Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, c. 15.

Si anticipa qui di seguito - per gentile concessione della Rivista dell’Arbitrato e degli Autori - il testo dei commenti ai principi in materia di arbitrato previsti dalla legge-delega per la riforma della giustizia civile.

Di Benedettelli, Briguglio, Carlevaris, Carosi, Marinucci, Panzarola, Salvaneschi, Sassani -

SOMMARIO: I.- Introduzione (Antonio Briguglio).- II.- Art. 1, c. 15, Lett. a): imparzialità e indipendenza dell’arbitro (Andrea Panzarola).- III.- Lett. b): efficacia immediatamente esecutiva del decreto presidenziale di riconoscimento ed esecuzione del lodo estero (Alessio Carosi).- IV.- Lett. c: provvedimenti cautelari (Andrea Carlevaris).- V.- Lett. d: legge applicabile (Massimo Benedettelli).-  VI.- Lett. e): termini di impugnazione del lodo (Elena Marinucci).- VII.- Lett. f): arbitrato societario (Laura Salvaneschi).- VIII.- Lett. g): translatio iudicii (Bruno Sassani).- IX Lett. h:  nomina degli arbitri da parte della autorità giudiziaria (Antonio Briguglio).

 

 

I.- – Introduzione (Antonio Briguglio)

1.Nessuno potrebbe pensare – al di là delle enunciazioni di tipo giornalistico e salvo forse un giovane funzionario europeo da poco laureato in scienze politiche o in storia – che ritoccare in senso migliorativo la disciplina dell’arbitrato giovi in modo davvero considerevole alla deflazione del contenzioso giudiziario ordinario; così come sarebbe puerile immaginare che gli ospedali pubblici si svuotino sol perché si migliora il servizio catering delle cliniche private.

Ed a nessuno sarebbe sul serio venuto in mente come necessario e tanto meno come urgente tornare a legiferare sull’arbitrato, dopo il vagito utile ma enigmatico del 1983, il “chiariamo i dubbi e modernizziamo ulteriormente” del 1994, la organica e perfino sovrabbondante riforma del 2006, ed in mezzo l’introduzione della apposita disciplina dell’arbitrato societario e qualche cosa d’altro. Perché i dubbi e le incertezze e le possibili linee di miglioramento emergono ogni giorno dal confronto fra legge e vita reale, ma non perciò deve provvedersi seduta stante ed a getto continuo a dettare norme apposite, men che meno quando si tratti, come per l’arbitrato, di meccanismi di risoluzione delle controversie e perciò di regole del gioco, le quali – diversamente da quelle “sostanziali” – hanno più necessità di sedimentare ed essere assimilate nelle abitudini degli operatori (anche attraverso chiarimenti giurisprudenziali se possibile univoci), di quanto non ne abbiano di seguire a ruota l’evolversi della esperienza socioeconomica.

Sennonché, quando – e la vicenda è da tutti risaputa – dalla pandemia si è passati al recovery, e dal recovery alla pressante richiesta europea di una (per noi ennesima) rapida riforma generale della giustizia civile nell’immancabile obiettivo dell’efficientamento, accelerazione ecc., la ormai nota “Commissione Luiso”, con lodevole rispetto di tempi incredibilmente contingentati, e poi il Ministero ed il Parlamento, con variazioni solo marginali, per ciò che qui interessa, rispetto alle proposte della Commissione, hanno varato una legge di delega, la n. 206 del 21 novembre 2021, che all’art.1, c. 15 ha toccato e tutt’altro che banalmente anche l’arbitrato.

Lo ha fatto – palesemente – senza illusioni di efficientismo, deflazione ed accelerazione di portata generale, ma sì avendo ragionevolmente di mira una tutela più effettiva e più fair dei diritti soggettivi davanti agli arbitri (e cioè nella pur ristretta clinica privata arbitrale).

Lo ha fatto – anche in tale prospettiva – senza cure da cavallo, estranee del resto alla legge di delega anche sul versante della giustizia togata. E su quest’ultimo versante sicuramente le cure da cavallo, specie di ordine organizzativo e non soltanto processualistico, ci sarebbero volute eccome!  Mentre sul nostro versante una accelerazione drastica, ad esempio, dei tempi della complessiva vicenda arbitrale poteva aversi, ben più che attraverso il semplice dimezzamento del termine lungo per l’impugnazione del lodo, mediante l’affidamento di tale impugnazione (di legittimità ed a critica vincolata) direttamente alla Corte di Cassazione, secondo il plausibile suggerimento della “Commissione Alpa”, precedentemente affaccendatasi con le ADR.

Lo ha fatto dettando principi di delega, i quali (salvo, a mio sommesso avviso, quello sulla ricusazione “per gravi ragioni di convenienza”, ben poco adatto al costume italico che ne trarrà sovente strumento di sabotaggio), al pari della maggior parte di quelli dettati sul versante della giustizia ordinaria, sono almeno in astratto condivisibili.

Sicché in definitiva non ci si può dolere (e del resto non si saprebbe ormai dove, visto che la legge di delega è sufficientemente chiara e decifrabile) che, partito l’autobus per contingenza inevitabile, o comunque ritenuta tale, di una riforma generale della giustizia civile, vi abbia trovato posto anche una cauta quarta o quinta (se contiamo l’arbitrato societario) riforma dell’arbitrato di cui non si sentiva impellente bisogno.

Sostanzialmente condivisibili in astratto i principi della delega, molto dipenderà però dalla legislazione delegata di essi attuativa, perché le opzioni possibili, negli spazi intenzionalmente aperti dalla delega ed anche in quelli socchiusi o in quelli solo apparentemente chiusi, sono numerose ed assai delicate.

Ed è perciò che gli Autori dei commenti che seguono, dedicati a ciascuna delle lettere dell’art. 1, c. 15 della legge di delega, e dunque a ciascuno dei suddetti principi, si propongono non solo e non tanto di valutare i medesimi in astratto, bensì anche di suggerire percorsi, motivazioni e soluzioni per l’attuazione della delega; lavoro questo che il Ministero competente ha già avviato anzitutto mediante chiamata a raccolta di apposita commissione articolata in sottocommissioni (e forse una sottocommissione esclusivamente vocata all’arbitrato senza sovrapposizione con le altre ADR non avrebbe guastato).

2.      Alcuni principi di delega lasciano ampio margine al delegato. Ed è a mio avviso giusto che sia così, senza per altro rischi di censure di indeterminatezza, perché il tema è comunque ben circoscritto e si tratta poi di tener conto delle specifiche peculiarità dell’arbitrato: ad esempio quanto alla translatio iudicii fra arbitro e giudice e viceversa (c. 15, lett. g)).

Particolare utilità assumono dunque le acute riflessioni prospettiche, in proposito, di Bruno Sassani, ben consapevoli del resto di un dibattito – precedente e successivo alla nota sentenza della Consulta che schiuse il varco prima sbarrato – di cui egli stesso è stato protagonista.

Forme della iniziativa di translatio (non necessariamente quelle tecnicamente “riassuntive”), termini, coordinamento col sistema delle preclusioni (semi-rigide di fronte al giudice, pressoché assenti innanzi agli arbitri), nonché quello assai complesso del rapporto fra translatio e sindacato impugnatorio della declinatoria di competenza, sono i temi principali, ma non i soli, con cui Sassani si confronta.

3. Se nell’ambito appena cennato l’esercizio della discrezionalità del legislatore delegato può svolgersi, nonostante lo spazio notevole che gli è assegnato, con una certa tranquillità, bastando in fin dei conti essere attenti, tecnici e razionali, altri principi di delega – sicuramente ed in larga misura condivisibili – pongono tuttavia al delegato non solo margini di scelta, ma autentici enigmi.

Così è a dirsi per il principio di cui al c. 15, lett.a), sacrosanto nella enunciazione, appunto, “di principio” (rafforzamento delle garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro), quanto problematico riguardo alla introduzione normativa della disclosure. O meglio – poiché anche il duty to disclose in capo agli arbitri è in sé sacrosanto – quanto alla interrelazione fra la disclosure ed il nuovo motivo di ricusazione “per gravi ragioni di convenienza”, improvvida aggiunta, quest’ultima, governativa e parlamentare rispetto alla saggezza in proposito silente della “Commissione Luiso”; improvvida nell’an per ciò che ho già segnalato in apertura, ma soprattutto improvvida nel quomodo perché nell’aggiungere quel motivo indeterminato (e buono, come ho altrove rammentato, a veicolare le richieste di ricusazione più pretestuose) ci si è dimenticati di indirizzare il legislatore delegato ad un ragionevole coordinamento con la disclosure e cioè con l’obbligo di dichiarare al momento della accettazione della nomina “circostanze che, ai sensi dell’art. 815 del codice di procedura civile” [ma quale ? quello di ora senza il motivo indeterminato aggiunto, o quello di domani con quel motivo ?] “possono essere fatte valere come motivi di ricusazione”. Il fatto è che il motivo di ricusazione pretestuoso (“ti ricuso, per gravi ragioni di convenienza, perché sei coautore di un commentario con l’avvocato di una parte”) aduggia sì il procedimento arbitrale ma al postutto è sufficiente che il giudice lo rigetti. Più complesso è invece il caso della deduzione, sub specie di violazione del dovere di disclosure, della mancata segnalazione di circostanze ipoteticamente rientranti in quel motivo indeterminato. E ciò non tanto in relazione alla prevista “invalidità della accettazione” per radicale omissione della disclosure, quanto in relazione e alla prevista “decadenza” per disclosure reticente (sanzioni entrambe, e nel loro rapporto reciproco, già di per sé declinate in modo problematico dal principio di delega). In proposito mi sembrano dunque preziose – per il legislatore delegato o comunque per l’interprete futuro di fronte ai dubbi che, temo, invariabilmente residueranno – le attente riflessioni di Andrea Panzarola.

4.Dubbi perfino più complessi e di maggior momento, e conseguente assoluta delicatezza della utilizzazione della discrezionalità per il legislatore delegato, verranno dal principio di delega di cui al c. 15, lett. c). Con esso si sgretola definitivamente ed in termini generali un feticcio, quello della carenza di poteri cautelari in capo agli arbitri, già settorialmente incrinato nel 2003 con la introduzione della disciplina speciale per l’arbitrato societario. Ed è proprio vero che questo è il più importante fra i principi della delega in materia arbitrale, come nota subito Andrea Carlevaris nel commento che segue, collocando con dovizia di informazioni la novità nel panorama internazionale e degli inerenti regolamenti arbitrali, nonché in quello comparatistico, che ci vedeva fino ad ora pressoché isolati (il che non era affatto la tragedia epocale che molti lamentavano, ma neppure era certo privo di rilievo), e dolendosi di qualche timidezza del legislatore delegante.

Quest’ultimo, da un lato, ha inteso saltare del tutto il fosso ed affidarsi – dal momento della accettazione dell’incarico (ed il commento di Carlevaris indaga acutamente anche su questo snodo, e con particolare riferimento all’arbitrato amministrato) – ai soli arbitri. Ed ha così rifiutato il modello, pur presente sul piano comparatistico e tutt’altro che disprezzabile ma – ammetto – particolarmente complicato, del doppio binario, quello della cautela giudiziale essendo invece confinato alla fase pre-accettazione. E per incidens mi pare che il principio di delega orienti decisamente e giustamente l’interprete, anche senza bisogno che lo chiarisca la normazione delegata, nel senso che l’esercizio compiuto di un tale potere cautelare giudiziale non sarà impedito dalla successiva accettazione degli arbitri, e conseguentemente nel senso che la riproposizione della istanza cautelare agli arbitri dovrà scontare gli effetti del provvedimento negativo del giudice e perciò i presupposti di ammissibilità contemplati dall’art. 669 septies c.p.c..

D’altro lato, però, la legge di delega ha confinato il potere cautelare degli arbitri ai soli casi di “espressa volontà” compromissoria o successiva delle parti in tal senso, e salva diversa disposizione di legge. Quest’ultima limitazione può essere percepita come timidezza o restrittività del delegante, ma solo a livello simbolico ed è in realtà innocua, nel senso che, anche ove non vi fosse scritto, il legislatore resterebbe sempre libero, nei limiti costituzionali della ragionevolezza, così come di escludere per certe ipotesi o materie la via arbitrale anche di escludere il potere cautelare degli arbitri. Quanto alla prima limitazione, va fatto rinvio alle equilibrate considerazioni di Carlevaris, sul piano operativo e prima ancora valutativo, ed a tale ultimo riguardo sobriamente critiche ma consapevoli che il salto del fosso, per il legislatore italiano, era già impegnativo e non consentiva probabilmente l’inversione di quella regola.

Dopo di che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare ed il mare è appunto quello aperto al legislatore delegato. Il quale – a parte la necessità (opportunamente segnalata ed illustrata infra da Carlevaris) di accurata revisione formale degli artt. 669 bis ss. c.p.c. coerenziata con la abrogazione/sostituzione dell’art. 818 – dovrà anzitutto decidere se solcare per intero quel mare o, come si suol dire, “lasciare alla giurisprudenza” la soluzione di questo o quel problema applicativo piccolo o grande; tenendo però presente che in materia cautelare “lasciare alla giurisprudenza” significa per forza di cose (e nonostante la possibilità di pronuncia nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. e prossimamente il rinvio pregiudiziale alla Cassazione previsto in generale dalla stessa legge di delega del 2021) esporsi alle ondivaghe variazioni sul tema dei singoli tribunali sparsi sul territorio nazionale.

Vi sarà anzitutto il problema del reclamo al giudice ordinario avverso il provvedimento cautelare concessivo o negatorio reso dagli arbitri, espressamente toccato dal principio di delega. Scontato che quanto a forma e termini ci si potrà riferire con eventuali minimi aggiustamenti al procedimento cautelare uniforme del c.p.c., e scontato che non potrà sindacarsi né in punto di fatto e neppure in punto di interpretazione del diritto sostanziale la valutazione resa dagli arbitri in ordine al fumus (soprattutto in tal senso è da leggersi l’intenzionale mancato riferimento del principio di delega a motivi di reclamo diversi da quelli del c. 1 dell’art. 829 e dalla contrarietà all’ordine pubblico, perfino ove la convenzione arbitrale preveda l’impugnabilità del lodo per violazione di legge), è proprio e soprattutto il riferimento nel principio di delega ai “motivi di cui all’art. 829, primo comma” quali motivi di reclamo cautelare ad ingenerare dubbi amletici per il legislatore delegato. Da un lato – e si vedrà in proposito l’attenta disamina di Carlevaris – quel catalogo è ultroneo ed alcuni motivi non hanno col reclamo cautelare nulla a che vedere oppure è bene che non abbiano nulla a che vedere. D’altro lato, però, quel richiamo è problematico per difetto, perché una qualche possibilità di sindacato per lo meno in ordine alla corretta applicazione delle norme sostanziali e/o processuali che delimitano e configurano i tipi della cautela bisognerebbe pur darla: se tre arbitri-ingegneri (o anche giuristi per carità) concedono un sequestro giudiziario fuori dai limiti dell’art. 670 c.p.c. siamo davvero sicuri che la tendenziale impermeabilità del giudizio arbitrale rispetto alle censure per violazione di legge debba proteggere anche quel sequestro in sede di reclamo cautelare. Posto che il legislatore delegante avrebbe fatto bene a pensare per lo meno ed anche a ciò, quel che fatto è fatto: dire da parte del delegato che i motivi di reclamo sono quelli dell’829, c. 1 “in quanto compatibili” non risolverebbe del tutto il primo problema (lasciandolo, appunto, pericolosamente “alla giurisprudenza”) e non risolverebbe minimamente il secondo. Il primo problema va invece risolto espressamente selezionando e se del caso adeguando i motivi congrui, visto che “in quanto compatibili” può considerarsi implicito nel principio di delega; la soluzione del secondo problema sarà operazione assai delicata sul crinale dell’eccesso dalla delega.

E che ne sarà del principio “ordinario” di tendenziale confinamento delle ragioni di revoca e modifica della cautela nell’ambito del reclamo (artt. 669 decies, c. 1 e 2 e 669 terdecies, c. 4)? L’esplicito mandato del delegante in ordine alla disciplina specifica delle modalità di attuazione della misura cautelare sotto il controllo del giudice ordinario (altro problema in ordine al quale Carlevaris offre spunti significativi) potrebbe far pensare che quanto al rapporto fra reclamo e modifica e revoca si debba invece implicitamente o esplicitamente rinviare alle disposizioni del procedimento cautelare uniforme o riprodurle. Ma la cosa mi parrebbe incongrua perché espropriativa, oltre quanto non lo è già l’inevitabile reclamo, della signoria arbitrale, voluta dalle parti, sulla vicenda contenziosa anche in relazione delle sopravvenienze.

Ed è inutile dire che non è tutto.

5. Utilissimi riferimenti alla materia della “cautela arbitrale” ed in particolare al cennato tema del reclamo, significativi non solo nella prospettiva dell’arbitrato societario ma anche in generale, si troveranno qui di seguito nell’approfondito saggio di Laura Salvaneschi, dedicato al principio di cui al c. 15, lett. f), ove si dispone “l’inserimento” nel codice di rito “delle norme relative all’arbitrato societario”, ma si aggiunge la previsione della “reclamabilità” (fino ad ora esclusa sia pure con sospetti di incostituzionalità a mio avviso poco fondati) “della ordinanza” arbitrale “che decide sulla richiesta di sospensione della delibera” societaria.

Riguardo a questo secondo e più delicato compito, il legislatore delegato dovrà porsi anzitutto questione di interpretazione sistematica della legge di delega: il reclamo da introdurre e da disciplinare è quello stesso, quanto ai motivi di censura, che la lett. c) del c. 15 vuole introdotto e disciplinato per ogni provvedimento cautelare arbitrale, o altro ed esteso anche alla censura piena per violazione di legge (sostanziale), visto che proprio il lodo societario in materia di validità delle delibere è soggetto ex lege, a differenza del lodo “normale”, a quella censura ? La risposta che la Salvaneschi espone è nel primo senso. La condivido – oltre che per le ragioni che persuasivamente argomenta – in base al semplice rilievo che passare dalla irreclamabilità del provvedimento sulla sospensione della delibera ad una reclamabilità a 360 gradi pare salto troppo grande. Si conferma così però, salvo altri, anche in materia societaria il problema cennato sopra: se in generale un reclamo cautelare innanzi al giudice dello Stato, avverso il provvedimento arbitrale, per violazione e di legge (sostanziale o processuale) possa darsi in limitata prospettiva pur formalmente ed apparentemente eccedente rispetto al catalogo del primo comma dell’art. 829.

Riguardo al primo compito – quello della semplice rifusione nel codice delle disposizioni del decreto sull’ arbitrato societario – esso è tutt’altro che semplice. La Salvaneschi giustamente valorizza il mandato del delegante volto in proposito alla “prospettiva di riordino organico della materia e di semplificazione della normativa di riferimento”. E delinea significativi suggerimenti intesi, in base a tale mandato, ad eliminare, sull’uno e sull’altro fronte, i “disallineamenti” tra decreto “societario” del 2003 e riforma dell’arbitrato del 2006 (a proposito di cognizione arbitrale incidentale di materie non compromettibili, arbitrato irrituale societario, termine di emanazione del lodo ed altro).

6. Due lemmi semanticamente ben diversi – “indicare” e “scegliere” la legge applicabile (c. 15, lett d)) – sfuggiti non so quanto consapevolmente, invece che in guisa di mera endiadi, al legislatore delegante (giustamente memore del vuoto lasciato dalla abrogazione dell’art. 834 nel 2006, e tuttavia senza colmarlo appieno: potrà farlo il delegato senza eccedere?) – consentono ed anzi impongono allo studioso del diritto internazionale privato (qui Massimo Benedettelli) di rivolgere al futuro attuatore della delega raffinate e significative analisi. E ciò in una materia, quella internazional-privatistica appunto, in cui la raffinatezza non è mai sterile e le parole pesano particolarmente e dovrebbero rivestire sempre, ancor più che altrove, valenza tecnico-giuridica e mai pleonastica.

7. Ancora sul versante internazionalprivatistico si colloca il principio di delega di cui alla lett. b) del comma 15: la previsione cioè – dirimente pregresso dibattito orientatosi in prevalenza, e con il sottoscritto schierato su tale fronte, in senso opposto – della immediata esecutività del decreto ex art. 839 c.p.c. che inaudita altera parte accordi l’exequatur al lodo estero “con contenuto di condanna”. Se ne occupa qui di seguito Alessio Carosi: con condivisibili indicazioni sulla possibilità che i necessari strumenti compensativi (anzitutto l’inibitoria nel corso del giudizio di opposizione) siano attinti in via sistematica (applicazione dell’art. 649, in forza del rinvio ex art. 840 alle disposizioni sulla opposizione a decreto ingiuntivo), senza necessità di appositi interventi del legislatore delegato (ogni ulteriore riflessione a riguardo sarà comunque opportuna da parte di questi); e con il suggerimento di considerare sostanzialmente scontato, e perciò da non riprodurre onde non complicare troppo le cose, il riferimento della delega al “contenuto di condanna”.

8. Perfino l’apparentemente modesto quanto doveroso ovviare (c. 15, lett. e)) ad una nota dimenticanza del legislatore del 2006, in ordine alla equiparazione del termine lungo di impugnazione del lodo a quello nel frattempo dimezzato per la impugnazione della sentenza, reinnesca il problema del dies a quo già dibattuto in dottrina e giurisprudenza: sottoscrizione del lodo, come dice espressamente l’art. 828, c. 2 c.p.c., ovvero sua comunicazione alle parti, come affermano taluni interpreti “costituzionalmente orientati” ? Se ne occupa qui Elena Marinucci pervenendo – a mio avviso giustamente – alla conclusione secondo cui il legislatore delegato farebbe bene, salvo il previsto dimezzamento nonché semmai alcuni microinterventi compensativi intelligentemente proposti dalla Autrice, a non modificare il tenore dell’art. 828, c. 2, perché i contra (dovuti essenzialmente al fatto che la comunicazione del lodo può avvenire in tempi diversi per una parte e per l’altra) sarebbero maggiori dei pro. E d’altra parte – soggiungo – in sei mesi meno qualche giorno (fra sottoscrizione e comunicazione) si organizza tranquillamente un matrimonio, e può dunque altrettanto tranquillamente organizzarsi la impugnazione di un lodo.

II.- Art. 1, c. 15, lett. a): imparzialità e indipendenza dell’arbitro (Andrea Panzarola).

1.L’art. 1 co. 15 della legge 26 novembre 2021, n. 206 fissa i principi e criteri direttivi sul fondamento dei quali il Governo adotterà il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’arbitrato. Il primo criterio direttivo, posto nell’art. 1 co. 15 lett. a), è così formulato: “rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro, reintroducendo la facoltà di ricusazione per gravi ragioni di convenienza nonché prevedendo l’obbligo di rilasciare, al momento dell’accettazione della nomina, una dichiarazione che contenga tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie, prevedendo l’invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione, nonché in particolare la decadenza nel caso in cui, al momento dell’accettazione della nomina, l’arbitro abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’articolo 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione”.

Il testo dell’art. 1 co. 15 lett. a) della legge n. 206/2021 presenta una significativa differenza rispetto a quello predisposto dalla c.d. Commissione Luiso, di cui ricalca per il resto il contenuto. Diversamente dalla norma di delega – art. 11 lett. a) – elaborata dalla Commissione, la lettera a) dell’art. 1 co. 15 stabilisce che l’obiettivo del rafforzamento delle garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro (obiettivo enunciato identicamente in entrambi i testi) debba essere realizzato prima di tutto “reintroducendo la facoltà di ricusazione per gravi ragioni di convenienza”. Questo criterio direttivo inserito nella legge delega n. 206/2021 – ma non presente, ripetiamolo, nell’art. 11 lett. a) delle “proposte normative” della Commissione Luiso – prelude ad un intervento del legislatore delegato sull’art. 815 c.p.c. (vale a dire sulla norma del codice di rito in tema di “ricusazione degli arbitri”). Se l’intervento sarà effettuato, l’art. 815 c.p.c. verrà nel contenuto arricchito – rispetto alla norma attualmente in vigore – con la indicazione, tra i motivi di ricusazione, delle “gravi ragioni di convenienza”.

In questo quadro, va allora valutata la scelta del legislatore delegante di riprodurre – per tutta la restante formulazione dell’art. 1 co. 15 lett. a) – il testo contenuto nella proposta sul punto – art. 11 lett. a) – della Commissione Luiso (di riproduzione si può evidentemente parlare perché è ovviamente del tutto irrilevante la sostituzione della preposizione “di” con la preposizione articolata “della” operata nella norma oggi in vigore, che richiama adesso il “momento dell’accettazione della nomina” invece che il “momento di accettazione della nomina”).

Vogliamo riferirci in particolare alla sanzione della decadenza comminata per il caso “in cui, al momento dell’accettazione della nomina, l’arbitro abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’articolo 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione”. Ora, si capisce che nei propositi della Commissione Luiso la decadenza è la conseguenza di una omissione dal contenuto, per così dire, tipico. La dichiarazione, in altre parole, intanto può essere sanzionata con la decadenza dell’arbitro in quanto le circostanze che non vi siano comprese (e così non dichiarate) siano riconducibili alle circostanze (ora più ora meno precise) individuate nei motivi di ricusazione tassativamente enumerati nell’art. 815 c.p.c. attualmente in vigore (un articolo, questo, di cui la Commissione Luiso – come sappiamo – non ha proposto la modifica e nel quale, beninteso, figurano ipotesi più o meno specifiche, compresa la clausola vaga dei “rapporti di natura patrimoniale o associativa” con una delle parti che compromettano l’indipendenza dell’arbitro: co. 1, n. 5).

Inversamente, nella legge delega la decadenza rischia di profilarsi alla stregua di sanzione per una omissione dal contenuto “atipico” (o, se si preferisce, indeterminato). Difatti, pur restando la sanzione della decadenza collegata alla omessa dichiarazione di circostanze deducibili come motivi di ricusazione ai sensi dell’art. 815 c.p.c., è indiscutibile che di questo stesso articolo il legislatore delegante sollecita – nella medesima cornice dell’art. 1, co. 15, lett. a) – la riformulazione in senso ampliativo, tanto da spronare il Governo ad inserirvi la generica menzione delle “gravi ragioni di convenienza”. Di modo che – quando l’art. 815 c.p.c. fosse esteso nella maniera descritta in sede di attuazione della delega (ed in aderenza al puntuale criterio direttivo che vi è contemplato) e quando al contempo fosse riprodotta nella trama codicistica dal legislatore delegato la previsione che fa conseguire la decadenza dell’arbitro alla mancata dichiarazione delle circostanze elevate dallo stesso art. 815 c.p.c. a motivi di ricusazione – ne deriverebbe che la decadenza potrebbe discendere da una omissione dal contenuto indeterminato. Diciamo di un contenuto “indeterminato” della omissione perché le circostanze in ipotesi non dichiarate dall’arbitro e suscettibili di procurare la sua decadenza sarebbero – non soltanto quelle oggi per lo più puntualmente definite dall’art. 815 c.p.c. vigente, ma – anche quelle in grado di essere sussunte nella fattispecie aperta delle “gravi ragioni di convenienza” (una volta che essa sia introdotta – come esige la delega – tra i motivi di ricusazione dell’art. 815 c.p.c.).

È tema di riflessione se sia opportuno che il legislatore delegato non si discosti dall’obiettivo emergente dalla proposta della Commissione Luiso, pure sul rilievo che la integrazione apportata all’art. 11 lett. a) da essa elaborato al momento della approvazione dell’art. 1 co. 15 lett. a) – con la inclusione del criterio direttivo imperniato sulla “reintroduzione” della ricusazione per “gravi ragioni di convenienza” – non è stata verosimilmente coordinata in modo ponderato con il resto dell’art. 11 suddetto (il cui contenuto in effetti, come già sottolineato, ha trovato conferma nella lett. a, co. 15, art. 1 cit.). Se quell’obiettivo restasse fermo, allora, il decreto attuativo della delega potrebbe riallacciare la sanzione della decadenza alla sola parte dell’art. 815 c.p.c. corrispondente a quella ora in vigore – co. 1 –, esonerando l’ipotesi delle “gravi ragioni di convenienza” (quando fosse inserita, come tutto lascia credere, tra i motivi di ricusazione) dai presupposti in grado di integrare, nella situazione descritta, quella sanzione (che può, come noto, fondare, a certe condizioni, addirittura la responsabilità dell’arbitro ex art. 813-ter co 1, n. 1, e co. 3 c.p.c.).

Appena occorre, per scrupolo di chiarezza, avvertire che la delega è inequivoca nel conferire al Governo il potere di rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza degli arbitri “reintroducendo la facoltà di ricusazione per gravi ragioni di convenienza”. Il verbo impiegato – “reintrodurre” – lascia arguire che, secondo il legislatore delegante, le “gravi ragioni di convenienza”, se adesso (al lume del vigente art. 815 c.p.c.) non possono rappresentare la base per avanzare istanza di ricusazione dell’arbitro, sono state anteriormente considerate dal codice di procedura civile motivo sufficiente per ricusarlo. Prima della riforma del 2006 (e così del testo dell’art. 815 c.p.c. in vigore), tuttavia, la questione della ricusabilità degli arbitri, oltre che per le ragioni tipizzate dall’art. 51 co. 1 c.p.c., anche per le “gravi ragioni di convenienza” menzionate nel co. 2 del medesimo articolo (che per il giudice costituiscono solo motivo di astensione c.d. facoltativa) era alquanto discussa. Pur se appariva preferibile la tesi estensiva – attesa la generica relatio dell’art. 815 c.p.c. olim vigente all’art. 51 c.p.c. senz’altra specificazione – erano in molti a patrocinare la tesi contraria, che consentiva la ricusazione degli arbitri nelle medesime ipotesi stabilite per il giudice statale.

Come che sia, la introduzione della ricusazione dell’arbitro per “gravi ragioni di convenienza”, mentre conferirebbe all’art. 815 c.p.c. un carattere misto (risultante dalla combinazione di ipotesi predeterminate – notoriamente non in tutto e per tutto omologabili a quelle relative al giudice statale – e di una fattispecie aperta), al contempo allineerebbe la disciplina italiana con quella di altri ordinamenti, nei quali sembra anzi che vada diventando preponderante la soluzione di ancorare la ricusazione in via esclusiva ad una previsione generale non tipizzata (pur se di norma diversamente declinata nel contenuto – in quanto sovente specificamente commisurata agli arbitri – rispetto a quella individuata dal criterio direttivo sotto esame traendola dalla regola tradizionale valevole per il giudice: una regola, questa perentoriamente espressa nella legge delega con la formula delle “gravi ragioni di convenienza”, la quale, per quanto indubbiamente peculiare in confronto alle odierne tendenze generali in argomento, potrebbe comunque esibire un rimarchevole contrassegno oggettivo – e perciò di freno alle iniziative pretestuose – ed insieme godere, ai fini della sua interpretazione, della oramai risalente esegesi dell’art. 51 co. 2 c.p.c. e così dei risultati pratici e delle riflessioni teoriche attinti sul punto, quelli non meno che queste certamente da adeguare al particolare milieu arbitrale; posso inoltre solo annotare sinteticamente che nei regolamenti arbitrali internazionali, come si sa, la ricusazione è costruita – in assenza di motivi tassativi – intorno a fattispecie ampie ed elastiche).

Di sicuro il criterio direttivo sotto esame suscita un delicato problema di coordinamento fra due istituti contemplati dalla legge processuale, ambedue diretti a procurare giudizialmente la sostituzione dell’arbitro, ma pur sempre autonomi quoad materiam: vale a dire la ricusazione e la decadenza, l’una, per sua intima natura, posta a presidio della imparzialità dell’arbitro ed assoggettata ad un rigoroso termine perentorio (art. 815 co. 3 c.p.c.); l’altra (l’istanza di decadenza) allo stato esperibile (nella ipotesi giudiziale sussidiaria del secondo e terzo periodo dell’art. 813-bis) dopo il decorso di un termine dilatorio e in dipendenza della omissione o del ritardo nel compimento di un atto relativo alle funzioni arbitrali. L’omissione assunta dal criterio direttivo a presupposto della decadenza è costituita (art. 1 co. 15 lett. a) dalla mancata dichiarazione da parte dell’arbitro – cosa rilevante (sulla quale v. infra, par. 2), “al momento dell’accettazione della nomina” – di circostanze che “possono essere fatte valere come motivi di ricusazione” ai sensi dell’art. 815 c.p.c.

Il dubbio che questa previsione della legge delega alimenta non è tanto se sia proponibile nel caso in esame la ricusazione tempestiva – perché certamente dovrebbe esserlo ad opera della parte che abbia poi acquisito cognizione di quelle circostanze –, ma piuttosto se, mancata l’iniziativa ricusatoria nel termine decadenziale, sia egualmente possibile per la parte interessata (non ricorrendo le ipotesi del primo periodo dell’art. 813-bis c.p.c.) avanzare istanza per la decadenza giudiziale dell’arbitro. Il criterio direttivo, per come formulato, sembra autorizzare questa conclusione: a tacer d’altro, il riferimento a circostanze che “possono”, ma non “debbono”, essere poste alla base della ricusazione, lascia intendere che anche solo la mera allegazione di parte della sopravvenuta conoscenza di un fatto asseritamente rientrante nel dominio applicativo dell’art. 815 c.p.c. integrerebbe – nella situazione descritta – il presupposto per chiedere la decadenza giudiziale dell’arbitro ritenuto (al tempo dell’accettazione) reticente. Il che comporterebbe vuoi la vanificazione del termine decadenziale della ricusazione, vuoi la sostanziale e conseguente attrazione del relativo sindacato – dall’apposito incidente ricusatorio – al procedimento giudiziale di decadenza, il quale sorprendentemente si dilaterebbe anche alla verifica della sussistenza di uno dei motivi delineati dall’art. 815 c.p.c., quando sinora, per regola generale, è rimasto rinserrato al mero riscontro del fatto oggettivo se l’omissione addebitata all’arbitro o il ritardo imputatogli esista o meno (art. 813-bis c.p.c.). Il legislatore delegato dovrà, cosa non facile, trovare nella normativa di attuazione un punto di equilibrio, magari introducendo ad instar dell’art. 815 co. 3 c.p.c. – per limitarsi ad uno dei profili critici menzionati – un termine perentorio entro il quale proporre la istanza di decadenza.

2.L’obiettivo del rafforzamento delle garanzie di imparzialità e di indipendenza (già nella delega alla base della riforma dell’arbitrato del 2006) è ora perseguito dalla legge delega 206/2021 prevedendo a carico dell’arbitro “l’obbligo di rilasciare, al momento dell’accettazione della nomina, una dichiarazione che contenga tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie” (art. 1 co. 15 lett. a). In sostanza si tratta – come si legge nella “Relazione illustrativa” della Commissione Luiso – “del c.d. duty of disclosure previsto a livello normativo da altri ordinamenti e già inserito nella concreta esperienza applicativa in alcuni regolamenti adottati da organismi o enti che hanno sviluppato una solida esperienza nella amministrazione dei procedimenti arbitrali” (e, si può aggiungere, contemplato anche nel nostro codice deontologico forense, art. 61).

In quegli ordinamenti e in quei regolamenti, a ben vedere, siffatto “obbligo di dichiarazione” (o di “rivelazione” che dir si voglia) in capo all’arbitro è solitamente delineato nella forma del “continuing duty” [cfr., ad es., art. 12(1) “Legge Modello Uncitral” – con gli ordinamenti che vi si sono uniformati –; art. 20 co. 3 Regolamento arbitrale CAM; art. 11(3) “ICC Rules” del 2021; art. 5(5) “LCIA Rules” del 2020 – che impiega la locuzione virgolettata –, ecc.; per ulteriori riferimenti regolamentari recenti nell’arbitrato internazionale v. G.B. Born, International Arbitration: Law and Practice, 3a, Alphen aan den Rijn, The Netherlands, 2021, 162]. Si tratta di un “dovere continuativo”, che cioè perdura nel tempo, dipanandosi per tutto il periodo che va dalle prime battute del procedimento arbitrale alla sua conclusione (essendo allora l’arbitro obbligato a rivelare anche i fatti sopravvenuti di cui abbia acquisito conoscenza – “throughout the arbitral proceedings”, per richiamare la formula della “Legge Modello” – e in vario modo incidenti sulla sua indipendenza).

Non sembra questa, però, la soluzione fatta propria dall’art. 1 co. 15 lett. a). Al momento dell’accettazione della nomina, come ovvio, l’arbitro non potrà che dichiarare le circostanze a lui note in quell’istante. L’ulteriore previsione già esaminata che menziona la sanzione della decadenza (sulla quale v. retro, par. 1) egualmente determina come referente temporale – in rapporto al quale stabilire se l’arbitro sia stato reticente (omettendo di dichiarare circostanze successivamente emerse e deducibili come motivi di ricusazione) – il “momento dell’accettazione della nomina”. La norma della delega fa così ripetutamente perno su questo referente temporale che, mentre preclude di slargare l’obbligo di disclosure alle “sopravvenienze inquinanti” pur conosciute dall’arbitro dopo l’accettazione, è insieme sintomo eloquente di una decisione netta (e non meno discutibile) del legislatore delegante, la quale, nella sua categoricità, parrebbe vincolante per il Governo nella elaborazione della disciplina di dettaglio.

Ancora quanto al contenuto dell’obbligo di rivelazione – la cui attuazione si estrinsecherà in una “dichiarazione”, evidentemente scritta – la norma della delega lo riferisce a “tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie” di imparzialità ed indipendenza dell’arbitro. Questa previsione si riannoda alla eventualità che l’arbitro renda nota l’esistenza di situazioni di incompatibilità all’incarico. Ma si capisce dal testo complessivo della norma che la dichiarazione sarà comunque necessaria pure allorché l’arbitro escluda la ricorrenza di quelle situazioni, giacché in tal caso egli sarà comunque obbligato a dichiarare l’inesistenza di circostanze che possano influenzarne la imparzialità e indipendenza. Lo si deduce segnatamente dalla previsione ulteriore che sanziona con la “invalidità dell’accettazione” la fattispecie di “omessa dichiarazione”. Il che rivela che la “dichiarazione”, essendo sempre necessaria sotto pena di invalidità, dovrà, a seconda dei casi, risolversi nella rivelazione di esistenza di circostanze rilevanti quoad effectum o nella non meno esplicita (ed altrettanto opportuna) attestazione della loro inesistenza. Una volta tempestivamente emessa ed acquisita agli atti del procedimento arbitrale, la dichiarazione (anche per questa ragione, non casualmente) scritta potrà nel prosieguo costituire – quanto al suo contenuto – il termine di riferimento per valutare se sia o meno fondata la successiva richiesta di decadenza avanzata dalla parte che asserisca di avere avuto conoscenza di circostanze ulteriori (sussumibili nell’art. 815 c.p.c. e) relative alla condizione dell’arbitro (al quale si addebiti di non averle manifestate “al momento dell’accettazione della nomina”: v. retro, par. 1).

Più ampiamente, non sfuggirà che l’estensione dell’obbligo di dichiarazione a “tutte le circostanze di fatto rilevanti” rappresenta la premessa per delucidare il rapporto che intercede fra queste circostanze (indeterminate) e quelle altre che giustificano la ricusazione dell’arbitro. Vi sono alcuni ordinamenti nei quali l’obbligo di disclosure è correlato alle ipotesi di ricusazione (ma questo collegamento è poi differente in dipendenza del fatto che i motivi di ricusazione siano a loro volta enumerati specificamente o, al contrario, imperniati su di una fattispecie aperta, sola o giustapposta, quale previsione di chiusura, alle fattispecie tipiche). Non è questa la strada percorsa dalla legge delega che ha per punto archimedeo la doverosa rivelazione al momento dell’accettazione di “tutte” le circostanze (pure ulteriori e distinte da quelle capaci di innescare la ricusazione) che possono variamente condizionare l’arbitro e che siano da questi effettivamente conosciute [nulla traspare dalla delega – sia osservato incidentalmente – che autorizza a credere che si sia inteso dilatare l’obbligo dell’arbitro al compimento di indagini ragionevoli per identificare vuoi possibili conflitti di interesse, vuoi circostanze che possano suscitare dubbi circa la sua imparzialità o indipendenza: per la enunciazione di un consimile dovere v. “IBA Guidelines” – General Standard 7(d)]. Nondimeno, sembra che l’inserimento delle “gravi ragioni di convenienza” nell’art. 815 c.p.c. – sollecitato dall’art. 1 co. 15 lett. a) – modifichi la prospettiva tracciata dalla norma di delega – art. 11 lett. a) – elaborata dalla Commissione Luiso. In quest’ultima norma le circostanze da svelare (“tutte le circostanze”, non specificamente individuate) sarebbero state assai più numerose di quelle tipizzate nell’art. 815 (nella formulazione ancora in vigore: in rapporto ad esse, se ricorrenti, sarebbe anzi configurabile forse un obbligo per l’arbitro di non accettare l’incarico). Adesso, con la introduzione della fattispecie aperta delle “gravi ragioni di convenienza”, la situazione è meno definita e possono con tutta probabilità profilarsi delle sovrapposizioni ben più frequenti.

Quel che è certo – e che sembra rappresentare un vincolo per il legislatore delegato – è che l’obbligo di informazione (in ogni caso necessario, tanto per dichiarare per iscritto l’esistenza delle circostanze rilevanti, quanto per rilevarne, di nuovo per iscritto, l’inesistenza) dovrà avere un contenuto generale (“tutte” le circostanze non specificamente individuate; per rendersi conto dei frutti positivi del lavoro della Commissione Luiso anche sul tema in oggetto, si noti che l’originario art. 11 del disegno di legge delega AS 1662 si limitava a stabilire la decadenza dell’arbitro “nel caso in cui, al momento di accettazione della nomina, abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’art. 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione”; solo un fugace cenno si può fare al fatto che la delega non si occupa della spinosa relazione oppositiva intercorrente tra i doveri – in capo all’arbitro – di rivelazione e di riservatezza, che è forse saggio riservare alla elaborazione casistica; il rapporto tra “disclosure and the duty of privacy and confidentiality” è messo ultimamente in chiaro – in riferimento ad un arbitrato internazionale: “a Bermuda Form arbitration” – nella ragguardevole pronuncia della Supreme Court del Regno Unito del 27 novembre 2020, Halliburton Company v Chubb Bermuda Insurance Ltd, spec. parr. 82 e ss.).

La soluzione prescelta dalla delega – per non essere impostata su ipotesi puntuali (le quali peraltro avrebbero potuto giovare in termini di certezza al funzionamento del nuovo strumento) e innestandosi invece sulla sussistenza di circostanze indeterminate “rilevanti” quoad effectum – è in armonia con le disposizioni di vari altri ordinamenti, oltre che con le previsioni contenute (per mutuare liberamente le parole della “Relazione illustrativa” della Commissione Luiso) nei “regolamenti adottati da organismi o enti che hanno sviluppato una solida esperienza nella amministrazione dei procedimenti arbitrali”, in ambito nazionale (v., ad es., art. 20 co. 2 del Regolamento arbitrale CAM) non meno che internazionale [in quest’ultimo settore, come risaputo, scatta l’obbligo di disclosure – nella forma accennata di una “continuing obligation” – in contemplazione di tutti quei fatti e quelle circostanze indeterminati che potrebbero creare “justifiable doubts” o “reasonable doubts” in ordine alla imparzialità o indipendenza dell’arbitro: così, ad esempio, rispettivamente, gli artt. 5(4) delle “LCIA Rules” e  11(2) delle “ICC Rules”; le “IBA Guidelines” – General Standard 3(a) – egualmente riallacciano la disclosure alla esistenza di imprecisati fatti o circostanze che “may (…) give rise to doubts as to the arbitrator’s impartiality or independence”: ma anche in quest’ultimo caso non sembra che si possa trattare di dubbi irragionevoli e ingiustificati, di talché le previsioni testé enumerate paiono tra loro sostanzialmente equivalenti: v., per uno spunto in tal senso, l’osservazione di Lord Hodge nel par. 72 della pronuncia citata della Supreme Court del Regno Unito del 27 novembre 2020]. Quanto agli ordinamenti stranieri (che qui non è possibile segnalare, ma sui quali v. il par. 114 della sentenza citata) ai quali può legittimamente essere ora accostata – s’intende, per il profilo sotto esame – la norma della legge delega, vanno menzionati quelli che hanno adottato la c.d. “Legge Modello Uncitral”, il cui art. 12(1) così dispone: “when a person is approached in connection with his possible appointment as an arbitrator, he shall disclose any circumstances likely to give rise to justifiable doubts as to his impartiality or independence” [una soglia più elevata è invece richiesta per la ricusazione dall’art. 12(2): “an arbitrator may be challenged only if circumstances exist that give rise to justifiable doubts as to his impartiality or independence”].

Proprio il contenuto di queste previsioni in materia di disclosure diffuse sul versante internazionale, lascia agevolmente capire che ben altrimenti ampio è lo spazio concesso al Governo per attuare il criterio direttivo nella parte in cui la misura dell’obbligo di dichiarazione è genericamente parametrata – con formula anodina – alle “circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie” di imparzialità e indipendenza dell’arbitro. Nella cornice generale tratteggiata la situazione si fa però più chiara, di modo che le circostanze in esame acquistano il contrassegno della “rilevanza” – tanto da renderne, quando conosciute, necessaria la disclosure – soltanto se danno àdito a “dubbi ragionevoli” o comunque “giustificati” circa la imparzialità e indipendenza dell’arbitro (e – al lume delle previsioni citate – ci possono essere sfumature terminologiche circa la determinazione in norma espressa del modo in cui siffatti dubbi qualificati sono procurati, a seconda che si stabilisca, ad esempio, che quelle circostanze “possono” o “potrebbero” propiziare dubbi consimili: va annotato, di passata, che la “Relazione illustrativa” della Commissione Luiso riconnette l’obbligo di rivelazione a “tutte le circostanze di fatto” – riferibili senza dubbio a relazioni o legami dell’arbitro con le parti così come con i loro difensori, se non addirittura, come qualcuno inclina a credere, con gli altri membri dell’eventuale collegio – “che potrebbero minare la garanzia dell’imparzialità” degli arbitri; da altro e più generale punto di vista, si ricorderà che un dettagliato inventario di circostanze siffatte è ricavabile dalle Liste Rossa e Arancione delle “IBA Guidelines” sui conflitti di interessi nell’arbitrato internazionale; la Lista Verde contempla viceversa situazioni che, come noto, non fanno sorgere l’obbligo di disclosure).

Ora, se la “rilevanza” delle circostanze delle quali è obbligatoria la rivelazione si ricongiunge alla loro idoneità (come veduto, variamente modulabile) a dare origine a dubbi qualificati (ragionevoli o giustificati) sulla imparzialità e indipendenza dell’arbitro, è non meno importante individuare l’ulteriore connotato che quella stessa “rilevanza” – contraddistinta nella maniera chiarificata – dovrà esibire: la “rilevanza” delle circostanze suddette, ai fini della loro doverosa disclosure, sarà da apprezzare in chiave oggettiva o, per converso, da vagliare in un’ottica soggettiva? I dubbi suscitati da quelle circostanze, per guadagnare la qualifica di “ragionevoli” o “giustificati”, vanno riferiti alle parti o considerati alla stregua di un parametro oggettivo?

La delega (art. 1 co. 15 lett. a) non offre elementi per una risposta. Utile è peraltro sotto questo aspetto la “Relazione illustrativa” della Commissione Luiso, nella parte in cui vi si afferma che “si rende necessario improntare il sistema a una maggiore trasparenza, prevedendo in capo agli arbitri designati un generale obbligo di rivelazione di tutte le circostanze di fatto (quali, in via esemplificativa, la presenza di eventuali legami o relazioni con le parti o i loro difensori) che potrebbero minare la garanzia dell’imparzialità anche soltanto nella percezione delle parti stesse”. Indubbiamente questa autorevole proposta alla base della delega, nel suggerire di profilare la estensione contenutistica del c.d. duty of disclosure avuto riguardo alla “percezione delle parti”, presenta dei vantaggi giacché, mentre prelude ad una capillare ostensione, soddisfa insieme l’interesse delle stesse parti (protagoniste del giudizio arbitrale) ad essere pienamente informate di qualsiasi fatto o circostanza che a loro avviso possa essere rilevante. Non per niente, è questa la logica che ispira le “IBA Guidelines”, che, come tutti sanno, nella comunità dell’arbitrato internazionale godono di ampio consenso. L’obbligo di rivelazione è riallacciato in queste “Linee Guida” [General Standard 3(a), cit.] a fatti o circostanze che possono, “in the eyes of the parties, dare origine a dubbi sull’imparzialità o indipendenza dell’arbitro (e la spiegazione al principio generale puntualizza che una rivelazione siffatta, come non comporta che i fatti manifestati siano tali da dar luogo a ricusazione dell’arbitro, così non implica l’esistenza di un conflitto di interessi). La stessa soluzione – che poggia sulla percezione delle parti – si rinviene altresì negli arbitrati amministrati internazionali e così, solo per fare alcuni esempi, nell’art. 11(2) delle “ICC Rules” (laddove l’obbligo di rivelazione è tra l’altro coordinato a fatti e circostanze “which might be of such a nature as to call into question the arbitrator’s independence in the eyes of the parties”) e nell’art. 5(4) delle “LCIA Rules” (in relazione alle circostanze “which are likely to give raise in the mind of any party to any justifiable doubts”).

Spetterà nondimeno – nella situazione in esame – al legislatore delegato, in assenza di una trasparente prescrizione sul punto nell’art. 1 co. 15 lett. a), di valutare se i benefici discendenti da una regola di schietta impronta oggettiva pareggino o non sopravanzino addirittura quelli associati ad un precetto che faccia leva “on the perceptions of the parties to an arbitration” (un precetto di intonazione soggettiva che, se rinviene il suo campo di elezione nell’arbitrato internazionale, per giunta amministrato, è possibile che insieme ne rispecchi le risapute speciali particolarità). Andrà in particolare prestata attenzione al fatto che in una prospettiva soggettiva si accrescono i margini di incertezza per l’arbitro, il cui obbligo di disclosure potrebbe espandersi a tutto ciò che egli “creda che le parti possano credere sia motivo di sospetto della sua imparzialità” (C. Spaccapelo, L’imparzialità dell’arbitro, Milano, 2009, 207). Almeno questo inconveniente sarebbe scansato se nella norma di attuazione (nel silenzio delle delega) si evitasse di riallacciare la rilevanza delle circostanze da rivelare alla “percezione delle parti” per consentirne l’apprezzamento dal punto di vista oggettivo [dopo tutto, sembra presentare un contrassegno oggettivo anche l’art. 12(1) della “Legge Modello Uncitral” – su cui v. retro – nel quale, come constatato, non figura alcun accenno alla percezione delle parti; nell’economia di questo scritto può essere solo segnalato che un approccio rigorosamente oggettivo alla disclosure si rintraccia pure nella pronunzia già citata – e significativamente emanata in un arbitrato internazionale – della Supreme Court del Regno Unito del 27 novembre 2020 (spec. parr. 71 ss., 116), la quale – per demarcare contenutisticamente la portata dell’obbligo di rivelazione – muove dalla considerazione del giudizio “of the fair-minded and informed observer”, cioè, in altre parole, di un “objective observer”].

Oltre alla sanzione della decadenza dell’arbitro (sulla quale v. retro par. 1), l’art. 1 co. 15 lett. a) prevede “l’invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione” (la sanzione predisposta – nella quale si indovina un potente incentivo per l’arbitro a procedere alla disclosure – è senza dubbio rigida, ma si può spiegare considerando l’oggetto precipuo della riforma e le specificità proprie di una procedura di nomina affidata di norma direttamente alle parti; invece negli arbitrati amministrati, come risaputo, ci può essere fatalmente maggiore flessibilità – per i poteri al riguardo, in via di principio, spettanti all’istituzione –, con la sottoscrizione della dichiarazione da parte dell’arbitro che può essere prevista prima della sua nomina o conferma). Da quanto precede, sappiamo che è proprio dal contenuto della norma in esame che si deduce che la dichiarazione scritta – comunque necessaria sotto pena di invalidità dell’accettazione – sarà, a seconda dei casi, positiva o negativa (se rispettivamente l’arbitro manifesti l’esistenza di “circostanze inquinanti” o ne asserisca al contrario la inesistenza). Logico corollario della stessa previsione è che l’arbitro, quando non intenda redigere la dichiarazione, non dovrà accettare la nomina (con conseguente possibile sua sostituzione ex art. 811 c.p.c.). Accettandola senza dichiarazione scritta, cagionerà con il suo comportamento la “invalidità dell’accettazione” (la “nullità” di essa per uniformarsi alle categorie codicistiche). Rendendo per converso una dichiarazione positiva, l’arbitro permetterà alle parti di soppesare il rilievo delle circostanze e dei fatti rivelati, consentendo loro di optare o per la rimozione dello stesso (quando siano integrati – cosa, come ovvio, da appurare caso per caso – i presupposti per la sua ricusazione tempestiva) o per la conferma del rapporto fiduciario. In questo contesto, ci si potrà allora interrogare, nell’attuare il (pur conciso) criterio direttivo sotto esame, se non convenga valorizzare la circostanza che le parti e (in caso di collegio arbitrale) gli altri co-arbitri sono ordinariamente in condizioni di sapere quanto prima (verificando in vario modo la esistenza o meno della dichiarazione scritta) se l’arbitro nominato, nell’accettare l’incarico, abbia doverosamente redatto la dichiarazione scritta o abbia invece illegittimamente omesso di farlo, invalidando l’accettazione. Chiediamoci: in quest’ultima eventualità (che si può ipotizzare assurga comunque a giusta causa per la revoca congiunta dell’arbitro inadempiente e a giustificato motivo per la rinuncia all’incarico degli altri co-arbitri che abbiano correttamente emesso la dichiarazione) sarà possibile una sanatoria dell’invalidità dell’accettazione attraverso una dichiarazione dell’arbitro resa successivamente? Per favorirla – quando se ne ammettesse la configurabilità – sarebbe opportuno istituire un meccanismo apposito, magari innestato su di una diffida all’arbitro diretta al compimento dell’atto dovuto? Ne potrebbe seguire la sostituzione dell’arbitro ostinatamente inadempiente adottando (e, se del caso, adattando) gli strumenti già previsti nel codice? D’altronde è la stessa natura di rimedio preventivo della disclosure che suggerirebbe di confinare alla fase iniziale del procedimento arbitrale la risoluzione delle questioni connesse all’eventuale inottemperanza dell’obbligo di rivelazione. In caso contrario, quando – nonostante il perfezionamento della fattispecie invalidante sotto esame – l’arbitrato dovesse singolarmente proseguire e concludersi, il vizio potrebbe riverberarsi sul lodo. In effetti, la lapidaria formulazione del criterio direttivo (che commina la sanzione della “invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione”, senz’aggiungere altro) potrebbe comportare – a quadro normativo invariato – la riconduzione all’art. 829 co. 1 n. 2 c.p.c. del “nuovo” vizio, il quale potrebbe così ripercuotersi sul lodo alla sola condizione che “la nullità sia stata dedotta nel giudizio arbitrale” (e ciò anche sul rilievo che la esistenza di siffatta specifica modalità – se ritenuta pertinente – per denunziare la invalidità del lodo impedirebbe – secondo la soluzione preferibile – di applicare l’art. 829 co. 2 c.p.c.; se le precedenti notazioni fossero esatte, ne potrebbe discendere  la responsabilità dell’arbitro ex art. 813-ter co. 4 c.p.c., quando sussistano le condizioni soggettive e oggettive delineate dalla complessiva disposizione).

3.Con significativo spiegamento di energie intellettuali, parte della dottrina aveva cercato da tempo di argomentare la esistenza nel nostro ordinamento del c.d. duty of disclosure. Il tentativo, pur lodevole, non ha avuto successo e nel nostro Paese l’obbligo di rivelazione a carico dell’arbitro è rimasto finora relegato in ambito regolamentare e deontologico, in assenza di una norma che lo contemplasse nella cornice generale del codice di procedura civile. La legge delega convenientemente mira a colmare questa cospicua lacuna. Il rafforzamento delle garanzie di indipendenza e imparzialità dell’arbitro, che ne potrà derivare, appare rimarchevole. Avvertiamo tutti – si direbbe già solo sul piano esistenziale – il valore decisivo di quelle garanzie anche nell’arbitrato (“It is axiomatic that a judge or an arbitrator must be impartial”: così le parole iniziali della pronuncia più volte richiamata della Supreme Court del Regno Unito del 27 novembre 2020). In questo commento a prima lettura non è certo possibile in alcun modo indugiare sulle coordinate generali entro le quali si inscrivono le garanzie degli arbitri suddette, del resto presenti a chiunque (è ad esempio universalmente nota Corte cost. 28 novembre 2001, n. 376, che associa all’arbitrato rituale “le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria”). Basti qui segnalare la recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 20 agosto 2021 (ricorso n. 5312/11 – causa Beg s.p.a. contro Italia). In estrema sintesi va osservato che la Corte ha condannato lo Stato italiano in dipendenza della riscontrata violazione dell’art. 6 § 1 della Cedu (e così del diritto a un “tribunale” indipendente e imparziale) consumatasi nel corso di un arbitrato volontario amministrato (violazione della imparzialità dell’arbitro inutilmente denunziata dalla parte interessata – che non aveva pertanto inequivocabilmente rinunciato a beneficiare della citata garanzia convenzionale – vuoi con ricusazione vuoi con impugnazione del lodo: sia consentito rinviare, per maggiori ragguagli, alla mia nota di commento all’ultima pronunzia dei giudici nazionali sulla vicenda: Cass., sez. I, 15 novembre 2010, n. 23056, in questa Rivista, 2010, 671 ss.). A causa dei legami di vario genere intrattenuti da uno degli arbitri con il soggetto controllante una società parte del procedimento, la Corte EDU ha segnatamente ritenuto che l’imparzialità dello stesso arbitro “potesse essere, o almeno apparire” dubbia, ingenerando nell’altra parte timori “ragionevoli e oggettivamente giustificati” sul punto.

Nel contesto delineato non si può pertanto negare, in conclusione, che la delega esaminata in queste pagine tende effettivamente a soddisfare (per richiamare un passaggio centrale della “Relazione illustrativa” della Commissione Luiso) “una esigenza di sistema ricollegata al rispetto e rafforzamento dei valori di terzietà e imparzialità che devono essere propri anche della giustizia arbitrale”. Al contempo la delega potrà concorrere, una volta oculatamente attuata, a “rinsaldare la fiducia nell’istituto [arbitrale] in capo ai potenziali fruitori e a coloro che vi si intendono rivolgere”.

III.- Lett. b): efficacia immediatamente esecutiva del decreto presidenziale di riconoscimento ed esecuzione del lodo estero (Alessio Carosi).

La legge 26 novembre 2021, n. 206, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 9 dicembre 2021, n. 292, ed entrata in vigore il 24 dicembre 2021, pone, all’art. 1, comma 15, lett. b), tra i principi e i criteri direttivi emanati dal legislatore delegato in vista del complessivo riassetto del processo civile, con particolare riferimento alle modifiche da apportare alla disciplina dell’arbitrato, quello di «prevedere in modo esplicito l’esecutività del decreto con il quale il presidente della corte d’appello dichiara l’efficacia del lodo straniero con contenuto di condanna».

Il Parlamento, dunque, ha individuato anche il procedimento di delibazione del lodo estero tra gli aspetti della disciplina dell’arbitrato sui quali il Governo è chiamato ad intervenire, seppur nell’ambito di una delega dai confini che appaiono assai stretti e dal contenuto sostanzialmente self-executing, poiché limitati al solo regime del decreto di exequatur del presidente della corte d’appello adito ai sensi dell’art. 839 c.p.c., di cui il legislatore delegato dovrà prevedere espressamente l’esecutorietà.

L’attuale disciplina del procedimento delibatorio del lodo estero è organicamente dettata dagli artt. 839 e 840 c.p.c., che compongono ed esauriscono il Capo VII del Titolo VIII del libro quarto del codice di procedura civile, che fu introdotto ex novo dall’art. 24, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 25. La delibazione del lodo estero aveva seguito, fino a quel momento, lo stesso iter segnato per il riconoscimento delle sentenze dei giudici stranieri, in ragione del rinvio espresso dell’art. 800 c.p.c. agli artt. 796 ss. c.p.c. L’art. 800 c.p.c. fu abrogato dall’art. 24, comma 2, della legge 5 gennaio 1994, n. 25 [coerentemente con quanto dettato dal comma 1], mentre gli artt. 796 ss. c.p.c. sarebbero stati, a loro volta, di lì a poco cancellati per effetto dell’art. 73 della legge 31 maggio 1995, n. 218.

La nuova disciplina del riconoscimento dei lodi stranieri non segnò una novità assoluta nel panorama legislativo nazionale. L’Italia, infatti, aveva già da tempo recepito nell’ordinamento giuridico interno la Convenzione di New York del 10 giugno 1958 per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere. La legge 5 gennaio 1994, n. 25, con l’introduzione degli artt. 839 e 840 c.p.c. e l’abrogazione dell’art. 800 c.p.c., realizzò proprio il tardivo adeguamento della disciplina codicistica sulla delibazione dei lodi esteri al regime imposto, quanto alle condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione, dalla Convenzione di New York e, segnatamente, dal suo art. III, nella parte in cui è previsto che «Each Contracting State shall recognize arbitral awards as binding and enforce them in accordance with the rules of procedure of the territory where the award is relied upon, under the conditions laid down in the following articles» [cfr. Briguglio, in Briguglio-Fazzalari-Marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato, Milano, 1994, sub artt. 839 ss., 268 ss.; Zucconi Galli Fonseca, L’esecutorietà del lodo arbitrale straniero in pendenza di opposizione, in questa Rivista, 349].

Gli artt. 839 e 840 c.p.c. sono la riproduzione pressoché pedissequa dell’art. V della Convenzione di New York. Essi elencano gli stessi motivi d’impedimento all’exequatur indicati dalla norma convenzionale, di cui è ribadita anche la distinzione tra quelli rilevabili d’ufficio e quelli deducibili ad eccezione esclusiva della parte.

Ciò che connota la disciplina codicistica è il modello di procedimento delibatorio opzionato dal legislatore italiano. Il riconoscimento e l’esecuzione del lodo estero [in via di buona approssimazione si può considerare lodo estero quello reso a definizione di un arbitrato avente sede fuori dai confini nazionali: cfr. Briguglio, in Briguglio-Fazzalari-Marengo, op. cit., 273 ss.; Bove, Il riconoscimento del lodo straniero tra Convenzione di New York e codice di procedura civile, in questa Rivista, 2006, 1, 21 ss.] sono affidate ad un procedimento bifasico, a contraddittorio differito ed eventuale, ispirato al modello monitorio che era stato usato dagli artt. 34 ss. della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre del 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e modellato sullo schema interno del procedimento di ingiunzione ex artt. 633 ss. c.p.c.

La prima fase è regolata dall’art. 839 c.p.c. ed è sostanzialmente riservata all’accertamento dell’insussistenza delle condizioni impeditive dell’exequatur apprezzabili ad iniziativa officiosa dell’autorità giurisdizionale adita. Essa è connotata da sommarietà della cognizione per assenza del contraddittorio perché si svolge dinnanzi al presidente della corte d’appello la cui competenza è individuata dal comma primo dell’art. 839 c.p.c., su ricorso del soggetto interessato a far valere il lodo estero in Italia, senza la partecipazione della parte contro la quale il lodo è invocato. Essa si conclude, ai sensi del comma 4 dell’art. 839 c.p.c., con il decreto del presidente della corte d’appello, il quale «accertata la regolarità formale del lodo, dichiara con decreto l’efficacia del lodo straniero nella Repubblica, salvoché:

-la controversia non potesse formare oggetto di compromesso secondo la legge italiana;

-il lodo contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico».

Il contraddittorio è, per l’appunto, differito e meramente eventuale, poiché è rimandato alla fase di opposizione contro il decreto emanato inaudita altera parte. La fase dell’opposizione è regolata dall’art. 840 c.p.c. e si svolge a norma degli artt. 645 ss. c.p.c., in quanto compatibili, mediante citazione a comparire di fronte alla stessa corte d’appello a cui appartiene il presidente adito ai sensi dell’art. 839 c.p.c. L’avvio di questa seconda fase del procedimento delibatorio del lodo estero è subordinato, dunque, all’iniziativa della parte che ha domandato l’exequatur, qualora esso sia stato negato, entro trenta giorni dalla comunicazione del decreto presidenziale, o della parte contro cui il lodo è invocato, se l’exequatur è stato concesso, in questo caso entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento. Il legislatore italiano ha scelto di demandare a questa seconda fase l’accertamento della mancanza delle condizioni ostative del riconoscimento deducibili solo ad eccezione della parte, mentre rimane sempre possibile l’apprezzabilità dei due motivi d’impedimento ad accertamento officioso riguardanti la non compromettibilità della materia ai sensi della legge italiana e la contrarietà del lodo all’ordine pubblico. La fase di opposizione si chiude con una sentenza impugnabile per cassazione ai sensi dell’art. 840, comma 2, c.p.c.

L’art. 1, comma 15, lett. b), della legge 26 novembre 2021, n. 206, chiama il legislatore delegato ad intervenire sul regime di efficacia del decreto presidenziale di exequatur, di cui dovrebbe essere prevista in modo esplicito l’esecutività.

La materia è assai controversa ed oggetto di un assai ricco, e mai  realmente sopitosi, dibattito dottrinale, occasionato dalla scelta dei conditores del 1994 di non esplicitare se il decreto presidenziale sia idoneo a conferire l’immediata esecutorietà al lodo estero o se, invece, per tale esecutorietà vada attesa la sentenza che, definendo il giudizio di opposizione ex art. 840 c.p.c., lo confermi in tutto o in parte o il decorso del termine ex art. 840, comma 2, c.p.c. senza che l’opposizione stessa sia stata avanzata.

L’art. 839, comma 4, c.p.c., come detto, non fornisce indicazioni al riguardo.

Due opposti, ed altrettanto autorevolissimi, orientamenti si sono confrontati sul punto [cfr. per un excursus del dibattito e degli argomenti a supporto delle tesi formatesi nel suo ambito Carosi, In tema di efficacia del lodo estero riconosciuto in pendenza di opposizione: in favore di una ragionevole (ma non ancora automatica) provvisoria esecutorietà, in questa Rivista, 2020, 1, 97 ss.].

Un primo orientamento ha negato che il decreto presidenziale di exequatur sia idoneo a munire il lodo estero di immediata efficacia esecutiva, di guisa che la pendenza del termine per l’opposizione ex art. 840 c.p.c. avrebbe efficacia sospensiva di siffatta efficacia, la quale conseguirebbe o alla sentenza della corte d’appello che conferma in tutto o in parte il decreto opposto o all’inutile decorso del termine di cui all’art. 840, comma 1, c.p.c. [cfr. Briguglio, op. cit., 281 ss.; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, Seconda Edizione, Volume Secondo, 2012, Padova, 759-765;  Salvaneschi, Arbitrato, in Commentario del codice di procedura civile, Chiarloni (a cura di), sub artt. 839 e 840, Bologna, 2014, 986-987 e 1005; Biavati, in Arbitrato, Carpi (a cura di), sub artt. 839 e 840, 800-801; Bologna, 2001, 800-801]. Gli argomenti invocati a sostegno di tale tesi sono stati molteplici e non mi è possibile qui enuclearli, per cui rinvio alla bibliografia appena citata.

Nell’ambito di questo primo orientamento, si è distinta l’opinione di chi, volendo favorire un ragionevole punto di equilibrio tra le diverse esigenze, ha ammesso che il presidente della corte d’appello possa pur sempre dichiarare il decreto di exequatur provvisoriamente esecutivo mediante applicazione analogica dell’art. 642, comma 2, c.p.c., qualora il ricorrente lo richieda e provi il grave pregiudizio nel ritardo [cfr. Briguglio, op. cit., 284].

Un secondo indirizzo, invece, ha postulato l’immediata esecutività del decreto ex art. 839, comma 4, c.p.c. [cfr. Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 351 ss., la quale supporta la tesi con argomenti in parte ulteriori, come quello fondato sulla abrogata disciplina del procedimento di delibazione delle sentenze giurisdizionali straniere di cui agli artt. 796 ss. c.p.c., nel contesto della quale il termine efficacia esprimeva anche l’esecutorietà del provvedimento giurisdizionale straniero; Bove, Il riconoscimento del lodo straniero tra Convenzione di New York e codice di procedura civile, op. cit., 34 ss.; La China, L’arbitrato, Il sistema, L’esperienza, IV ed., Milano, 2011, 309; Roversi, Aspetti processuali della disciplina sulla delibazione dei lodi esteri, in questa Rivista, 1999, 1, 164]. Il lodo estero riconosciuto, dunque, avrebbe sin da subito attitudine a fondare un processo di esecuzione forzata, pur nella pendenza del termine di cui all’art. 840, comma 1, c.p.c. [il titolo esecutivo sarà, in ogni caso, formato da due documenti, ovverosia dal lodo estero quanto al contenuto, e dal decreto di exequatur quanto alla forma; cfr. Briguglio, op. cit., 283-284]. Anche i sostenitori di questa tesi hanno enucleato una varietà di argomenti a suo fondamento.

La stessa difformità di opinioni riscontratasi nella dottrina non si è riproposta in ambito giurisprudenziale. Infatti, le corti d’appello adite ai sensi degli artt. 839 e 840 c.p.c. hanno in larghissima maggioranza percorso la tesi dell’effetto sospensivo della pendenza del termine per l’opposizione ex art. 840 c.p.c. [cfr. Corte d’Appello di Milano, 12 luglio 1995 e Corte d’Appello di Milano, 9 luglio 1996, entrambe in Corr. giur., 1997, 6, 707 ss., con nota di Consolo; Corte d’Appello di Bologna, 27 maggio 1996, in questa Rivista, 1997, 2, 345 ss., con nota di Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 347 ss.; Corte d’Appello di Genova, 21 giugno 2006, in Dir. comm. internaz., 2008, 3-4, 683; Corte d’Appello di Milano, 5 dicembre 2006, in Corr. mer., 2007, 6, 705; Corte d’Appello di Genova, 18 dicembre 2019, in questa Rivista, 2020, 1, 85 ss., con nota di Carosi, op. cit., 87 ss. Contra Corte d’Appello di Catanzaro, 25 marzo 1996, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1998, 799].

È chiaro come in questo contesto d’incertezza, cagionato dalla scelta del legislatore del 1994 di rimanere silente circa il regime di efficacia del decreto presidenziale di exequatur, a fronte di formule lessicali alquanto ambigue, un intervento chiarificatore fosse non solo opportuno, ma proprio necessario [questo aspetto è stato posto in risalto nei vari commenti al sistema delibatorio del lodo estero introdotto dalla riforma del 1994. Cfr. Salvaneschi, op. cit., 1007; Bove, op. cit., 34].

L’art. 1, comma 15, lett. b), della legge delega per il riassetto del processo civile risponde a questa esigenza, attraverso l’elaborazione di un principio e criterio direttivo che sembra essere, limitatamente all’ambito in cui sollecita l’azione del legislatore delegato, self-executing e, quindi, insuscettibile di un’interpretazione, seppur sobriamente, praeter delega.

A me pare che la modifica demandata dal delegante possa essere conseguita mediante un limitato adeguamento dell’art. 839, comma 4, c.p.c. [volendo fare un esercizio, si può ipotizzare una nuova formulazione dell’art. 839, comma 4, c.p.c. tipo (enfatizzate le possibili variazioni al dettato normativo) che reciti «Il presidente della corte d’appello, accertata la regolarità formale del lodo, dichiara con decreto esecutivo l’efficacia del lodo straniero nella Repubblica, salvoché (…)»; oppure, «Il presidente della corte d’appello, accertata la regolarità formale del lodo, dichiara con decreto l’efficacia esecutività del lodo straniero nella Reppublica, salvoché (…)»].

Credo, invece, che si potrebbe fare a meno di accogliere l’espressa menzione al «con contenuto di condanna» del lodo straniero oggetto di delibazione. Ritengo, infatti, che tale ulteriore indicazione avrebbe come unico effetto quello di rendere più complessa, e di più arduo coordinamento, l’opera del legislatore delegato senza un apprezzabile beneficio. L’esplicitazione dell’esecutorietà del decreto ex art. 839, comma 4, c.p.c., infatti, mi sembra che abbia di per sé senso e ragion d’essere solo rispetto al lodo estero con contenuto di condanna, mentre andrebbe intesa nella più ampia accezione di efficacia vincolante tra le parti del lodo straniero con contenuto di accertamento o costitutivo [in aderenza alla tradizionale impostazione che ha posto in correlazione condanna ed esecuzione: cfr. Fazzalari, Il processo ordinario di cognizione, 1, Primo grado, 1989, Torino, 284 ss.;  Attardi, Diritto processuale civile, I, Parte generale, 1999, Padova, 427; Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, II, Ventisettesima edizione, 2019, Torino, 308-309; v. Cass. SS.UU. 22 febbraio 2010, n. 4059, in Foro it., 2010, I, 2082, con nota critica però di Impagnatiello. Tornando al lodo straniero non mi sembra sia mai stato in discussione che il lodo estero dichiarativo o costitutivo acquisisse in ogni caso efficacia vincolante tra le parti nel territorio italiano sin dal primo momento per effetto del suo riconoscimento in forza del decreto presidenziale di exequatur. Cfr. Salvaneschi, op. cit., 1007; sulla necessità di operare un distinguo tra riconoscimento ed efficacia ex art. 839 c.p.c. e riconoscimento ed esecuzione ex art. 840 c.p.c., anche in relazione al combinato disposto degli artt. 824 bis e 825 c.p.c. relativi al lodo domestico e alla disciplina per il riconoscimento delle sentenze straniere ex artt. 64 e 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, v. Punzi, op. cit., 761].

Il delegante non si è posto il problema dell’inibitoria del decreto presidenziale di exequatur contro il quale sia proposta l’opposizione ai sensi dell’art. 840 c.p.c. Mi pare, tuttavia, che lo scoglio possa essere agevolmente aggirato mediante l’applicazione dell’art. 649 c.p.c., giustificata dal rinvio dell’art. 840, comma 2, c.p.c. agli artt. 645 ss. c.p.c  «in quanto compatibili»: l’art. 649 c.p.c. andrà, dunque, adattato al contesto in cui è calato ed astratto dal riferimento all’art. 642 c.p.c., mentre la sospensione sarà comunque accordata qualora il motivo posto a fondamento dell’opposizione risulti prima facie fondato, in ossequio al requisito del fumus boni iuris, a cui senz’altro si estende l’indicazione dei «gravi motivi» [cfr. Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 357-358]. La possibilità di ottenere l’inibitoria ex art. 649 c.p.c. del decreto presidenziale di exequatur del lodo straniero, ricorrendone i presupposti, mi pare pienamente giustificabile anche alla luce del fatto che, nella pendenza del giudizio di opposizione, devono essere ancora valutate le condizioni ostative al riconoscimento riservate all’eccezione di parte, che l’opponente abbia eventualmente dedotte, fermo il sempre attuale riesame di quelle rilevabili d’ufficio. Annoto – a titolo meramente incidentale, perché esula dall’oggetto del principio e criterio direttivo in commento – che continuo invece a nutrire dubbi a proposito della proponibilità, e correlata ammissibilità, della sospensione ex art. 373 c.p.c. della sentenza della corte d’appello che, definendo il giudizio di opposizione ex art. 840 c.p.c., abbia dichiarato l’efficacia del lodo estero e avverso la quale sia stato proposto ricorso per cassazione ai sensi del comma 2 dello stesso art. 840 c.p.c. [cfr. Carosi, È davvero ammissibile l’inibitoria ex art. 373 c.p.c. della sentenza della corte d’appello dichiarativa dell’efficacia del lodo estero avverso la quale sia stato proposto ricorso per cassazione?, in questa Rivista, 2020, 3, 453 ss.].

La previsione espressa dell’immediata efficacia esecutiva del decreto presidenziale di exequatur del lodo estero priverebbe di rilievo l’interrogativo sulla possibilità di applicazione analogica dell’art. 642 c.p.c. in funzione della esecuzione provvisoria del decreto ex art. 839, comma 4, c.p.c., che si è posto, invece, nel vigore dell’attuale disciplina e a cui una parte della dottrina aveva risposto in senso affermativo [su cui cfr. supra]. Allo stesso modo mi pare venga meno la necessità di un rinvio all’art. 647 c.p.c. poiché dovrebbe essere lo stesso presidente del tribunale a dichiarare esecutivo il decreto di exequatur sin dal momento della sua emissione e in calce allo stesso.

Volendo esprimere un primo punto di vista sul principio e criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 15, lett. b), della legge 26 novembre 2021, n. 206, riterrei la traccia segnata al legislatore delegato condivisibile sotto un duplice profilo.

Sotto l’aspetto formale, il legislatore si è fatto carico di un non più differibile intervento chiarificatore circa il regime di efficacia del decreto presidenziale di exequatur del lodo estero: una direzione doveva essere espressamente intrapresa (indipendentemente da quale fosse) e la legge delega soddisfa questa esigenza.

Sotto l’aspetto sostanziale, la direzione indicata dal delegante mi pare corretta. Il principale argomento richiamato a sostegno della tesi che nega che il decreto ex art. 839, comma 4, c.p.c. sia immediatamente esecutivo, infatti, ha perso d’attualità. Il sistema concepito prima dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 per gli Stati contraenti e poi confermato dal Regolamento CE n. 44/2001, il quale si fondava sull’efficacia sospensiva della pendenza del termine per l’opposizione avverso il provvedimento monitorio dichiarativo dell’esecutività della decisione adottata in uno Stato contraente o in uno Stato membro [argomento ricavato a contrario ex art. 39, comma 1, della Convenzione di Bruxelles del 1968 ed ex art. 47, comma 3, del Regolamento “Bruxelles I”], è stato soppiantato dal Regolamento UE n. 1215/2012. Infatti, l’art. 39 del Regolamento “Bruxelles I bis” ha sancito il principio dell’automatica esecutività della decisione emessa dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro mediante l’abolizione della previa dichiarazione di esecutività da parte della competente autorità dello Stato richiesto, mentre il controllo delibatorio risulta ora allocato sul giudice dello Stato di provenienza attraverso l’attestato certificante che la decisione è ivi esecutiva, previsto dall’art. 53 del Regolamento stesso e che il richiedente, ai sensi dell’art. 42, deve fornire, unitamente ad una copia della decisione che permetta di stabilirne l’autenticità, all’autorità incaricata dell’esecuzione. Insomma, riterrei arduo opinare oggi dell’immediata efficacia esecutiva del decreto ex art. 839, comma 4, c.p.c. come di un inammissibile trattamento più favorevole di quello assicurato ai provvedimenti giurisdizionali emessi nello spazio giuridico europeo (e prima ancora in uno Stato aderente alla Convenzione di Bruxelles del 1968). Valuterei il rinnovato regime d’efficacia del decreto presidenziale di exequatur del lodo estero perfettamente omologabile anche sul versante della Convenzione di New York. Innanzitutto, esso avvicinerebbe la delibazione del lodo straniero alla disciplina del lodo domestico di cui al combinato disposto degli artt. 824 bis e 825 c.p.c., così consentendo di superare le pur ragionevoli perplessità manifestate da quella parte della dottrina che ritiene la negazione dell’immediata efficacia esecutiva del provvedimento ex art. 839, comma 4, c.p.c. in contraddizione con l’art. III, seconda parte, della Convenzione di New York. Per altro verso, l’immediata efficacia esecutiva del decreto presidenziale di delibazione del lodo estero, emanato all’esito di una fase inaudita altera parte riservata all’accertamento dei requisiti formali di riconoscibilità e dell’assenza delle sole cause ostative rilevabili d’ufficio ai sensi dell’art. V della Convenzione di New York (come ricalcato dagli artt. 839 e 840 c.p.c.), non mi sembra in contrasto con il testo convenzionale, ma è coerente con lo spirito che vi è sotteso. Infatti, se è vero che l’art. V della Convenzione di New York pare improntato ad un procedimento di delibazione in cui tutti i motivi impeditivi del riconoscimento [sia quelli rilevabili d’ufficio sia quelli riservati all’eccezione della parte] siano valutati in un unico contesto e nel contraddittorio tra le parti, è altrettanto vero che la stessa Convenzione di New York è innanzitutto neutrale quanto al quomodo del procedimento di delibazione [cfr. art. III, prima parte, ai sensi del quale che ciascuno Stato contraente riconoscerà i lodi esteri come vincolanti e li eseguirà «in accordance with the rules of procedures of the territory»] e che il suo art. VII, comma 1, fa salve le discipline più favorevoli vigenti negli Stati contraenti [«The provisions of the present Convention shall not affect the validity of multilateral or bilateral agreements concerning the recognition and enforcement of arbitral awards entered into by the Contracting States nor deprive any interested party of any right he may have to avail himself of an arbitral award in the manner and to the extent allowed by the law or the treaties of the country where such award is sought to be relied upon»].

Riterrei, in conclusione, del tutto ammissibile che il lodo estero delibato acquisti efficacia esecutiva già dal momento della sola valutazione inaudita altera parte della sua regolarità formale nonché della compromettibilità della materia ai sensi della legge italiana e della non contrarietà all’ordine pubblico, e che l’accertamento dell’assenza di tutte le altre condizioni ostative, il cui rilievo è riservato all’iniziativa della parte contro la quale il lodo è invocato, sia differito alla fase successiva, meramente eventuale e a contraddittorio pieno, del giudizio di opposizione.

IV.- Lett. c): provvedimenti cautelari (Andrea Carlevaris)

Meglio tardi che mai: finalmente poteri cautelari agli arbitri?

“[La tutela cautelare] mira dunque, come i provvedimenti che il diritto inglese comprende sotto la denominazione di Contempt of court, a salvaguardare l’imperium judicis, ossia a impedire che la sovranità dello Stato, nella sua più alta espressione che è quella della giustizia, si riduca ad essere una tarda e inutile espressione verbale, una vana ostentazione di lenti congegni destinati, come le guardie dell’opera buffa, ad arrivar sempre troppo tardi […] E forse proprio per aver intuito che le misure cautelari attengono più che alla tutela dei diritti soggettivi, alla polizia del processo, la giurisprudenza si è mostrata restia ad ammettere che agli arbitri possa essere conferito dai compromittenti il potere di conceder sequestri durante il giudizio arbitrale” (Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 252). Sono passati quasi novant’anni da quando Piero Calamandrei così individuava la ratio di un divieto che avrebbe poi trovato espressione nell’art. 818 cod. proc. civ. Letteralmente “storica” è quindi l’occasione offerta dalla legge delega sulla riforma del processo civile (l. 26 novembre 2021 n. 206) di superare questo anacronistico divieto, che negli anni è stato considerato, a seconda dei punti di vista, espressione di un principio “antico e universalmente riconosciuto” (Satta, Commentario al codice di procedura civile, vol. IV, 2, Torino, 1971, pp. 282-283) o “un dato di fatto duro a morire” (Ricci, Articolo 818, in Arbitrato – Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840 (a cura di Carpi), Bologna, 2001, p. 336).

Delle novità relative all’arbitrato contenute nella legge delega, la rimozione del divieto per gli arbitri di assumere provvedimenti cautelari è di gran lunga la più importante. La lett. c) del 15° comma dell’articolo unico, che sul punto segue fedelmente le “Proposte normative e note illustrative” della “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e strumenti alternativi” presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, delega il governo a conformarsi al seguente criterio: “prevedere l’attribuzione agli arbitri rituali del potere di emanare misure cautelari nell’ipotesi di espressa volontà delle parti in tal senso, manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo, salva diversa disposizione di legge; mantenere per tali ipotesi in capo al giudice ordinario il potere cautelare nei soli casi di domanda anteriore all’accettazione degli arbitri; disciplinare il reclamo cautelare davanti al giudice ordinario per i motivi di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile e per contrarietà all’ordine pubblico; disciplinare le modalità di attuazione della misura cautelare sempre sotto il controllo del giudice ordinario”.

Come è noto, l’assenza di poteri cautelari arbitrali isola l’Italia nel panorama legislativo internazionale (insieme a Cina, Tailandia e ormai pochissimi altri ordinamenti: v. Born, International Commercial Arbitration, Alphen aan den Rjin, 2021, pp. 2619-2620) e, vista la crescente rilevanza della tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, è generalmente considerata il principale ostacolo alla scelta dell’Italia come sede di arbitrati internazionali (v. Biavati, Spunti critici sui poteri cautelari degli arbitri, Rivista dell’arbitrato, 2013, p. 335; per riferimenti e un esame delle diverse posizioni, v. Carlevaris, La tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, Padova, 2006, pp. 251 ss.).

Circa la competenza ad assumere provvedimenti cautelari, la legge delega mira a ribaltare la situazione attuale: da un lato, essa riconosce il potere degli arbitri, “salva diversa disposizione di legge” e a condizione dell’accordo delle parti in tal senso; dall’altro, essa esclude il potere dell’autorità giudiziaria di adottare misure cautelari in presenza di un accordo compromissiorio a partire dall’accettazione del mandato da parte degli arbitri.

L’attribuzione del potere cautelare agli arbitri salva diversa disposizione di legge è l’esatto inverso della soluzione attuale: il testo vigente dell’art. 818 cod. proc. civ. esprime il divieto, ma lo rende appunto soggetto ad eventuale diversa previsione normativa. È noto come l’inciso “salva diversa disposizione di legge” sia stato introdotto con la riforma del 2006 per tenere conto, non solo di possibili aperture settoriali (che ovviamente sarebbero state possibili senza necessità di espressa previsione), ma anche e soprattutto dell’eccezione già allora contenuta nell’art. 35, 5° comma, d.lgs. n. 5/2003, che, nell’arbitrato societario, se la convenzione arbitrale consente la devoluzione in arbitrato di controversie relative alla validità delle delibere assembleari, consente anche agli arbitri di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della stessa delibera (Villa, Arbitrato e tutela cautelare, in L’Arbitrato (a cura di Salvaneschi e Graziosi), 2020, pp. 518 ss.).

Nella nuova prospettiva, quindi, la diversa previsione di legge avrà l’effetto di escludere i poteri cautelari degli arbitri. L’inclusione dell’inciso nella legge delega non appare del tutto congruo e sembra testimoniare di una persistente sfiducia negli arbitri ai fini dell’assunzione di provvedimenti ritenuti particolarmente sensibili ed invasivi della sfera giuridica delle parti. Una volta superata tale sfiducia in termini generali, non si vede cosa potrebbe giustificare la limitazione o l’esclusione dei poteri cautelari arbitrali in particolari settori.

Menomazione ben più rilevante costituisce la condizione dell’espressa attribuzione dei poteri cautelari agli arbitri da parte dei compromittenti. Si tratta di un requisito perlopiù sconosciuto alle più evolute leggi straniere sull’arbitrato, che tendono a seguire il principio inverso: i poteri cautelari degli arbitri costituiscono la regola e l’espressa esclusione da parte dei compromittenti l’eccezione (v., per esempio, l’art. 183, 1° comma, della legge svizzera di diritto internazionale privato: “Sauf convention contraire, le tribunal arbitral peut ordonner des mesures provisionnelles ou des mesures conservatoires à la demande d’une partie”; in Inghilterra, l’espresso conferimento del potere cautelare degli arbitri è superfluo per importanti categorie di misure, quali security for costs, misure cautelari relative alla proprietà e all’assunzione e preservazione delle prove, rispetto alle quali il potere sussiste, salvo diverso accordo delle parti: v. sez. 39 dell’Arbitration Act 1996; sembra invece presupporre l’accordo delle parti per la pronuncia di qualsiasi provvedimento cautelare la legge egiziana: art. 24, 1° comma, della legge sull’arbitrato in materia civile e commerciale).

Il testo della delega prevede che la volontà delle parti possa essere “manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo”. Mentre il riferimento alla convenzione di arbitrato è ovviamente idoneo a coprire i tre tipi di accordo compromissorio noti all’ordinamento (compromesso, clausola compromissoria e convenzione arbitrale relativa a rapporti non contrattuali: articoli 807-808-bis cod. proc. civ.), ci si può chiedere quali situazioni contemplasse il legislatore delegante nel riferirsi ad “atto scritto successivo”. Salva la facoltà delle parti di convenire l’attribuzione di poteri cautelari agli arbitri con atto apposito, prima o dopo l’insorgere della controversia e l’inizio dell’arbitrato, più realisticamente può pensarsi a un accordo raggiunto in sede di discussione delle regole applicabili al procedimento e riflesso in un documento concordato (per es., l’“atto di missione” previsto dall’art. 23 del Regolamento CCI). Da un punto di vista pratico, un accordo sul punto successivo all’insorgere della controversia, quando gli interessi delle parti, anche rispetto alle forme di tutela disponibili davanti agli arbitri, tendono a divergere, sembra comunque assai improbabile.

La portata effettiva di questa condizione dipenderà da come i decreti delegati o, nel silenzio di questi, l’interprete la intenderà. Se il riferimento a un regolamento arbitrale che preveda i poteri cautelari degli arbitri fosse infatti considerato sufficiente, il problema non si porrebbe nell’arbitrato amministrato, che, come è noto, costituisce una parte cospicua, se non maggioritaria, dei procedimenti arbitrali internazionali aventi sede in Italia. La grande maggioranza dei regolamenti più diffusi a livello internazionale, compresi quelli comunemente utilizzati in arbitrati aventi sede in Italia, prevede infatti la competenza cautelare degli arbitri (v., per es., l’art. 28 del Regolamento CCI e l’art. 26, par. 1, del regolamento della Camera arbitrale di Milano, che già nella sua attuale versione, in vigore dal 2020, riconosce il potere degli arbitri di emanare provvedimenti “che non siano vietati da norme inderogabili applicabili al procedimento”; il riconoscimento della facoltà delle parti di conferire agli arbitri il potere di assumere provvedimenti cautelari escluderebbe senz’altro la perdurante esistenza di un divieto di natura inderogabile). Vista la natura “espressa” della scelta di un regolamento e l’incorporazione di questo nell’accordo compromissorio, un’interpretazione che reputi sufficiente, ai fini del conferimento dei poteri cautelari agli arbitri, il rinvio ad un regolamento che lo preveda sembra compatibile con la delega. Non può tuttavia escludersi che prevalga una diversa lettura, confortata dal riferimento della legge delega alla necessità di “espressa” volontà dei compromittenti e del testo della Commissione Luiso alla “libera e consapevole scelta dei compromittenti”. Se, quindi, il mero riferimento ad un regolamento arbitrale non sarà considerato sufficiente, e sarà invece richiesto uno specifico accordo delle parti, e comunque nell’arbitrato ad hoc, sarà opportuno tenere a mente tale condizione al momento della redazione dell’accordo compromissorio e prevedere i poteri cautelari degli arbitri in modo esplicito.

Se il conferimento agli arbitri dei poteri cautelari (rectius, il riconoscimento del potere dei compromittenti di conferire loro tali poteri) era da tempo annunciato ed auspicato, ben più sorprendente appare l’esclusione del potere concorrente dell’autorità giudiziaria a partire dal momento dell’accettazione del mandato da parte degli arbitri. Si tratta infatti di una completa inversione di rotta: da un regime a competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria in ogni fase, quale quello attuale, si passerebbe ad uno a competenza esclusiva degli arbitri. Non solo: salva l’ovvia conferma dei poteri cautelari dell’autorità giudiziaria nella fase precedente la costituzione dell’organo arbitrale, verrebbe meno la competenza concorrente di giudici e arbitri nella fase successiva, che invece ispira la grande maggioranza delle moderne legislazioni in materia di arbitrato (v., per es., art. 17J della legge modello UNCITRAL sull’arbitrato commerciale internazionale, come modificata nel 2006: “A court shall have the same power of issuing an interim measure in relation to arbitration proceedings, irrespective of whether their place is in the territory of this State, as it has in relation to proceedings in courts. The court shall exercise such power in accordance with its own procedures in consideration of the specific features of international arbitration”) e dei regolamenti arbitrali (art. 28 del Regolamento CCI; art. 26, par. 3, del Regolamento UNCITRAL; art. 37, par. 5, del Regolamento dell’Istituto arbitrale della Camera di commercio di Stoccolma). Questo brusco mutamento di rotta richiederà peraltro almeno una modifica dell’art. 669-quinquies cod. proc. civ. (“Se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri, anche non rituali, o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito”) per tenere conto dell’eventuale accordo dei compromittenti di conferire agli arbitri il potere di assumere provvedimenti cautelari, con conseguente esclusione della competenza dei giudici lite pendente.

Il riferimento all’“all’accettazione degli arbitri” come dies a quo per l’esclusione della competenza cautelare dell’autorità giudiziaria è tale da dar luogo a qualche incertezza. Mentre l’art. 813 cod. proc. civ. individua nell’accettazione del mandato il momento iniziale del giudizio arbitrale, anche ai fini della pronuncia del lodo (art. 820 cod. proc. civ.), questa norma è derogabile e di fatto spesso derogata attraverso il riferimento a regolamenti arbitrali che prevedono requisiti ulteriori e successivi all’accettazione del mandato per l’effettivo inizio del giudizio davanti agli arbitri (v., per es., l’art. 16 del Regolamento CCI, che prevede la trasmissione del fascicolo al tribunale arbitrale al momento della sua costituzione, non da quello dell’accettazione degli arbitri, e a condizione del versamento dell’anticipo a copertura delle spese del procedimento). Sarà quindi opportuno che di questa possibile discrepanza si tenga conto nella normativa delegata o, in mancanza, in sede interpretativa, per evitare un vuoto di tutela cautelare nella fase successiva all’accettazione del mandato da parte degli arbitri, ma prima che essi siano effettivamente posti in grado di provvedere.

La facoltà dei compromittenti di conferire agli arbitri poteri cautelari con atto successivo all’inizio dell’arbitrato potrebbe determinare il venir meno dell’analogo potere dell’autorità giudiziaria ordinaria nel corso del procedimento arbitrale.

Se l’esito del processo legislativo fosse effettivamente l’esclusione dei poteri cautelari del giudice ordinario a partire dal momento in cui gli arbitri siano essi stessi in grado di provvedere (al riguardo la delega non sembra lasciare spazio a diverse interpretazioni), la legge italiana si troverebbe al riguardo in posizione più favorevole alle prerogative arbitrali della maggior parte degli ordinamenti tradizionalmente ritenuti più “arbitration-friendly”. Questi, infatti, pur dando precedenza all’arbitro, lasciano alle parti la scelta dell’autorità – giudiziaria o arbitrale – cui rivolgersi anche dopo la costituzione del tribunale arbitrale (competenza perfettamente concorrente tra arbitri e giudici è prevista dal diritto svizzero: v. Lalive, Poudret, Reymond, Le droit de l’arbitrage interne et international en Suisse, Lausanne, 1990, p. 369; il potere dei giudici di assumere misure cautelari in pendenza dell’arbitrato in diritto inglese è limitato al caso in cui l’arbitro sia impossibilitato ad intervenire o a farlo efficacemente: v. sez. 44, par. 5, dell’Arbitration Act 1996; Merkin, Flannery, Merkin Flannery on the Arbitration Act 1996, London/Singapore, 2020, sub sez. 44).

Il favor arbitrati sembra essere stato a questo riguardo interpretato da parte del legislatore delegante in modo estremo e non del tutto opportuno. Si può infatti dubitare che l’esclusione del potere concorrente del giudice ordinario a partire dalla nomina degli arbitri risponda all’interesse delle parti in arbitrato, che potrebbero maggiormente beneficiare della facoltà di scegliere tra i due organi tenendo conto della natura della misura, dell’ordinamento nel quale essa è destinata a trovare attuazione, dell’urgenza e di ogni altra circostanza rilevante. Quando, per esempio, l’efficacia del provvedimento dipenda dalla sua natura immediatamente esecutiva, e l’esecuzione presupponga l’esercizio di poteri coercitivi (per es., sequestro conservativo), la parte istante potrebbe avere interesse a rivolgere l’istanza all’autorità giudiziaria, così evitando la necessità di ottenere un provvedimento giudiziale che conferisca efficacia esecutiva alla misura arbitrale (competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria è prevista infatti in Francia in materia di sequestro conservativo, malgrado la competenza esclusiva degli arbitri, a partire dalla costituzione del tribunale arbitrale, per l’adozione di ogni altro provvedimento cautelare: v. art. 1468, 1° comma, del codice di procedura civile francese; Clay, L’appui du juge à l’arbitrage, Les Cahiers de l’arbitrage, 2011, n. 2, p. 85). L’inadeguatezza dei poteri arbitrali si manifesta ancora più chiaramente rispetto a provvedimenti la cui efficacia dipenda dal loro produrre effetti anche in capo a soggetti terzi rispetto all’accordo compromissorio, ovviamente preclusi agli arbitri a causa dei limiti soggettivi della convenzione arbitrale ed invece disponibili all’autorità giudiziaria. Si pensi al provvedimento che inibisca l’escussione di una garanzia bancaria o assicurativa accessoria al rapporto contrattuale contenente l’accordo compromissorio, che potrebbe rivelarsi pienamente efficace solo se diretta anche nei confronti della banca o della compagnia assicurativa garante.

Ci si può chiedere come il coordinamento dei poteri degli arbitri e dei giudici funzionerà rispetto ai cosiddetti procedimenti di “arbitrato d’urgenza”, meccanismi introdotti in numerosi regolamenti arbitrali nell’ultimo quindicennio che mirano a sopperire all’assenza di un organo arbitrale cui rivolgere l’istanza ante causam e consentono la nomina rapida di un “arbitro d’urgenza” per la sola assunzione di misure urgenti (v. art. 29 e appendice V al Regolamento CCI; appendice II al Regolamento dell’Istituto arbitrale di Stoccolma; art. 9B del Regolamento della London Court of International Arbitration; v. Sim, Emergency Arbitration, Oxford, 2021). Benché il procedimento davanti all’arbitro d’urgenza non sia del tutto autonomo rispetto a quello arbitrale ordinario, ed anzi in molti casi la perdurante efficacia dei provvedimenti del primo presupponga la successiva instaurazione del giudizio arbitrale sul merito (art. 1, par. 6, dell’appendice V al Regolamento CCI), si può ritenere che sarà a partire dall’accettazione del mandato da parte dell’arbitro d’urgenza (o dal soddisfacimento di ulteriori requisiti eventualmente previsti dal regolamento applicabile), e non da quella dell’organo arbitrale ordinario, che la competenza dell’autorità giudiziaria sarà preclusa in applicazione del principio sancito dalla delega.

Il riconoscimento dei poteri cautelari degli arbitri presuppone l’elaborazione di un regime di esecuzione dei provvedimenti, che infatti la legge delega prevede (“disciplinare le modalità di attuazione della misura cautelare”), senza tuttavia fornire indicazioni sulle modalità di tale attuazione, salva l’ovvia considerazione che essa debba avvenire “sotto il controllo del giudice ordinario”.

Non costituisce strumento utile ad ottenere il riconoscimento e l’esecuzione dei provvedimenti cautelari la Convenzione di New York sul riconoscimento e l’esecuzione dei lodi esteri (per riferimenti, v. Carlevaris, The Enforcement of Provisional Measures, in Provisional Measures Issued by International Courts and Tribunals (a cura di Palombino, Virzo e Zarra), The Hague, 2021, p. 297 ss.; per rare opinioni favorevoli all’applicabilità della Convenzione, v. Kojović, Court Enforcement of Arbitral Decisions on Provisional Relief – How Final is Provisional, Journal of Int. Arbitration, 2001, p. 511 ss.). In primo luogo, infatti, la Convenzione è destinata al solo riconoscimento di decisioni estere, e non sarebbe comunque applicabile a provvedimenti resi in arbitrati aventi sede nello stesso ordinamento. In secondo luogo, la nozione di “lodo” (“arbitral award”, “sentence arbitrale”) oggetto della Convenzione non sembra tale da ricomprendere i provvedimenti cautelari. Malgrado l’assenza di una definizione nella stessa Convenzione, la nozione sembra infatti presupporre una stabilità e definitività di cui i provvedimenti cautelari tipicamente difettano (per una decisione svizzera al riguardo, v. Tribunale Federale, 13 aprile 2010, ATF 136 III 2010). La pronuncia del provvedimento in forma di lodo non varrebbe ad aggirare l’ostacolo, dal momento che il giudice del riconoscimento potrebbe riqualificare il provvedimento in base al suo contenuto, a prescindere dallo strumento formale adottato dagli arbitri. In terzo luogo, oggetto specifico della Convenzione di New York è, da un lato, il riconoscimento delle convenzioni per arbitrato estero, che esclude la competenza dell’autorità giudiziaria sul merito delle controversie (art. II della Convenzione di New York), e, dall’altro, il riconoscimento dei lodi pronunciati in base a tali accordi compromissori. Sarebbe incongruo escludere i provvedimenti cautelari dall’ambito di applicazione della Convenzione sotto il primo profilo, ma non sotto il secondo. Ammettere l’applicabilità della Convenzione significherebbe quindi escludere la competenza dei giudici in materia cautelare, che, come si è visto, è invece quasi universalmente ammessa, e che neanche la riforma escluderebbe del tutto. Infine, come meglio si vedrà in prosieguo, diversi requisiti per il riconoscimento (rectius, motivi ostativi al riconoscimento) dei lodi in base alla Convenzione di New York sembrano incompatibili con la natura dei provvedimenti cautelari, e dettati invece in considerazione di lodi sul merito. Nei rari casi noti, la giurisprudenza ha negato l’applicabilità della Convenzione di New York ai provvedimenti cautelari (v. Supreme Court of Queensland, Resort Condominiums International, Inc. v. Ray Bolwell and Resort Condominiums (Australasia) Pty. Ltd., 29 ottobre 1993, Yearbook Commercial Arbitration 1995, pp. 628 ss.).

Volgendo dunque lo sguardo alle norme nazionali sul riconoscimento e l’esecuzione dei provvedimenti, due sono i modelli legislativi prevalenti (Carlevaris, The Recognition and Enforcement of Interim Measures Ordered by International Arbitrators, Yearbook of Private International Law, 2007, pp. 507 ss.). Secondo un primo modello, il provvedimento arbitrale è riconosciuto ed eseguito nell’ordinamento mediante exequatur, ovvero un provvedimento dell’autorità giudiziaria che, analogamente a quanto avviene per i lodi, si limita a dichiarare l’efficacia del provvedimento arbitrale nell’ordinamento, salvi vizi indicati tassativamente, senza in alcun modo modificarne il contenuto. Si tratta del modello introdotto per prima dalla legge olandese del 1986, che estende ai provvedimenti resi in procedimenti cautelari il regime di riconoscimento dei lodi (art. 1052, 3° comma, del codice di procedura civile olandese: “A decision rendered in summary proceedings shall be regarded as an arbitral award to which the provisions of Sections Three to Five inclusive of this Title shall be applicable”), e successivamente adottato dalla legge modello UNCITRAL con la revisione del 2006 (articoli 17H, par. 1 e 17I, par. 1). Modello legislativo alternativo a quello dell’exequatur è quello cosiddetto “di assistenza dell’autorità giudiziaria”, secondo il quale il giudice dell’esecuzione non si limita a conferire efficacia esecutiva al provvedimento arbitrale, ma assume un autonomo provvedimento il cui contenuto mira a dare attuazione alla misura arbitrale (v. l’art. 183, 2° comma, della legge svizzera di diritto internazionale privato: “[s]i la partie concernée ne s’y soumet pas, le tribunal arbitral peut requérir le concours du juge compétent. Celui-ci applique son propre droit”). Occorrerà quindi attendere i decreti delegati per vedere se il legislatore italiano opterà per un regime di exequatur, per uno di assistenza dell’autorità giudiziaria, ovvero per un sistema ibrido: è, per esempio, il caso della legge tedesca, in cui al giudice, in sede di esecuzione, è riconosciuto un limitato potere di modificare il contenuto del provvedimento arbitrale per renderlo compatibile con il diritto tedesco (sez. 1041, 2° comma, della Zivilprozessordung), e della legge inglese, in cui al giudice è riconosciuto il potere di conferire efficacia esecutiva ad un “peremptory order”, reso dal tribunale arbitrale a seguito della mancata ottemperanza alla misura cautelare originaria (sez. 42 dell’Arbitration Act 1996).

Qualora il legislatore delegato optasse per un regime di exequatur, decisamente prevalente a livello internazionale, sarà opportuno che, nel dettare i motivi ostativi al riconoscimento, esso consideri le specifiche caratteristiche della tutela cautelare e non si limiti a riprodurre pedissequamente i motivi di rifiuto di riconoscimento dei lodi ex articoli 839-840 cod. proc. civ. e art. V della Convenzione di New York. Alcuni di questi motivi sembrano infatti difficilmente compatibili con la natura cautelare dei provvedimenti ed andrebbero almeno adattati alla luce di questa. Si pensi al requisito della validità della convenzione arbitrale (art. 840 n. 1, cod. proc. civ.; art. V, par.1, lett. a) della Convenzione di New York), che postula l’accertamento, da parte del giudice del riconoscimento, della competenza del tribunale arbitrale che ha pronunciato la decisione da riconoscersi. È noto che, vista l’estrema urgenza che spesso caratterizza le istanze cautelari, il provvedimento sia talvolta concesso prima di un tale pieno accertamento. All’arbitro è generalmente consentito pronunciarsi sulla cautela richiesta in base ad un accertamento solo sommario della propria competenza (Benz, Strengthening Interim Measures in International Arbitration, Georgia Journal of Int. Law, 2018, p. 143). Analogo standard andrebbe quindi applicato in sede di riconoscimento. Altro esempio è rappresentato dal requisito del rispetto dei diritti di difesa delle parti nel procedimento che ha condotto al provvedimento da riconoscersi (art. 840 n. 2, cod. proc. civ.; art. V, par. 1, lett. b) della Convenzione di New York). Nel giudizio cautelare, gli standard procedurali applicabili differiscono da quelli propri del giudizio ordinario di merito e sono anche ammesse temporanee limitazioni dei diritti delle parti funzionali all’efficacia del provvedimento (per es. provvedimenti inaudita altera parte). Di questi diversi standard dovrebbe tenersi conto anche ai fini del riconoscimento.

È forse chiedere troppo auspicare che i decreti delegati trattino specificamente anche dell’esecuzione dei provvedimenti assunti dagli “arbitri d’urgenza” in base ai meccanismi cui si è in precedenza accennato, come pure fanno alcune delle più avanzate legislazioni sull’arbitrato (v. sezioni 22A e 22B dell’Hong Kong Arbitration Ordinance; sez. 2, par. 1, dell’International Arbitration Act e sez. 2, par. 1, dell’Arbitration Act di Singapore; sez. 2, par. 1, dell’Arbitration Act neozelandese). Il meccanismo adottato per dare attuazione ai provvedimenti cautelari degli arbitri in procedimenti ordinari, qualunque esso sia, sarà comunque utilizzabile anche per i provvedimenti degli emergency arbitrators, indipendentemente dalla forma in cui questi saranno adottati (alcuni regolamenti, come quello di Stoccolma, lasciano agli arbitri la scelta del tipo di provvedimento, altri, come quello CCI, prevedono unicamente la forma dell’ordinanza).

Il regime di attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali non dovrebbe inoltre trascurare di coprire non solo i provvedimenti resi in procedimenti aventi sede in Italia, ma anche quelli resi in arbitrati esteri. Una volta ammessi i poteri cautelari degli arbitri rispetto a procedimenti interni, non si vedono ostacoli di principio alla riconoscibilità di provvedimenti esteri, che è infatti espressamente ammessa dalla legge modello UNCITRAL (art. 17H, par. 1: “irrespective of the country in which it was issued”).

Infine, un’adeguata e completa disciplina del riconoscimento dei provvedimenti cautelari arbitrali dovrebbe tenere conto dell’eventualità in cui il provvedimento, per natura instabile e non definitivo, sia modificato o revocato in sede arbitrale. Un’appropriata disciplina di coordinamento dovrebbe riflettere la modifica o perdita di efficacia del provvedimento già riconosciuto.

La legge delega prevede un ruolo del giudice, oltre che per l’attuazione, anche in sede di reclamo avverso l’ordinanza cautelare “per i motivi di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile e per contrarietà all’ordine pubblico”, e la lettera f) del 15° comma della legge, nel prevedere la trasposizione delle norme sull’arbitrato societario nel codice di rito, prevede che l’ordinanza arbitrale di sospensione delle delibere assembleari, attualmente dichiarata non reclamabile, sia invece anch’essa assoggettata alla facoltà di reclamo.

Non sorprende la previsione della reclamabilità del provvedimento cautelare. La dottrina straniera ha infatti da tempo indicato la facoltà di rimozione degli effetti dei provvedimenti cautelari nell’ordinamento di origine come necessario, od almeno opportuno, contraltare alla loro eseguibilità (Besson, Arbitrage international et mesures provisoires, Zurich, 1999, pp. 343-344; Berger, International Economic Arbitration, Deventer/Boston, 1993, p. 589). Questa soluzione non è tuttavia scevra da rischi di ingerenza da parte del giudice. C’è infatti da temere che questi compensi l’assenza di poteri cautelari autonomi con un’interpretazione espansiva del proprio ruolo in sede di reclamo. Meglio sarebbe stato prevedere un potere concorrente dell’autorità giudiziaria, limitato, quando gli arbitri si siano già pronunciati, al caso di mutamento delle circostanze esistenti al momento del provvedimento arbitrale.

Il riferimento ai motivi di impugnazione dei lodi sembra al riguardo una garanzia che i motivi di reclamo saranno limitati a vizi macroscopici del provvedimento cautelare, con esclusione del riesame del merito dell’istanza cautelare. Come osservato sopra a proposito dell’esecuzione, tuttavia, a lasciare perplessi è il riferimento ai motivi di impugnazione dei lodi rispetto al reclamo avverso i provvedimenti cautelari. Per i motivi indicati in precedenza, non sembrano per esempio automaticamente applicabili alla materia cautelare i motivi di impugnazione dei lodi di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 10 (relativi alla validità e all’ambito di applicazione della convenzione arbitrale, alla regolarità della costituzione del tribunale arbitrale, alla capacità di essere arbitro e all’erronea declinatoria di competenza) e 9 (violazione del contraddittorio) dell’art. 829 cod. proc. civ. È quindi opportuno che, in attuazione della delega, il legislatore tenga conto della specificità della tutela cautelare ed elabori motivi di reclamo autonomi, o per lo meno adatti quelli relativi ai lodi ex art. 829, 1° comma, cod. proc. civ.

In conclusione, la normativa relativa alla tutela cautelare nell’arbitrato contenuta nella legge delega non può dirsi perfetta. Delude in particolare la condizione dell’espresso accordo dei compromittenti, che, in mancanza di interpretazione estensiva in sede di adozione dei decreti delegati, rischia di limitare significativamente la portata innovativa della riforma. Sorprendente, e non convincente, appare poi l’eccesso di zelo del legislatore delegante nel privare l’autorità giudiziaria del relativo potere a partire dall’accettazione del mandato da parte degli arbitri. Infine, sarebbe stata auspicabile una maggiore attenzione alle caratteristiche specifiche della tutela cautelare e l’elaborazione di motivi di reclamo almeno in parte diversi dai motivi di impugnazione dei lodi.

Ciò premesso, la rimozione del “tabù” dei poteri cautelari degli arbitri nella legge delega è motivo di grande soddisfazione per chi abbia a cuore l’efficacia del giudizio arbitrale e la crescita dell’Italia come sede di procedimenti arbitrali internazionali. Vista la laconicità della norma delegante, la qualità della riforma circa gli aspetti qui esaminati largamente dipenderà da scelte demandate al legislatore delegato, al quale spetterà quindi valorizzare gli spunti più innovativi e condivisibili della delega. Sembra quindi possibile, ed è certamente auspicabile, l’adozione di una normativa attuativa che interpreti in modo estensivo il contenuto della delega pur restando nel solco da questa segnato.

V.- Lett. d: legge applicabile (Massimo Benedettelli)

1. Tra i principi e criteri direttivi che il Governo è chiamato a rispettare in sede di riforma della disciplina dell’arbitrato vi è anche quello di “prevedere, nel caso di decisione secondo diritto, il potere delle parti di indicazione e scelta della legge applicabile” (art. 15, lett. d), l. 26 novembre 2021, n. 206). Si è apparentemente in presenza di una hard-and-fast rule, che sembrerebbe escludere qualsiasi discrezionalità del legislatore delegato. In realtà, l’ambiguità, e lacunosità, della formula utilizzata pone alcune preliminari questioni, risolvendo le quali non solo si conferma che c’è in realtà spazio per la potestà normativa dell’esecutivo, ma si determina anche la direzione in cui questa dovrebbe auspicabilmente esercitarsi.

2.La formula è innanzitutto ambigua in quanto nel linguaggio corrente con le espressioni “indicare” e “scegliere” ci si riferisce ad attività distinte tra cui non intercorre necessariamente una relazione biunivoca (cfr. il vocabolario Treccani: https://www.treccani.it/vocabolario/indicare e https://www.treccani.it/vocabolario/scégliere): giacché se una scelta presuppone l’individuazione di due, o più, oggetti idonei a svolgere una stessa funzione rispetto ai quali il soggetto esercita poi la sua electio, un’indicazione può anche aversi con riguardo ad un oggetto che è invece funzionalmente unico. Fuor di astrazione, posto che l’ordinamento italiano riconosce ai privati poteri di optio legis solo in materia contrattuale e, ma a particolari condizioni e con riguardo a limitati profili, in materia di responsabilità da fatto illecito, successioni e rapporti patrimoniali tra coniugi, nulla impedisce di immaginare situazioni in cui la controversia deferita al giudizio arbitrale riguardi questioni rispetto alle quali una unica legge abbia titolo per applicarsi (può accadere, p.e., in materia societaria o fallimentare), e in cui le parti vogliano nondimeno assicurarsi che il tribunale arbitrale decida in base a tale legge, come da esse preventivamente individuata.

3.La formula è altresì ambigua nella misura in cui, contrapponendo “diritto” a “legge”, sembrerebbe dire che negli arbitrati in cui la deliberazione avviene “secondo le norme di diritto” anziché “secondo equità” – per riprendere l’art. 822 c.p.c. – le parti possano scegliere soltanto fonti aventi valore e forza di legge. Se così fosse, si introdurrebbe una disparità di trattamento tra giudizio arbitrale e giudizio civile, apparentemente priva di giustificazione. L’art. 822 c.p.c., infatti, usa la stessa espressione dell’art. 113, primo comma, c.p.c. che nel sancire il principio iura novit curia impegna il giudice togato ad applicare, appunto, le “norme del diritto”, e la giurisprudenza ha da tempo chiarito che tali vanno considerate tutte le fonti di diritto obbiettivo che presentino il duplice requisito della normatività e della giuridicità (cfr., p.e., Cass. n. 2019/34158), dunque anche fonti consuetudinarie poste in ambienti sociali diversi dalla comunità statuale. E’ così quando il diritto applicabile sia il diritto italiano, come conferma il riferimento dell’art. 1, n. 4, disp. prel. c.c. agli usi, ma è così anche quando il diritto applicabile sia quello straniero, non essendovi dubbi che il Titolo III della l. n. 1995/218 di riforma del diritto internazionale privato, non a caso rubricato “Diritto applicabile”, nel prevedere l’applicazione da parte del giudice della “legge straniera” richiama in realtà l’intero sistema delle fonti dello Stato estero volta a volta in rilievo (cfr. F. Mosconi, C. Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, I, 2020 (9 ed.), p. 22 s.), dunque anche fonti di diritto non statuale cui quell’ordinamento dia eventualmente riconoscimento. Peraltro, se le parti abbiano o no il potere di disporre che il tribunale arbitrale decida in applicazione di norme non statuali è stata questione a lungo controversa, risolta in senso positivo dall’abrogato art. 834 c.p.c. (secondo la prevalente dottrina, che così interpretava il riferimento alle “norme”) nel contesto della disciplina speciale dettata per l’arbitrato internazionale dalla riforma del 1994. E si può per lo meno dubitare che il legislatore abbia ora inteso assumere una posizione opposta, sancendo un espresso divieto, dato che, come si vedrà, i lavori preparatori non contengono alcuna indicazione in tal senso.

4.La formula è infine lacunosa in quanto si occupa soltanto di uno dei molteplici problemi che il tribunale arbitrale può incontrare nel determinare il diritto applicabile al merito della controversia, quello appunto dei poteri di optio legis da riconoscere alle parti. A differenza dell’abrogato art. 834 c.p.c. nulla si dice, infatti, sui criteri che il tribunale arbitrale deve adoperare per individuare tale diritto quando le parti non abbiano effettuato alcuna scelta, ipotesi alla quale va equiparata quella in cui l’accordo di scelta sia invalido, (l’art. 834 c.p.c. prevedeva che in tal caso si applicasse “la legge con la quale il rapporto è più strettamente collegato”), e sulla rilevanza che il tribunale arbitrale deve attribuire al regolamento contrattuale ed agli usi (l’art. 834 c.p.c. prevedeva che, sia in presenza che in difetto di una optio legis, gli arbitri comunque “tengono conto delle indicazioni del contratto e degli usi del commercio”). Né si affrontano (ma non le affrontava neanche l’art. 834 c.p.c.) varie questioni che possono porsi all’atto dell’applicazione di un patto di optio legis, quali p.e. quelle della sua legge regolatrice, della sua validità, del suo ambito, della sua relazione con norme e principi imperativi, quelle stesse questioni che il giudice togato risolverebbe in base a precise disposizioni di diritto internazionale privato (cfr. Reg. (CE) n. 593/2008 “Roma I”, rispettivamente agli artt. 3(5), 10, 11, 13, 3(3), 3(4), 9, 21).

5.Tutte queste ambiguità e lacune dell’art. 15, lett. d) possono superarsi considerando oggetto e finalità della delega, i lavori preparatori ed il contesto in cui la novellazione verrà ad operare.

6.Come noto, la riforma della disciplina dell’arbitrato viene a realizzarsi nel più ampio contesto del “riassetto formale e sostanziale del processo civile” in funzione di “obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione” (art. 1, comma primo, l. n. 2021/206). Nella Relazione che accompagna le proposte avanzate a tale riguardo dalla Commissione Luiso, tutte poi sostanzialmente recepite nella legge-delega, si legge che l’obiettivo perseguito è quello di una “generale valorizzazione dell’istituto” arbitrale e di un “potenziamento delle sue specifiche prerogative”, anche al fine di “rinsaldare la fiducia” dei suoi “potenziali fruitori”, di “allineare la disciplina italiana … a quanto previsto negli ordinamenti europei” e di rendere il ricorso all’arbitrato (è implicito, con sede in Italia) “maggiormente attrattivo … anche per soggetti e investitori stranieri”. Anche se questi ultimi rilievi vengono fatti per giustificare le innovazioni in punto di attribuzione al tribunale arbitrale di poteri cautelari, essi testimoniano comunque della ratio generale dell’intervento riformatore e possono senz’altro essere estesi alla disposizione sulla optio legis qui commentata, disposizione che la Relazione motiva (solo) con l’esigenza di razionalizzare la disciplina dell’arbitrato. Nello stesso senso, peraltro, si muove la successiva Relazione tecnica dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, quando dice che la riforma persegue la “finalità di inquadrare sistematicamente e valorizzare l’istituto dell’arbitrato”, soprattutto a vantaggio delle imprese ed in “ambito commerciale ed internazionale”.

7.Tutto ciò sta a indicare che il legislatore vuole, in generale, “migliorare” la disciplina italiana dell’arbitrato, anche guardando all’esperienza di ordinamenti stranieri (ritenuti più avanzati), sul presupposto che ciò agevoli l’afflusso di capitali stranieri e contribuisca alla modernizzazione del nostro sistema-paese.

8.La prospettiva è corretta e la policy è condivisibile.

9.Come noto, la Convenzione di New York del 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, nonché disposizioni di diritto internazionale privato comuni alla maggior parte degli Stati (per l’Italia, l’art. 4 della l. n. 218/1995), già oggi consentono agli operatori economici, anche con riguardo a controversie del tutto interne al loro Stato di origine, di scegliere su scala quasi planetaria sia l’ordinamento nel quale radicare il procedimento arbitrale – per mezzo della localizzazione della sede dell’arbitrato, che ha il duplice effetto di attribuire alle corti dello Stato della sede competenza (presumibilmente esclusiva: cfr. M.V. Benedettelli, Harmonization and Pluralism in the New York Convention: Balancing Party Autonomy and State Sovereignty, in Benicke, S. Huber (a cura di) National, International, Transnational: Harmonischer Dreiklang im Recht. Festschrift für Herbert Kronke, Bielefeld, 2020, p. 1329 ss., a p. 1339) con riguardo al controllo della validità del lodo e ad altre funzioni di supporto della procedura, e di assoggettare il procedimento arbitrale alla legge che in tale Stato regola l’arbitrato – sia gli ordinamenti (potenzialmente diversi) nei quali dare esecuzione al lodo. Tale scelta ha luogo (o dovrebbe aver luogo, ove gli operatori economici, e i loro consulenti legali, agissero razionalmente) in una logica da forum e law shopping, comparando cioè la “qualità” delle diverse istituzioni e leggi statali chiamate a dare garanzia ed effettività al negozio compromissorio e alle decisioni pronunziate sul suo fondamento.

10.Gli Stati possono avere un proprio interesse a “competere” attivamente su tale “mercato” nella misura in cui l’arbitrato può divenire una vera e propria “industria” generatrice di reddito, come dimostra l’esperienza delle principali piazze della giustizia arbitrale (Londra, Parigi, Ginevra, New York, Singapore) in cui ogni anno migliaia di professionisti rendono servizi (quali arbitri, difensori, esperti, funzionari di camere arbitrali) per la soluzione di controversie spesso prive di qualsivoglia connessione con lo Stato in cui operano, salva, appunto, la localizzazione della sede dell’arbitrato o di procedimenti giudiziali ad esso connessi. Non ci sono ragioni per le quali l’Italia non possa aspirare a divenire anch’essa una delle sedi d’arbitrato preferite dal commercio internazionale, considerata la reputazione di cui godono i suoi giuristi, alcuni dei quali sono membri riconosciuti della comunità dell’arbitrato internazionale (su questa nozione, cfr. M.V. Benedettelli, International Arbitration in Italy, Alphen aan den Rjin, 2020, p. 6 s.), la sofisticazione del proprio diritto dell’arbitrato quale interpretato da un’ampia e articolata giurisprudenza (cfr. M.V. Benedettelli, ibid., p. 37 ss.), e la collocazione geo-politica del nostro Stato che potrebbe attrarre arbitrati coinvolgenti operatori dell’area mediterranea per ragioni sia di “neutralità” che di “vicinanza” ed “efficienza”.

11.Anche quando non intenda partecipare attivamente alla “concorrenza tra ordinamenti” proponendosi come hub per arbitrati internazionali, uno Stato può nondimeno avere un diverso (e più concreto) interesse a favorire la scelta delle parti di localizzare la sede dell’arbitrato al suo interno: se il rapporto litigioso coinvolge propri operatori economici, perché per un’impresa è ovviamente più agevole ed efficiente ricorrere all’arbitrato domestico piuttosto che all’arbitrato straniero; o comunque se la lite risulta altrimenti connessa con la sua comunità nazionale, in quanto nell’ambito di un arbitrato domestico le corti godranno di maggiori poteri per controllare che procedimento e lodo non confliggano con norme e principi imperativi che lo Stato può volere siano protetti anche nel contesto di controversie transfrontaliere. Che questa esigenza sia avvertita anche dal legislatore italiano è dimostrato dalla inderogabilità attribuita a varie disposizioni della disciplina speciale dell’arbitrato societario, e dai rischi che la loro efficacia possa essere compromessa quando la sede di un arbitrato interessante una società di diritto italiano venga posta all’estero (cfr. M.V. Benedettelli, Arbitrato societario con sede estera? Sì, ma …, in delle società, 2021, p. 152 ss.).

12.Se queste considerazioni di politica legislativa giustificano, in generale, che nel riformare il diritto italiano dell’arbitrato si prendano come benchmark di riferimento le tendenze in atto a livello internazionale, un intervento riformatore con riguardo alla questione del diritto applicabile al merito della causa si giustifica poi, in particolare, tenuto conto delle incertezze sul se e cosa il diritto italiano disponga attualmente a questo proposito.

13.Come noto, sino alla introduzione con la l. 5 gennaio 1994, n. 5 di un regime speciale per l’arbitrato (domestico) “internazionale” (nel senso di cui all’abrogato art. 832 c.p.c.) il diritto italiano dell’arbitrato risultava privo di una disposizione ad hoc sui conflitti di leggi. Questo silenzio permetteva ai tribunali arbitrali con sede in Italia di conformarsi alla posizione consolidatasi nella prassi degli arbitrati internazionali, e confermata dal diritto di vari ordinamenti, per cui il tribunale arbitrale, derivando i propri poteri da un atto di autonomia privata, non è organo di nessuno Stato, neanche dello Stato in cui l’arbitrato ha sede, e quindi, a differenza di una corte, non è necessariamente vincolato all’applicazione di una determinata legislazione di diritto internazionale privato (cfr. T.M. de Boer, Choice of Law in Arbitration Proceedings, in Recueil des Cours, t. 375, 2014, p. 61 ss., a p. 79 ss.), neanche (come invece riteneva un orientamento più risalente: cfr. F.A. Mann, Lex Facit Arbitrum, in P. Sanders (a cura di), International Arbitration: Liber Amicorum for Martin Domke, Leiden, 1967, p. 167 ss.) di quella in vigore nello Stato della sede. Espressa con la icastica formula per cui “international arbitrators have no forum”, questa posizione ha consentito ai tribunali arbitrali di fare ricorso ad una pluralità di metodi alternativi: selezione di una legge statale di diritto internazionale privato tra quelle degli Stati che presentano un collegamento con la controversia (incluso lo Stato della sede); applicazione delle norme (di conflitto o materiali) degli Stati collegati con la controversia, ove e nei limiti in cui tali norme convergano nella disciplina di una determinata questione (c.d. tronc commun); applicazione di norme, o principi, sui conflitti di leggi che risultino comuni alla maggior parte degli ordinamenti statali, o che il tribunale arbitrale ritenga espressione di una consuetudine mercatoriale, o rispondenti alle esigenze della comunità degli affari, o comunque “giusti”; individuazione del diritto materiale applicabile (statale o non statale) per voie directe, e cioè senza l’intermediazione di norme, o principi, conflittuali; e altri ancora (cfr. G. Born, International Commercial Arbitration, Alphen aan den Rjin, 2021 (3rd), p. 2844 ss.).

14.Con la riforma del 1994 si è introdotta la disposizione di cui all’art. 834 c.p.c., che ha posto le già menzionate regole sulla determinazione del diritto applicabile al merito da parte di tribunali arbitrali aventi sede in Italia. Peraltro, tali regole riguardavano solo procedimenti tra parti residenti o aventi la propria sede effettiva all’estero alla data di sottoscrizione della convenzione arbitrale, o relativi a rapporti fonti di prestazioni da eseguirsi in parte rilevante all’estero, e non trovavano quindi applicazione nell’ambito di arbitrati domestici in cui problemi di conflitti di leggi fossero pure emersi, ma in virtù di elementi di estraneità diversi da quelli individuati nell’art. 832 c.p.c.

15.L’art. 834 è stato poi abrogato dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ciò che la dottrina ha interpretato come segno di un arretramento su posizioni meno sensibili alle esigenze del commercio internazionale (cfr. L. Radicati di Brozolo, Requiem per il regime dualista dell’arbitrato internazionale in Italia? Riflessioni sull’ultima riforma, in dir. proc., 2010, p. 1275). Come notato altrove, (M.V. Benedettelli, International Arbitration in Italy, cit., pp. 15, 82, 155 ss., 319) è in realtà possibile una lettura diversa, fondata sul rilievo che nelle intenzioni del legislatore dell’ultima riforma il ritorno ad un sistema “monistico” ha espresso la volontà di estendere agli arbitrati privi di elementi di estraneità le soluzioni più arbitration-friendly contenute nella disciplina dell’arbitrato internazionale, che ha quindi finito per perdere la propria ragion d’essere quale diritto speciale (cfr. l’art. 3, lett. b) della l. 14 maggio 2005, n. 80). Se è così, in assenza di una espressa indicazione del legislatore in senso contrario, e coerentemente con tale generale obiettivo, l’abrogazione dell’art. 834 c.p.c. (come anche dell’art. 833 c.p.c., nella parte in cui “rafforzava” la validità delle convenzioni arbitrali escludendo l’applicazione alle stesse degli artt. 1341 e 1342 c.c. ed ammettendone la stipulazione per relatio imperfecta) potrebbe intendersi come una mera e non intenzionale svista redazionale, con la conseguenza che le disposizioni lì contenute potrebbero essere ancora valorizzate per interpretare ed applicare il diritto italiano dell’arbitrato. Come che sia, un chiarimento sul punto appare necessario, e giustifica le istruzioni date dal legislatore delegante al legislatore delegato con l’art. 15, lett. d).

16.Su queste premesse, ci sembra che il Governo non commetterà eccesso di delega, esponendo la normativa delegata a rischi di illegittimità ex 76 e 77, primo comma, Cost., se, da un lato, affronterà la questione del potere delle parti di rinviare a fonti di diritto non statuale senza ritenersi vincolato da un divieto che il legislatore delegante non sembra abbia voluto porre (e che sarebbe comunque in contrasto con gli obbiettivi perseguiti con la novella), e se, dall’altro lato, darà disciplina anche alla connessa questione del potere degli arbitri di determinare il diritto applicabile al merito della controversia in difetto di una (valida) scelta pattizia. In entrambi i casi il Governo “razionalizzerebbe” la disciplina vigente, allineando il diritto italiano alle tendenze prevalenti negli ordinamenti stranieri in cui vengono prevalentemente localizzati gli arbitrati internazionali, interpreterebbe in modo sistematico e teleologico la volontà del legislatore delegante valorizzandone le finalità ultime (cfr. Corte cost., sentenza n. 276/2016) ed introdurrebbe norme che, se pur non espressamente contemplate nella legge-delega, rappresentano un coerente sviluppo e necessario completamento delle scelte di politica legislativa ad essa sottese (cfr. Corte cost., sentenze n. 230/1991, n. 355/193, n. 362/1995, n. 10/2018).

17.Chiarito che la disposizione di cui all’art. 15, lett. d) non è self-executing, e che esistono quindi margini per l’esercizio da parte del Governo di discrezionalità normativa nella materia lì disciplinata, si possono ora svolgere alcune sintetiche considerazioni sul contenuto che sarebbe auspicabile dare alla novella.

18.Come si diceva, i tribunali arbitrali internazionali godono di un’ampia discrezionalità nella individuazione del diritto sulla cui base va deciso il merito della causa. Ciò vale sia quando la lex arbitri è sul punto silente, sia anche quando la lex arbitri contiene disposizioni ad hoc. Queste disposizioni, infatti, oltre a convergere nel consentire alle parti di assoggettare il rapporto controverso a fonti di diritto sia statale che non statale (“rules of law”, “règles des droit”, “Rechtsvorschriften”, “Rechtsregeln”, “normas jurìdicas”), prevedono che in difetto di una optio legis sarà il tribunale arbitrale a individuare il diritto applicabile, talora “direttamente”, talora per il tramite di una norma di conflitto, talora per rinvio a fonti non statali, ma comunque sulla base di criteri “sintetici” e vaghi, quali il “collegamento più stretto” tra la disposizione (materiale o conflittuale) e la fattispecie, o la “appropriatezza” della sua applicazione nelle circostanze (cfr., con non irrilevanti varianti, gli artt. 1511 del c.p.c. francese, 187(1) della legge di diritto internazionale privato svizzero, 41 del 1996 Arbitration Act inglese, 1051 della ZPO tedesca, 34 delle legge spagnola sull’arbitrato; cfr. anche l’art. 28 della UNCITRAL Model Law on International Commercial Arbitration). Queste disposizioni sono peraltro spesso ritenute derogabili, anche per mezzo di rinvio a regolamenti arbitrali i quali, a loro volta, contengono discipline di contenuto identico o simile a quello delle norme più su citate (cfr. International Chamber of Commerce, art. 21(1); London Court of International Arbitration, art. 22(3); German Arbitration Institute – DIS, art. 24(1); Swiss Arbitration Association, art. 35).

19.A prima vista, l’ampia discrezionalità così riconosciuta ai tribunali arbitrali sembrerebbe contrastare con esigenze di certezza e prevedibilità. Ed infatti vi è chi ha sostenuto che a questo riguardo, più che di un potere (necessariamente limitato, come tutti i poteri giuridici, sia dalla fonte che lo attribuisce e lo regola, sia dalla funzione per cui viene conferito), gli arbitri internazionali godrebbero di una vera e propria “libertà”, da esercitare avendo come unica guida la propria coscienza e la propria etica (cfr. Mayer, La liberté de l’arbitre, in Rev. arb., 2013, p. 339 ss.). In realtà, le cose non stanno così, una volta che si superino una serie di semplificazioni e falsi ragionamenti che talora compromettono l’analisi della questione.

20.La premessa da cui partire è che i tribunali internazionali “have no forum” per la semplice ragione che … multipli, e spesso portatori di discipline divergenti, possono essere i fori rilevanti per la loro azione. L’idea che possano esserci dei “floating arbitrations” fondati esclusivamente sul consenso delle parti, o svolgentisi esclusivamente in seno ad un ordinamento mercatoriale del tutto détaché da quelli statali, oltre a riflettere un fraintendimento sul senso stesso della autonomia privata (cfr. M.V. Benedettelli, International Arbitration in Italy, cit., p. 7 ss.), si scontra col dato empirico per cui è da escludere che a tutt’oggi la comunità internazionale degli affari sia stata in grado di generare un sistema generale non solo di norme, ma anche di istituzioni in grado di dare efficacia alle norme attraverso propri meccanismi, sanzionatori o premiali (cfr. M.V. Benedettelli, , p. 11 ss.).

21.In uno scritto di molti anni fa (cfr. M.V. Benedettelli, L’arbitrato commerciale internazionale tra autonomia privata e coordinamento di sistemi giuridici: riflessioni in margine al nuovo Regolamento di arbitrato della Camera di Commercio Internazionale, in dir. int. priv. proc., 1997, p. 899 ss.) avevamo già sottolineato che: (i) ciò che differenzia e caratterizza l’arbitrato internazionale rispetto all’arbitrato interno è proprio il fatto che la convenzione arbitrale, e la funzione giudiziale che sulla sua base viene a svolgersi, sono potenzialmente oggetto di valutazione da parte di una pluralità di ordinamenti giuridici, in quanto più ordinamenti giuridici possono essere chiamati a cooperare alla attuazione della volontà compromissoria e del lodo che ne è il prodotto, o possono porre limiti o condizioni al suo esplicarsi a garanzia di propri superiori valori e interessi; (ii) spetta al tribunale arbitrale individuare in via preliminare tali ordinamenti ed attuarne il coordinamento, in quanto come privati che agiscono su mandato di altri privati gli arbitri sono tenuti sia a determinare fondamento e contenuti dei poteri ad essi conferiti, sia ad assicurare per quanto possibile l’utilità del loro esercizio, e cioè a fare del proprio meglio, con la diligenza del caso, affinché le proprie decisioni siano valide ed eseguibili negli ordinamenti in cui le parti hanno un verosimile interesse a che le stesse siano riconosciute; (iii) l’indagine da svolgersi a tal fine dovrà necessariamente muovere dalla volontà delle parti (quale espressa nella convenzione arbitrale o in successivi atti che abbiano dato a questa esecuzione), ma dovrà necessariamente considerare anche gli ordinamenti che, prescindendo dalle intenzioni delle parti o anche in contrasto con le loro determinazioni, ritengano il proprio diritto applicabile in ragione di criteri obiettivi di connessione con la procedura arbitrale e con il lodo; (iv) tali ordinamenti saranno prevalentemente ordinamenti statali (e vpotrebbero essere anche ordinamenti non statali, espressione di comunità diverse da quelle nazionali, ma solo ove si accerti che in specifiche industrie o settori si sono realizzate forme di integrazione sociale tali da consentire l’emergenza non solo di corpi di norme materiali, ma anche di strumenti o di condizioni, ivi incluso il ricorso alla giustizia arbitrale, che ne assicurino l’adempimento prescindendo dall’intervento del potere coercitivo statale).

22.Queste risalenti riflessioni ci sembrano ancora attuali, salvo notare che la prassi più recente dimostra che gli operatori economici internazionali (i) privilegiano la giustizia privata alla giustizia togata in primo luogo per la idoneità dei lodi a “circolare” internazionalmente, grazie alla Convenzione di New York, in vista della loro esecuzione forzata ad opera delle autorità statali (cfr. Queen Mary University School of International Arbitration, International Arbitration Survey: The Evolution of International Arbitration, 2018, consultabile in https://www.whitecase.com/sites/default/files/files/download/publications/qmul-international-arbitration-survey-2018-19.pdf), (ii) quasi sempre scelgono espressamente la sede dell’arbitrato così “ancorando” il procedimento all’ordinamento di un determinato Stato (è quanto risulta dalle statistiche della Corte dell’International Chamber of Commerce con riguardo agli arbitrati da essa amministrati: cfr. https://iccwbo.org/publication/icc-dispute-resolution-statistics-2020) e (iii) nella maggior parte dei casi assoggettano il rapporto controverso ad una legge statale anziché a fonti non statali (cfr. Dasser, That Rare Bird: Non-National Legal Standards as Applicable Law in Commercial Arbitration, World Arb. & Med. Rev., 2011, p. 144 ss., a p. 147) sì da giustificare l’osservazione per cui la lex mercatoria può ormai essere considerata “an academic curiosity, with little relevance for either business or international commerce” (G. Born, International Commercial Arbitration, cit., p. 2974).

23.Sottolineare che un arbitrato è “internazionale” quando mette in contatto più ordinamenti giuridici (statali), richiamare cioè l’attenzione sui (potenziali) conflitti tra ordinamenti, ancor più e ancor prima che sui conflitti tra norme, cui esso può dare origine, significa innanzitutto chiarire che quello del diritto applicabile al merito della controversia è solo un aspetto, e non necessariamente il più importante, del più ampio problema di coordinamento tra valori giuridici che i soggetti a vario titolo coinvolti in un procedimento arbitrale con elementi di estraneità (arbitri, difensori, giudici, funzionari di istituzioni arbitrali) possono trovarsi a dover affrontare. E’ così in quanto la stessa attuazione del patto di scelta di legge solleva, come si è già visto, numerose questioni conflittuali. Questioni di conflitti di legge possono poi porsi anche in punto di jurisdiction (e cioè, con riguardo alla allocazione di poteri tra tribunali arbitrali, corti ed istituzioni arbitrali), di regolamento della procedura arbitrale, di controllo e riconoscimento del lodo. E tribunali arbitrali, corti ed istituzioni arbitrali possono essere chiamati a valutare gli effetti da attribuire a procedimenti arbitrali o giudiziali pendenti tra le stesse parti o con riguardo a rapporti connessi con quello sub judice, o a lodi o sentenze pronunciati a loro esito, dunque a coordinare la propria attività con quella svolta, in ipotesi in ordinamenti diversi, da altri organi di giustizia, privata o togata, in vista della produzione di valori giuridici.

24.Focalizzarsi sul rapporto tra arbitrato internazionale ed ordinamenti significa anche (ri)valutare il ruolo che in tale contesto va attribuito al diritto internazionale privato. Riconoscere, come si è detto, che gli arbitri internazionali non sono in linea di principio vincolati al rispetto di una determinata legislazione statale sui conflitti di leggi e di giurisdizioni (come lo sono i giudici, anche quando svolgono funzioni di supporto ad un procedimento arbitrale o al riconoscimento o esecuzione di un lodo) non significa affatto escludere che gli arbitri internazionali possano applicare il diritto internazionale privato di un determinato Stato, quando lo ritengano appropriato sulla base di uno dei metodi ricordati inizialmente, o quando ciò sia richiesto dalle parti (esplicitamente, o implicitamente, come accade allorché la lex arbitri scelta dalle parti contiene norme di conflitto ad hoc: cfr. G. Born, , International Commercial Arbitration, cit., p. 2868).

25.Ma anche quando manchi il riferimento ad un determinato diritto positivo, il diritto internazionale privato può venire comunque in rilievo come branca del pensiero giuridico dalla quale trarre gli strumenti tecnici per risolvere quei problemi di coordinamento che necessariamente sorgono quando una fattispecie è potenzialmente esposta alle loro concorrenti valutazioni di diversi ordinamenti giuridici. Infatti, anche l’arbitro, come il giudice: (i) deve qualificare correttamente la questione controversa prima di individuare il diritto ad essa applicabile, sia perché il “miraggio pan-processuale/pan-contrattuale” per cui l’unica alternativa possibile sarebbe quella tra lex arbitri e lex contractus è palesemente semplicistico e foriero di errori (per un esempio, cfr. le nostre critiche ad Genova n. 649/2020, in M.V. Benedettelli, Arbitrato societario con sede estera? Sì, ma …, cit. a p. 163 ss.), sia perché esistono materie (p.e., la prescrizione, le presunzioni legali, gli interessi) che in diverse tradizioni giuridiche vengono alternativamente qualificate come attinenti alla procedura o al merito; (ii) deve distinguere tra questioni preliminari e questioni principali, ben potendo le prime essere decise, incidentalmente e con effetti limitati al procedimento, in base ad una legge diversa da quella applicabile alle seconde, decise con efficacia di giudicato; (iii) può avvalersi di criteri di collegamento o di giurisdizione per individuare i diritti, o gli ordinamenti, rilevanti; (iv) può dare rilevanza a norme di diritto internazionale privato dell’ordinamento al quale appartiene la legge prescelta perché se è normale che il rinvio internazionalprivatistico non operi in materia contrattuale (ed è questo a nostro avviso il significato da attribuire a disposizioni come quella dell’art. 28(1) della UNCITRAL Model Law on International Commercial Arbitration, nonostante la loro più ampia formulazione), esso può ben operare in altri casi (cfr. A. Leandro, Qualche riflessione sul rinvio nell’arbitrato commerciale internazionale, in Liber Amicorum Angelo Davì – La vita giuridica internazionale nell’età della globalizzazione, Napoli, 2019, III, p. 1881 ss.), p.e. quando si tratti di accertare la capacità delle parti a stipulare la convenzione arbitrale (cfr. F. Ragno, The Incapacity Defense under Article V(1)(a) of the New York Convention, in F. Ferrari, F.J. Rosenfeld (a cura di), Autonomous Versus Domestic Concepts under the New York Convention, Alphen aan den Rjin, 2021, 159 ss.); (v) può distinguere tra norme imperative “semplici”, europee, e di applicazione necessaria, da valorizzare “in positivo”, e principi di ordine pubblico, da valorizzare “in negativo” (cfr. gli artt. 3(3), 3(4) e 9 del Reg. (CE) n. n. 593/2008 “Roma I”); (vi) può chiedersi se si sia in presenza di un “false conflict” o di un “true conflict” e, in questo secondo caso, se il concorso di leggi possa essere risolto con tecniche di “gold-plating” o di adattamento delle norme in rilievo.

26.Non avrebbe senso argomentare in senso contrario, come talora si legge, che il diritto internazionale privato è “complicato” e che la sua applicazione contrasterebbe con le legittime aspettative delle parti. Il diritto internazionale privato (se lo si conosce, perché lo si è studiato e capito) non è affatto complicato, o per lo meno non è più complicato di quanto lo sia il diritto dei contratti, il diritto societario, il diritto fallimentare. Semmai, sono complicati i problemi sollevati dal coordinamento tra ordinamenti, ma questi problemi non scompaiono solo perché l’arbitro li ignora, o perché ignora le tecniche internazionalprivatistiche che potrebbe agevolarne la soluzione. Quanto alle aspettative delle parti, potrebbero darsi situazioni in cui queste sono meglio tutelate dal ricorso ad un determinato sistema di diritto internazionale privato (p.e., due società aventi sede in Stati membri dell’U.E. sarebbero più “colte di sorpresa” se la controversia che le oppone in relazione ad un contratto di distribuzione o di agenzia venisse risolta in base a norme di diritto non statale, anziché alla legge designata ai sensi del ricordato regolamento comunitario “Roma I”). E comunque la materia dei conflitti di leggi e giurisdizione non è disponibile dai privati quando entrano in gioco interessi di terzi (cfr. G. Cordero-Moss, Conflict of Laws as a Basis to Determine the Arbitral Tribunal’s Power, in F. Ferrari, S. Kröll, Conflict of Laws in International Commercial Arbitration, New York, 2019, p. 163 ss., a p. 177 s.), com’è facile accada, p.e., nel contenzioso societario o fallimentare, o quando lo Stato faccia valere propri interessi pubblicistici al regolamento del mercato.

27.Né il diritto internazionale privato si evita quando il diritto applicabile viene determinato dal tribunale arbitrale per “voie directe” o per rinvio a strumenti di diritto uniforme, come usa dire, “transnazionale”. Se è vero che ragionare sulla base di sillogismi e darne conto alle parti per mezzo di motivazioni appartiene all’essenza stessa del giudicare (ed infatti un lodo privo di motivazioni è in molti ordinamenti invalido), gli arbitri dovranno comunque giustificare sia perché abbiano preferito scegliere “direttamente” una certa fonte anziché ricorrere ad una norma di conflitto, sia perché la loro scelta sia poi caduta sull’una piuttosto che sull’altra delle varie fonti che avevano potenzialmente titolo per applicarsi, e tale giustificazione necessariamente comporterà il ricorso ad una logica conflittuale (cfr. M.V. Benedettelli, L’arbitrato commerciale internazionale , cit., p. 907). Quanto alle fonti di diritto uniforme “transnazionale”, peraltro per lo più esistenti solo in materia contrattuale, queste sono frequentemente caratterizzate da lacune, che il tribunale arbitrale non potrà colmare in via pretoriana (perché in difetto di una autorizzazione delle parti a decidere in via equitativa ciò potrebbe configurare un eccesso di potere, e di nuovo esporre il lodo al rischio di invalidità: cfr. M.V. Benedettelli, Applying the UNIDROIT Principles in International Arbitration: An Exercise in Conflicts, in J. Int’l Arb., 2016, p. 653 ff., a p. 673 s.), dovendo piuttosto ricorrere a fonti di diritto statuale, ancora una volta da selezionare tra le varie potenzialmente applicabili sulla base di norme o principi di conflitto (cfr. F. Ferrrari, Forum Shopping Despite Unification of Law, Leiden, 2021).

28.Tutto quanto sin qui osservato indica la complessità dei problemi lato sensu conflittuali cui può dare origine un arbitrato internazionale, problemi che sarebbe vano cercare di risolvere in una singola legge statale di arbitrato, e tanto meno con una disposizione sul diritto applicabile al merito della causa. In realtà, le situazioni che possono presentarsi nella pratica sono le più varie, dipendendo dagli ordinamenti volta a volta in concorso, dal contenuto delle loro norme e dalla prassi delle loro istituzioni, dai beni della vita (materiali o anche simbolici) che le parti vogliono tutelare agendo in giudizio, e dagli atti che le parti hanno posto in essere a tal fine. E conseguentemente varie saranno le modalità con le quali i tribunali arbitrali dovranno affrontare potenziali conflitti di leggi e giurisdizioni, avendo sempre come lodestar il loro obbligo di rendere alle parti una decisione utile in quanto valida ed eseguibile.

29.Commentando la disposizione sul diritto applicabile al merito della controversia introdotta nel Regolamento della Camera di commercio internazionale con la revisione del 1998 (art. 17(1), corrispondente all’attuale art. 21(1)) avevamo notato come questa andasse apprezzata per la flessibilità che riconosceva al tribunale arbitrale in quanto, lungi dal vincolarlo al ricorso alla “voie directe” ed all’applicazione di fonti di diritto non statuale (come una lettura veloce avrebbe potuto suggerire), gli consentiva invece di utilizzare il metodo conflittuale volta a volta ritenuto più appropriato alla luce delle circostanze del caso (cfr. M.V. Benedettelli, L’arbitrato commerciale internazionale , cit., p. 907; per simili conclusioni v. ora J. Fry, S. Greenberg, F. Mazza, The Secretariat’s Guide to ICC Arbitration, Paris, 2012, p. 221 s.).

30.Ci sembra che questa stessa (opportuna) flessibilità sarebbe conferita a tribunali arbitrali aventi sede in Italia qualora venisse reintrodotta la disposizione dell’abrogato art. 834 c.p.c., ma con una variante. In difetto di optio legis il tribunale arbitrale dovrebbe essere autorizzato ad applicare (non, come recitava l’art. 834 c.p.c., “la legge con la quale il rapporto è più strettamente collegato”, bensì) la legge che considera più appropriata. Il criterio del collegamento più stretto, utilizzato soprattutto nella materia contrattuale e coerente con l’idea di origine savigniana per cui ogni rapporto giuridico non può che avere un’unica “sede” o “centro di gravità”, non sembra sempre e necessariamente adatto per risolvere i conflitti di leggi cui può dare origine un arbitrato internazionale, nei quali leggi di Stati diversi possono avere parimenti titolo ad applicarsi in virtù dello “stretto legame” che presentano con il proprio ordinamento d’origine, ma per ragioni e in ambiti diversi. Ovviamente, la formula così proposta in qualche modo amplierebbe la discrezionalità del tribunale arbitrale, ma tale discrezionalità è connaturata alla funzione svolta dall’arbitro internazionale, e va limitata (e controllata) facendo piuttosto un uso appropriato delle tecniche internazionalprivatistiche di cui si è più su detto, per poi darne conto alle parti fornendo adeguate motivazioni.

VI.- Lett. e): termine di impugnazione del lodo (Elena Marinucci).

1.L’art. 1, comma 15 della legge 26 novembre 2021, n. 206 dispone che “il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’arbitrato sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi […] e) ridurre a sei mesi il termine di cui all’articolo 828, secondo comma, del codice di procedura civile per la proposizione dell’impugnazione per nullità del lodo rituale, equiparandolo al termine di cui all’articolo 327, primo comma, del codice di procedura civile”.

Come è noto, il vigente art. 828, comma 2, c.p.c. prevede che il c.d. temine lungo di impugnazione del lodo arbitrale rituale sia di un anno e decorra dalla data dell’ultima sottoscrizione degli arbitri. Il legislatore delegante dichiara ora di volere equiparare quel termine a quello previsto per la impugnazione della sentenza del giudice togato che, a seguito della legge 18 giugno 2009, n. 69, è stato dimezzato a sei mesi (C. Rasia, Prime riflessioni sul progetto della commissione Luiso in materia di arbitrato, in Riv. trim. dir e proc. civ., 2021, 1055 ss. ritiene che il legislatore delegato del 2006 si sia dimenticato di ridurre il termine di impugnazione).

Non si prevede invece alcuna modifica del c.d. termine breve che resta di novanta giorni decorrenti dalla notificazione del lodo (a fronte dei trenta giorni per proporre appello avverso le sentenze di primo grado).

La indicazione del legislatore delegante pare potersi inquadrare sia nell’obiettivo del contenimento dei tempi del processo, sia in quello della progressiva equiparazione tra la funzione del giudice togato e quella degli arbitri rituali (di cui l’art. 824 bis c.p.c. – che assimila la efficacia dichiarativa del lodo a quella della sentenza – costituisce la principale e più vistosa espressione): la equiparazione riguarderà in futuro anche il tempo necessario affinché la decisione divenga irretrattabile. Del resto, negli arbitrati regolati dal Codice di contratti pubblici, il termine lungo è (già) di centottanta giorni dalla data del deposito del lodo presso la Camera arbitrale per i contratti pubblici (art. 209, comma 14, d.lgs. n. 50/2016).

Resta da capire se il legislatore delegato si limiterà a dimezzare il termine lungo di decadenza per impugnare o se interverrà (rectius: sia opportuno che intervenga) anche sul dies a quo della sua decorrenza, oggi indicato dall’art. 828, comma 2, c.p.c. nella “data dell’ultima sottoscrizione”.

Il dubbio si pone perché la questione del dies a quo della decorrenza del termine lungo per l’impugnazione del lodo arbitrale rituale è oggetto di un dibattito piuttosto acceso, sul quale la Cassazione a sezioni unite è di recente intervenuta a composizione di un contrasto creatosi nella giurisprudenza. E, nell’ambito di questa discussione, si assegna rilevanza all’attuale ampiezza del termine lungo per impugnare il lodo (Cass. S.U. 30 marzo 2021, n. 8776, in Giur. it, 2021, c. 2184 ss., con nota di F. Godio, Le Sez. un. confermano: il termine lungo per impugnare il lodo decorre dall’ultima sottoscrizione; in Riv. trim. dir. proc. civ., 2021, p. 1339 ss., con nota di M. Naselli Flores, Alle sezioni unite il dies a quo per la decorrenza del termine lungo ad impugnare il lodo arbitrale; in Giurisprudenza arbitrale, 2021, p. 117 ss., con nota di S. Conforti La decorrenza del termine di impugnazione del lodo arbitrale, tra esigenze di certezza e tutela del diritto di difesa; in ilprocessocivile, 2021, con nota di M. di Marzio, Il termine «lungo» per l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale decorre dall’ultima sottoscrizione).

Pare pertanto utile ripercorrere, almeno per sommi capi, i termini della questione, per verificare se sia opportuno che il legislatore delegato, dimezzando il termine, modifichi anche il terminus a quo dell’impugnazione, o se comunque, ove la predetta modifica non sia considerata autorizzata dal tenore della dalla legge delega, il dibattitto di cui sopra sia destinato ad acutizzarsi.

2. Secondo un primo orientamento, occorrerebbe superare (con un’interpretazione costituzionalmente orientata) il tenore letterale dell’art. 828, comma 2, c.p.c. e considerare come dies a quo della decorrenza del termine lungo (non già l’ultima sottoscrizione degli arbitri, bensì) la data in cui le parti abbiano ricevuto la comunicazione del lodo ex articolo 824, comma 2, c.p.c. (a norma del quale: “Gli arbitri redigono il lodo in uno o più originali. Gli arbitri danno comunicazione dello da ciascuna parte mediante consegna di un originale, o di una copia attestata conforme dagli stessi arbitri, anche con spedizione in plico raccomandato, entro 10 giorni dalla sottoscrizione del lodo”).

Si ritiene infatti che violerebbe i principi del giusto processo il fatto che il termine di impugnazione del lodo decorra (rectius: inizi a decorrere) anche nel caso – remoto ma in astratto possibile – in cui gli arbitri ritardino nel dare comunicazione del lodo o addirittura omettano di farlo. Ciò anche considerando che “la tardiva consegna del lodo non è motivo di inefficacia dello stesso: sicché, per assurdo, se il lodo fosse consegnato alle parti dopo un anno dall’ultima sottoscrizione, esse non potrebbero più impugnarlo” (F. P. Luiso, Diritto processuale civile. La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, V, 11ª ed., Milano, 2021, p. 249; nello stesso senso: S. Boccagna – G. Ruffini – E. Manzo, sub art. 828, in Commentario breve  al diritto dell’arbitrato nazionale e internazionale, Milano, 2017, p. 407; L. Piccininni, Disciplina dell’impugnazione del lodo e prospettive di riforma, in La tutela dei diritti e le regole del processo, in Quaderni dell’Associazione italiana tra gli studiosi del processo civile, Atti del XXXI Convegno Nazionale; Bologna, 2019, p. 480.; e già ante novella del 2006: G. Tarzia, in Tarzia-Luzzato-Ricci, Legge 5 febbraio 1994, n. 25, Padova, 1995, p. 160).

In assenza di comunicazione del lodo e nella impossibilità di consultare registri pubblici equivalenti a quelli presso le cancellerie, allo stato, potrebbe accadere che la parte non sia posta in condizione di conoscere il tenore della decisione degli arbitri e cionondimeno il termine per impugnare decorra, in tutto o in parte.

Si soggiunge altresì che la Corte costituzionale, con la sentenza 22 gennaio 2015 n. 3 in materia di termine lungo di impugnazione della sentenza, per il caso di sfasamento temporale tra il deposito in cancelleria della sentenza da parte del giudice e la effettiva pubblicazione della stessa, ha ritenuto che il termine debba iniziare a decorrere a valle di questo secondo adempimento che è il solo a rendere la decisione del giudice conoscibile: “la linea argomentativa potrebbe essere ritenuta trasponibile al lodo arbitrale per neutralizzare l’intervallo in cui il termine scorre senza che la parte interessata possa ancora saperlo” (Cass. 24 settembre 2020, n. 20104, in Riv. arb., 2020, p. 758 ss., con nota di V. Amendolagine, Il dies a quo del termine “lungo” per impugnare il lodo: deposito o comunicazione alle parti? e in Judicium, con nota di M. Morgese, Sulla possibile decorrenza del termine lungo di impugnazione del lodo arbitrale dalla sua comunicazione alle parti – e non dalla sottoscrizione).

3. Secondo altri – inclusa la Cassazione nella richiamata pronuncia a sezioni unite – il tenore letterale dell’art. 828, comma 2, c.p.c. non meriterebbe, invece, di essere superato.

La sottoscrizione del lodo come terminus a quo dell’impugnazione “esprime la logica e la struttura dell’intero sistema positivo dell’arbitrato” (Cass. S.U. 30 marzo 2021, n. 8776) e ha una sua precisa ragion d’essere, i cui remoti possibili ‘effetti collaterali’ sono ampiamente compensati dalla ‘lunghezza’ di un anno per il maturare della decadenza (in precedenza, in tal senso, Cass. 5 settembre 2018 n. 21648. La prima sezione della Corte di cassazione ha poi chiesto, con la pronuncia del 24 settembre 2020, n. 20104, la rimessione alle sezioni unite della questione – ritenuta di massima importanza – relativa proprio all’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine lungo).

La decorrenza del termine per impugnare durante l’arco temporale (il più delle volte verosimilmente breve) in cui ancora non vi sia effettiva conoscenza del lodo si ritiene sia controbilanciata dalla (e in un certo senso si spiega con la) ampiezza (un anno) del termine lungo di impugnazione; ampiezza che esclude qualsivoglia possibile lesione del diritto di difesa (Cass. S.U. 30 marzo 2021, n. 8776: “il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di talune disposizioni che, in tema di decorrenza di termini processuali d’impugnazione, fissavano la stessa – in luogo che dalla comunicazione agli interessati – da altri eventi. Ciò che, però, fa la differenza – inducendo, nell’esegesi in esame, a diversa conclusione – che in tutti quei casi si trattava di termini assai ristretti: così da potersi ravvisare l’effettiva compressione del diritto di difesa, attesa la non remota ipotizzabilità del loro decorso ignoto alla parte, pur diligente; tanto che il ricorso ad un’eventuale rimessione in termini avrebbe rischiato di divenire, inammissibilmente, non l’eccezione, ma la regola.”. E ancora: “il giudice delle leggi ha, invero, ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento alla presunta violazione del diritto di difesa, dell’art. 327 c.p.c., nella parte in cui prevede la decorrenza del termine annuale per l’impugnazione dalla pubblicazione della sentenza, anziché dalla sua comunicazione a cura della cancelleria: ciò, proprio in ragione della congruità del termine e del dovere di vigilanza dell’interessato, avendo dunque la norma operato un non irragionevole bilanciamento tra la tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa”).

Del resto – si soggiunge – la concessione di un termine di dieci giorni per comunicare il lodo ai sensi dell’art. 824, comma 2, c.p.c. implica, al più, una decurtazione di 10 giorni su un termine complessivo di 365 giorni ed è “priva di concreto significato e di apprezzabile capacità lesiva, tanto più, se rapportata al lungo periodo temporale di un anno previsto dall’art. 828 c.p.c.” (Cass. 24 settembre 2020, n. 20104).

Ove poi dovesse verificarsi il caso limite del lodo conosciuto dalle parti soccombenti oltre l’anno dall’ultima sottoscrizione o nella imminenza della scadenza del termine “dovrebbe ammettersi la possibilità di una rimessione in termini per l’impugnazione in applicazione dell’articolo 153 c.p.c.” (Cass. S.U. 30 marzo 2021, n. 8776; nello stesso senso: L. Salvaneschi, Decorrenza del termine lungo per l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, in Dir. affari, 2020, 772 s.; S. Conforti op. cit., p. 129 ss.).

Viceversa, la decorrenza del termine per impugnare dalla comunicazione del lodo renderebbe incerto il momento in cui il lodo passa in giudicato: potrebbe accadere “che, in difetto di comunicazione, quel termine non decorr[a] mai” (Cass. S.U. 30 marzo 2021, n. 8776; nello stesso senso: M. Naselli Flores, op. cit., 1339 ss.), che la comunicazione non avvenga nello stesso momento per entrambe le parti, che si generi incertezza tra decorrenza dall’invio o dalla ricezione della comunicazione (F. Godio, op. cit., 2184 ss.; S. Conforti, op. cit., p. 127).

Si aggiunge altresì che la previsione di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c. si inquadra armonicamente nella complessiva disciplina dell’arbitrato, che assegna alla sottoscrizione del lodo arbitrale la funzione di modalità di ‘pubblicazione’ dello stesso equivalente al deposito in cancelleria della sentenza e la scelta compiuta dal legislatore è oltretutto coerente con la tendenziale aspirazione alla riservatezza dell’arbitrato, salvo e finché le parti non vogliano trascrive il lodo, procedere a esecuzione forzata o impugnarlo (come è noto, non è sempre stato così: sia il codice del 1865 sia quello del 1940 prevedevano che il lodo acquisisse efficacia con il decreto di esecutorietà del tribunale. È solo con la l. 9 febbraio 1983, n. 28 che è stata assegnata efficacia vincolante al lodo arbitrale a far data dall’ultima sottoscrizione e a prescindere dal decreto di esecutorietà del tribunale, divenuto funzionale alla sola esecuzione del lodo. Il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ha poi esplicitato all’art. 824 bis c.p.c. la natura di quella efficacia vincolante e ha fugato ogni dubbio prevedendo espressamente, all’art. 827 c.p.c., che “i mezzi di impugnazione possono essere proposti indipendentemente dal deposito del lodo”).

4.Si tratta ora di verificare se la riduzione del termine lungo di impugnazione possa incidere sul dibattito sin qui riepilogato, offrendo un argomento ‘in più’ all’orientamento contrario alla decorrenza del termine lungo dall’ultima sottoscrizione.

La dimidiazione del termine implica che, in base al combinato disposto degli artt. 827, comma 2 e 824, comma 2, c.p.c., le parti possano avere a disposizione un termine di sei mesi ‘meno’ dieci giorni. Inoltre, in caso di ritardo degli arbitri nel dare comunicazione del lodo (oltre i dieci gironi comunque consentiti), si attenuerebbe la ‘compensazione’ offerta dal termine di un anno e potrebbero diventare più frequenti i casi in cui si imponga la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c..

Non mi pare che si tratti di inconvenienti particolarmente gravi, i quali, in ogni caso, potrebbero forse scongiurarsi con due minimi interventi del legislatore delegato: si tratterebbe di incidere sull’art. 824, comma 2, c.p.c., imponendo agli arbitri di dare comunicazione immediata del lodo, e forse di ritoccare la disciplina della responsabilità degli arbitri, chiarendo espressamente che l’omessa comunicazione del lodo possa costituire fonte di loro responsabilità (dubita del fatto che l’omessa comunicazione possa costituire fonte di responsabilità F. Godio, op. cit., 2184 ss.; contra: C. Punzi, Disegno sistematico, 2, II, Milano, 2012, p. 340).

Si noti poi che, come è stato efficacemente rilevato in dottrina, se è vero che le parti non hanno per il lodo, a differenza che per la sentenza, la possibilità di monitorarne la pubblicazione su ‘registri’ accessibili, è vero però che per il primo, diversamente da quanto accade per la seconda, le parti conoscono il termine per la pronuncia, sicché, decorsi i dieci giorni concessi la comunicazione ex art. 824, comma 2, c.p.c., esse possono, anzi, hanno l’onere di attivarsi presso l’arbitro o gli arbitri per verificare l’intervenuta sottoscrizione (F. Godio, op. cit., 2184 ss.): un adempimento assai agevole in caso di arbitrati amministrati, ma invero anche in caso di arbitrati ad hoc, considerato che la sede di un arbitrato è di norma fissata in uno studio professionale e che è invalsa la prassi di nominare un segretario dell’arbitrato.

Viceversa, se il legislatore delegato decidesse di modificare il dies a quo del termine lungo, indicandolo nella comunicazione del lodo e assegnando così alla stessa il rango di modalità di ‘pubblicazione’ della decisione degli arbitri, si renderebbe opportuno, se non necessario, intervenire su una molteplicità di norme: l’art. 824 bis c.p.c. che attribuisce al lodo efficacia della sentenza a far data dall’ultima sottoscrizione; l’art. 823 c.p.c. che assegna (sub nn. 7 e 8) alle sottoscrizioni degli arbitri e alla data delle stesse il rango di requisiti del lodo, aggiungendovi la sua comunicazione; gli artt. 820 e 821 c.p.c., prevedendosi che, ai fini del rispetto del termine per la pronuncia del lodo, rilevi la comunicazione dello stesso; l’art. 829, comma 1, n. 5, c.p.c., aggiungendosi, quale motivo di impugnazione del lodo, anche l’omessa comunicazione dello stesso (se elevata ex art. 823 c.p.c. al rango di requisito della decisione arbitrale); gli artt. 811 e 815 c.p.c., individuandosi nella comunicazione del lodo il momento ultimo oltre il quale non sarà più possibile, rispettivamente, procedere alla sostituzione degli arbitri e presentare istanza di ricusazione.

Insomma: la modifica del dies a quo del termine lungo di impugnazione mi pare soluzione più ‘impegnativa’, perché si risolverebbe in un intervento che incide sulla “logica e la struttura dell’intero sistema positivo dell’arbitrato” e, in quanto tale, non è forse neppure autorizzata dalla legge delega.. A ciò si aggiunga – come si è già osservato – che la stessa decorrenza del termine dalla comunicazione del lodo non sarebbe scevra di inconvenienti: a quelli già individuati (una possibile decorrenza del termine diversificata tra le parti, decorrenza dall’invio o dalla ricezione) si aggiunge anche il fatto che il lodo può e non deve essere comunicato necessariamente al difensore e che un difensore in arbitrato può anche non esserci (a norma dell’art. 816 bis c.p.c.), sicché la comunicazione del lodo non sempre potrà avvenire via posta elettronica certificata (con conseguente possibile verificarsi di vari inconvenienti).

In definitiva, mi pare che siano più forti le ragioni che rendono preferibile un intervento del legislatore delegato circoscritto alla durata del termine di impugnazione (eventualmente accompagnato dai correttivi sopra indicati in punto di termine per comunicarlo e sanzioni per la omessa comunicazione), piuttosto che uno esteso al dies a quo della sua decorrenza.

VII.- Lett. f): arbitrato societario (Laura Salvaneschi)

1..L’art. 1, coma 15, lettera f) della legge delega pone alcuni principi direttivi che andranno a incidere sull’arbitrato societario e che andranno articolati dai decreti delegati più di quanto possa apparire dalla disposizione della norma delegante. Quest’ultima indica infatti al futuro legislatore la necessità di “prevedere, nella prospettiva di riordino organico della materia e di semplificazione della normativa di riferimento, l’inserimento nel codice di procedura civile delle norme relative all’arbitrato societario e la conseguente abrogazione del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5; prevedere altresì la reclamabilità dell’ordinanza di cui all’articolo 35, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che decide sulla richiesta di sospensione della delibera”. Apparentemente tutto molto semplice e anche poco innovativo, se non fosse per l’inserimento, sicuramente dirompente, del reclamo nell’unica previsione che già consentiva una deroga al divieto di conferimento di poteri cautelari agli arbitri, lasciando però che questi ultimi si occupassero della sospensiva delle delibere sociali senza alcuna interferenza del giudice.

Si tratta tuttavia di semplicità solo apparente perché la prospettiva di riordino organico cui è invitato il legislatore delegato, richiede in realtà un lavoro di cesello che può non essere banale. Le disposizioni in materia di arbitrato societario che sono rimaste come unico residuo di vita all’interno dello scheletro dell’originario decreto societario, altro non sono infatti che un piccolo e compiuto corpo normativo che la riforma organica dell’arbitrato del 2006 ha mancato di coordinare con la nuova disciplina. Il nuovo legislatore delegato non dovrà quindi semplicemente incorporare nel codice di rito le poche norme sull’arbitrato societario rimaste orfane della restante parte della riforma processuale societaria del 2003, ma fare finalmente quel lavoro di coordinamento dei due modelli di arbitrato del tutto mancato nel 2006. Tutto ciò si dovrà realizzare lasciando tuttavia inalterata l’anima dell’arbitrato societario, ben diversa da quella propria del modello ordinario, concretando quindi un insieme di due modelli, senz’altro coordinati, ma pur sempre ben distinti e paralleli.

A operare questa integrazione aveva già provato la Commissione Alpa       con una Proposta che potrà fornire spunto per la nuova elaborazione (sia consentito il rinvio a L. Salvaneschi, Sulla “Proposta in materia di arbitrato per le controversie tra soci ovvero tra i soci e la società, in Giurisprudenza arbitrale 2017). Come già evidenziato allora, inserire le poche norme del decreto societario rimaste in vigore nel codice di procedura civile aiuterà a riempire di contenuto le disposizioni sull’arbitrato societario per le parti in cui sono silenti. Gli articoli 34 e seg. d. lgs. n. 5/2003 hanno un contenuto molto scarno ed è pensabile che continueranno a presentarsi sostanzialmente privi di dettaglio. Col favore di una collocazione sistematica unitaria le lacune degli art. 34 e seg. del d. lgs. n. 5/2003 potranno dunque essere integrate dalle norme generali che disciplinano l’arbitrato, salva la riserva di compatibilità con la disciplina speciale. Così, per fare un esempio, si può pensare all’ipotesi in cui la convenzione di arbitrato societario affidi correttamente a un soggetto terzo la nomina degli arbitri, ma manchi di indicarne il numero. Probabilmente già ora non si dovrebbe dubitare che la scarna normativa dell’art. 34 d.lgs. n. 6/2003 vada integrata con la disciplina dettata dall’art. 809, commi 1 e 3, c. p. c., posto che la regola della disparità degli arbitri è norma imperativa dettata a presidio della possibilità di pervenire sempre a una decisione e che l’indicazione di un collegio di tre arbitri, laddove non vi sia indicazione di parte, è regola sicuramente compatibile con l’arbitrato societario. Tuttavia, l’inserimento della normativa speciale nel codice di rito, possibilmente preceduta da una norma di raccordo che indichi, in modo simile a quanto prevedeva in generale l’art. 1, c. 4, d. lgs. n. 5/2003, che, per quanto non diversamente disciplinato dalle norme in tema di arbitrato societario si debbano applicare le disposizioni del codice di procedura civile di cui agli articoli 806 s. c.p.c. in quanto compatibili, potrà facilitare questo risultato. Nell’inserire nel codice di procedura civile le norme che regolano l’arbitrato societario, non andrà poi dimenticato che proprio questa è stata la materia antesignana dei poteri cautelari degli arbitri, le cui regole integrate nel sistema necessiteranno anche di un ritocco dell’articolo 669 quaterdecies c.p.c. perché non possa dubitarsi, come del resto già non si dubita, che il rito cautelare generale fa da supporto alla disciplina di ogni misura cautelare, sia anche disciplinata dal codice di rito in parti diverse da quelle oggi richiamate.

2.La legge delega nella norma in commento richiama la “prospettiva di riordino organico della materia e di semplificazione della normativa di riferimento” e non è facile dire se il referente di questa disposizione siano la sola materia speciale dell’arbitrato societario, oppure anche e più in generale la materia dell’arbitrato tout court. Nonostante la lettera f) dell’articolo 1, comma 15 sia relativa all’arbitrato societario, penserei che non sia solo questa, ma anche la disciplina generale dell’arbitrato che si vuole riordinata in modo tale da ricomprendere in sé il modello speciale, con semplificazione sia della normativa speciale che di quella generale sull’arbitrato, chiamata a integrare in un unico corpo normativo anche l’arbitrato societario.

Data questa direttiva di riordino, occorre chiedersi in primo luogo quali siano i limiti della delega e fino a che punto il legislatore delegato potrà spingersi nell’adempiere il compito che gli è stato affidato di incorporare nella disciplina generale quella propria del modello societario, operando il predetto riordino. E’ chiaro infatti che i decreti delegati non potranno che operare nei  limiti della delega, pena facili derive di incostituzionalità. Le prossime norme attuative non potranno quindi porre rimedio ad alcune lacune o problematiche proprie del modello societario, laddove per farlo si dovesse esorbitare il campo, forse limitato, di operatività segnato dalla legge delega con quell’indicazione di riordino organico della materia e di semplificazione della normativa di riferimento, che non prelude all’operatività di alcune innovazioni, pur da molti auspicate. Mi riferisco in particolare alle note limitazioni soggettive previste dalle norme societarie che lasciano le società quotate del tutto prive di ogni possibilità  di scelta per l’arbitrato che non sia quella, ben rara, della stipulazione di un compromesso a lite già insorta. Una modifica dell’art. 34 d. lgs. n. 5/2003 laddove esclude tutte le società che fanno ricorso al mercato  del capitale di rischio a norma dell’art. 2365 bis c.c. dalla possibilità di scegliere la via dell’arbitrato per il tramite di clausole compromissorie statutarie mi sembrerebbe infatti operazione che va ben oltre il riordino delegato, segnalando con ciò un’occasione mancata per correggere una anomalia priva di ogni condivisibile logica.

Allo stesso modo non rientrerebbe con larga probabilità nell’ambito dei confini consentiti una previsione che modificasse l’art. 34 d. lgs. n. 5/2003 nel senso di conservare la volontà arbitrale per l’ipotesi in cui le parti, pur scegliendo l’arbitrato in materia societaria, abbiano però previsto una nomina personale fiduciaria degli arbitri invece che affidarla a un soggetto terzo estraneo alla società. A fronte della normativa attuale sono noti i tentativi di conservazione della volontà arbitrale attraverso la sostituzione automatica della parte nulla della convenzione di arbitrato con la previsione di legge attraverso il meccanismo dell’art. 1419 c.c., tentativi senz’altro mossi dal favore per l’arbitrato, ma che attualmente si infrangono contro il dettato imperativo della disposizione che invoca la nullità radicale della convenzione di arbitrato. Sebbene l’intento di salvaguardia della volontà arbitrale sarebbe tutt’altro che criticabile, ho l’impressione che una disposizione delegata che prevedesse la sostituzione automatica della clausola nulla con quella di legge andrebbe esorbiterebbe i limiti della legge delega. A meno che non ci si voglia spingere a pensare che già gli interventi operati sull’art. 809 c.p.c. fin dalla riforma del 1994 a correzione di clausole compromissorie difformi dal dettato normativo hanno sempre avuto uno scopo conservativo della volontà arbitrale e che quindi la eventuale correzione in senso conservativo della previsione dell’art. 34 d. lgs. n. 5/2003 possa rientrare nell’ambito di quel riordino organico dell’intera materia voluto dalla legge delega.

Nell’accorpare la disciplina dell’arbitrato societario a quella tipica del codice di rito all’interno di un unico corpo normativo, riterrei invece operazione consentita che costituisce riordino organico della materia un intervento che riguardi la tanto discussa tematica dell’arbitrato irrituale societario. E’ noto che l’art. 35 d. lgs n. 5/2003 dispone che “La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’art. 669 quinquies” e che questa disposizione è stata scritta prima che nel 2005 il riferimento all’arbitrato irrituale fosse inserito direttamente anche nel disposto dell’art. 669 quinquies c.p.c. Sarebbe quindi doveroso che il legislatore delegato, nell’inserire nel codice di rito il testo dell’articolo 35 del decreto societario, prendesse una posizione in materia, riorganizzandola organicamente con riferimento al testo sopravvenuto della norma del rito uniforme che disciplina la competenza cautelare del giudice in presenza di convenzione di arbitrato. L’articolo 669 quinquies c.p.c. andrà infatti coordinato di necessità con la disciplina delegata attuativa dei principi direttivi contenuti nella precedente lettera c) ed è quindi auspicabile che i decreti delegati si preoccupino quindi anche di coordinare con la disciplina generale anche il disposto per questa parte dell’art. 35 d. lgs. n. 5/2003.

Per chiarezza, una facile operazione di coordinamento tra l’attuale disposizione societaria e il testo della norma cautelare sopravvenuta nel 2005 sarebbe quella di abrogare semplicemente l’inciso “anche non rituale”, contenuto nel disposto dell’art. 35, c. 5 (analogamente a quanto disposto dalla Commissione Alpa all’articolo 832 ter della Proposta). Dal momento in cui la modifica sopravvenuta dell’art. 669 quinquies c.p.c. ha ben chiarito che anche quando l’arbitrato è irrituale la tutela cautelare davanti al giudice ordinario non è preclusa, è caduta infatti ogni necessità di specificazione della medesima regola in ambito societario, soggetto anch’esso alla regola generale. Tuttavia, è a tutti chiaro che questa semplice abrogazione dell’inciso richiamato non farebbe che rinvigorire una discussione mai sopita, perché ci sarebbe sicuramente qualcuno pronto a far leva su questa abrogazione per indicare invece la volontà legislativa di escludere del tutto la clausola compromissoria statutaria per arbitrato irrituale, che in quell’inciso trova una delle ragioni della sua legittimazione. Dovendo riscrivere l’articolo 669 quinquies c.p.c. alla luce dei nuovi poteri cautelari conferiti agli arbitri dalla legge delega, i decreti delegati dovranno quindi preoccuparsi, nell’operazione di riordino complessivo della materia, di risolvere anche il tema dell’arbitrato irrituale societario in modo chiaro e tale da non dare adito a ulteriori eccezioni in sede giudiziale e a reiterate discussioni in quella scientifica.

Andrà però sul punto considerato che l’art. 35, c. 5, d. lgs. n. 5/2003 legittima con chiarezza l’arbitrato irrituale societario e lo stesso fa la  Cassazione, che ha appena ribadito in via diretta che la clausola statutaria per arbitrato irrituale è pienamente ammissibile (Cass. 10 febbraio 2022, n. 4335), presentandosi quindi l’eventuale abrogazione della possibilità di scelta per l’arbitrato irrituale come operazione che andrebbe ben oltre quel semplice riordino della materia prescritto dalla legge delega. Inoltre – e non sarebbe inconveniente irrisorio – le innumerevoli clausole compromissorie per arbitrato irrituale presenti negli statuti sociali andrebbero in questo caso modificate, con tutte le derive in tema di operatività del dettato dell’art. 34, c. 6, d. lgs. n. 5/2003 e del verificarsi di una fattispecie che legittimerebbe il recesso dei soci assenti o dissenzienti, da molti ricollegata alla trasformazione delle clausole statutarie per arbitrato irrituale in clausole che disciplinano invece l’arbitrato a modalità rituale. Tutto ciò dovrebbe segnalare un invito alla prudenza che il legislatore delegato dovrà porre nella trattazione, pur necessaria, di questo tema. .

3.Passando a esaminare i compiti sicuramente attribuiti al legislatore delegato, viene in primo piano quel dovere di correzione e revisione dell’insieme normativo che già competeva al legislatore del 2006 quando ha emanato una buona riforma del diritto dell’arbitrato, tuttavia dimenticandosi completamente di adeguare la normativa sopravvenuta con quella societaria, pur di allora recente introduzione.

In proposito, segnalando senza pretesa di completezza alcuni dei disallineamenti cui è imperativo porre rimedio per opera dei decreti delegati, ricordo  in primo luogo la triste vicenda dell’art. 35, c. 3, d. lgs. n. 5/2003 nel suo rapporto con l’art. 819 c.p.c. La norma societaria, per com’è attualmente scritta, è costruita con riferimento al vecchio testo dell’art. 819 c.p.c. che prevedeva la sospensione dell’arbitrato  in relazione all’insorgere di questioni non arbitrabili da cui fosse dipesa la decisione del giudizio. Va da sé che, volendo costruire un sistema basato invece sulla capacità degli arbitri di conoscere in via incidentale le medesime questioni, il legislatore societario del 2003 abbia escluso l’applicabilità della norma generale che era allora orientata in senso contrario. Quando poi la riforma del 2006 ha rovesciato il contenuto della disposizione del codice di rito, proprio seguendo l’impulso del decreto societario (sul punto sia consentito il rinvio al mio volume Arbitrato, Commentario del Codice di procedura civile a cura di S. Chiarloni, 2013, sub art. 819, pag. 645 e seg.), nessuno ha pensato che l’art. 35 del decreto stesso andasse coordinato con la nuova norma. La residua esclusione dell’applicazione dell’art. 819 c.p.c. all’arbitrato societario porta dunque oggi al risultato abnorme – pur corretto all’unanimità dalla dottrina – della non applicazione in campo societario di quella regola di libera cognizione incidentale che proprio il legislatore societario aveva invece promosso. Il vizio di coordinamento andrà quindi sicuramente corretto, in modo tale da rendere anche letteralmente chiaro che anche gli arbitri societari hanno il potere di risolvere senza autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, nonostante vertano su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato.

Lo stesso legislatore delegato dovrà poi porre attenzione a disallineamenti forse meno evidenti, ma comunque presenti tra il testo dell’art. 35 d. lgs. n. 5/2003 e le norme generali sull’arbitrato. In particolare, il secondo comma della norma societaria nel regolare l’intervento o la chiamata di terzi nell’arbitrato dispone che “si applica l’art. 820, secondo comma, del codice di procedura civile”. Ma, anche qui, la norma richiamata è quella vecchia, che è stata poi modificata dalla riforma del 2006, con trasfusione del testo dell’originario secondo comma, con modifiche, nell’attuale quarto comma della disposizione, che prevede oggi una serie di casi di proroga di centottanta giorni per la pronuncia del lodo che operano “per non più di una volta nell’ambito di ciascuno di essi”, ma sono tutti derogabili per l’ipotesi in cui le parti dispongano diversamente. L’indicazione ancora contenuta nel corpo normativo dell’art. 35, c. 2, d. lgs. n. 5/2003 all’art. 820, c. 2, c.p.c., senza che si sia provveduto all’adeguamento della disposizione, ha dato adito a due interpretazioni, entrambe plausibili. Da una parte si sostiene infatti che il rinvio dell’art. 35 d. lgs. n. 5/2003 all’art. 820, c. 2, c. p. c., vada oggi letto come rinvio al c. 4 comma della stessa norma ove è stato trasfuso il testo originario, sommandosi il prolungamento speciale a quello previsto dalla norma di diritto comune. Così, secondo questa lettura, in caso di intervento o chiamata del terzo nell’arbitrato societario il termine per la pronuncia del lodo viene prorogato di centottanta giorni per una sola volta quale che sia il numero degli interventi o delle chiamate in causa effettuate nel giudizio arbitrale e tale possibile prolungamento va inoltre a cumularsi con quello delle altre ipotesi previste dall’art. 820, c. 4, c.p.c. (P. Biavati, Arbitrati speciali, Commentario diretto da Carpi, Bologna, 2008, pag. 129). Dall’altra parte si ritiene invece, con dichiarato intento di semplificazione, che il rinvio derivante da mancato coordinamento tra norma nuova e norma sopravvenuta vada inteso come rinvio al vecchio testo dell’art. 820, c. 2, cod. proc. civ., conservando ai soli arbitri societari il potere di prorogare per una sola volta il termine per la pronuncia del lodo per non più di centottanta giorni, esclusivamente in presenza dei presupposti dettati dall’art. 35 del decreto societario (F. Auletta, La nuova disciplina dell’arbitrato, in Comm. a cura di S. Menchini, sub art. 820, pag. 391). La differenza tra le due prospettive non è esigua, perché la prima rende automatica quella proroga che per la seconda rimane discrezionale; la prima cumula questa ipotesi speciale di proroga del termine a quelle ordinarie, mentre la seconda non ammette il cumulo; la prima porta ad applicare il termine fisso di centottanta giorni alla proroga societaria, laddove la seconda consente in materia una valutazione discrezionale degli arbitri entro il limite massimo di centottanta giorni.

E’ difficile dire quale scelta tra queste, oppure anche fra altre soluzioni, dovrà compiere il legislatore delegato. A me sembra in proposito che la specialità dell’arbitrato societario nell’ammettere l’intervento e la chiamata di terzi debba indurre comunque a riflettere sull’opportunità che quando la lite si complica dal punto di vista soggettivo vi deve essere anche una possibile proroga del termine per la pronuncia del lodo, al fine di bilanciare le novità che gli arbitri sono chiamati a valutare. Le nuove norme dovrebbero quindi considerare che l’intento originario della disposizione societaria era quello di affidare agli arbitri il potere discrezionale di proroga del termine per la pronuncia del lodo, senza possibilità per le parti di precludere loro questa dilazione. Nell’incorporare le disposizioni societarie nel codice di rito, non si dovrà dunque dimenticare che la possibilità di ingresso di terzi nel procedimento arbitrale è una delle grandi distinzioni che connotano il modello speciale rispetto a quello ordinario, perché arbitri societari, a differenza di quelli di diritto comune, non possono rifiutare l’intervento o la chiamata del terzo ed è allora corretto pensare che la proroga del termine per la pronuncia del lodo debba essere lasciata alla loro discrezione. Come poi si debba inserire questa proroga tra quelle previste dal nuovo art. 820 c.p.c. è questione di minor rilievo, purché quella in esame rimanga connotato imprescindibile di ciò che possono fare gli arbitri societari senza interferenze delle parti a fronte della complicazione soggettiva della lite.

Ovviamente sarà poi da rivedere il testo dell’art. 36 d. lgs. n. 5/2003 laddove, ancora una volta senza che sia stato operato il dovuto adeguamento con la sopravvenuta riforma dell’arbitrato del 2006, richiama l’art. 829, c. 2. c.p.c. per assoggettare il lodo a impugnazione per violazione di regole di diritto nelle ipotesi in cui gli arbitri abbiano conosciuto di questioni non compromettibili, ovvero quando l’oggetto sia costituito dalla validità delle delibere assembleari ed ancora l’art. 35 d. lgs. n. 5/2003 dove fa riferimento all’ormai abrogato art. 838 c.p.c. Un intervento minimo di riordino in proposito dovrà essere dunque quello che sostituisca i riferimenti normativi superati con quelli attuali. Il fine del legislatore societario era in questo caso quello di mantenere nelle fattispecie richiamate dall’art. 36 d. lgs. n. 5/2003 l’impugnazione piena e questo fine andrà coordinato con il contenuto attuale dell’art. 829, c. 3, c.p.c., che ha invece capovolto il sistema prospettando l’impugnazione piena come eccezione a una regola inversamente orientata.

Dato il diritto vivente e la convinzione già riscontrata nella dottrina (A. Villa, Arbitrato e tutela cautelare, in L. Salvaneschi – A. Graziosi, L’arbitrato, Milano 2020, p. 525 testo e nota 27) che la norma di cui all’art. 35, c. 5, d. lgs. n. 5/2003 vada riferita non solo alle delibere assembleari, ma a tutte le delibere sociali, riterrei che anche questo chiarimento rientri poi tra quelli ammissibili e auspicati, pur se di natura diversa dal mero coordinamento necessario per le disposizioni fino ad ora esaminate.

4.Resta il tema del potere cautelare degli arbitri, già accordato nell’arbitrato societario come unica eccezione normativa al divieto di legge dell’art. 818 c.p.c. (in materia A. Villa, Arbitrato rituale e sospensione delle decisioni sociali, Milano, 2007). La novità, del tutto inaspettata, è che la legge delega, al fine evidente di conformare il potere cautelare degli arbitri societari a quello che verrà riconosciuto in via generale a tutti gli arbitri, ha avvertito la necessità di innesto del reclamo in un sistema che pur negli anni aveva dato buona prova di sé anche in assenza di ogni strumento di controllo.

Nonostante non esista nessuna incompatibilità ontologica tra arbitrato e tutela cautelare, il nostro legislatore si è sempre mostrato in materia nettamente conservativo. Solo con l’art. 35 d. lgs. n. 5/2003 si è avuta una prima apertura in materia, con la previsione che “ … se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera”. Da qui la successiva modifica dell’art. 818 c.p.c. che, pur confermando nel 2006 la linea di fondo di intransigenza restrittiva, ha dovuto riconoscere almeno l’eccezione della salvezza di “diversa disposizione di legge” già presente nel nostro ordinamento proprio nel corpo normativo del decreto societario.

L’articolo 35 d. lgs. n. 5/2003 ha quindi rappresentato fin da subito un primo e importante punto di rottura di un sistema rigidamente chiuso, strutturalmente già conformato secondo uno schema simile a quello oggi previsto dalla legge delega alla lettera c) dell’art. 1, comma 15. Infatti, il legislatore delegato dovrà modellare il potere cautelare degli arbitri con il medesimo sistema già regolato dalla norma societaria, che riserva “sempre” agli arbitri il potere cautelare, attribuendo loro un potere esclusivo, con la sola eccezione dell’ipotesi in cui, pur ad arbitrato pendente, sia necessario proporre la richiesta di sospensione della delibera impugnata e il collegio arbitrale non sia ancora costituito (A. Villa, Una poltrona per due: la sospensione delle delibere assembleari fra giudice privato e giudice statuale, in Riv. arb. 2009, 311 in nota a Trib. Milano 17 marzo 2009). Per questo caso, infatti, una giurisprudenza ormai consolidata ammette la parte a rivolgersi al giudice ordinario, perché in mancanza di un organo precostituito questa soluzione è, pur in assenza di previsioni normative, quella maggiormente funzionale alle ragioni di urgenza sempre sottese alla misura cautelare. La legge delega si è dunque ispirata al modello societario, prevedendo un potere cautelare esclusivo degli arbitri, ma indicando in modo espresso il permanere del potere cautelare in capo al giudice “nei soli casi di domanda anteriore all’accettazione degli arbitri” (lett. c) art. 1, comma 15, con ciò consentendo un’interpretazione autentica e ben avvalorata dalla prassi della norma societaria.

Nelle previsioni deleganti vi è però un punto dissonante rispetto al passato, l’introduzione cioè del reclamo laddove era prima espressamente precluso, in quanto l’ordinanza di sospensiva emanata dagli arbitri societari era nata ed è vissuta in tutti questi anni come espressamente “non reclamabile”. Su questo punto all’uscita del decreto societario si era sviluppato un dibattito immediato, sostenendosi da molti l’illegittimità costituzionale di un sistema che nega il reclamo alla sospensiva affidata agli arbitri, ma lo ammette quando lo stesso tema sia trattato dal giudice ordinario o perché non devoluto ad arbitri, o anche perché in presenza di convenzione di arbitrato il collegio non si sia ancora costituito. La questione è stata però giustamente ritenuta infondata dalla prevalente giurisprudenza e vale in proposito la considerazione che l’assenza di un rimedio analogo al reclamo quando la pronuncia sia affidata ad arbitri trova piena giustificazione nel fatto che anche i meccanismi di controllo del lodo sono del tutto difformi e più limitati di quelli della sentenza (A. Villa, Arbitrato rituale e sospensione delle decisioni sociali, cit., p. 195 testo e nota 415). Nel sistema attuale dunque non vi è controllo sull’ordinanza cautelare emanata dagli arbitri societari, che possono solo esercitare un potere di revoca o modifica dei propri provvedimenti senza alcuna interferenza del giudice. L’adattamento del sistema alle nuove norme determinerà quindi un elemento di novità rilevante, almeno dal punto di vista concettuale.

Tuttavia, la previsione delegante non è sul punto del tutto piana e lascia quindi adito a dubbi. Un primo quesito che si pone è dato infatti dalla differenza di dettato in materia di reclamo tra le lettere c) e f) dell’art. 1, comma 15 della legge delega. Nel primo caso la direttiva prescrive infatti di “disciplinare il reclamo cautelare davanti al giudice ordinario per i motivi di cui all’art. 829, primo comma, del codice di procedura civile e per contrarietà all’ordine pubblico”; nel secondo indica invece semplicemente di “prevedere altresì la reclamabilità dell’ordinanza di cui all’art. 35, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che decide sulla richiesta di sospensione della delibera”. Il dubbio a prima lettura è quindi se la limitazione dei motivi di reclamo di cui alla lettera c) valga anche per la sospensiva societaria, oppure se, in quest’ambito, si sia pensato che il reclamo possa avere portata piena e riguardare quindi anche la violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia. Volendo ragionare in termini differenziali, una tale distinzione potrebbe anche avere una sua base logica, perché mentre il lodo nell’arbitrato ordinario è soggetto alla regola dell’art. 829, c. 3, c.p.c. che preclude l’impugnazione piena se non sia espressamente prevista dalle parti o dalla legge, il lodo societario costituisce proprio una di quelle ipotesi in cui è la legge a imporre l’impugnazione con “formula piena” quando la decisione riguardi il tema della validità delle delibere assembleari e quando gli arbitri abbiano conosciuto di questioni non compromettibili. In questo modo a un’impugnazione del lodo limitata potrebbe corrispondere anche un reclamo cautelare limitato, mente a un’impugnazione piena un reclamo altrettanto pieno.

Dico subito che, se a prima lettura mi è sorto il dubbio che precede, una riflessione più approfondita mi porta a escludere in modo reciso questa soluzione. La differenza letterale tra le due disposizioni della legge delega non deve infatti trarre in inganno, perché la previsione del reclamo inserita nella lettera f) costituisce un richiamo di quanto già previsto in via generale nella lettera c) e solo per questo credo sia più circoscritta. Alla soluzione di un reclamo che segua le direttive della precedente lettera c) porta poi anche la considerazione che gli arbitri societari saranno investiti dai decreti delegati, proprio sulla base della nuova direttiva circa il potere cautelare degli arbitri, di potere cautelare generale e non più di limitato alle misure di carattere sospensivo dell’efficacia delle delibere impugnate. Non c’è dunque nessuna ragione perché l’ordinanza di sospensiva abbia un trattamento diverso in sede di reclamo da quello che avranno le altre e diverse misure cautelari che saranno ammesse e regolate come previsto in via generale dalla precedente lettera c). Ritengo quindi che l’interpretazione preferibile sia quella meno dirompente di un sistema che è stato costruito sulla mancanza di ogni interferenza del giudice ordinario sull’arbitrato e che anche la lettera f) vada quindi letta con le medesime restrizioni che la legge delega impone in via generale al reclamo. Proprio nell’unica materia il cui il potere cautelare degli arbitri era già conosciuto, sarebbe infatti davvero discutibile pensare che il giudice ordinario in sede di reclamo possa entrare nel merito della decisione arbitrale, con evidenti interferenze e ricadute sul corso successivo dell’arbitrato. Anche in questa materia il reclamo andrà quindi costruito sempre, cioè sia che incida sull’ordinanza di cui all’art. 35, c. 5, d. lgs. n. 5/2003 sia che riguardi le diverse misure cautelari che gli arbitri societari potranno in futuro emanare, come mezzo di controllo per violazioni particolari e riservato ai soli casi di cui all’art. 829, c. 1, c.p.c. e alla violazione dell’ordine pubblico, a situazioni quindi la cui particolare gravità consentirà una casistica limitata di possibile interferenza del giudice nell’ambito del procedimento cautelare.

Occorrerà poi chiedersi se, la circostanza che la legge delega richieda che i poteri cautelari degli arbitri siano espressamente conferiti dalle parti con espressione di volontà in tal senso contenuta nella convenzione di arbitrato o in atto scritto separato, possa avere qualche ricaduta anche sul potere di sospensiva degli arbitri societari. In proposito credo che la risposta debba essere nettamente negativa, trattandosi di un potere conferito dalla legge che compete naturalmente agli arbitri societari senza necessità di alcuna previsione di parte, la cui richiesta costituirebbe un arretramento rispetto al sistema attuale. Potrebbe invece discutersi circa l’eventuale interferenza del disposto della lettera c) dell’art. 1, comma 15 della legge delega sul regime di affidamento agli arbitri societari di poteri cautelari diversi da quello di sospensione dell’efficacia della delibera oggetto del giudizio arbitrale, perché qui non c’è alcun previo affidamento del potere cautelare agli arbitri societari, che nascerà invece dalle nuove disposizioni di legge sulla base della direttiva di cui alla precedente lettera c) dell’art. 1, comma 15. Nonostante il potere cautelare degli arbitri societari in relazione a misure cautelari diverse da quella oggi prevista dall’art. 35, c. 5, d. lgs. n. 5/2003 deriverà dalla previsione generale che affida per la prima volta il potere stesso agli arbitri, fatico a trovare ragioni per differenziare tra loro i provvedimenti cautelari che gli arbitri societari potranno emanare, richiedendo solo per quelle di nuova introduzione l’espressione di un previo consenso di parte. Ciò senza contare l’ostacolo che la necessità del consenso comporterebbe in materia societaria ove la convenzione di arbitrato è contenuta nello statuto che andrebbe all’uopo modificato, con il rischio di eventuali interferenze di queste modifiche con il dettato dell’art. 34, c. 6, d. lgs. n. 5/2003. Sarà compito specifico dei decreti delegati regolare la materia e operare delle scelte, ma a mio avviso tutto ciò suggerirebbe di lasciare nella materia societaria all’autorizzazione di legge ogni misura cautelare, senza che vi sia alcun bisogno di espressa volontà delle parti in tal senso nella clausola compromissoria. Mantenere il sistema societario qual è ed estenderlo a tutte le forme di tutela cautelare che saranno appannaggio degli arbitri anche in questa materia potrà poi avere anche il vantaggio di costituire spunto per liberare in futuro in via generale l’arbitrato dalla necessaria previsione di parte prevista dalla legge delega, retaggio quest’ultimo probabilmente legato al pensiero che i poteri cautelari degli arbitri sono una novità così dirompente che va graduata, ma che nessuno dubita che meriti futuro generale ripensamento.

5.Va ancora detto che inciderà sull’arbitrato societario la norma contenuta nell’art. 1, comma 17, lett. q) della legge delega, laddove prescrive che il legislatore delegato provveda a fare sì che il provvedimento cautelare di sospensione dell’esecuzione delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni, società, ovvero condominio non perda efficacia in caso di estinzione del giudizio di merito.

Questa disposizione rende ragione alla necessità di stabilità delle misure cautelari sospensive, messa in discussione dalla giurisprudenza di legittimità che ha attribuito natura conservativa alle misure stesse (da ultimo Cass., 26 aprile 2021, n. 10986). L’attuazione di questo principio direttivo farà sì che i provvedimenti di sospensione delle delibere impugnate assunti dagli arbitri rimangano in vita sia nell’ipotesi di estinzione del giudizio di merito che in quella della sua mancata istaurazione, con vantaggio evidente per l’attore, che, dopo avere ottenuto nell’ambito del giudizio di merito il provvedimento cautelare con il quale è stata disposta la sospensione dell’esecuzione della deliberazione, non intenda perseguire la decisione di merito, rispetto alla quale ha ormai interesse solo ai fini della stabilità della misura cautelare.

VIII.- Lett. g): translatio iudicii (Bruno Sassani).

In conformità alla proposta contenuta nella c.d. Relazione Luiso,[1] l’art. 1, c. 15, lett. g) della legge delega 26 novembre 2021, n. 206 assegna al legislatore delegato il compito di “disciplinare la translatio iudicii tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario e tra giudizio ordinario e giudizio arbitrale”. Si chiede quindi di dettare qualcosa di molto vicino ad una disposizione di attuazione, di predisporre uno strumento tecnico al servizio di scelte di fondo già risolte, si assume, dalla sentenza della Corte costituzionale del 2013.[2]

Per montare il ponte che consenta un agevole transito bidirezionale, occorre però considerare che l’eterogeneità degli ambiti procedurali non permette di ridurre la vicenda ad una banale riassunzione dall’uno all’altro organo: si tratterà pure di “competenza”, ma resta chiara la difficoltà di applicare norme quali l’art.  125 e 126 disp. att. che presuppongono un percorso interno all’apparato dell’autorità giudiziaria (per es., l’art. 126 d. a. regola la richiesta del fascicolo da parte della seconda cancelleria alla prima), mentre nel nostro caso il passaggio avviene tra ambiti radicalmente esterni l’uno all’altro.[3] Passaggio, quindi, apparentemente più vicino ai transiti intergiurisdizionali e, all’atto, ancora più problematico considerata la “liquidità” dell’ufficio e del giudizio arbitrale nonché le forme peculiari della relativa domanda.

Occorre allora individuare comportamenti ragionevolmente esigibili nel caso di dichiarazione di “incompetenza” del giudice, ed immaginare cosa dovrebbe in concreto fare la parte che volesse procedere davanti all’autorità giudiziaria nel caso di dichiarazione di “incompetenza” dell’arbitro. Occorre infine stabilire termini ragionevoli.

Riassunzione allora, o riproposizione della domanda? La soluzione della riassunzione si scontra con la incommensurabilità delle forme. La riassunzione del procedimento richiamata dall’art. 50 c.p.c. è un mezzo di continuazione del procedimento, e presuppone una identità procedimentale addirittura inconcepibile nel nostro caso, un caso in cui tanto le tecniche di introduzione della controversia, quanto quelle di gestione del procedimento sono totalmente diverse. La verità è che, parlando di translatio tra forme di tutela eterogenee (pur se unificate dal fine e dal rispetto di comuni principi) si ricorre ad un’immagine generica, meramente evocativa dell’esigenza di impedire che l’errore nella scelta del soggetto decidente produca le conseguenze irreparabili connesse alla mancata sterilizzazione degli eventi successivi. Per soddisfare questa esigenza è però sufficiente munire di retroattività la proposizione della domanda all’organo sbagliato in caso di tempestiva riproposizione della domanda all’organo corretto, senza dover immaginare la continuazione di iter procedimentali incommensurabili.

Parlare di riassunzione significa inoltre cedere alla lusinga delle preclusioni, cioè dell’apparato implicitamente sottostante all’art. 50 c.p.c. ed esplicitamente all’art. 59 c. 2 l. n. 69/2009 (“ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute”). Ma, da un lato – nel passaggio dall’arbitro al giudice – è addirittura difficile immaginare veri e propri meccanismi preclusivi nel senso proprio del processo di cognizione, dato che “gli arbitri hanno facoltà di regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono più opportuno” (art. 816-bis c. 1), e dunque non v’è, in linea di principio, spazio per il sistema delle preclusioni che segna pesantemente il procedimento giudiziario. Nemmeno però nella direzione opposta (passaggio dal giudice all’arbitro) avrebbe molto senso irrigidirsi su preclusioni eventualmente avveratesi, dato che il tema ha senso all’interno del procedimento giudiziario, ma non in un procedimento liberamente regolato e dove, per di più, neppure vi sarebbe il modo di far valere le eventuali violazioni alle norme di puro rito, stante la limitazione della rilevanza delle nullità formali alle “forme prescritte dalle parti sotto espressa sanzione di nullità” (art. 829 n. 7 c.p.c.). È opportuno, quindi, abbandonare la logica delle preclusioni.[4]  E questo a fortiori se si considera che in arbitrato non è obbligatorio il patrocinio tecnico (art. 816-bis c. 1: possono stare in giudizio per mezzo di difensori) e che – più spesso di quanto si creda – ad esercitare funzione di arbitri non sono chiamati tecnici del diritto, bensì commercialisti, ingegneri, architetti, geometri, chimici, medici o altri professionisti di varia specializzazione, e inevitabilmente poco sensibili a tante regole dell’arte care ai giuristi.

L’unica soluzione allora è quella di accontentarsi della mera copertura retroattiva degli effetti della prima domanda se, in un preordinato lasso di tempo successivo alla comunicazione della sentenza dell’autorità giudiziaria, una parte compia formalmente l’atto di adizione della via privata secondo le regole legali proprie del tipo di arbitrato o dettate ad hoc dalla relativa convenzione. E, viceversa, se nello stesso lasso di tempo dal lodo che dichiara l’impraticabilità della via privata, una delle parti notifichi la citazione o depositi il ricorso veicolante – mutatis mutandis – l’azione già esercitata. Esclusa quindi la conservazione degli effetti strettamente processuali, l’onere di rispettare il termine sarà assolto dalla riproposizione della domanda allo scopo di tener fermi gli effetti sostanziali già in corso in ragione della proposizione originaria. Riproposizione che assumerà la forma della domanda prevista per il nuovo giudizio.

Quando la traslazione avviene a favore dell’autorità giudiziaria, le cose sono semplici: l’atto in grado di salvare gli effetti sostanziali della domanda male indirizzata all’origine consisterà nella opportuna citazione o nell’opportuno ricorso. Nel caso speculare, sarà invece opportuno considerare alcune variabili: la prima è che la forma della domanda di arbitrato nel caso considerato potrebbe essere fissata dalla convenzione arbitrale (e potrebbe quindi legittimamente variare anche in relazione al numero ed al modo di nomina degli arbitri: art. 809); poi, per esempio, v’è ancora la possibilità che le parti stabiliscano con atto scritto “anteriore all’inizio del procedimento arbitrale” le norme che gli arbitri debbono osservare (art. 816-bis). È solo quando “a norma della convenzione di arbitrato gli arbitri devono essere nominati dalle parti” (art. 810 c.p.c.) la domanda di arbitrato assumerà la forma di una nomina del proprio arbitro notificata alla controparte. In caso di arbitrato amministrato, di norma, chi agisce deve depositare presso l’ente amministratore la domanda (con la convenzione) che l’ente sarà tenuto a trasmettere al convenuto, ma con la possibilità di trasmissione diretta alla controparte. E questo può dare luogo a una varietà di meccanismi di nomina (v. per es. l’art. 14 del Regolamento CAM). Se “l’istituzione arbitrale rifiuta di amministrare l’arbitrato”, l’art. 832 u.c. c.p.c. prevede che la convenzione arbitrale mantenga efficacia ma, in caso di deposito, occorrerà replicare la domanda arbitrale in qualche modo. Nell’arbitrato societario la domanda di arbitrato è depositata nel registro delle imprese (art. 35 c. 1 d. lgs. n. 5/2003) e così via.

Questa varietà di modi pone un’alternativa al legislatore delegato: o limitarsi a considerare soddisfatto l’onere in una generica “proposizione della domanda arbitrale”, e così rinviare alla multiforme esperienza del giudizio arbitrale, ovvero imporre uno standard di comportamento espressivo della volontà di fruire dell’effetto traslativo

In ogni caso è necessario fissare un dies a quo certo e dare un termine ragionevole per la riproposizione (molto opportuno sarebbe allungare il termine al semestre). Nel passaggio dal giudiziario all’arbitrale, bene funziona da data iniziale la comunicazione della cancelleria prevista dall’art. 50 c.p.c. Si può nel moto inverso, fare altrettanto affidamento sulla comunicazione prevista dall’art. 824 c.p.c.? Probabilmente sì: è vero che gli arbitri (a differenza dei cancellieri) non sono obbligati a comunicare il lodo, ma si può ragionevolmente contare sull’esperienza di una prassi costante di comunicazione alle parti.

Resta da osservare che la declinatoria di “competenza” è sempre impugnabile da qualunque organo essa provenga.

Nel processo di fronte all’autorità giudiziaria, vige il regime del regolamento di competenza contro la sentenza con la quale il giudice “nega la propria competenza in relazione a una convenzione di arbitrato” (art. 819-ter c.p.c.). Nel giudizio arbitrale, il lodo con cui l’arbitro nega la propria competenza è impugnabile[5] (nell’anno dalla sua sottoscrizione o nei novanta giorni dalla sua notificazione) nella forma del giudizio di nullità per i numeri 1 e 4 dell’art. 829 c.p.c.

L’avvenuta translatio della domanda alla sede arbitrale non impedisce attualmente la proposizione del regolamento di competenza contro la sentenza declinatoria stante la non applicabilità dell’art. 44 c.p.c., cioè della norma che precluderebbe la proposizione del regolamento in caso di riassunzione davanti agli arbitri nei termini dell’art. 50.[6] Parimenti la “riassunzione” presso il tribunale ordinario non preclude l’impugnazione del lodo che abbia accolto l’eccezione di incompetenza.

Il trasferimento della domanda presso l’organo individuato quale competente allo stato degli atti, dà quindi luogo a una scelta suscettibile di smentita dall’esito del regolamento ovvero del giudizio di nullità. Dal che appare giustificata la cautela dell’interruzione del termine prevista dagli artt. 353 c. 3 e 354 c. 3 c.p.c. che, nel nostro caso starebbe a significare che, se contro il lodo è proposta impugnazione per nullità, ovvero contro la sentenza è proposto regolamento di competenza, il termine di riassunzione resta “interrotto” (rectius: sospeso) fino alla conclusione del giudizio di impugnazione, e riprenderà a decorrere dal passaggio in giudicato del provvedimento di conferma. Se la translatio sia nel frattempo avvenuta, resterà sempre possibile applicare l’art. 337 c. 2 c.p.c. (cosa ben compatibile con la non applicabilità in arbitrato dell’art. 295 c.p.c.).

Peraltro, se la situazione di incertezza viene definitivamente sciolta dalla pronuncia in sede di regolamento, così non è per la sentenza della Corte d’appello in nullità stante la sua ricorribilità per cassazione. E resta ancora da tener in conto che mentre, in caso di riconosciuto errore nella declinatoria di competenza pronunciata dall’arbitro, la Corte d’appello giudicherebbe essa stessa direttamente in rescissorio, al riconoscimento, in sede di regolamento, dell’errore dell’autorità giudiziaria, il giudizio, eventualmente ripreso in sede arbitrale, potrebbe subire una seconda translazione di fronte all’autorità giudiziaria.

Problemi seri non dovrebbero poi sorgere in caso di provvedimenti cautelari già pronunciati (o di relativi procedimenti in corso). Il mutamento del giudice del merito non altera la competenza del giudice statuale, rispetto alla quale è indifferente l’attribuzione della potestà decisoria all’uno o all’altro organo. Meramente teorico (per l’improbabilità dell’evento) mi sembra invece il tema della sopravvivenza della sospensiva di delibera assembleare direttamente proveniente dal collegio arbitrale in caso di arbitrato societario seguito da declaratoria di incompetenza. Ma su tutto peserà la riscrittura dei rapporti tra arbitrato e cautelari affidata dalla delega al legislatore delegato.

Un’ultima notazione. Si ripete spesso che la disciplina della translatio non si applicherebbe all’arbitrato irrituale. L’affermazione ha poco senso ma non mi soffermerò sul tema generale sembrandomi pressoché invincibili (allo stato presente) i pregiudizi in argomento. Mi limito solo a far notare che la “incompetenza” dichiarata dall’autorità giudiziaria è l’effetto dell’accoglimento di un’eccezione compromissoria che ben può essere relativa ad una convenzione relativa ad arbitrato irrituale. Anche in tale caso il giudice deve dichiarare che la funzione giurisdizionale provocata non è fruibile perché, a dover decidere di quell’oggetto, sono altri soggetti ai quali le parti dovevano rivolgere la domanda. Anche in tale caso si pone un problema di conservazione degli effetti sostanziali della domanda originaria proposta all’autorità giudiziaria.

La limitazione della translatio all’arbitrato rituale viene invocata in nome della “fungibilità di risultati” tra processo pubblico e processo privato (lo dice anche la Corte costituzionale in motivazione). C’è però da chiedersi se questo modo di pensare abbia senso, cioè se si possa immaginare che gli effetti della declinatoria di “competenza” dell’organo pubblico dipendano davvero dalla tipologia della convenzione arbitrale che ha svolto il ruolo di presupposto processuale negativo. Io non lo credo possibile, e il prevedibile dissenso di molti mi sembra irriflessivo a fronte al regime dell’art. 808-ter c.p.c. e del sistema tutto della tutela dei diritti (sul tema v. ampiamente B. Sassani, L’arbitrato irrituale, in Trattato di diritto dell’arbitrato, Napoli 2019, vol I; Idem, Considerazioni fugaci sull’arbitrato societario irrituale, in Judicium, 2020 e in Studi Cipriani). Il legislatore delegato farebbe allora bene – ponendosi sulla falsariga del legislatore societario del 2003 e del legislatore del 2005 che intervenne sull’art. 669-quinquies del codice di procedura – a dare una indicazione che eviti la limitazione della translatio al c.d. rituale.

 

IX Lett. h): nomina degli arbitri da parte della autorità giudiziaria (Antonio Briguglio)

Un solo principio di delega abbiamo ritenuto non meritevole di approfondita analisi, l’ultimo, di cui alla lett. h) del comma 15: “prevedere che, in tutti in casi, le nomine degli arbitri da parte della autorità giudiziaria siano improntate a criteri che assicurino trasparenza, rotazione ed efficienza”. Poche parole dunque se le riserva il coordinatore di questo instant comment.

Il connotato del principio in esame è, inutile dirlo, lapalissiano, non certo dannoso, ma solo minimamente utile (ci mancherebbe davvero che quelle nomine fossero state fino ad ora improntate a criteri di opacità, consolidamento di rendite di posizione e inefficienza).

Soprattutto vi è che il criterio di delega appare davvero self-executing ed il legislatore delegato farà bene a ripeterne pedissequamente il tenore, confidando nella serietà e nella organizzazione pragmatica e regolamentare interna dell’ufficio del presidente del tribunale.

Qualsiasi ulteriore specificazione “normativa”, vieppiù se malauguratamente inserita nel testo dell’art. 810 c.p.c., rischierebbe di dare esca – nel Paese dei cavilli (e degli avvocati più fantasiosi del mondo) – a speciose doglianze post-arbitrali.

[1]Infine, anche per dare attuazione a quanto stabilito dalla Corte costituzionale, sentenza 19 luglio 2013, n. 223, si prevede di disciplinare la translatio iudicii tra giudizio ordinario e arbitrato e nella corrispondente speculare ipotesi” (RELAZIONE ILLUSTRATIVA Articolo 11 disegno di legge delega AS 1662).

[2] Che segna il riconoscimento che un giudizio proveniente da arbitro è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione statuale: la Corte costituzionale introdusse la possibilità del passaggio da una tutela all’altra, in una corrispondenza biunivoca che presuppone la reciprocità tra le due tutele. Si sa che questa reciprocità era stata negata dalla incongrua ordinanza della Corte di cassazione n. 22002/12 che, introducendo la possibilità della translatio, l’aveva però limitata al passaggio dal giudice agli arbitri, offrendo un facile bersaglio alla totalità dei commentatori. In tutta la sua irragionevolezza, fu però proprio questa pronuncia a tracciare la strada percorsa poi fluidamente dalla Consulta. Pur immersa in una curiosa logica autarchica volta a garantire alla sola giurisdizione (ordinaria) la possibilità di condonare l’errore nella scelta iniziale dell’organo di tutela, la pronuncia della Cassazione aveva eretto comunque un ponte tra due mondi che l’articolo 819-ter comma 2 c.p.c. sembrava volere incomunicabili: una volta gettato il ponte appariva però palesemente irrazionale porre all’imbocco di uno dei lati un cartello di divieto di accesso.

[3] Si consideri la richiesta nello scenario del processo telematico, che si regge sulla conformità di ogni passo a protocolli rigidamente formalizzati, tra i quali è decisamente dubbia la reperibilità di files idonei a permettere il tipo di passaggio dalla dimensione della giurisdizione privata alla giurisdizione pubblica.

[4] S’intende, delle preclusioni interne, ferme restando invece le decadenze sostanziali che, una volta intervenute, non potrebbero aggirarsi attraverso la translatio.

[5] Se l’incompetenza fu eccepita nella prima difesa; potrebbe però trattarsi di questione di controversia non arbitrabile che rende irrilevante la circostanza dell’eccezione tempestiva. Una declaratoria di incompetenza potrebbe infatti aversi in caso (non di “inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione di arbitrato”, bensì) di controversia non arbitrabile (art. 817 c. 2 c.p.c.).

[6] Non preclude peraltro il regolamento d’ufficio in caso di incompetenze quali materia e territorio inderogabile.