Cessione del credito e intervento del cessionario in pauliana ordinaria. Il concetto di “garanzia patrimoniale” secondo la giurisprudenza di legittimità.

Di Piergirolamo Attanasio -

1. La vicenda di fatto e il giudizio di cassazione.                

La sentenza in rassegna compone un contrasto interno alla Sezione Terza sugli effetti della cessione del credito in pendenza della revoca ex art. 2901 c.c.[1]

Prima di passare ad un’analisi critica delle ragioni giuridiche sottese alla decisione, gioverà un breve cenno alla vicenda di fatto.

I coniugi A.A. e G.T. ricorrono in Cassazione contro la conferma, da parte della Corte d’Appello di Salerno, della revoca giudiziale ex art. 2901 c.c. disposta in primo grado di giudizio, promossa da N.U. e N.G., creditori di A.A. per la somma di € 453.000.

Gli atti dichiarati inefficaci sono due vendite immobiliari di A.A. in favore della moglie e di un terzo, per un valore, rispettivamente, di € 1.081.383 e di € 283.814.

Fin qui nulla di particolare – a parte il fatto che il prezzo delle due vendite determina un’entrata a favore dell’obbligato pari quasi al triplo della sua esposizione debitoria  -, sennonché, apellatione pendente, uno dei crediti azionati viene ceduto alla società di cartolarizzazione “Penelope SPV”[2] facendo venir meno la titolarità del diritto controverso in capo ad uno dei litisconsorti[3].

Tale circostanza offre il destro ai coniugi A.A. e G.T. per denunciare in Cassazione l’inammissibilità dell’intervento del cessionario nel giudizio pauliano di appello e, più in generale, nel giudizio pauliano fra cedente e ceduto.

Per risolvere il quesito, la Sezione Terza dà una risposta a dir poco “dommatica”, forse a rinforzo degli spunti di discussione già offerti dalla recente Cass. 20315/22, sentenza certamente brillante sul piano argomentativo, ma priva di un vero e proprio ubi consistam[4].

Il “motivo portante” dell’arresto si incentra tutto sulla natura juris dell’azione revocatoria, definita mera “facoltà” del credito e non già “diritto alla dichiarazione di inefficacia dell’atto”.

In quanto tale, essa già esiste in potenza nel credito, mentre frode e danno costituiscono semplici presupposti di esercizio dell’azione, con la conseguenza che essa circola in automatico assieme al credito il quale, peraltro, non è oggetto di un necessario accertamento pregiudiziale[5].

La ragione di ciò sta nella particolare funzione della revoca. Essa mira a recuperare al debitore, seppur al solo fine di tutelare le ragioni del creditore, la garanzia patrimoniale diminuita con l’atto di alienazione. Pertanto, non c’è bisogno di dare prova incontrovertibile della titolarità del credito, non trattandosi di un vero e proprio mezzo di soddisfazione del diritto d’obbligazione.

2.Il contrasto giurisprudenziale e l’apporto teorico fornito alla tesi della trasferibilità.

Secondo un primo filone giurisprudenziale, riconducibile a Cass. 8419/00[6] e ribadito di recente da Cass. 29637/17[7],  la cessione del credito in pendenza dell’actio pauliana non costituisce un’ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c., stante la diversità fra oggetto del processo (il diritto all’inefficacia/inopponibilità dell’atto impugnato) e l’oggetto del contratto di cessione del credito.

Per l’opposta tesi, da ultimo accolta dalla sopracitata Cass. 20315/22[8], nel caso di cessione del credito in pendenza del giudizio pauliano, sono integrati gli estremi di cui all’art. 111 c.p.c. per molteplici ragioni, di seguito riportate.

-“L’art. 1263 c.c., prevede che per effetto della cessione si trasferiscono i “privilegi”, senza distinzione. La cessione dunque trasferisce anche i privilegi scaturenti dalla causa del credito. Se dunque la cessione trasferisce i privilegi scaturenti dalle condizioni personali delle parti, a fortiori si dovrà ammettere che per effetto di essa si trasferiscano gli effetti dell’azione revocatoria, che ha in comune coi privilegi lo scopo di garanzia del credito, ed insieme a quelli è sussunta dal legislatore nel Titolo III del Libro VI del codice civile[9];

-Tra i crediti privilegiati rientrano le spese di giustizia per atti conservativi (2755 c.c.), ed i privilegi come già detto si trasferiscono per effetto di cessione del credito. La revocatoria è un’azione intesa a conservare al creditore la garanzia patrimoniale. Se dunque si negasse che il cessionario d’un credito benefici degli effetti dell’azione revocatoria proposta dal cedente, si perverrebbe al seguente paradosso: il credito ceduto conserverebbe privilegio per le spese dell’azione revocatoria, ma non beneficerebbe degli effetti dell’azione revocatoria[10].

– Il cessionario d’un credito si giova del pignoramento eseguito dal cedente. Il pignoramento è un vincolo preordinato all’esecuzione, ed evita la dispersione della garanzia patrimoniale: sicché sarebbe contrario al canone ermeneutico dell’interpretazione sistematica ritenere che il cessionario beneficii degli effetti del pignoramento, ma non di quelli dell’azione revocatoria[11];

-L’azione revocatoria ha lo scopo di conservare la garanzia patrimoniale del creditore, ed il cessionario di un credito non è men creditore di quanto lo fosse il cedente[12];

-L’interpretazione propugnata dalla ricorrente avrebbe l’effetto di vanificare l’attività processuale svolta dal creditore cedente[13];

-Un atto in frode del creditore non cessa di essere tale sol perché il credito circoli a latere creditoris”.

A questi argomenti la sentenza in rassegna ne aggiunge uno, che fa ordine nel “sistema”: essendo detta azione una mera facoltà inerente alla più ampia posizione di credito, il giudizio revocatorio circola con la circolazione del credito, di mano in mano, con la conseguenza che la sentenza fra ceduto, cedente e terzo proprietario convenuto per frode spiegherà sempre i suoi effetti contro il successore a titolo particolare, salve le facoltà di intervenire in giudizio e di opporsi alla sentenza coi mezzi della parte.

3.Alcuni spunti di riflessione. Il diritto potestativo e il credito.

L’idea che il credito e l’azione revocatoria siano posizioni giuridiche separate e distinte viene sostenuta da quella dottrina che indica il “diritto potestativo” quale oggetto delle azioni giudiziarie costitutive[14]. Viene anche comunemente detto che il diritto potestativo è l’oggetto della sentenza costitutiva, e che la sentenza costitutiva è la fonte degli effetti che il diritto potestativo già racchiude in sé. E’ anche affermazione comune che le sentenze costitutive si distinguano in sentenze costitutive necessarie e sentenze costitutive facoltative, a seconda che sia preclusa o meno la produzione negoziale di un effetto identico a quello producibile attraverso la sentenza. Benché di facile comprensione sul piano intuitivo, il concetto di diritto potestativo pone seri problemi rispetto alla sua definizione puntuale. Sulla base di questi equivoci è proliferata una moltitudine di dubbi, alcuni solo dei quali sarà possibile riportare in questa breve annotazione.

Problema insormontabile – relativamente alla specie dei diritti potestativi c.d. a necessario esercizio giudiziale – è capire quale sia il ruolo della sentenza che li accerta rispetto alla produzione dell’effetto giuridico: se la causa della modificazione giuridica si riducesse alla sentenza, l’effetto giuridico sarebbe il risultato dell’attività del giudice e non del soggetto titolare del diritto potestativo che, invece, dovrebbe quantomeno contribuire con un proprio atto alla produzione dell’effetto sostanziale. Tuttavia, se la sentenza venisse messa sullo stesso piano dell’atto di esercizio del diritto da parte del titolare, questa perderebbe non solo le sue tipiche proprietà di provvedimento “finale” e autosufficiente, ma anche la propria attitudine ad accertare la situazione sostanziale controversa. Come fa la sentenza ad accertare un fatto di cui essa stessa costituisce solo un frammento? Ad aumentare la confusione concorre anche il principio chiovendiano secondo cui “la sentenza che accoglie la domanda deve attuare la legge come se ciò avvenisse nel momento stesso della domanda giudiziale[15], rapportato al momento in cui gli effetti costitutivi della sentenza si producono, che cade, di norma, al tempo del passaggio in giudicato della sentenza, salve speciali retroattività di legge[16].

Sull’altro fronte, l’idea che l’azione sia una mera facoltà della omnicomprensiva situazione di credito non crea meno problemi. I fautori di questa dottrina affermano indissociabili diritto e azione spingendosi quasi fino al punto di negare un’alterità sostanziale fra l’uno e l’altra. In questa ottica, l’azione processuale è solo uno jus persequendi judicio quod sibi debeatur, trovando essa il suo materiale punto di appoggio non tanto in una situazione sostanziale autonoma, quanto nello stesso diritto a difesa del quale l’azione in questione è posta. In questo quadro, l’oggetto del diritto di credito non si riduce alla pretesa di adempimento, ma contempla un insieme di “ammennicoli”, connaturati al credito, a difesa della garanzia patrimoniale. Quest’ultima diventa vero e proprio elemento strutturale del rapporto obbligatorio, al punto tale da poter pensare ad essa come ad una sorta di diritto di pegno o di ipoteca “generale” in favore di tutti i creditori[17].

Anche qui la ricostruzione funziona ed è coerente solo in apparenza. L’idea di un pegno o di una ipoteca generale è una contraddizione in termini, essendo pegno ed ipoteca diritti reali che, in quanto tali, presuppongono ontologicamente l’inerenza ad una certa res, ed esistono per attribuire al suo titolare un diritto di prelazione sul prezzo della vendita delle cose che ne formano oggetto[18]. Allo stesso modo, l’idea che l’azione revocatoria sia una mera facoltà del credito cozza frontalmente con il principio in facultativis non datur praescriptio, prescrivendosi l’azione pauliana in un tempo minore di quello occorrente affinché il credito si estingua per prescrizione[19].

4.(Segue). Creditori concorrenti e garanzia patrimoniale nella struttura dell’obbligazione. Intervento in pauliana.

Un’ulteriore problema per la tesi in rassegna è costituito dalla circostanza che, ottenuta la revoca, il creditore debba procedere non presso il debitore, ma presso il terzo, che conserva la proprietà della res pignoranda. La revoca, infatti, non richiama al patrimonio del disponente la cosa oggetto dell’alienazione, ma si limita solo a dichiarare l’atto inefficace nei confronti del creditore. Ora, il rapporto obbligatorio è un rapporto di carattere personale, i cui termini soggettivi sono limitati alle parti di esso, e la revoca dell’atto, nell’ottica che qui si espone, è diretta alla reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore, non alla costituzione coattiva del terzo quale garante del debitore. Affermare l’esistenza, in seno al credito, di una facoltà ad esso inerente, da esercitare nei confronti di un soggetto terzo, è alquanto anomalo, se non altro perché situazioni giuridiche aventi una dinamica di attuazione identica a quella che viene messa in moto dal creditore revocante nei confronti del terzo (in primis, l’ipoteca) non solo vengono considerate posizioni autonome, ma addirittura vengono ascritte al novero dei diritti reali. Il rapporto di accessorietà intercorrente fra credito e ipoteca sta solo ad indicare che non può esservi ipoteca senza credito, anche se può esservi credito senza ipoteca. Allo stesso modo, può esistere credito senza azione revocatoria, ma non può valere l’opposto[20]. Essenziale al credito, invece, è l’azione di condanna, il cui vittorioso esercizio forma il titolo esecutivo per l’espropriazione forzata dei beni del debitore[21].

L’affermazione che l’azione revocatoria non si fondi su un diritto autonomo alla revoca dell’atto o, comunque, non costituisca un rimedio “esterno” al rapporto obbligatorio è foriero di importanti conseguenze anche sul piano della legittimazione di altri creditori ad intervenire in pauliana.

Come noto, è possibile intervenire in un processo tra altre persone per far valere un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in giudizio (art. 105 c.p.c.). Escluso che il creditore concorrente, intervenendo in pauliana, faccia valere un diritto relativo all’oggetto dedotto in giudizio (tale non sarebbe il diritto sulla garanzia patrimoniale, atteso che l’oggetto del credito è costituito dalla prestazione)[22], si è affermato che la sua legittimazione all’intervento dipendesse dall’identità fra il titolo costitutivo del suo diritto alla revoca e quello costitutivo del diritto alla revoca esercitato dall’altro creditore. In caso di più creditori concorrenti, la realizzazione della frode farebbe nascere in capo a ciascuno di loro una propria azione pauliana, con la conseguenza che, stante l’identità di causa petendi, sarebbe possibile cumulare in un unico processo tutte le domande di revoca avanzate da ogni singolo creditore.

L’assunto dogmatico sposato dalla sentenza in rassegna impedisce questa ricostruzione. Se l’azione revocatoria è una facoltà inerente al credito, essa nasce con il credito stesso, mentre frode e danno sono solo presupposti per agire in giudizio. Non sarebbe possibile, allora, il cumulo soggettivo per difetto di connessione. Ogni creditore dovrebbe agire con la propria azione revocatoria in altrettanti giudizi separati, gareggiando in velocità con gli altri, dovendo prevalere, secondo le regole generali, il creditore prior in tempore.

Ci si potrebbe chiedere, allora, se il creditore possa intervenire in giudizio al solo scopo di essere destinatario degli effetti della sentenza. Per poter rispondere a questa domanda occorre verificare se, in tal caso, ricorrano gli estremi per un qualche intervento o se, invece, l’incidente di intervento avrebbe esito negativo per l’inesistenza di una figura di intervento spiegabile in relazione alla causa petendi di chi pretenda intervenire.

Come ben noto, le figure di intervento generalmente riconosciute sono tre: l’intervento principale (detto anche ad opponendum o ad infringendum jura utriusque competitoris); l’intervento adesivo autonomo (detto anche litisconsortile o ex coequali interesse) e l’intervento adesivo dipendente.

Tanto l’intervento principale quanto quello adesivo autonomo si fondano sull’affermazione di un proprio diritto da parte dell’interventore, relativo all’oggetto o dipendente dal titolo già dedotto in giudizio dalle parti originarie.

L’intervento adesivo dipendente, invece, non si fonda sull’affermazione, da parte dell’interventore, di un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo già dedotto in giudizio dalle parti originarie, ma sulla titolarità di un diritto la cui esistenza dipende dall’affermazione di sussistenza del diritto controverso.

Occorre, pertanto, verificare se, alla luce del nuovo approdo giurisprudenziale, consolidato sul piano dogmatico dalla sentenza in rassegna, si possa dire, con rigore formale, che sussistano ancora i presupposti per l’intervento del creditore concorrente nel giudizio pauliano inter alios.

Il motivo per cui non si è mai dubitato della legittimazione di quest’ultimo risiedeva sulla constatazione che l’oggetto del giudizio revocatorio fosse il diritto potestativo alla revoca o, meglio, il diritto all’inefficacia relativa dell’atto, la fattispecie costitutiva del quale sarebbe stata integrata dal danno e dalla frode[23].

Alla realizzazione dei presupposti pauliani, pertanto, sarebbero sorti tanti diritti di revoca quanti fossero stati i creditori del comune debitore.

Tali diritti, ciascuno diverso dall’altro, sarebbero dipesi tutti dal medesimo titolo: frode e danno. L’intervento del creditore concorrente, pertanto, non si sarebbe limitato a determinare l’estensione tout court degli effetti della sentenza, ma avrebbe ampliato l’oggetto del giudizio aggiungendo, alla pretesa revocatoria già dedotta, una nuova pretesa revocatoria avente ad oggetto la medesima res revocanda.

Una tale ricostruzione, infatti, si sarebbe imposta come necessaria a fini di par condicio creditorum, dal momento che, per giurisprudenza consolidata e dottrina maggioritaria[24], il creditore concorrente non può aderire sic et simpliciter alla revoca ottenuta da un altro creditore (magari, intervenendo nell’espropriazione contro il terzo revocato) dovendosi egli, invece, a sua volta, munire di un proprio titolo di revoca.

La comunanza di titolo ex art. 105, comma 1, c.p.c., allora, funge da base normativa valida ad ammettere che possa essere pronunciata una sentenza di revoca a beneficio di tutti i creditori, senza la necessità di un litisconsorzio originario.

Ora, però, se “non è [più] possibile (…) configurare un diritto alla declaratoria di inefficacia dell’atto come suscettibile di autonoma considerazione (…) rispetto al diritto di credito cui l’azione revocatoria accede quale strumento finalizzato alla conservazione della garanzia patrimoniale”, poiché “chi agisce in revocatoria non fa valere un diritto diverso dal diritto di credito ma propone un’azione a tutela dello stesso”, dobbiamo presumere che, oggi, oggetto del giudizio va considerato il credito, “presupposto e (…) riferimento ultimo della tutela richiesta[25], con la conseguente impossibilità di ravvisare elementi di connessione fra il titolo dedotto in causa dall’attore e il titolo costitutivo del diritto che il creditore vorrebbe far valere in via di intervento[26].

5.(Segue). I limiti oggettivi dell’art. 111 c.p.c.[27]

Il punto teorico più delicato, però, riguarda la corretta applicazione dell’art. 111 c.p.c in tema di azione revocatoria. Come noto, l’art. 111 c.p.c. disciplina gli effetti della successione a titolo particolare nel diritto controverso, disponendo che il processo prosegua tra le parti originarie, ferma restando, a favore dell’avente causa, la facoltà di intervenire in giudizio e di valersi dei mezzi di impugnazione della parte, e sempre fatta salva l’estensione a suo carico degli effetti della sentenza inter alios.

La regola è essenziale ad evitare che la parte che ha torto strumentalizzi il principio di relatività degli effetti del giudicato alienando la res litigiosa a un terzo, al solo fine di impedire alla parte che ha ragione di proseguire l’azione contro quest’ultimo che, teoricamente, potrebbe opporgli l’exceptio rei inter alios judicatae.

La nozione di “diritto controverso” è problematica e, per comprendere bene i termini della questione, è necessario precisare che, talvolta, esistono, fra diritti soggettivi, nessi di relazione talmente stretti da determinare la subordinazione di un diritto (dipendente) ad un altro (pregiudiziale). Quando tale rapporto si verifica, vale per il diritto dipendente la regola resoluto jure dantis, resolvitur et jus accipientis[28].

E’ altresì necessario, a comprendere esaustivamente i termini della questione, definire la differenza fra effetti “diretti” ed effetti “riflessi” della sentenza. La sentenza ha sempre effetti diretti fra le parti, mentre può avere effetti riflessi rispetto ai terzi, che li subiscono in virtù del principio per cui la sentenza varrebbe per tutti, ma avrebbe efficacia solo fra le parti. Tipicamente, i soggetti che soffrono la riflessione degli effetti di una sentenza inter alios sono i creditori e gli aventi causa, titolari di diritti, appunto, dipendenti rispetto a quello oggetto della sentenza[29].

Affermare che taluno subisca gli effetti diretti di una sentenza significa affermare che costui è parte e, pertanto, dispone di tutti i poteri processuali della parte; al contrario, affermare che taluno subisca gli effetti riflessi di una sentenza significa affermare che costui è terzo e, pertanto, potrà solo intervenire in via adesivo-dipendente o impugnare la sentenza con l’opposizione di terzo revocatoria.

Tutto ciò premesso, sull’interpretazione dell’art. 111 c.p.c. si fronteggiano due dottrine.

La prima dottrina ricostruisce il sistema sulla base della distinzione fra azioni reali e azioni personali: l’art. 111 c.p.c. abbraccia solo azioni reali. Il caso tipico di successione a titolo particolare nel diritto controverso sarebbe quello del convenuto in rivendica. Qui vi è identità perfetta fra oggetto del giudizio e oggetto del contratto e, quindi, opera la prosecuzione automatica del processo fra le parti, assumendo il convenuto la veste di sostituto processuale dell’avente causa. In questa vicenda, la sentenza pronunciata contro quest’ultimo spiegherà sempre i propri effetti contro l’acquirente in corso di causa.

La regola, però, non varrebbe quando il successore acquisti da chi è stato convenuto con un’azione personale, rivolta alla caducazione del titolo di acquisto del dante causa, poiché, in questa ipotesi, non solo manca la sostituzione processuale (è evidente che il convenuto dante causa sta in causa per un interesse suo proprio) ma addirittura, a rigore, manca l’identità fra diritto alienato e diritto controverso: oggetto del contratto di acquisto è la proprietà del diritto, oggetto della lite è la risoluzione, la rescissione, l’annullamento ecc. del contratto.

In questo caso, allora, l’avente causa titolare del diritto “dipendente” non potrebbe intervenire in giudizio ex art. 111 c.p.c., ma solo ex art. 105, comma 2, c.p.c., in via adesivo-dipendente o, in via repressiva, sperimentare l’opposizione di terzo revocatoria, che gli permetterebbe di rimettere in discussione il giudicato inter alios solo previo accertamento del dolo o della collusione perpetrati a suo danno.

Una seconda teoria, invece, nega la distinzione fra azioni reali e azioni personali (ormai superata)[30], ed afferma che l’art. 111 c.p.c. si applicherebbe non solo quando vi sia perfetta identità fra oggetto dell’alienazione e oggetto della sentenza, ma anche nei casi di c.d. pregiudizialità/dipendenza, ivi comprese le vicende personali. L’efficacia della sentenza fra terzo e dante causa sarebbe, pertanto, “diretta” nei confronti dell’avente causa, con la conseguenza che questi avrà a disposizione poteri e mezzi della parte.

In un certo senso, il cuore del problema è se alla nozione di diritto controverso vada data un’accezione ampia o ristretta, richiedendo, inevitabilmente, anche una riflessione sulle regole di funzionamento delle vicende traslative che animano il singolo ordinamento giuridico preso in considerazione.

Ad esempio, i fautori della tesi dell’efficacia diretta giocano molto, se così si può dire, con il principio del consenso traslativo che, secondo loro, non sarebbe mai armonizzabile col funzionamento dei sistemi germanici, basati sull’Abstraktionprinzip[31].

In Germania (come in Austria e in tutti gli altri Stati dove si è scelto di adottare un modello simile) la caducazione del titolo non comporta mai il venire meno del titolo di acquisto dell’avente causa, poiché la legittimazione del dante causa a disporre del diritto non si basa sulla sua titolarità effettiva del diritto (nemo plus juris quam ipse habet transferre potest) ma sull’evidenza pubblicitaria del registro fondiario o del possesso[32].

In quei sistemi, infatti, non esiste lo “scoglio logico” del consenso traslativo, che permette al terzo di recuperare la proprietà dall’avente causa con un’azione di carattere personale fondata sul contratto fra lui e il dante causa.

Tale aporia, allora, potrebbe anche valere come dimostrazione definitiva della bontà della prima tesi, che rimuove in radice il problema restringendo il raggio d’azione dell’art. 111 c.p.c. alle azioni reali. Dopotutto, è comune l’affermazione per cui l’articolo 111 c.p.c. contempli un’ipotesi di sostituzione processuale, di scollamento, di divaricazione fra titolarità della situazione sostanziale e legittimazione, che non si ravvisa nelle ipotesi di azioni personali (dove il convenuto dante causa non è, di certo, sostituto dell’avente causa) e, quindi, è lecito supporre che, in tali casi, non si ricade nel concetto di successione a titolo particolare nel diritto controverso.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come si declinino tali ragionamenti in materia di cessione del credito nel corso del giudizio pauliano.

In questo quadro, la riduzione dell’azione pauliana al “sistema” delle impugnative negoziali e dei suoi rapporti con l’art. 111 c.p.c. è problema irto d’aculei.

Il nesso di pregiudizialità/dipendenza in questione, infatti, non è quello che corre fra contratto di cessione del credito ed esistenza del credito acquistato dal terzo cessionario, ma fra atto dispositivo del debitore e diritto del creditore alla garanzia patrimoniale. Ora, però, dire diritto alla conservazione della garanzia patrimoniale equivale a dire diritto alla revoca dell’atto fraudolento, ricadendo, così, nel concetto di azione revocatoria quale diritto autonomo geneticamente estraneo alla causa del credito[33].

6.(Segue). La responsabilità patrimoniale come sintesi verbale dei multiformi poteri attribuiti al creditore.

Nei precedenti paragrafi abbiamo dato conto di alcuni problemi applicativi posti dalle nozioni di responsabilità patrimoniale, potere del creditore e mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale.

Si è visto che il concetto di “garanzia patrimoniale” viene considerato dalla Cassazione in un’accezione sostanziale, ed elevato a elemento costitutivo del rapporto obbligatorio; che la revoca dell’atto per frode è uno dei tanti strumenti giudiziali a presidio di essa; che il debitore, disponendo ultra vires o, come anche si dice, non liberatus, viola un dovere di sana e prudente gestione patrimoniale inerente all’obbligazione[34].

Tuttavia, la nostra opinione è che sia da preferire quella dottrina che, degradata la garanzia patrimoniale a “null’altro che la sintesi di tutti i poteri spettanti al creditore”, riconosce nell’azione revocatoria (e negli altri mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale) una delle tante armi dell’arsenale giuridico del creditore, ulteriori ed aggiuntive rispetto alla normale azioni di condanna e di espropriazione[35].

In primo luogo, va considerato che l’origine storica dell’azione pauliana si rinviene fra i rimedi di “equità” della giurisdizione pretoria, estranei rispetto al diritto civile (e, quindi, all’obligatio)[36].

In secondo luogo, va tenuta in debito conto la rilevanza giuridica dello stato soggettivo del terzo che, qualificando giuridicamente l’interesse del creditore alla revoca, sposta il centro di gravità del fatto (e, quindi, il fundamentum actionis) dal titolo costitutivo dell’obbligazione al congegno fraudolento voluto e messo in azione dal debitore e dall’extraneus.

L’interesse del creditore ad accrescere la garanzia del suo credito, infatti, è potenzialmente illimitato e ha una mera rilevanza di fatto: il creditore non potrà mai valutare sufficiente alla soddisfazione delle sue ragioni il patrimonio netto del debitore prima dell’apertura di un formale concorso in cui venga accertato il rapporto fra attivo e passivo. Non esiste un sistema pubblicitario dello stato patrimoniale del soggetto giuridico[37]. Le altrui pretese creditizie e il loro ammontare, infatti, sono sempre un’incognita per il creditore, che non può avere contezza legale della complessiva esposizione debitoria e di un eventuale stato di squilibrio[38].

L’elemento soggettivo che anima l’atto dispositivo torna ad essere, pertanto, l’unico tertium comparationis per stabilire quando, nel conflitto degli interessi fra debitore disponente e creditore, la pretesa di revoca sia meritevole di una qualche veste giuridica: la generale libertà dispositiva del debitore, va ripetuto, non viene meno con l’assunzione dell’obbligazione né, tantomeno, sarebbe giusto e opportuno imporre un blocco indiscriminato nella circolazione per il solo fatto della provenienza di un certo bene da soggetto obbligato. E, nel caso eccezionale di frode, ecco che il legislatore concede la revoca dell’atto. L’interprete fedele al sistema, pertanto, non può che includere tale potere fra i mezzi di repressione del dolo, a tutela del creditore e dell’onestà dei traffici commerciali; rimedio “esterno” al diritto comune dell’esecuzione civile.

Come giustamente è stato rilevato in sede di teoria generale “sul piano giuridico positivo [è] assurda la nozione di un potere o di una facoltà il cui esercizio è condizionato alla esistenza di un determinato stato soggettivo di altra persona[39], come vorrebbe la tesi che radica nello stesso credito (o nella “garanzia patrimoniale”) il potere revocatorio, degradandolo da diritto a “facoltà”, ma condizionandone l’esercizio all’elemento soggettivo della frode in capo al terzo.

Fondare la pauliana ordinaria sull’elemento soggettivo del debitore e, in particolare, del terzo,  significa anche annoverare il rimedio fra le azioni personali, perché fondate sulla concreta vicenda di fatto, che il giudice deve assumere come una specie unica nel suo genere. Questo particolare carattere del rimedio si apprezza, a nostro giudizio, anche considerando che la proposizione e l’eventuale accoglimento dell’azione pauliana potrebbe essere foriera di conseguenze anche sul piano della reputazione e del buon nome (commerciale e non) dei convenuti che, diffusasi la notizia del processo per frode, perderebbero o diminuirebbero il loro credito su piazza[40].

[1] L’orientamento attuale è stato da ultimo ribadito con ordinanza da Cass., sez. III – 12/07/23, N° 19865 (Pres. Sestini; Rel. Condello), in De Jure, secondo cui “in tema di azione revocatoria, qualora la parte attrice ceda il proprio credito durante la controversia, il cessionario può intervenire nel processo ai sensi dell’art. 111 c.p.c., quale successore nel diritto affermato in giudizio, poiché con la domanda ex art. 2901 c.c., si esplica la facoltà del creditore – che costituisce contenuto proprio del suo diritto di credito (presupposto e riferimento ultimo dell’azione esercitata) – di soddisfarsi su un determinato bene nel patrimonio del debitore”.

[2]  La cartolarizzazione dei crediti è uno strumento mediante il quale l’impresa utilizza il proprio portafoglio crediti come mezzo per sopperire alle proprie esigenze finanziarie, facendo ricorso al mercato finanziario. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’impresa in questione è una banca, che si avvale di tale operazione per “depurare” il proprio bilancio dai rischi riguardanti le concrete possibilità di realizzo dei crediti ceduti, avvenendo, infatti, la cessione pro soluto. L’operazione di cartolarizzazione dei crediti è disciplinata dalla L. 130/1999 e consiste in una cessione di crediti pecuniari in massa, vale a dire “individuabili in blocco” (art.1). La cessione può avvenire sotto le più svariate forme, anche mediante sottoscrizione e acquisto di obbligazioni, cambiali finanziarie e altri titoli di debito da parte della società emittente. Essa, in particolare, è una “società veicolo” (SPV), avente per oggetto esclusivo il compimento di tali operazioni (art. 3, co. 1). Quest’ultima procede ad emettere obbligazioni destinate ad essere offerte al pubblico e che saranno liquidate con le somme incassate dal pagamento dei debiti ceduti. Ad agevolare l’operazione, l’art. 4, co. 1, L. 130/99 estende alle società di cartolarizzazione il beneficio pubblicitario di cui all’art. 58 T.U.B., in tema di cessione in blocco di crediti a banche.

Ad oggi, è in corso di esame in VI Commissione Finanze della Camera, la proposta di legge C. 843, presentata il 31 gennaio 2023 e recante “Disposizioni per agevolare il recupero dei crediti in sofferenza e favorire e accelerare il ritorno in bonis del debitore ceduto”. Con essa si intende permettere al debitore ceduto “in massa” di liberarsi dall’obbligazione rimborsando al cessionario quanto da questi versato al cedente per l’acquisto del credito, maggiorato di un premio in percentuale rispetto all’esborso. Tale regola costituiva diritto positivo sotto l’imperio del Codice Pisanelli che, all’art. 1546, prevedeva che “quegli contro cui fu da altri ceduto un diritto litigioso, può farsi liberare dal cessionario, rimborsandolo del prezzo reale della cessione colle spese e coi legittimi pagamenti, e cogli interessi dal giorno in cui il cessionario ha pagato il prezzo della cessione” (retratto litigioso) recependo il contenuto dell’antica Lex Anastasiana, costituzione adottata dall’Imperatore bizantino Anastasio per evitare che affaristi di pochi scrupoli facessero incetta di crediti litigiosi (redemptores litium). In merito alla mancata recezione di tali regole da parte del Codificatore del ’42, la Relazione al Codice Civile N° 578 precisa che tale abolizione, “già intervenuta nel campo delle obbligazioni commerciali, poteva senza danno estendersi a quello delle obbligazioni civili, dato che il nuovo clima delle relazioni giuridiche ne aveva ridotto l’applicazione a casi rarissimi e quasi mai meritevoli del trattamento della legge anastasiana: la litigiosità del credito ceduto dà luogo ad un’alea, e questa merita un adeguato compenso in una riduzione del prezzo della cessione”.

La cessione dei crediti solleva alcune questioni morali e etiche: in alcuni casi, i cessionari possono acquistare crediti a prezzi molto bassi, specialmente quando i debitori sono in difficoltà finanziarie, o sfruttare la situazione di vulnerabilità dei debitori per ottenere profitti eccessivi rispetto agli interessi concretamente in gioco.

[3] Sulla qualificazione dell’intervento del creditore nel giudizio pauliano inter alios come intervento litisconsortile, cfr. Cass., sez. III, 07/03/2017, N° 5621, in De Jure, secondo cui “Nell’iipotesi di intervento di un terzo creditore nel giudizio promosso da altro creditore per ottenere al revoca ai sensi dell’art. 2901 c.c., del medesimo atto dispositivo patrimoniale pregiudizievole delle ragioni creditorie di entrambi (attore ed interventore) compiuto in epoca successiva al sorgere dei rispettivi crediti, l’intervento è da reputarsi adesivo autonomo, con la conseguenza che l’interventore ha il diritto di impugnare la sentenza ad esso sfavorevole”, poiché egli “pur facendo valere un diritto non relativo all’ “oggetto” del giudizio, essendo diverso il credito di cui si chiede tutela rispetto a quello già dedotto dall’attore, dipende però dal “titolo” originario della controversia, inerendo allo stesso fatto giuridico generatore del rapporto dedotto in giudizio (il diritto potestativo di revoca ex art. 2901 c.c.), così da palesarsi come rapporto giuridico ad esso connesso per dipendenza”. E’ da notare, certamente, l’identificazione dell’oggetto del giudizio pauliano con il “diritto potestativo alla revoca ex art. 2901 c.c.”, smentito dai recenti arresti. Sulla posizione dei creditori concorrenti in executivis, cfr. Cass., SS.UU., 07/01/2014, n° 61 (Pres. Rovelli – Rel. Spirito) in Riv. dir. proc., 2014, 481, con nota di Capponi, Le Sezioni Unite e l’«oggettivizzazione» degli atti dell’esecuzione forzata; in Corr. Giur., 2014, 971, con nota di Metafora, Le Sezioni Unite e la sorte dell’espropriazione in caso di caducazione del titolo esecutivo; in Riv. Esec. Forz., 2014, 191, con nota di G. Monteleone, Noterelle sulla sentenza della Cass., S.U., 7-1-2014, N. 61; Pilloni, L’esecuzione forzata: tra oggettivizzazione degli atti esecutivi ed esigenze di efficienza della giurisdizione esecutiva; Russo, Le conseguenze dell’oggettivizzazione (del pignoramento). Ricadute sull’intervento nell’esecuzione forzata della decisione Cass., S.U., 7-1-2014, n. 61; V. Monteleone, L’oggettivizzazione del pignoramento: tramonta la concezione astratta del titolo esecutivo?. La pronuncia da ultimo citata, parifica tout court le posizioni soggettive dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo a quella del creditore procedente o che ha eseguito un pignoramento successivo, poi riunito, considerando essi, pertanto, alla stregua di interventori autonomi. Alcune riserve possono essere formulate rispetto alla qualifica di adesivo dell’intervento del creditore concorrente, sia nel giudizio di cognizione che nel procedimento esecutivo: il creditore interveniente certamente mira allo stesso scopo del creditore procedente ma, in caso di distribuzione forzata, si troverà in conflitto con lui e con gli altri creditori. Sul punto, cfr. Garbagnati, Azioni esecutive e fallimento, Fallimento ed azioni dei creditori, in Trim., 1960, 371, secondo cui “si può anche ammettere che quando un imprenditore commerciale non appare più in grado di attingere al proprio patrimonio i mezzi con cui provvedere al regolare adempimento dei suoi obblighi, si profili un interesse dei suoi creditori, collettivamente considerati, ad un’attuazione unitaria della sanzione espropriativa su tutti i beni del comune debitore, tale da garantire che il sacrificio derivante dalla presumibile eccedenza del passivo sull’attivo fallimentare si ripartisca paritariamente fra tutti i creditori, e che nessun singolo creditore (…) possa realizzare coattivamente il suoi diritto, in misura proporzionalmente superiore a quella, in cui vengono realizzati i diritti degli altri creditori. (…) Ma (…) è altrettanto vero che mediante l’espropriazione dei beni del fallito si persegue, in via immediata, il soddisfacimento dell’interesse individuale dei creditori alla tutela giurisdizionale, in via esecutiva, del loro diritto” ; Satta, Diritto fallimentare, Torino, 1996, 315, secondo cui l’intervento dato al creditore concorrente nell’esecuzione singolare “è sostanzialmente in opposizione al creditore pignorante”.

[4] Cfr. Cass., Sez. III, 22/06/2022, N° 20315 (Pres. De Stefano – Rel. Rossetti), in Ilprocessocivile.it , con nota di L. Conte, Riflessioni sull’efficacia ultra partes della sentenza revocatoria in favore del cessionario del credito; in Diritto e Giustizia, 2022, con nota di Bencini, Il cessionario del credito beneficia degli effetti della revocatoria ordinaria promossa dal cedente?, di cui si darà conto in seguito.

[5] Come ben noto, la facoltà è una semplice manifestazione esterna del diritto soggettivo e, pertanto, non è “una situazione soggettiva autonoma ma uno dei modi attraverso i quali può esercitarsi il diritto: essa dunque forma parte del contenuto del diritto” (cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2014, 58). Ne consegue che, non essendo il credito oggetto necessario della sentenza di revoca, l’azione pauliana ha natura meramente processuale (sul punto, cfr. Cirulli, Profili processuali dell’azione revocatoria,  Pisa, 26 ss.).

[6] Cfr. Cass., Sez. I, 21/06/2000, N° 8419 (Pres. Reale – Rel. Di Amato), in Foro It., 2001, 1666, con nota di Tarzia, L’interesse ad agire ed il «danno» come condizioni, o presupposti di merito, dell’azione revocatoria fallimentare; in Dir. Fall., 2001, 1234, con nota di Rago, Un fuorviante obiter dictum in tema di revocatoria fallimentare, in Fall., 2001, 755, con nota di Limitone, La revocatoria fallimentare nella concorsualità sistematizzata, secondo la quale “L’interesse all’azione revocatoria fallimentare di un contratto di locazione di immobile stipulato dal fallito viene meno se, nelle more del giudizio, l’immobile sia alienato dalla procedura, salva restando un’eventuale azione risarcitoria verso il conduttore per il minore realizzo conseguito in ragione dell’esistenza del contratto”.

[7] Cfr. Cass., sez. III, 12/12/2017, N° 29637 (Pres. Di Amato – Rel. Positano), in De Jure, secondo cui “Nell’azione revocatoria il diritto controverso è quello all’inefficacia dell’atto e non il diritto di credito, sicché il cessionario del credito non subentra automaticamente nel diritto controverso, non trovando applicazione l’art. 111 cod. proc. civ.”.  Detta sentenza dà seguito a Cass. Sez. I, 04/12/2014, N° 25660 (Pres. Forte – Rel. Di Virgilio), in De Jure; Cass., Sez. I, 22/07/2014 (Pres. Ceccherini – Rel. Didone), in Fall., 2015, 894, che entrambe parlano di “diritto all’inefficacia” quale base della pauliana ordinaria e fallimentare.

[8] Nonché dalla recente Ord. 19865/23, cit.

[9] L’argomento muove dalla premessa (maggiore) secondo cui per effetto della cessione, il credito è trasferito al cessionario con i privilegi ad esso inerenti (art. 1263 c.c.). Viene addotto che l’azione revocatoria è un privilegio (premessa minore), poiché del privilegio condividerebbe lo scopo (di garanzia) e la collocazione topografica (Tit. III, Libr. VI, C.C.). La conclusione è che, per effetto della cessione, con il credito si trasferisce anche l’azione revocatoria, in virtù di un’interpretazione estensiva della parola “privilegi” di cui all’art. 1263 c.c.

L’argomento è contestabile. La premessa minore è errata. Privilegi e revoca hanno scopi differenti: con i primi, il legislatore sostanziale disciplina a monte l’ordine delle aggressioni esecutive sul patrimonio del comune debitore; con la seconda, è concesso al creditore di agire ultra vires, in caso di fraudolente disposizioni di beni o assunzioni di obbligazioni. Che, per effetto dell’accoglimento della revoca, il creditore revocante sia preferito a tutti gli altri è un aspetto particolare della revocatoria ordinaria poiché, in caso di accoglimento della pauliana fallimentare, “Colui che per effetto della revoca prevista nelle disposizioni precedenti ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito” (art. 71 L.F., oggi art. 171 C.C.I.). Quanto alla collocazione topografica del rimedio, basterà evidenziare che la stessa intitolazione del Tit. III, Libr. VI, C.C. (“Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale”), distingue le cause di prelazione dai mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale che, infatti, sono disciplinati sotto capi distinti, anche molto lontani fra loro (rispettivamente, il Cap. II e il Cap. V). Pertanto, la conclusione è apodittica, quindi arbitraria.

[10] L’argomento è fallace. Esso si basa sulla premessa (maggiore) dell’identica natura dei privilegi del credito e dei privilegi per spese per atti conservativi o di espropriazione ex art. 2755 c.c. Viene addotto (premessa minore) che per effetto della cessione, il credito è trasferito al cessionario con i privilegi ad esso inerenti (art. 1263 c.c.). La conclusione è che la cessione del credito trasferisce al cessionario l’azione pauliana del cedente. Ad ulteriore riprova della bontà della tesi, viene prospettato il “paradosso” del credito ceduto che conserva privilegio per le spese dell’azione, senza trasferire i benefici della stessa.

Il privilegio si basa sulla causa del credito, vale a dire, sul particolare rapporto che ha originato l’obbligazione, valutato dal legislatore sostanziale meritevole al punto tale da sottrarlo alla falcidia del concorso. Non tutti i crediti sono privilegiati (se tutti lo fossero, non lo sarebbe nessuno), ma tutti i crediti possono essere azionati in via esecutiva o cautelare. In tal caso, le spese degli atti esecutivi o cautelari hanno privilegio sul prezzo dei beni colpiti, indipendentemente dalla causa del credito azionato. I privilegi per le spese di giustizia, allora, non originano dal credito, ma dagli atti processuali, e nulla hanno a che vedere coi privilegi del credito trasferito di cui all’art. 1263 c.c. Sul punto, cfr. Corte Cost., 16/07/04, N° 232 (Pres. Onida – Rel. Vaccarella), in Riv. Dir. Proc., 2005, 583, con nota di De Vita, Provvisoria esecutività della sentenza, capi accessori, condanna alle spese: la Consulta interviene; in Riv. Es. Forz., 2005, 757, con nota di Capponi, Autonoma esecutorietà dei capi condannatori non di merito, secondo cui la pronuncia sulle spese non costituisce una condanna accessoria alla condanna principale, avente ad oggetto il credito azionato, ma un mero “corollario” della sentenza. A ciò potremmo aggiungere che l’art. 2755 c.c. limita la sua portata agli esborsi anticipati “nell’interesse comune dei creditori”. Che interesse hanno i creditori concorrenti al buon esito di una revocatoria inter alios, a parte il fatto che il creditore revocante non concorrerà sul patrimonio del debitore?

[11] Anche qui, la struttura argomentativa della motivazione è controvertibile. Si muove dalla premessa (maggiore) che per effetto della cessione del credito viene trasferito anche il pignoramento. Si adduce la premessa minore che azione revocatoria e pignoramento sarebbero sostanzialmente la stessa cosa, poiché entrambe volti ad “evitare la dispersione della garanzia patrimoniale”, per concludere che il trasferimento del credito trasferisce il giudizio revocatorio pendente. Una contraria interpretazione – viene aggiunto – contrasterebbe col “canone ermeneutico dell’interpretazione sistematica”.

In verità, fra azione espropriativa e azione revocatoria non vale una sorta di “proprietà commutativa”, come l’argomento in confutazione vorrebbe indurci a pensare. L’azione esecutiva non è volta ad evitare la dispersione della garanzia patrimoniale, ma a realizzare coattivamente l’interesse del creditore insoddisfatto. Più in particolare, lo stesso atto di pignoramento, primo atto della serie esecutiva, è rivolto soltanto di riflesso ad “evitare la dispersione della garanzia patrimoniale”, essendo finalizzato, inter alia, ad identificare in modo specifico i beni da espropriare. Sull’altro fronte, l’azione revocatoria non realizza coattivamente l’interesse del creditore insoddisfatto. A prova di ciò basterà evidenziare che, per agire in revoca, è sufficiente una ragione di credito, anche sottoposta a condizione o a termine o addirittura, per maggioritaria dottrina e giurisprudenza consolidata, meramente eventuale.

[12] La petizione di principio è ampia a tal punto da ammettere il rovesciamento di essa nel suo contrario. Il cessionario del credito, infatti, non subentra nelle azioni che riguardano la fonte del credito. Se si può discutere in ordine all’azione di nullità (stante l’art. 1421 c.c.), è pacifico che la cessione non trasferisca le azioni di annullabilità, rescissione e risoluzione (cfr. Perlingieri, Della cessione dei crediti (Art. 1260 – 1267), in Comm. Scialoja-Branca, 1982, 154). Ad esempio, in assenza di un patto apposito il cessionario non ha diritti al risarcimento di danni eventualmente dovuti dal ceduto al cedente vittima di violenza o dolo incidentali (art. 1440 c.c.), trattandosi di azioni inerenti al contratto quale fonte del credito, al quale il cessionario è indubbiamente estraneo. Ugualmente a dirsi per l’azione di risoluzione, rispetto alla quale il cessionario è terzo, sia perché il fatto risolutivo può verificarsi successivamente alla cessione, sia perché, l’azione non si basa sul contratto di cessione, ma sul rapporto sinallagmatico. Secondo Cass., sez. III, 06/07/2018, N° 17727 (Pres. Chiarini – Rel. Cigna), in De Jure, “Mentre la cessione del contratto opera il trasferimento dal cedente al cessionario, con il consenso dell’altro contraente, dell’intera posizione contrattuale, con tutti i diritti e gli obblighi ad essa relativi, la cessione del credito ha un effetto più circoscritto, in quanto è limitata al solo diritto di credito derivato al cedente da un precedente contratto e produce, inoltre, rispetto a tale diritto, uno sdoppiamento fra la titolarità di esso, che resta all’originario creditore-cedente, e l’esercizio, che è trasferito al cessionario. Dei diritti derivanti dal contratto, costui acquista soltanto quelli rivolti alla realizzazione del credito ceduto, e cioè, le garanzie reali e personali, i vari accessori e le azioni dirette all’adempimento della prestazione. Non gli sono, invece, trasferite le azioni inerenti alla essenza del precedente contratto, fra cui quella di risoluzione per inadempimento, poiché esse afferiscono alla titolarità del negozio, che continua ad appartenere al cedente anche dopo la cessione del credito. (In applicazione del principio la S.C. ha escluso la legittimazione del cessionario del diritto di credito risarcitorio derivante da precedente contratto di appalto ad esercitare l’azione di risoluzione per inadempimento di tale contratto, potendo egli esperire l’azione di adempimento del credito ceduto). Si potrebbe allora dire che, in linea di principio e salve le specificità dei casi e degli istituti, il cessionario di un credito non è mai tanto creditore quanto lo fosse il cedente.

[13] Dire che la revoca deve per forza sopravvivere al trasferimento perché, altrimenti, resterebbe vanificata l’attività processuale, è affermazione più da legislatore che da interprete. Senza solidi argomenti a sostegno della tesi, non si può ricorrere ad un argomento “di contorno”.

[14] Cfr. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, cit., IV, 209; Bianca, Diritto civile, cit., V, 437.

[15] Cfr. Chiovenda, Istituzioni, cit., I, 140.

[16] Sul punto la bibliografia è sterminata. Fra i tanti, cfr. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1997, 135, secondo cui, nei casi di modificazione giuridica che segue all’esercizio della giurisdizione, “la fattispecie costitutiva è integrata, oltre che dal fatto e dalla manifestazione di volontà del soggetto (sotto forma di atto di citazione), anche dalla sentenza”; Proto Pisani, La trascrizione delle domande giudiziali, secondo cui il giudizio costitutivo sarebbe un “procedimento complesso, i cui momenti essenziali possono essere così individuati: a) una situazione giuridica preesistente da modificare, situazione la quale, per il fenomeno della relatività della fattispecie, ha rilevanza di elemento di fatto nella fattispecie produttiva del potere sostanziale alla modificazione e della modificazione stessa; b) un fatto (dolo, errore, violenza, inadempimento, stato di lesione o di pericolo, consilium fraudis ed eventus damni ecc.) distinto dalla situazione giuridica preesistente, ma che insieme ad essa completa la fattispecie costitutiva del: c) potere sostanziale alla modificazione, oggetto del processo, l’accertamento della cui esistenza determina: d) la modificazione giuridica della preesistente situazione sostanziale”. Fra chi nega la ricostruzione in termini di fattispecie complessa, cfr. Ferri, Profili dell’accertamento costitutivo, Padova, 1970, 219, il quale, a chi richiede una reciproca integrazione fra sentenza e atto di esercizio del diritto, replica che “per giustificare tale affermazione non ci si potrebbe, tuttavia, richiamare alla teoria della cosiddetta doppia fattispecie, elaborata dal Seckel, e secondo la quale il negozio giuridico, atto di esercizio del diritto potestativo, e la sentenza, costituiscono due fattispecie congiuntamente necessarie per il verificarsi dell’effetto costitutivo, talché l’una integrerebbe l’altra (…). Infatti, questa concezione presuppone erroneamente che l’esistenza stessa del diritto potestativo e non la sua affermazione costituisca l’elemento indispensabile per la produzione dell’effetto finale. Una tale prospettiva (…) non è accettabile perché pone, aprioristicamente, l’esistenza del diritto quale presupposto di efficacia della sentenza, talché l’attività giudiziale diretta al suo accertamento assume un ruolo del tutto secondario”; Cerino Canova, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario al Codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, Torino, 1980, 152, secondo cui “Critiche non diverse [vale a dire, “insuperabile discrasia tra contenuto ed efficacia della sentenza”] possono essere dirette contro quella concezione che imputa l’effetto costitutivo della fattispecie composta da domanda giudiziale e sentenza. E’ agevole obiettare che proprio l’Autore [n.d.r., il Seckel], il quale una siffatta tesi ha proposto, riconosce espressamente la sola rilevanza della pronuncia modificativa quando la domanda sarebbe inefficace per difetto di diritto «potestativo»; vale a dire, riconosce che l’efficacia deriva dalla sentenza ed esclusivamente da questa”. Come sottolinea Cirulli, op. ult. cit., Pisa, 46, in modo chiaro e sintetico, “la sentenza presuppone la domanda, che non determina l’effetto, ma lo postula”.

[17] La teoria del pegno o dell’ipoteca generale risale al Rocco, Studi sulla teoria generale del fallimento, in Riv. Dir. Comm., 1910, 669, 855. La base della teoria è l’idea che “quando si dice che il credito personale si basa sulla persona, si ha riguardo all’uomo o come possessore o come produttore di beni economici, in quanto insomma abbia per una ragione o per l’altra la disponibilità o l’aspettativa della disponibilità dei beni occorrenti per la controprestazione. L’uomo infatti non soltanto può possedere capitali, ma, in certo senso, può esso stesso essere considerato come capitale”. La teoria è seguita da Pacchioni, Delle obbligazioni in generale, in Diritto civile italiano, II, 1, Padova, 1935, 11, secondo cui “in Schuld è chi deve: in Haftung è chi risponde colla propria persona, o coi propri beni, per l’adempimento di un debito suo proprio, o altrui. Non vi può quindi essere Haftung, se non vi sia Schuld, e quando la Schuld viene meno, cade necessariamente anche l’Haftung; ma viceversa la realizzazione o la estinzione della Haftung non estingue (in antico mai, in seguito per regola) la Schuld, giacché la Schuld è dovere di prestare, dovere che permane finché la prestazione dovuta sia stata eseguita”. Detti autori si rifanno alla nota teoria germanica della distinzione fra Schuld (debito) e Haftung (Responsabilità). Sembra d’accordo anche il Carnelutti, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006, 221, secondo cui “ciò che sta in mezzo nel rapporto di obbligazione e non nel rapporto reale (si intende, tra chi ha il diritto e la cosa) può essere ed è non una azione, ma un altro diritto, e precisamente il diritto reale del debitore su ciò che costituisce l’obbietto dell’obbligazione”. Detta teoria è stata critica dal Barbero, Il sistema del diritto privato, Torino, 1988, 580, secondo cui “di questa teoria non ha mai pienamente convinto la saldatura in tutt’uno – «obbligazione» – della «responsabilità» e del «debito», perché la «responsabilità» propriamente non coesiste col debito, ma succede all’inadempimento ed è soltanto eventuale”. La teoria del pegno generale sembra essere accolta anche dal Satta, L’esecuzione forzata, in Trattato di diritto civile diretto da F. Vassalli, Roma, 1963, 36 ss., secondo cui “l’aver classificato come reale questa responsabilità [n.d.r. la responsabilità patrimoniale], potrà essere, sotto un profilo puramente tecnico, inesatto: ma la formula mette in chiaro ciò che è essenziale, e cioè che tra creditore e debitore non vi è un rapporto diretto, ma il rapporto diretto si stabilisce fra creditore e i beni del debitore. Rapporto diretto significa realità: ma è una realità strumentale, che si concreta, attivamente, nell’azione”. Tuttavia, secondo l’autore da ultimo citato, va respinta la dicotomia Schuld/Haftung per la duplice ragione che i due elementi sono “coessenziali e quindi indissociabili” e che “alla responsabilità non corrisponde alcun diritto particolare del creditore (diritto sui beni), perché essa non fa che esprimere la strumentalità del patrimonio del debitore rispetto al conseguimento del bene”. L’idea che l’azione sia una mera facoltà che si appoggia al diritto sostanziale è sempre di Satta, Diritto, cit., 207, secondo cui “quando si dice che il c.d. diritto del creditore sui beni del debitore, o la c.d. garanzia patrimoniale, non sono che atteggiamenti e fenomeni processuali, perché processuale sarebbe l’azione del creditore: perché quel diritto o quella garanzia non vogliono significare altro che l’assoggettabilità dei beni all’esecuzione forzata; e questa assoggettabilità è chiaramente sostanziale, esprime cioè il potere del creditore di conseguire il bene dovuto (contro la volontà del debitore inadempiente) sul patrimonio del debitore medesimo. Potere del creditore: il che significa che non c’è bisogno di costruire un diritto reale di garanzia o atra posizione sostanziale autonoma; basta ad esaurire e qualificare il fenomeno, il diritto di credito e l’azione che, come avviene per qualunque altro diritto, l’accompagna”. In definitiva, si può dire che la sentenza in rassegna sposa completamente gli assunti dogmatici dell’illustre autore nuorese (cfr. Satta, op. ult. cit., 208, secondo cui “vano è per cercare per essa [n.d.r. l’azione revocatoria] un autonomo fondamento di diritto sostanziale, che non sia il diritto del creditore, e così l’illecito, la nullità, il diritto reale, ecc. Essa è invece, come tutte le azioni, sottoposta a condizioni sue proprie, e queste sono obbiettivamente il pregiudizio che l’atto revocando ha prodotto, subiettivamente la consapevvolezza del pregiudizio da parte del debitore, e, in quanto l’atto sia oneroso, del terzo”).

[18] Come rileva Natoli, Il conflitto dei diritti e l’art. 1380 del Codice civile, Milano, 1950, 39, “è noto che il patrimonio non rappresenta esso stesso un bene, né, salvo certi casi in cui viene appunto immobilizzato agli effetti del soddisfacimento coattivo dei creditori, una massa di beni determinati, ma un complesso variabile di beni. Onde, anche se si volesse ammettere che esso costituisca il comune punto di riferimento di tutti i creditori del suo titolare, tale ammissione sarebbe, per la sua vaghezza, priva di significato agli effetti di una determinazione della rilevanza della così affermata coesistenza dei diritti dei creditori”.

[19] Si discute, addirittura, se si tratti di vera e propria prescrizione o di decadenza. Sul punto, cfr. Cirulli, op. ult. cit., 34, che aderisce alla tesi della decadenza.

[20] E infatti, il Satta, op. loc. ult. cit., , costretto ad affermare che “l’azione ha necessariamente carattere restitutorio”, ammette che “l’anomalia che si suol ritrovare nel fatto che il bene oggetto della restituzione sarebbe del debitore nei confronti del creditore, mentre sarebbe del terzo nei confronti del debitore non è giustificata: ciò che attraverso la revoca si ottiene è il ristabilimento della garanzia, ciò che la sentenza di revoca dichiara è l’inefficacia dell’alienazione compiuta dal debitore a sottrarre il bene alla garanzia del creditore, non la proprietà del debitore, che è un rapporto completamente estraneo al processo. Di qui discende che soggetto passivo dell’esecuzione sul bene oggetto della revoca è sempre il debitore, non il terzo, anche se la legge, per imperfetta elaborazione teorica, fa rivolgere gli atti anche contro il terzo (art. 2910 c.c. e 602 c.p.c.)”.

[21] E difatti, lo stesso Satta, op. ult. cit., 207, riconosce che le azioni conservative della garanzia patrimoniale “non si può dire che procurano al titolare del diritto quod debetur, ma sono gli strumenti (necessariamente processuali) per consentirgli di procurarsi quod debetur”.

[22] Sul punto, cfr. Natoli, op. cit., 38 ss., secondo cui, premesso che si ha un conflitto di diritti in senso tecnico anche per “il fatto che più diritti abbiano per comune punto di riferimento uno stesso bene”, e che la mera comunanza di debitore sia insufficiente a tale fine, critica l’idea di “coloro che si limitano a rilevare questo unico elemento” e “cercano tuttavia, forse inconsciamente, anche un comune punto di riferimento oggettivo e lo trovano nel patrimonio del debitore, sul quale, in definitiva, tutte le obbligazioni di questo sono destinate a trovare soddisfazione in casi di inadempimento (art. 2740)”. Tuttavia, come rileva l’illustre autore, sino a quando non ci si trovi in sede esecutiva, e si sia pervenuti al conflitto “attraverso la esecuzione forzata”, “non si può considerare come comune punto di riferimento oggettivo dei diritti dei creditori il patrimonio (…). Se ciò si facesse, piuttosto che ai diritti attuali dei creditori, si avrebbe riguardo ai loro eventuali succedanei, spostando perciò il problema su un piano diverso”. Oltre a ciò, in riferimento alla possibilità di sperimentare l’azione pauliana indipendentemente dal possesso di un titolo esecutivo, viene evidenziato che la limitazione alla facoltà di disporre dei propri beni “avviene sempre in vista della realizzazione del rapporto succedaneo che può derivare dall’inadempimento [n.d.r., il rapporto processuale esecutivo], e dalla necessità di una realizzazione dell’interesse del creditore in modo diverso dalla prestazione”. In breve, secondo l’autore, può esistere solo conflitto fra azione espropriative e, quindi, il concorso dei creditori è concetto pensabile solo presupponendo la pendenza di un procedimento espropriativo o distributivo.

[23] Cfr. Cass. 8419/00, cit., che ammette l’intervento proprio in ragione della connessione per titolo fra le pretese dell’attore e dell’interveniente, entrambe aventi ad oggetto il diritto all’inefficacia giuridica ed entrambe nascenti da frode e danno. In dottrina, cfr. COSTA, Intervento in causa, voce. dell’Enc Dir., Milano, 1972, che vede casi di intervento litisconsortile “anche (…) nell’intervento di un creditore che interviene nel processo nel quale un altro creditore agisce in surrogatoria o in revocatoria”.

[24] Fuori dal coro Laserra, La responsabilità patrimoniale, Napoli, 1967, 97 ss., secondo cui l’atto revocato è inefficace nei confronti di tutti i creditori posteriori, benché non intervenuti in causa, e non del solo attore vittorioso, considerando la revoca vincolo “a porta aperta”, sulla falsariga del pignoramento.

[25] Sono parole della sentenza, che continua precisando che “si controverte su una facoltà che costituisce contenuto proprio del diritto di credito, quella cioè di potersi soddisfare su un determinato bene presente nel patrimonio del debitore”.

[26] Neppure si può sostenere che egli possa agire in via adesivo-dipendente. Sul punto, cfr. Cass., Sez. II, 15/01/1982, N° 238 (Pres. Caleca – Rel. Bucarelli), in Giur. it, 1982, 1771, con nota di Lenzi, Revocatoria e azione di simulazione; intervento volontario nella pauliana, secondo cui “In un giudizio avente ad oggetto la revocatoria dell’atto compiuto dal debitore in frode dei creditori è inammissibile l’intervento volontario di altro creditore se è limitato a sostenere le ragioni del creditore attore”.

[27] Cfr. Vaccarella, Trascrizione delle domande giudiziali e successione nel diritto controverso, in Trattato della trascrizione, a cura di E. Gabrielli e F. Gazzoni, III, Torino, 2014, passim.

[28] Il nesso di pregiudizialità-dipendenza sta in ciò che la fattispecie costitutiva di un diritto (diritto pregiudicato o dipendente) è costituita, insieme ad altri elementi, a sua volta da un diritto (diritto pregiudiziale).

[29] Per gli aventi causa, valgono le chiare lettere dell’art. 2909 c.c., a mente delle quali “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato, ad ogni effetto, fra le parti i loro eredi e aventi causa”. Per i creditori vale la regola che si rispecchia nell’impugnazione di cui all’art. 404, comma 2, c.p.c., oltre all’evidente ragione che, non avendo immediatamente il creditore diritti sulle cose appartenenti al debitore, è naturale che le vicende che coinvolgono tali beni cadano anche, di riflesso e, soprattutto, di fatto, sulla posizione del creditore.

[30] Alla distinzione fra azioni personali e azioni reali si richiamava anche il Codice Pisanelli, ai fini del riparto di competenza. In particolare, l’art. 90 stabiliva che “L’azione personale e l’azione reale su beni

mobili si propongono davanti l’autorità giudiziaria del luogo in cui il convenuto ha domicilio o residenza” . Come ebbe a precisare il Betti, Diritto processuale civile italiano, Napoli, 2018, 86, tale distinzione non attiene all’azione, ma alle “ragioni che si possono far valere”, e costituisce una “reminiscenza della distinzione romana fra actiones in personam e actiones in rem. Le prime sono ragioni destinate a profilare in giudizio rapporti di obbligazione; le seconde, ragioni che rappresentano rapporti di diritto reale”. Alle eccezioni “personali” fanno riferimento gli artt. 1272 e 1297 c.c., alle “ragioni personali”, invece, l’art. 1306 c.c. senza che, tuttavia, tali concetti vengano contrapposti a corrispondenti “reali”.

[31] Cfr., se vuoi, Attanasio, Coordinate topografiche (e sistematiche) dell’art’2932 c.c., in Rass. Es. Forz., 2020, 879.

[32] Cfr. Falzea, “Apparenza”, voce dell’Enc. Dir., 1958, 688, secondo cui “non è certo da escludere che per quegli ordinamenti nei quali – come in quello tedesco – è assegnato alla traditio un ufficio costitutivo nell’acquisto della proprietà mobiliare, esistendo un elevato indice di probabilità circa la coincidenza fra situazione possessoria e diritto di proprietà, la prima possa assurgere a segno del secondo ed a generare così una fattispecie di apparenza quando ad essa non si accompagni il diritto di proprietà”.

[33] E, difatti, il Redenti, Sui trasferimenti delle azioni civili, in Trim., 1955, 85, dedica un’analisi particolare al tema della cedibilità dell’azione pauliana, che tratta separatamente rispetto alle altre azioni personali. Ad avviso dell’illustre autore, la revocatoria ordinaria sarebbe inseparabile dal credito e, soprattutto, contrattualmente trasferibile, in quanto “presidio amminicolare” del credito. E’ interessante notare che, per il Redenti – che accoglie la summa divisio fra azioni reali (azioni “di interesse propter rem”) e azioni personali –, l’azione pauliana presenterebbe forti analogia con le azioni “trasferibili propter rem”. Il Redenti aggiunge che l’anteriorità del credito rispetto all’atto fraudolento (che, come ben noto, muta in melius il tema probatorio dell’attore in revocatoria) vale anche per il cessionario agendo egli “ex capite del cedente”.

[34] Questo dovere viene fatto, da taluni, derivare dalla clausola generale di buona fede. In dottrina, Betti, Teoria, cit., IV, 206, secondo cui “l’atto dispositivo lesivo è violazione di un obbligo accessorio di conservazione della garanzia patrimoniale e di cautela gestoria oggettivamente controllabile”; Ragusa Maggiore, Contributo alla teoria unitaria della revocatoria fallimentare, Milano, 1960, 128, secondo cui si avrebbe “non violazione di una obbligazione, ma violazione di un dovere accessorio all’obbligazione, che si sostanzia nell’obbligo di correttezza del debitore”. In giurisprudenza, cfr. Trib. Piacenza, 21/03/2022, N° 114 (Giud. Vanini), in De Jure, secondo cui “l’azione revocatoria ordinaria costituisce un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale ed opera mediante la declaratoria di inefficacia di atti che si presentano lesivi della garanzia patrimoniale generica di cui all’ art. 2740 c.c. . La ratio dell’actio pauliana è quella di riservare ai creditori il valore netto del patrimonio del debitore, al tempo dell’assunzione del debito. Tale azione si fonda sul dovere di buona fede oggettiva ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. , che impone al debitore di preservare la garanzia patrimoniale, in presenza di creditori che potrebbero vedere pregiudicata la possibilità di recuperare il proprio credito

[35] Cfr. Sacco, Il potere del creditore di procedere in via surrogatoria, Torino, 1955, 87, che predica l’inesistenza di “un principio di responsabilità come sintesi delle varie norme sull’esproprio, sul sequestro, sull’azione revocatoria, e così via: esiste semplicemente un termine generico, una categoria generica, a cui si dà il nome di responsabilità patrimoniale, o di garanzia generica, per indicare con termine compendioso i multiformi poteri, e ( per chi creda di denominarli così) gli svariati, eterogenei diritti attribuiti al creditore per il soddisfacimento delle sue ragioni”, riferendosi, evidentemente, a quegli “amminnicoli” di cui già il Redenti, op. loc. cit., parlava.

[36] Cfr. il passo di Paolo, pervenutoci attraverso D. 44, 4, 1, secondo cui la considerazione del dolo nel diritto è stata determinata da una ragione morale di equità “ne cui dolus suus per occasionem juris civilis contra naturalem aequitatem prosit”. Cfr. Trabucchi, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, Padova, 1937, 202, secondo cui “esaminando nel diritto romano lo svolgimento a riconoscere valore alla volontà dei soggetti, troviamo che questa progressiva evoluzione non è indipendente da considerazioni d’ordine morale, assegnando come fondamento, o almeno come limite, per il riconoscimento della volontà, oltre, ed all’infuori degli schemi dell’antico diritto, una tal quale esigenza di correttezza nell’agire” e 214, “Quando, con la nuova organizzazione dei mezzi antichi, si tende a proteggere più efficacemente il contraente ingannato, da quei danni che possono derivargli da una sua manifestazione di volontà, è ancora solo per considerazione di equità o di generale giustizia che si vengono a togliere gli effetti ad un atto che di per sé tali effetti avrebbe dovuto invece produrre”. Sull’origine pretorile dell’azione, vedi Talamanca, Azione revocatoria (Dir. Romano), voce dell’Enc. Dir., 1959, 883 ss.

L’idea di una “mitigazione” giudiziale dell’esercizio del diritto soggettivo è condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità. Secondo Cass., Sez. I, 07/03/2007, N° 5273 (Pres. Losavio – Rel. Salvato), in B.B.T., 2007, con nota di Festi, “La “exceptio doli generalis seu praesentis” costituisce rimedio generale diretto a precludere l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento”. Come rileva l’annotatore, “nonostante la scomparsa del dualismo tra le due fonti di diritto che caratterizzava il diritto romano, l’exceptio doli ha mantenuto la caratteristica di rimedio generale diretto ad ovviare alla rigidità di regole espresse”.

[37] In materia commerciale, a ciò non sarebbero sufficienti neppure le scritture contabili che, infatti, in materia fallimentare, non hanno rilevanza determinante. Come rilevava già il Rocco, op. cit., 671, “si deve tener distinto il fallimento dallo spareggio aritmetico o deficit, che è un concetto e un fenomeno puramente contabile. Dal punto di vista contabile, si ha (…) spareggio quando l’attivo risulta inferiore al passivo” pertanto “può trovarsi in perfetto stato di equilibrio economico quel debitore il cui attivo inventariato sia inferiore al passivo, ma che possa disporre di un largo credito dovuto alla sua abilità di imprenditore, alla sua capacità di lavoratore, al margine lasciato dall’interesse dei suoi capitali o dalle rendite delle sue terre, giacché l’aspettativa dei beni futuri che in tal modo gli deriveranno, è a sua volta un bene attuale, realizzabile mediante l’uso del credito”. Ed infatti, ai fini della dichiarazione di fallimento (oggi, “liquidazione giudiziale”), è necessaria la prova di un concreto fatto esteriore dal quale desumere, in base a quanto solitamente accade nelle umane vicende di commercio, l’impotenza del debitore di non soddisfare (e, quindi, il pericolo per il mercato di lasciare insoddisfatta) un’ingente massa di creditori.

[38] Cfr. Sacco, op. ult. loc. cit., “il creditore ha interesse ad aumentare illimitatamente le proprie garanzie; tale interesse sussiste anche al di là dei limiti del pericolo serio, spingendosi alla prevenzione di quel pericolo soltanto ipotetico, improbabilissimo, ed evanescente, che è insito nell’impoverimento o nel mancato arricchimento del più ricco e solvibile fra i creditori”.

[39] Cfr. Falzea, op. cit.,, 692.

[40] Va, però, anche evidenziato – a chiusura della riflessione – che una peculiarità dell’impugnativa revocatoria rispetto alle altre impugnative inter partes è che il soggetto passivo del dolo è il terzo. Il dolo revocatorio, infatti, è generalis e, quindi, è indifferente per il fraudator chi sia la vittima. Ma, certamente, questa ricostruzione, lungi dal muovere dalle riflessioni intorno alla garanzia patrimoniale e alla “consistenza” del rapporto obbligatorio, non solo presuppone la distinzione fra azioni reali e azioni personali, ma addirittura postula la frode quale fondamento dell’azione. In giurisprudenza, da ultimo Cass., Sez. III , 15/10/2021, N° 28423 (Pres. Vivaldi – Rel. Di Florio) “Ai fini dell’azione revocatoria ordinaria è sufficiente la consapevolezza, del debitore alienante e del terzo acquirente, della diminuzione della garanzia generica per la riduzione della consistenza patrimoniale del primo, non essendo necessaria la collusione tra gli stessi, nè occorrendo la conoscenza, da parte del terzo, dello specifico credito per cui è proposta l’azione, invece richiesta qualora quest’ultima abbia ad oggetto un atto, a titolo oneroso, anteriore al sorgere di detto credito”.