Celeritas versus iustitia. Il non rito accelerato in Cassazione come ingiusta sfida

Di Rosario Russo -

 

Lo scopo del processo «è il più alto che possa esservi nella vita e si chiama giustizia» (P. CALAMANDREI, Processo e giustizia, in P. CALAMANDREI, Opere giuridiche, vol. I, 1965, 572.)

«Prima di dannar la gente vederla in faccia e udir la ragion che usa» (L. ARIOSTO, Orlando Furioso, 18.2).

I.  LA CORTE DI CASSAZIONE DECIDE se E COME DECIDERE

Dal faticoso combinato disposto delle disposizioni introdotte dalla Riforma Cartabia si ricava che, a seguito della valutazione estrinseca del fascicolo (il c.d. spoglio):

A.il procedimento ex art. 391 quater c.p.c. (revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo) deve essere assegnato all’udienza pubblica;

B.ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c. i regolamenti di competenza e di giurisdizione sono assegnati all’adunanza camerale prevista dall’art. 380 bis.1 c.p.c. (in cui però il Pubblico Ministero è tenuto a depositare le proprie conclusioni) a meno che il Presidente, ravvisata una questione di diritto di particolare importanza, non decida di adottare il rito pubblico (art. 375, 2° n. 4 c.p.c.);

C.i giudizi di revocazione e di opposizione di terzo sono assegnati all’adunanza camerale (art. 381 bis.1 c.p.c.), a meno che il Presidente, individuata una questione di diritto di particolare importanza, non decida di adottare il rito pubblico (art. 375, 2° n. 4 ter c.p.c.);

D.i procedimenti per correzione di errore materiale sono sempre assegnati all’adunanza camerale ex art. 381 bis.1 (art. 375, 2° n. 4 bis c.p.c.);

E.le decisioni di inammissibilità, improcedibilità e manifesta infondatezza possono essere adottate (v. infra):

a)con il non rito previsto dall’art. 380 bis c.p.c.;

b)o con il rito camerale previsto dall’art. 380 bis.1 c.p.c.;

F.ogni altro ricorso, in cui siano assenti questioni di diritto di particolare importanza (assegnati al rito pubblico), è deciso ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., in cui non è obbligatorio l’intervento del P.G. (norma di chiusura).

Mentre sulla assegnazione alle Sezioni Unite è consentita l’interlocuzione delle parti (art. 376 c.p.c.), esse non possono incidere sulla scelta del rito, affidata esclusivamente al Primo Presidente (per le Sezioni Unite) e ai Presidenti delle sezioni. Resta così confermato che, come già prima della riforma Cartabia, la Suprema Corte ha il diritto di decidere come decidere[1].

In conclusione i riti sono tre:

1)pubblica udienza;

2)adunanza in camera di consiglio (art. 380 bis.1)

3)rito camerale dei regolamenti (art. 380 terp.c.).

Il ‘procedimento’ «accelerato» di cui all’art. 380 bis c.p.c. non è un rito, ma un modo improprio di evitare la pronuncia, sicché ora, con la riforma Cartabia, è concesso alla Suprema Corte perfino il diritto di non decidere, come si tenterà qui di seguito di dimostrare a partire da un caso emblematico.

II.                  IL CASO

Con il gratuito patrocinio Sempronio ha promosso una querela di falso in via principale. Tenuto ad intervenire (ai sensi dell’art. 221, 3° c.p.c.), il Procuratore della Repubblica, guardiano del sotteso interesse pubblico alla tutela della pubblica fede, condivide la querela, che è accolta dal Tribunale. Il convenuto querelato appella vittoriosamente, nonostante il contrario avviso espresso dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello. Con il gratuito patrocinio Sempronio ricorre in cassazione, con atto notificato nel 2021, ai sensi dell’art. 111, 7° Cost. per violazione di legge. Il Presidente della competente Sezione o un consigliere da lui delegato a colpo d’occhio ritiene che il ricorso sia manifestamente infondato e gli comunica tale «sintetica proposta» di decisione, assegnandogli termine solo per chiedere la decisione ai sensi del rito camerale ordinario (art. 381 bis.1 c.p.c.), con le seguenti conseguenze:

1)l’inazione di Sempronio sarà considerata tacita rinuncia, con tutte le conseguenze previste dall’art. 391 c.p.c.: estinzione proclamata dal Presidente e condanna alle spese di Sempronio anche ex art. 96, 3° e 4° c.p.c., ma esclusione della condanna al pagamento del doppio del contributo unificato[2];

2)se invece egli, munito di nuova procura, insiste per la decisione, viene fissata l’adunanza camerale cartolare ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., in cui il Pubblico Ministero ha «facoltà» di depositare le proprie conclusioni, con due ulteriori sbocchi:

a)se l’ordinanza decisoria è conforme alla «sintetica proposta», il soccombente Sempronio sarà condannato alle spese, al raddoppio del contributo unificato, nonché ai sensi dell’art. 96, 3° e 4° c.p.c.;

b)se la predetta ordinanza accoglie il ricorso di Sempronio, il resistente soccombente sarà condannato alle sole spese in favore del victor.

III.                DIRITTO INTERTEMPORALE

Al tempo della notifica del ricorso vigeva una disciplina del ricorso per cassazione che consentiva al ricorrente, anche in caso di ostesa manifesta infondatezza, di presentare memorie (art. 380 bis c.p.c. previgente). Tuttavia, se non sia stata fissata ancora l’udienza, al predetto ricorso si applica il nuovo regime, cioè la menzionata stringente alternativa, in virtù di apposita disposizione intertemporale (art. 35, 6° del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149). Nulla da eccepire in iure, ma Sempronio e il P.G. dovranno rassegnarsi all’imprevedibile nuovo assetto processuale.

IV.               RITO FACOLTATIVO

La formulazione dell’art. 380 bis, 1° c.p.c. («può») fa intendere che il presidente, sempre che non intenda sottoporre al rito pubblico (art. 375 c.p.c.) una ravvisata questione di particolare rilevanza, ha altresì la facoltà di adottare per (l’inammissibilità, l’improcedibilità e) la manifesta infondatezza sia il “non rito” accelerato previsto dall’art. 380 bis sia il rito camerale di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c. Possiamo agevolmente presumere che il non rito accelerato sarà quello preferito; ma allora perché consentire la deroga ad nutum? Si è già segnalato che nessuna delle parti interessate ha rimedi per contestare tale decisione, perciò processualmente autoritaria.

«Compiere un rito vuol dire fare qualcosa con la potenza» [3], e quindi è esercizio di potere; sicché le norme (i «nomo-dotti»[4]) che disciplinano i processi servono innanzi tutto a “incanalare” in guisa prevedibile il potere decisorio e, nello stesso tempo, a promuovere la migliore decisione possibile, secondo il teorema fondamentale della giustizia procedimentale: è possibile che da un giusto (o adeguato) processo scaturisca una pessima decisione, ma è pressoché impossibile che una buona decisione germini da un ingiusto (o inadeguato) processo. E qui l’alternativa si pone tra un rito vero e proprio (art. 390 bis.1 c.p.c.) e un non rito (art. 390 bis c.p.c.), cioè tra una decisione giudiziaria (ordinanza) e una omessa decisione. Ed è in gioco la prevedibilità delle decisioni.

V.                 DAL PROCESSO ALLA SFIDA

Sempronio, parte ricorrente, preso atto delle difese opposte dalla controparte, potrebbe decidere di rinunciare tempestivamente al ricorso principale ai sensi dell’art. 390 c.p.c. e aspirare ad un regresso gratuito (art. 391, 2° c.p.c.), ancorché la sua rinuncia non abbia ricevuto l’adesione dell’avversario.

Ma tale chance gli è preclusa se il Presidente della competente sezione decida di applicare prima il «non rito» (facoltativo) dell’art. 380 bis c.p.c. In tal caso infatti egli, o un consigliere delegato, formula una «sintetica proposta di definizione», quando ravvisa (la inammissibilità, l’improcedibilità o) la manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, comunicandola ai difensori delle parti. Infatti, a questo punto Sempronio è messo personalmente alle corde. Egli può chiedere la decisione della Suprema Corte, cui ha diritto in forza dell’art. 111, 7° Cost., correndo però il rischio di vedere confermata, a seguito dell’adunanza camerale ex art. 380 bis.1, la predetta “proposta di definizione” e di subire la condanna alle spese e al raddoppio del contributo unificato, nonché le sanzioni previste dall’art. 96, 3° e 4°[5] c.p.c. In alternativa, se Sempronio rimane inattivo, il suo ricorso si considera rinunciato ai sensi dell’art. 391 c.p.c.

L’assoluta novità di tale intervento normativo solleva insuperabili perplessità istituzionali. Intanto è evidente che la «sintetica proposta di definizione», tutto può essere tranne che una decisione della Corte. Non lo è soggettivamente, essendo di provenienza monocratica; non lo è oggettivamente giacché, lungi dal definire la lite, è il viatico per una presunta rinuncia (mai espressa) o in alternativa per l’ordinanza camerale. In altri termini l’art. 380 bis c.p.c. – il cigno nero della procedura civile – è uno stratagemma che consente alla Suprema Corte di non decidere, facendo ‘rimbalzare’ intanto sul ricorrente l’esito del giudizio di cassazione. Al che si aggiunge, da una parte, che è pressoché impossibile distinguere tra «manifesta infondatezza» e «infondatezza» e, dall’altra parte, che non è più previsto un rito accelerato per la manifesta fondatezza.

In secondo luogo, è altrettanto drammaticamente palese il non detto. Se il presidente o un suo delegato ha individuato una «infondatezza» per giunta «manifesta», perché non decidere subito con ordinanza ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c. con condanna alle spese aggravata ai sensi del novellato art. 96 c.p.c., rispettando così il diritto alla decisione di Sempronio consacrato dall’art. 111, 7° Cost.? Può non piacere, ma è agevole anche la risposta: agli effetti della resa quantitativa della Suprema Corte i conditores hanno ritenuto che, rispetto all’ordinanza imposta dall’art. 390 bis.1 c.p.c., la «sintetica proposta di definizione» (proprio perché non è una decisione) consente di ‘definire’ più celermente l’enorme arretrato. Ma – si direbbe – «’l modo ancor m’offende»! Infatti se non è – e non vuole neppure essere – una decisione, la «sintetica proposta di definizione» si riduce – e fa capo – ad una vera e propria sfida: «Sempronio, se vuoi la decisione camerale e perfino conoscerla, devi rischiare qualcosa in più della normale condanna alle spese e soprattutto assumerne la responsabilità!».

Ma proprio in tema di responsabilità, emergono altre difficoltà. Il ‘costo’ dell’accettazione della sfida è delineato dall’art. 380 bis, ultimo comma, c.p.c. Sempronio lo patirebbe se l’ordinanza emessa in seno al rito camerale risulti ‘conforme’ alla «sintetica proposta di definizione. Ma di per sé non è lecita la stessa comparazione, se – come si è detto – la proposta è ‘altro’ rispetto alla decisione, cioè all’ordinanza. Il risultato sarà inevitabilmente che, ancorché l’ordinanza di rigetto del ricorso risulti – com’è ampiamente prevedibile – ben diversa, se non altro perché (in quanto ordinanza) più motivata rispetto alla sintetica proposta, Sempronio subirà le conseguenze negative della propria opzione anche per ragioni che non risultavano dalla proposta stessa e che perciò egli non poteva avere considerato. Come dire: se fosse un ‘gioco’, esso non sarebbe paritetico, perché il ‘banco’ finirebbe per ‘vincere’ sempre!

Resta confermato che la Suprema Corte ha così acquisito il diritto non solo «di decidere come decidere», ma anche di «non decidere», in frontale contrasto con i principi del giusto processo (art. 111 Cost.).

Le propaggini del «cigno nero» non sono meno problematiche.

La sequenza di «ricorso- sintetica proposta di manifesta infondatezza – inazione del ricorrente, equiparata a rinuncia presunta» provoca l’estinzione, che deve essere dichiarata dal Presidente della Sezione, ai sensi del richiamato art. 391, 1° c.p.c. (non essendo stata fissata alcuna data per la decisione). La condanna alle spese e la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. sarà esclusa qualora la parte intimata non si sia attivata nel giudizio. Ma, qualora essa si fosse invece costituita, la manifesta infondatezza presunta non solo impedisce il regresso gratuito (pure ammesso dall’art. 391, 2° c.p.c.), ma addirittura (accertata la manifesta infondatezza) comporterà di norma l’applicazione dell’art. 96, 3° e 4° c.p.c., mentre è peregrino pensare che il ricorrente ottenga l’adesione delle altre parti (art. 391, 4° c.p.c.). Ben misero l’unico ‘vantaggio’: è escluso l’ulteriore pagamento del contributo unificato.

Se l’intrepido ricorrente chieda il giudizio, con l’ordinanza ex art. 380 bis.1 c.p.c. la sezione potrebbe disattendere la proposta di manifesta infondatezza e, accogliendo il ricorso di Sempronio, riformare la sentenza impugnata, con tutte le pertinenti conseguenze (condanna alle spese), ma difficilmente potrebbe condannare parte resistente per difesa temeraria (art. 96 c.p.c.), se di primo acchito il ricorso era stato stimato da un giudice manifestamente infondato.

Si è già visto quanto improprio sia comparare la sintetica proposta di manifesta infondatezza con l’ordinanza che rigetta il ricorso definendo il giudizio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., essendo la prima un presagio e la seconda una decisione giudiziale. Ma qualora esse coincidano nell’esito finale (rigettare per manifesta infondatezza il ricorso di Sempronio), l’ordinanza dovrà applicare al vinto ricorrente le sanzioni previste dagli art. 96, 3° e 4° c.p.c., ancorché la motivazione dell’ordinanza esponga ragioni e motivi assenti nella proposta sottoposta al vaglio di Sempronio (art. 380 bis, 3° c.p.c.). La considerazione della c.d. confirmation bias (naturale tendenza dell’autore di una valutazione a non più modificarla) rende comunque problematica la partecipazione al giudizio camerale del presidente o del consigliere autori della proposta: quanto meno sfidante e decidente dovrebbero essere diversi, se si voglia rispettare quanto meno il presupposto di ogni giusto giudizio (art. 111, 2° Cost.), l’imparzialità e la terzietà del decidente[6].

VI.               PROCURA SPECIALE

Nel giudizio di cassazione la rinuncia (al ricorso principale o incidentale) ha effetto soltanto se sottoscritta dalla parte e dal suo avvocato ovvero dal solo avvocato se munito di procura speciale (art. 390 c.p.c.).

Ma senza alcuna procura speciale la rinuncia consegue, per effetto di legge (art. 380 bis, 2° c.p.c.), alla inazione (prolungata per quaranta giorni) del ricorrente, cui sia stata notificata la sintetica proposta di manifesta (inammissibilità, improcedibilità o) manifesta infondatezza.

È invece significativo che la stessa disposizione consenta alla parte intimata (nella specie Sempronio) di impedire la rinuncia tacita soltanto con istanza, sottoscritta dal difensore munito di procura speciale, volta a chiedere l’attivazione del rito camerale previsto dall’art. 380 bis.1 c.p.c. Il legislatore così si incunea nel rapporto tra cliente e avvocato. Questi aveva ricevuto sicuramente procura speciale per ricorrere in cassazione (art. 365 c.p.c.) e forse, come spesso avviene, anche per eventualmente rinunciare (art. 390, 2° c.p.c.). Ma la disposizione impedisce all’avvocato di optare autonomamente per la prosecuzione del giudizio in camera di consiglio. La legge gli impone invece di consultare la parte, di riferirle la sintetica proposta con tutte le conseguenze negative e di concordare la linea processuale. È probabile che l’avvocato avrebbe spontaneamente tenuto tale condotta, anche perché imposta dal codice deontologico[7], ma la legge vuole assicurare che il preliminare vaglio di inammissibilità – o se si vuole l’intimidazione, la sfida – raggiunga e colpisca direttamente la parte sostanziale, ancorché meno tecnicamente preparata. Alla Corte, alla sua produttività numerica, conviene che il procedimento si concluda con una rinuncia implicita piuttosto che con una decisione, ancorché in forma d’ordinanza.

VII.             IL PUBBLICO MINISTERO

Per rappresentare e tutelare l’interesse pubblico insito nella querela di falso, anche in appello il Procuratore Generale era obbligatoriamente intervenuto e si era speso a sostegno del ricorso proposto da Sempronio.

Ora, modificati gli artt. 70, 2°c.p.c. nonché l’art. 76 O.G.[8], l’art. 380 bis, 2° c.p.c. ha interdetto al P.G. di legittimità, ancorché divenuto perciò parte del giudizio, di esprimere la propria opinione sulla sintetica proposta di manifesta infondatezza, non a caso comunicata esclusivamente «ai difensori delle parti». In passato la Suprema Corte si era occupata di tale questione, pervenendo alla conclusione che: «In tema di giudizio civile di cassazione, per effetto delle modifiche introdotte dagli artt. 75 e 81 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. in legge 9 agosto 2013, n. 98, non è più obbligatoria la partecipazione del P.M. in tutte le udienze che si svolgono dinanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo comma, cod. proc. civ., siano esse adunanze camerali od udienze pubbliche, salva la facoltà del P.M. di intervenirvi, ai sensi dell’art. 70, terzo comma, cod. proc. civ., ove ravvisi un pubblico interesse» (Cass. Sentenza n. 6152 del 17/03/2014). La riforma Cartabia ha escluso anche tale possibilità perché il «non rito» ora previsto dall’art. 391 bis c.p.c. impedisce deliberatamente qualunque intervento del P.G., essendo la ‘sfida’, lanciata con la sintetica proposta, comunicata soltanto ai difensori dei ricorrenti, i quali restano esclusivi arbitri dell’esito del giudizio.

Ma, così stando le cose, a che serve l’intervento del Pubblico Ministero di merito se, per ‘estromettere’ dal giudizio il Pubblico Ministero, è sufficiente che il ricorso per cassazione (proposto dall’attore che invochi, al pari del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, l’accoglimento della querela) sia trattato con il «non rito» previsto dall’art. 390 bis c.p.c., che esclude qualunque intervento del requirente di legittimità?[9]

Infine desta perplessità perfino il carattere facoltativo dell’intervento scritto del P.G. nell’adunanza camerale cartolare, siccome idoneo ad incidere comunque sulla decisione: anche questa costituisce una variabile tanto incerta quanto ad libitum disponibile dal P.G., che contribuisce a rendere ancor più imprevedibile l’esito del giudizio.

VIII.           GRATUITO PATROCINIO

Sebbene sconfitto in appello, Sempronio era stato ammesso al gratuito patrocinio per ricorrere per cassazione, sul presupposto che le sue ragioni non apparivano manifestamente infondate[10]. Non solo questa valutazione resta smentita dalla sintetica proposta di definizione, ma per chiedere il giudizio camerale Sempronio dovrà proporre un’ulteriore istanza di ammissione al gratuito patrocinio, che questa volta si porrebbe in insuperabile contrasto con la superficiale prognosi espressa ex art. 380 bis, 1° c.p.c.

É prevedibile dunque che tutti i ricorsi per cassazione promossi con il patrocinio gratuito siano estinti per rinuncia implicita, volta che sia stata diagnosticata, con sintetica proposta (en un coup d’œil), la manifesta infondatezza.

IX.               CONCLUSIONI (RINVIO)

Se c’è un settore della vita che ripudia il motto “il fine giustifica il mezzo” quello è proprio il mondo del diritto, sicché la celeritas giammai può predicarsi e attuarsi in danno della iustitia.

Pertanto non possono che reiterarsi le critiche svolte nei contributi già indicati, puntualizzati ora anche con riferimento al «non rito» sopra vagliato.

Qui vale ribadire che la «questione Cassazione» (al pari della «questione Giustizia»), piuttosto che trovare soluzione soltanto all’interno della Suprema Corte (o dell’Istituzione giudiziaria), è innanzi tutto una questione di scelta politica e di opzione democratica, oltre che (innanzi tutto) di rispetto della Costituzione e della Cedu. É lo Stato che deve stabilire se voglia investire in vera ed autentica legalità, ovvero barcamenarsi per cercare di ridurre gli esborsi per le condanne ex legge Pinto. É lo Stato – ed i cittadini – che devono stabilire se vogliano osservare e fare osservare la legge democraticamente formata, per assicurarsi la libertà e l’uguaglianza (non solo formale) predicata dall’art. 3 della Cost. In estrema sintesi, per dirla con Luigi Ferrajoli, «la buona giustizia dipende dalla buona politica, non viceversa».

La Corte di Cassazione non può ostinarsi a cercare di emergere dalla “palude” «tirandosi per i capelli», come racconta il Barone di Münchhausen, perché tale atteggiamento impedisce (come si è già sperimentato) la vera soluzione politica dell’annoso problema, che non è affatto una delle piaghe inflitte senza scampo da Yahweh al nostro paese (come si appura non appena ci si sporga oltre i confini nazionali), ma dipende soltanto da condizionamenti lato sensu istituzionali, su cui la Suprema Corte non ha os ad loquendum. Per esempio esonda dal tema strettamente processuale, pur riflettendosi pesantemente su di esso, l’incapacità della nostra scuola e delle nostre Università di formare laureati capaci di superare l’esame per l’accesso alla magistratura, mentre la scopertura del suo organico ha raggiunto livelli insopportabili[11]. Allo stesso modo la ‘filosofia’ del «tutto e subito», potenziata dal più sfrenato consumismo, si rivela incompatibile con i tempi e le ragioni della democrazia e del diritto. Se la pressione fiscale sia fondatamente ritenuta eccessiva, competerebbe al Legislatore (nell’agone politico, per tramite dei partiti) emettere una nuova disciplina. Invece, in ossequio alla predetta ‘filosofia’, il contribuente si fa giustizia immediata, impunemente decidendo (e a volte proclamando) di evadere o di eludere la norma tributaria, ritenuta iugulatoria. Scolora in questa ottica la funzione mediatrice dei partiti politici; che a loro volta, per conquistare consenso elettorale, schivano le riforme di ampio e duraturo respiro, limitandosi ad offrire vantaggi, anch’essi contingenti e mirati, ai propri elettori. Non è forse casuale, dunque, che i ricorsi in materia tributaria hanno costituito nel 2022 il 35,9% delle iscrizioni in Corte di Cassazione. Infine non fa certo bene al sistema processuale che i dirigenti degli uffici giudiziaria possano essere individuati, a tutti i livelli, con il sistema clientelare – spartitorio testimoniato dalle chat del dott. Palamara (bandito, a differenza dei suoi numerosi correi, dall’Ordine e dall’ANM).

[1] Il presente contributo aspira ad essere un parziale aggiornamento delle valutazioni critiche esposte dall’autore con riferimento alla previgente disciplina in seno all’articolo: L’ultimo “non – rito” della Cassazione civile ovvero l’“entente cordiale” con il legislatore, in www.judicium.it., 3 aprile 2017.

[2] Art. 13 – quater.1 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 1151 (come novellato dall’art. 18 del Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149).

Le disposizioni di cui al comma 1-quater non si applicano quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto ai sensi dell’articolo 380-bis, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile.

[3] P. RICOEUR, Parole et symbole, in J. E. MENARD (a cura di), Le symbole, Université des sciences humaines de Strasbourg, 1975, p. 155, richiamato da A. GARAPON, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario., Milano, 2001, p. 8.

[4] L’espressione (basata sull’immaginifica assonanza con i ‘viadotti’ o i ‘condotti’), creata da N. IRTI (in N. IRTI – E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Roma – Bari, p. 45), è qui adoperata in modo parzialmente diverso dal significato assegnatole dal suo ideatore.

[5] Val la pena di rammentare che la responsabilità sanzionatoria, introdotta dall’art. 385, 4° c.p.c. nel 2006 proprio per il giudizio di legittimità, fu poi estesa a tutti i giudizi con l’art. 96, 3° c.p.c. per effetto della riforma del 2009. La riforma Cartabia ha aggiunto all’art. 96 c.p.c. il 4° comma, che prevede la condanna obbligatoria all’ammenda (come avviene nel giudizio penale) in ogni caso in cui il giudice applichi la responsabilità prevista dai primi tre commi. La parte ricorrente per cassazione che non si acquieti alla sintetica proposta di manifesta infondatezza è condannata ai sensi dei commi terzo e quarto del novellato art. 96 c.p.c., qualora non riesca a ‘smontare’ nel giudizio camerale ex art. 380 bis.1 c.p.c. la predetta proposta (art. 380 bis, 3° comma c.p.c.).

Può essere interessare notare che – a fronte delle migliaia di decisioni di inammissibilità e di improcedibilità dei ricorsi, emesse soprattutto dalla c.d. Sezione Filtro – nel 2015 l’Ufficio Statistico interno accertava che dal 2006 la Corte aveva applicato soltanto sei volte la responsabilità sanzionatoria, sebbene proprio essa ne avesse caldeggiata l’introduzione. Infatti le specifiche domande dei sostituti procuratori generali volte alla condanna sanzionatoria (doverosamente applicabile d’ufficio) venivano costantemente disattese dalla Suprema Corte senza alcuna motivazione, pur rigettandosi il ricorso perché inammissibile o improcedibile. Su questa vicenda sia consentito rinviare a R. RUSSO, La condanna aggravata alle spese nel giudizio di cassazione. Profili di diritto intertemporale, in Judicium.it, 10 gennaio 2015; Idem, Contributo (non a caso intitolato «cahier de doléances») pubblicato sul sito della Su-prema Corte: http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rosario_RUSSO_Contributo_per_inaugurazione_2017.pdf: Idem, La condanna aggravata alle spese. Il «gran rifiuto» della Suprema Corte? sul sito Judicium.it, 22 dicembre 2017; Idem, L’interpretazione salvifica dell’art. 96, 3° c.p.c., sul sito Judicium.it, 5 Febbraio 2019.

[6] Lo esclude, in forza dei precedenti della Suprema Corte, F. DE STEFANO, La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura, in Giustizia insieme, 10 gennaio 2023, par. 10.2. Sennonché permangono imponenti esigenze di opportunità e di costituzionalità, che la Suprema Corte non dovrebbe ignorare.

[7] Codice Deontologico Forense (testo aggiornato al 12 giugno 2004)

Art. 23 – Conferimento dell’incarico

4.L’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose.

[8] Art. 76. (Attribuzioni del pubblico ministero presso la Corte suprema di cassazione).

1.Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude:

a) in tutte le udienze penali;

b) in tutte le udienze civili.

1-bis. Nei procedimenti trattati in camera di consiglio il pubblico ministero formula conclusioni scritte nei casi previsti dalla legge.

2.Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione redige requisitorie scritte nei casi stabiliti dalla legge.

[9] Sia consentito rinviare al saggio di R. Russo, Il PM presso la S.C. civile! Chi era costui? Appunti sugli artt. 75 e 81 del Dl n. 69 del 2013, in www.judicium.it.

[10] Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115

«Art. 74 (Istituzione del patrocinio)

È, altresì, assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate.

 Non è precluso alla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, che sia rimasta soccombente nel giudizio, di giovarsi del medesimo istituto anche nel giudizio di impugnazione. In tal senso Cassazione civile sez. II, 30/04/2019, n.11470: «La disposizione di cui all’art. 120 d.P.R. n. 115 del 2002 non preclude alla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, che sia rimasta soccombente nel giudizio di primo grado, di giovarsi del medesimo istituto anche nel giudizio di impugnazione avverso la pronuncia a sé sfavorevole, purché, in presenza delle condizioni necessarie, proponga nuova istanza di ammissione al beneficio. (Nella specie, il giudice del merito aveva invece ritenuto che l’art. 75, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002 trovasse applicazione, nel processo di impugnazione, nel solo caso in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato fosse risultata vincitrice nel giudizio di primo grado e dovesse contrastare il gravame)».

[11] In proposito la riforma Cartabia aveva un asso nella manica, l’istituzione dell’Ufficio per il processo (UPP) che, insieme alla immancabile specializzazione dei giudicanti (secondo l’insegnamento, anche orale, di Virgilio Andrioli), avrebbe consentito d’impegnare il giudice soltanto per le sue specifiche competenze e soltanto nel momento decisorio cruciale, lasciando ad altri (l’ufficio del giudice o altri uffici collettivi di supporto) compiti preparatori o di servizio (per i quali l’attenzione in prima battuta del giudice sarebbe un vero spreco). Disegnata come “un cambiamento epocale” (ampiamente presente in altri ordinamenti giuridici) per velocizzare i processi e abbattere l’arretrato, rispettando così gli ardui impegni assunti con Bruxelles, anche questa riforma è sostanzialmente fallita perché il 25% dei nuovi dipendenti, assunti soltanto per un periodo di due anni e sette mesi, ha ovviamente preferito dimettersi per accettare un incarico a tempo indeterminato frattanto conseguito. Per conseguenza il 27 luglio 2023 il Governo è stato costretto a proporre un ridimensionamento dei propri originari impegni di riduzione dell’arretrato.