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Consumatore e decreto ingiuntivo: le soluzioni ermeneutiche percorribili per l’integrazione tra diritto eurounitario e diritto interno
Di Anna Maria Soldi e Bruno Capponi -
SOMMARIO: 1.- La recente giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di tutela del consumatore a fronte del decreto ingiuntivo non opposto. 2.- L’integrazione del diritto interno e del diritto unionale. 3.- I limiti della regola imposta dal diritto unionale e la delimitazione del campo di indagine. 4.- Sui singoli mezzi di tutela contemplati dal diritto interno. 4.1.- La tutela del consumatore affidata “in autonomia” al giudice dell’esecuzione. 4.2.- L’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo o l’opposizione ordinaria al decreto ingiuntivo, da proporsi previa rimessione in termini del debitore consumatore. 4.3.- L’actio nullitatis. 4.4.- L’opposizione all’esecuzione. 5.- Ambito di effettiva incidenza delle problematiche qui esaminate nei processi di espropriazione pendenti e possibili correttivi. 6.- Se il giudice dell’esecuzione disponga di poteri istruttori nel corso della espropriazione forzata ovvero decide “allo stato degli atti”.
1.- La Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, con sentenza del 17 maggio 2022 (decidendo in merito alle cause riunite C-693/19 SPV Project 1503, C-831/19 Banco di Desio e della Brianza) ha affermato il seguente principio: l’articolo 6, par. 1, e l’articolo 7, par. 1 della Direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo.
Tale principio è stato elaborato partendo dalle seguenti considerazioni:
– l’articolo 6, par. 1, della direttiva n. 63 del 2013 prevede che le clausole abusive sono nulle e non vincolano i consumatori (nullità c.d. di protezione);
– al fine di ovviare all’istituzionale squilibrio esistente tra consumatore e professionista, finanche il giudice dell’esecuzione potrà rilevare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della citata Direttiva quando il titolo negoziale, che quella clausola contiene, sia stato posto a fondamento di un provvedimento monitorio mai opposto e tale provvedimento non rechi una motivazione espressa che fornisca traccia del controllo compiuto dal giudice che lo ha emesso, quanto alla insussistenza delle c.d. nullità di protezione;
– una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto (e coperto dall’autorità di cosa giudicata) in assenza di una preventiva ed espressa valutazione sul punto, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla disciplina consumeristica, priva del suo contenuto l’obbligo che incombe sul giudice nazionale di rilevare il carattere abusivo delle clausole contrattuali in ambito consumeristico.
Da tanto si ricava, secondo il diritto eurounitario, che il decreto ingiuntivo non opposto, quando emanato in danno di un consumatore, passa in giudicato quanto al dedotto ma non al deducibile. Non saranno, dunque, incontrovertibili gli accertamenti che abbiano ad oggetto la validità del fatto costitutivo presupposto, quando non chiaramente esplicitati.
Tuttavia, va chiarito che per la Corte tale tutela, non potendo pregiudicare il terzo acquirente del bene all’esito della vendita forzata, non si presenta come assoluta. Più precisamente, sempre secondo la Corte, quando l’esame svolto in sede esecutiva si risolva in favore del consumatore, questi non potrà recuperare il bene staggìto trasferito a terzi sebbene conservi il diritto al risarcimento del danno, da farsi valere nei confronti del creditore procedente.
2.- Una volta esclusa l’esistenza dei c.d. controlimiti che avrebbero consentito il rifiuto della “sfida” lanciata dalla Corte di Giustizia, compito dell’interprete è di esaminare gli istituti di diritto interno al fine di individuare una soluzione, quanto più possibile conforme al sistema nazionale, che garantisca il raggiungimento dei seguenti obiettivi:
-delimitare l’ambito di operatività della regola eurounitaria da applicare, onde evitare di allargare indebitamente lo spazio cui riferire l’indagine;
-attuare il diritto eurounitario attraverso strumenti processuali che si rivelino idonei a garantire al consumatore quella tutela “effettiva ed adeguata” che la Corte di Giustizia ritiene imprescindibile;
-individuare, tra gli istituti che possono essere “piegati” all’obiettivo, quello che, pur rivelandosi idoneo a raggiungere il risultato imposto dal diritto unionale, risulti nel contempo rispettoso del diritto di azione del creditore e sia anche utile a evitare una proliferazione di processi in ossequio al principio della c.d. economia dei mezzi. Risulti, in una parola, il più possibile compatibile con l’impianto di tutela apprestato dal diritto interno e come tale elaborato dalla giurisprudenza.
3.- L’integrazione tra diritto interno e diritto unionale si impone in presenza delle seguenti condizioni: (a) che un professionista abbia proposto una domanda monitoria per azionare il suo diritto di credito scaturente da un contratto concluso con il consumatore; (ii) che la domanda monitoria sia stata accolta senza che il giudice abbia esplicitamente divisato l’avvenuto controllo “idoneo”, circa la non vessatorietà delle clausole del contratto.
Resta peraltro da valutare se l’applicazione del principio affermato dalla Corte possa essere ampliata fino a ipotizzare che l’intervento in limine del giudice dell’esecuzione possa essere ammesso anche quando il decreto ingiuntivo fosse confermato all’esito di un’opposizione ex art. 645 c.p.c. con sentenza che, tuttavia, non rechi traccia alcuna di un accertamento esplicito circa la validità del fatto costitutivo – negoziale presupposto.
La risposta deve essere a nostro avviso negativa.
Benché dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia emerga una generale tendenza ad allargare le maglie della “speciale” tutela del consumatore e nonostante sia, così, corretto auspicare che i giudici di merito si adeguino alla regola secondo cui la validità del contratto presupposto intercorso tra professionista e consumatore vada verificata previa instaurazione del contraddittorio tra le parti, deve ritenersi che, quantomeno allo stato, la regola secondo cui il giudicato non copre il deducibile vada circoscritta al caso particolare del decreto ingiuntivo non opposto.
Dunque, va riaffermato che il giudice dell’esecuzione non ha alcun potere di rilievo officioso in ordine alla validità del contratto intercorso tra professionista e consumatore tutte le volte in cui quel contratto sia stato posto a fondamento di una domanda giudiziale avanzata dal professionista, accolta all’esito di un giudizio ordinario o sommario di cognizione.
La nuova regola eurounitaria, in sostanza, si applica:
– quando il decreto ingiuntivo non sia stato opposto;
– quando il decreto ingiuntivo sia stato posto a fondamento di un’azione esecutiva, il che avviene anche in caso di intervento nel processo di espropriazione ex 499 c.p.c.;
– quando il bene subastato non sia stato ancora aggiudicato ovvero il credito sottoposto ad esecuzione ex 543 c.p.c. non sia ancora stato assegnato.
È, invece, dubbio (quantomeno nei primi commenti) se l’eventuale rimedio funzionale alla realizzazione del diritto unionale possa essere esperito dal consumatore anche prima che il professionista eserciti l’azione esecutiva. A tale riguardo, va rammentato che la notificazione dell’atto di precetto non è ancora manifestazione di esercizio dell’azione esecutiva, e che l’espropriazione forzata inizia col pignoramento (art. 491 c.p.c.); l’esecuzione in forma specifica per consegna di beni mobili con l’accesso dell’ufficiale giudiziario (art. 606 c.p.c.); l’esecuzione in forma specifica per rilascio di beni immobili col perfezionarsi della notifica dell’avviso di sloggio (art. 608, comma 1, c.p.c.); l’esecuzione in forma specifica per obblighi di fare e di non fare col ricorso al giudice dell’esecuzione per determinarne le modalità (art. 612 c.p.c.). Ciononostante, riteniamo che la notificazione dell’atto di precetto non possa non legittimare il consumatore, nel momento stesso in cui l’esecuzione a suo danno venga minacciata, a far uso degli strumenti posti a sua disposizione anche per impedire che i suoi beni siano colpiti da un ingiusto vincolo di destinazione alle finalità esecutive.
La tutela del consumatore va, in altri termini, garantita a tutto campo: non soltanto all’interno dell’esecuzione, ma anche al fine di evitare che suoi beni particolari vengano colpiti per essere destinati alla “ingiusta” soddisfazione dei creditori.
4.- È necessario passare in rassegna le possibili soluzioni in astratto prospettabili per la migliore integrazione tra diritto unionale e diritto interno.
4.1.- La scelta di affidare “direttamente” al giudice dell’esecuzione il compito di accertare se il contratto tra professionista e consumatore (da cui origina il decreto ingiuntivo non opposto) presenti nullità di protezione, oltre ad essere stata evocata dalla Corte di Giustizia, apparentemente (ma, come si dirà, soltanto in apparenza) è quella che sembra meglio garantire la tutela che il diritto unionale garantisce al consumatore. Si tratterebbe, inoltre, di una tutela piena e celere, garantita da un giudice “di prossimità”: quello che ha appunto la direzione del processo esecutivo.
Il giudice dell’esecuzione, con ordinanza endoesecutiva impugnabile ex art. 617 c.p.c., potrebbe accertare che il decreto ingiuntivo non opposto è stato irritualmente formato sulla scorta di un titolo negoziale affetto da nullità secondo il diritto europeo. Ciò potrebbe condurre a una chiusura anticipata del processo, sul modello della c.d. estinzione atipica che già in numerose altre occasioni (es., venir meno del titolo esecutivo in corso d’esecuzione; difetto di legittimazione attiva etc.) ha consentito al g.e., nella prassi, un controllo sull’intrinseco del titolo che dobbiamo pur sempre ritenere attività di tipo eccezionale.
La soluzione descritta, tuttavia, non sembra conforme ai princìpi generali così come alle consolidate prassi in tema di esecuzione forzata perché:
– il giudice dell’esecuzione non dispone di poteri istruttori e di accertamento modellati sulla falsariga del processo di cognizione e non pronuncia provvedimenti su diritti, sia pure a fini soltanto endoesecutivi, se non nelle eccezionali e numerate ipotesi previste dal codice di rito (cfr. artt. 548 e 549 c.p.c., nonché art. 512 c.p.c.);
– gli artt. 548 e 549 e l’art. 512 c.p.c. attribuiscono, eccezionalmente, al giudice dell’esecuzione il potere di svolgere accertamenti endoesecutivi perché funzionali a consentire l’utile prosecuzione del processo; ove invece si percorresse l’ipotesi di allargare le maglie di istituti, nati di stretta applicazione, per riconoscere al g.e. un generale potere di verifica sull’intrinseco del titolo, il rischio sarebbe quello di ridisegnarne il ruolo in un contesto che quel ruolo espressamente limita alla direzione del processo in funzione della sua utile conclusione (non anche alla verifica dei presupposti per l’esistenza stessa dell’esecuzione); l’idea tradizionale, da sempre perseguita anche nelle prassi, è che «il giudice dell’esecuzione realizza diritti certi, ma non accerta l’esistenza di diritti».
– sotto altro profilo, non sembra possibile ipotizzare che il giudice dell’esecuzione possa, in ambiente endoesecutivo, accertare la vessatorietà delle clausole tra professionista e consumatore allo scopo di disporre la chiusura anticipata del processo causa l’«inutilizzabilità» del titolo esecutivo (formalmente esistente ed efficace quantomeno nei limiti del cd. giudicato esplicito); infatti, è vero che la più recente giurisprudenza ha in taluni casi riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare l’inesistenza delle condizioni formali per procedere ad esecuzione forzata, ma altrettanto vero è che essa ha circoscritto l’ambito del rilievo officioso alle ipotesi di inesistenza originaria (titolo giudiziale non riconducibile al catalogo di cui all’art. 474 c.p.c.) o sopravvenuta (ad es., titolo giudiziale integralmente riformato nelle fasi di gravame durante lo svolgimento del processo esecutivo) del titolo che deve sorreggere l’esecuzione forzata.
Tesi preferibile, pertanto, è quella secondo cui il giudice dell’esecuzione avrà il potere di rilevare anche d’ufficio il fumus di vessatorietà della clausola, ma non anche il potere di accertarne l’invalidità con un provvedimento che neghi tout court la tutela esecutiva a chi formalmente si presenta in possesso di un titolo in sé idoneo a legittimare l’esecuzione forzata.
La soluzione (non isolata e, come detto, prospettata dalla stessa Corte di Giustizia) favorevole ad affidare al giudice dell’esecuzione il compito di accertare la vessatorietà della clausola sconta consistenti criticità.
Infatti, è pacifico che se l’invalidità della clausola dovesse essere accertata dal giudice dell’esecuzione con ordinanza endoesecutiva, la decisione non potrebbe che avere efficacia soltanto nel processo in corso. Di qui il rischio che, ove siano promosse dal creditore professionista molteplici espropriazioni in virtù del titolo costituito dal decreto ingiuntivo non opposto (art. 483 c.p.c.), i diversi giudici dell’esecuzione nei diversi processi esecutivi potrebbero compiere valutazioni differenziate circa la vessatorietà della clausola.
Queste criticità – tacendo dei problemi di competenza per le varie possibili esecuzioni – non saranno superabili neppure ipotizzando la riunione dei giudizi di opposizione agli atti esecutivi che siano stati proposti avverso le ordinanze emesse dai diversi giudici dell’esecuzione, atteso che il rimedio di cui all’art. 617 c.p.c., anche quando si conclude con sentenza passata in giudicato, ha per oggetto, secondo l’opinione più ricevuta, il solo diritto a partecipare al concorso nel processo in cui risulta compiuto l’atto esecutivo impugnato.
Va da ultimo evidenziato che, se si accedesse alla tesi qui criticata e il rimedio fosse soltanto quello sin qui esaminato, il debitore consumatore, anche dopo aver ricevuto l’intimazione formale ad adempiere, dovrebbe comunque attendere l’instaurazione del processo espropriativo per poi potersi affidare al potere officioso di intervento del giudice dell’esecuzione (potere che non potrebbe che essere concepito come discrezionale, con tutto ciò che ne consegue quanto al suo esercizio in concreto). La soluzione qui considerata, in diversi termini, non tiene conto del fatto che lo stesso debitore non potrebbe beneficiare di una tutela preventiva, benché destinatario di un atto di precetto e benché esista nell’ordinamento (e, anzi, di recente potenziata con interventi sia legislativi sia giurisprudenziali) una tutela esterna all’esecuzione non soltanto di merito, ma anche di natura intrinsecamente cautelare (sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo).
4.2.- L’opposizione “recuperatoria” al decreto ingiuntivo costituisce, almeno in apparenza, il rimedio d’elezione apprestato dal diritto interno per vari motivi:
– l’opposizione a decreto ingiuntivo, sia nella forma “ordinaria” ex 645 c.p.c, previa rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., che in quella “tardiva” ex art. 650 c.p.c., consente al debitore consumatore di recuperare la tutela non esperita causa la mancata instaurazione del contraddittorio sulla validità delle clausole contrattuali e permette al giudice che ha emesso il provvedimento monitorio di valutare la vessatorietà delle clausole a tutela del consumatore, svolgendo in modo esplicito quei controlli eventualmente non espletati in precedenza;
– l’opposizione “recuperatoria” ordinaria o tardiva, pur non legittimando il giudice del merito a ridiscutere interamente il contenuto del titolo nella parte in cui esso è passato in giudicato esplicito, consente di valutare la eventuale vessatorietà delle clausole contrattuali presupposte e di revocare il decreto ingiuntivo sia nel caso in cui la nullità riguardi una clausola che inficia solo il quantum sia nell’ipotesi in cui la clausola invalida incida integralmente sull’an o, comunque, sul procedimento che ha condotto alla formazione del titolo giudiziale (il riferimento è, ad es., al caso in cui il decreto ingiuntivo sia stato emesso da un giudice incompetente rispetto al foro del consumatore in applicazione di una clausola nulla);
– l’opposizione recuperatoria configura un mezzo non soltanto demolitorio.
L’ipotesi dell’opposizione a decreto ingiuntivo recuperatoria impone, tuttavia, una dilatazione dell’ambito applicativo delle norme processuali evocate, che non risulta del tutto agevole.
Non sembra lineare percorrere l’ipotesi che la pronuncia della Corte di Giustizia, assimilabile al factum principis, configuri una causa di forza maggiore riconducibile all’art. 153 c.p.c.
Sotto altro profilo, anche l’operatività dell’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c. non appare davvero scontata. Tale istituto, invero, attribuisce la facoltà processuale di promuovere l’opposizione di merito oltre il termine di legge nel solo caso in cui il provvedimento monitorio non sia stato ritualmente notificato.
Pur dubitando della possibilità di ricorrere alle disposizioni dettate dagli artt. 645 e 153 c.p.c. ovvero dall’art. 650 c.p.c., è, comunque, opportuno vagliare con quali modalità l’ipotesi dell’opposizione recuperatoria potrebbe trovare concreta applicazione.
Ammettendo la proponibilità dell’opposizione “recuperatoria” ordinaria o tardiva, dovrebbe ipotizzarsi che il debitore consumatore venga ammesso a esperire il rimedio di cui agli artt. 645 o 650 c.p.c. rispettivamente, nel termine di quaranta giorni, ovvero nel termine di dieci giorni dal momento in cui il giudice dell’esecuzione lo abbia reso edotto della possibile vessatorietà di una delle clausole contrattuali sottoscritte.
Se si muove dalla tesi favorevole alla ammissibilità della opposizione di merito recuperatoria (ex artt. 645 e 153 o 650 c.p.c.), deve, però, ritenersi che – come già sopra accennato – non vi siano serie ragioni per imporre al debitore consumatore di attendere l’inizio dell’esecuzione forzata.
Il termine dei quaranta giorni ovvero dei dieci giorni dalla formulazione dei rilievi del giudice dell’esecuzione dovrebbe, in sostanza, operare come dies ad quem e non come dies a quo.
In questa prospettiva, dunque, non sarebbe possibile impedire al debitore consumatore di invocare la regola eurounitaria per proporre l’opposizione a decreto ingiuntivo in funzione recuperatoria ben prima che il professionista eserciti l’azione esecutiva.
Se si muove da tali premesse è, però, ragionevole ipotizzare che la soluzione in esame determinerebbe una inarginabile proliferazione di processi.
Ove si riconoscesse al debitore consumatore il potere di proporre l’opposizione al decreto ingiuntivo anche prima del rilievo officioso del giudice dell’esecuzione, è ragionevole ipotizzare che gran parte dei decreti ingiuntivi ormai irrevocabili verrebbe impugnata – verrebbe da dire: a torto o a ragione – allegando la sussistenza delle condizioni menzionate dalla Corte di Giustizia.
4.3.- La Procura Generale della Corte di Cassazione (requisitoria depositata nel proc. R.G. n. 24533/2021, udienza pubblica del 13 luglio 2022, est. dott. Nardecchia:www.procuracassazione.it/procurageneraleresources/resources/cms/documents/24533_2021_CGUE_Nardecchia.pdf) ha formulato conclusioni scritte nel procedimento attualmente pendente presso le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermando che il giudice dell’esecuzione, rilevata l’ipotetica vessatorietà della clausola contrattuale, dovrebbe invitare il debitore consumatore a proporre, nelle forme della c.d. actio nullitatis, un separato giudizio finalizzato alla declaratoria di nullità totale o parziale del titolo giudiziale conseguente alla invalidità delle clausole contenute nel contratto presupposto.
La tesi ha l’indubbio vantaggio di riservare al giudice della cognizione l’accertamento della validità del titolo esecutivo giudiziale; ma, al tempo stesso, presenta aporie che appare opportuno segnalare nell’ottica di scandagliare tutte le soluzioni processuali in astratto configurabili e sinora concretamente prospettate.
Innanzitutto, l’actio nullitatis configura un’azione di accertamento negativo esperibile per acclarare l’inidoneità a produrre effetti di un titolo giudiziale che, non conforme al modello legale, è affetto da un vizio riconducibile alla categoria della inesistenza.
Sembra, però, che l’eventuale nullità di una clausola negoziale, quantunque idonea a inficiare in tutto o in parte il decreto ingiuntivo, non permetta di introdurre la categoria della inesistenza.
In ogni caso, anche ammettendo che il decreto ingiuntivo emanato sulla base di un contratto presupposto recante clausole negoziali nulle sia inesistente, non sembra potersi dubitare che tale prospettazione dovrebbe essere veicolata attraverso il rimedio “fisiologico” di cui all’art. 615 c.p.c. È, infatti, consolidata la tesi secondo cui è possibile proporre l’opposizione all’esecuzione per contrastare il diritto del creditore ad agire esecutivamente nei casi in cui il titolo giudiziale sia costituito da un decreto ingiuntivo mai notificato e, dunque, non ancora venuto ad esistenza.
Va aggiunto che, ove si percorresse l’ipotesi dell’actio nullitatis, il processo di esecuzione forzata sarebbe inevitabilmente esposto a uno stallo sine die.
Infatti, una volta che il giudice dell’esecuzione avesse rilevato il fumus di abusività della clausola, il debitore consumatore avrebbe la facoltà di introdurre l’actio nullitatis finalizzata a riformare in tutto o in parte il decreto ingiuntivo ma non sarebbe compulsato dalla necessità di assumere tale iniziativa entro un preciso termine finale.
Non si comprende, da ultimo, il giudice dell’actio nullitatis in base a quali poteri potrebbe sospendere l’efficacia esecutiva del titolo, posto che l’art. 623 c.p.c. presuppone un giudice dell’impugnazione (o dell’opposizione a d.i.), mentre l’art. 615, comma 1, c.p.c. presuppone un giudice dell’opposizione a precetto, mentre, d’altro lato, l’esecuzione stessa può essere sospesa o, ancora, dal giudice dell’impugnazione, o dal giudice dell’esecuzione (art. 624 c.p.c.).
4.4.- La tutela del debitore consumatore potrebbe essere veicolata attraverso il rimedio proprio dell’ambiente in cui la questione finisce per assumere rilievo: è il rimedio dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., nelle sue diverse applicazioni dell’opposizione a precetto e dell’opposizione all’esecuzione (secondo taluni, a pignoramento).
Più precisamente, il debitore consumatore potrebbe essere ammesso a esperire il rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. per contestare il diritto del creditore a procedere in executivis attraverso la prospettazione della nullità delle clausole del contratto presupposto la cui invalidità sia idonea a inficiare, in tutto o in parte, l’ingiunzione di pagamento.
Tale conclusione potrà essere ammessa soltanto attraverso la compiuta esposizione delle peculiarità che caratterizzano la soluzione in esame.
Secondo i principi generali, l’opposizione all’esecuzione fondata su titolo esecutivo giudiziale può essere proposta soltanto per far valere fatti modificativi o estintivi del rapporto sostanziale verificatisi in epoca successiva al giudicato.
Nel caso in esame, invece, l’opposizione all’esecuzione proposta dal debitore consumatore per far valere la nullità delle clausole del contratto presupposto sarebbe finalizzata a prospettare vizi del titolo giudiziale già preesistenti alla emanazione del provvedimento monitorio.
Nonostante tale preliminare rilievo, che del resto riflette la specialità della tutela garantita al consumatore, deve ritenersi che il rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. sia quello che potrà essere ammesso senza rischio di scardinamento del sistema.
Se si muove dal rilievo secondo cui il provvedimento monitorio diventa irrevocabile soltanto in relazione al dedotto ma non al deducibile e si afferma che il giudicato non copre gli accertamenti pregiudiziali inerenti la sussistenza e validità del fatto costitutivo quando non adeguatamente esplicitati, pare possibile affermare che il decreto ingiuntivo è titolo giudiziale limitatamente alle statuizioni espresse, ed è titolo assimilabile a quello stragiudiziale nel resto.
In questa prospettiva, l’opposizione all’esecuzione non sarebbe ammessa per contestare la legittimità del giudicato monitorio esplicito bensì sarebbe eccezionalmente consentita soltanto per verificare che il creditore non ha diritto a procedere esecutivamente relativamente alla clausola nulla poiché tale nullità, benché anteriore all’emanazione del provvedimento monitorio, ben potrà essere prospettata quale fatto impeditivo idoneo a elidere in tutto o in parte il diritto del creditore pur formalmente cristallizzato dal giudicato esplicito.
E non va trascurato un riferimento di carattere più generale a proposito dell’efficacia del decreto ingiuntivo non opposto, che la costante giurisprudenza ha riconosciuto assistito dalla forza del giudicato nonostante le norme del procedimento speciale facciano costante riferimento alla sola esecutorietà, non anche all’autorità del giudicato sostanziale.
L’opposizione all’esecuzione ha, inoltre, molteplici vantaggi:
– il rimedio è esperibile sia in via preventiva che successiva; in sostanza, anche prima che il giudice dell’esecuzione abbia rilevato la vessatorietà della clausola, il debitore consumatore può proporre il rimedio in questione, ai sensi dell’art. 615 comma 1, anche per ottenere una tutela cautelare interinale che realizza il suo diritto a non subire atti esecutivi ingiusti;
– la sentenza che definisce il giudizio ha efficacia erga omnes e potrà essere spesa dal debitore opponente in ogni altro processo esecutivo promosso ai suoi danni;
-il giudice dell’esecuzione conserva gli strumenti di raccordo poiché è chiamato a valutare in sede cautelare, ex 624 c.p.c., se ricorrano giusti motivi per sospendere il processo esecutivo sino alla conclusione della causa di merito;
– la struttura bifasica delle opposizioni esecutive successive consente di ipotizzare che il debitore consumatore, una volta rigettata la sua richiesta di sospensione dell’esecuzione, possa decidere di non coltivare il giudizio nelle fasi di merito con evidente vantaggio deflattivo.
L’unica criticità connessa alla scelta del rimedio in esame si annida nel fatto che non sempre l’opposizione all’esecuzione è proponibile entro e non oltre un termine.
L’art. 615 comma 2 c.p.c. stabilisce, invero, che l’opposizione all’esecuzione va proposta, a pena di inammissibilità, prima della emanazione della ordinanza di vendita o di delega quando i fatti estintivi o modificativi del credito si siano avverati anteriormente; analogo termine finale non è, però, contemplato dalla disposizione in esame, di guisa che è consolidato l’orientamento secondo cui l’opposizione all’esecuzione può essere proposta durante tutto lo svolgimento della fase di liquidazione giudiziale e fino all’apertura della fase distributiva.
La criticità che si è segnalata potrebbe, però, facilmente essere risolta in sede interpretativa nei seguenti termini:
– se il giudice dell’esecuzione segnala l’ipotetica vessatorietà della clausola prima dell’emanazione dell’ordinanza di vendita o di delega, l’opposizione all’esecuzione dovrà essere introdotta prima della apertura della fase di liquidazione giudiziale, in ossequio al disposto dell’art. 615, comma 2, ultimo periodo, c.p.c.;
– se il giudice dell’esecuzione segnala l’ipotetica vessatorietà della clausola dopo la emanazione dell’ordinanza di vendita o di delega, il termine ultimo per proporre l’opposizione all’esecuzione resterà inevitabilmente quello della aggiudicazione del bene.
Possiamo chiederci, infine, quali potrebbero essere gli ipotetici esiti di una opposizione all’esecuzione proposta dal debitore consumatore.
Di regola, con la sentenza che definisce il giudizio il giudice dell’opposizione all’esecuzione accerterà l’inesistenza del diritto del creditore a procedere esecutivamente in relazione alle somme pretese dal professionista in forza di clausole nulle perché vessatorie.
L’incidenza delle clausole nulle può, però, atteggiarsi in modo diversificato.
Nessun problema si pone, ad es., se la clausola nulla sia relativa al tasso degli interessi moratori poiché, in tale evenienza, il giudice dell’opposizione all’esecuzione si limiterà a dichiarare l’inesistenza del diritto del creditore professionista ad agire esecutivamente in suo danno per le somme eccedenti il capitale.
La situazione si complica, invece, se la clausola nulla abbia inciso sul processo di formazione del provvedimento monitorio, ad esempio perché derogava illegittimamente al foro del consumatore.
In tal caso, è plausibile ipotizzare che il giudice dell’opposizione all’esecuzione possa accertare la totale inesistenza del diritto del creditore a procedere esecutivamente in forza del decreto ingiuntivo quando esso sia stato emanato irritualmente in applicazione di clausole vessatorie che hanno inficiato il procedimento stesso preordinato alla sua formazione.
Per completezza, giova precisare che il diritto di azione del creditore potrebbe essere comunque salvaguardato dalla scelta di attribuire al debitore il rimedio dell’opposizione di cui all’art. 615 c.p.c. poiché, come noto, il creditore è ammesso a proporre la domanda riconvenzionale per ottenere una sentenza di condanna che tenga luogo del titolo esecutivo azionato, rivelatosi inesistente o, comunque, inidoneo allo scopo.
5.- Per completezza, è opportuno precisare che le questioni sin qui esaminante avranno una effettiva incidenza nei soli processi di espropriazione forzata promossi dal creditore professionista che abbia azionato il decreto ingiuntivo recante le clausole vessatorie ovvero nell’ipotesi in cui tale creditore, benché intervenuto nella espropriazione da altri promossa, risulti l’unico procedente.
Qualora, invece, il creditore professionista sia soltanto uno dei plurimi creditori concorrenti, il processo di espropriazione potrà proseguire su istanza degli altri creditori muniti di titolo esecutivo.
Va da ultimo evidenziato che il creditore professionista potrebbe ovviare preventivamente alle criticità connesse alla utilizzazione di un provvedimento monitorio emesso sulla base di un contratto presupposto recante clausole vessatorie rinunciando alla operatività di quelle clausole e, dunque, alla quota parte del credito ad esse connesso.
Tale rinuncia non è, tuttavia, neppure astrattamente ipotizzabile quando la clausola vessatoria abbia inficiato la legittimità del procedimento di formazione del titolo come può verificarsi, ad esempio, se il provvedimento monitorio sia stato emesso da un giudice incompetente.
6.- Il giudice dell’esecuzione dispone di genuini poteri istruttori nel corso dell’espropriazione forzata ovvero decide “allo stato degli atti”?
A tale interrogativo, che apre delicatissimi scenari, occorrerà rispondere cum grano salis.
Per affermare che il giudice dell’esecuzione abbia il dovere di segnalare la vessatorietà della clausola negoziale contenuta nel contratto sotteso al decreto ingiuntivo non opposto, occorrerà ipotizzare che dal ricorso monitorio e dal pedissequo decreto ingiuntivo possa ricavarsi che il rapporto sostanziale presupposto è intercorso tra un professionista e un consumatore.
Solo in tal caso può ritenersi ineludibile che il giudice dell’esecuzione inviti il debitore consumatore a depositare il contratto presupposto, per poter compiere le sue verifiche preliminari.
Non sembra, invece, ragionevole spingersi sino a ipotizzare che il giudice dell’esecuzione, dinanzi a qualunque decreto ingiuntivo non opposto, sia chiamato ad acquisire il fascicolo del procedimento monitorio al fine di compiere le verifiche funzionali a illustrare al consumatore delle criticità che potranno essere superate con le opportune iniziative giudiziarie.
In conclusione, riteniamo che la nuova regola eurounitaria ha un àmbito applicativo piuttosto limitato:
essa riconosce al debitore consumatore il potere di contestare il decreto ingiuntivo non opposto (che non rechi un’esplicita valutazione in ordine alla validità del titolo negoziale presupposto) finanche nella sede esecutiva e sino alla liquidazione giudiziale dei beni pignorati (vendita o assegnazione);
il giudice dell’esecuzione potrà rilevare il fumus di vessatorietà delle clausole tra professionista e consumatore ma non potrà compiere accertamenti nelle forme del Libro II del c.p.c. né potrà porre nel nulla il decreto ingiuntivo non opposto, poiché esso non è tecnicamente inesistente;
la tutela accordata al debitore consumatore dal rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. è adeguata ed effettiva perché consente di scongiurare il rischio dell’inizio dell’esecuzione attraverso l’opposizione preventiva ex art. 615, comma 1, c.p.c. con la connessa richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo azionato;
il rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. non comporta la possibile proliferazione dei processi poiché non è soltanto demolitorio, bensì potrebbe concludersi con la emanazione di una sentenza che tiene luogo del decreto ingiuntivo emanato in base a titolo contrattuale riconosciuto nullo.