e per costituire, così, uno degli addendi importanti ed essenziali della disposizione di cui all’art. 111, comma 2º, Cost.»; COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319 ss.
[30] Secondo CORDOPATRI (L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 875), è nella violazione del principio della ragionevole durata e celerità del processo che si radica il comportamento abusivo. Nello stesso senso, DONDI – GIUSSANI, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2007, 193 ss.
[31] Ci si riferisce all’espressione contenuta in GRADI, L’obbligo di verità delle parti, cit., 764.
[32] Così, CORDOPATRI (Un principio in crisi: victus victori, cit., 275), che, proseguendo con queste argomentazioni, non esita ad asserire che «la condanna alla refusione e la soccombenza non si situano sullo stesso piano logico-giuridico, ma si pongono su due piani sovrapposti, di cui uno (quello della violazione di doveri e/o obblighi processuali o dell’irrituale esercizio di diritti e/o facoltà processuali) è logicamente prevalente e giuridicamente assorbente rispetto all’altro (quello della soccombenza mera)». Nello stesso senso, ID, L’abuso del processo, II, Il diritto positivo, II, Padova 2000, 770 ss.
[33] COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, cit., 351.