Contenzioso climatico e processo civile. Considerazioni a margine di alcune recenti pronunce

Di Roberta Tiscini -

Sommario: 1.Premessa. – 2. L’oggetto della tutela. – 3. L’esperienza della sentenza della Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, e di quella del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024. – 4. Il difetto assoluto di giurisdizione secondo il Tribunale di Roma 26 febbraio 2024. – 5. Segue: e il difetto relativo di giurisdizione. – 6. La legittimazione ad agire (azioni individuali e collettive). – 7. Segue: la legittimazione a resistere (gli Stati o le imprese). – 8. Azioni risarcitorie ed azioni inibitorie. Il nesso causale. – 9. Segue. I presupposti dell’inibitoria nelle climate change litigations. – 10. Segue. La tutela cautelare. – 11. La tutela esecutiva.

 

 

1.Premessa.

Il contenzioso climatico è talmente vasto e variegato da poter con difficoltà contenersi in una ricostruzione ordinata e completa delle articolazioni in cui esso si dipana, anche solo nei suoi profili processuali[1]. Tante sono le materie interessate (tra scienza e diritto) ed altrettante le spigolature della relativa indagine. I temi sono solo all’apparenza nuovi, dal momento che già da decenni il (pericolo insito nel) riscaldamento globale occupa l’attenzione dell’opinione pubblica, non meno che degli studiosi; molteplici le sollecitazioni da più parti provenienti, dal contesto sociale, economico, politico, e, di riflesso altrettante sono le prospettive giudiziarie.

Nel cercare di offrire una rappresentazione, per quanto schematica, delle varie modalità con cui il contenzioso si offre oggi all’osservatore, occorrono talune premesse di metodo e di merito.

In primo luogo, l’attenzione sarà concentrata sulle climate change litigation, piuttosto che sulle liti ambientali, le une e le altre legate da un rapporto di genus a species, nel senso che l’ambito delle prime è più vasto e ricomprende quello delle seconde[2].

Agganciata inizialmente ai diritti fondamentali della persona, declinata poi nei termini del diritto alla salute, riversata sui profili patrimoniali quale espressione del diritto di proprietà, la tutela dell’ambiente descrive oggi un contenzioso che trova puntuale collocazione normativa (e interpretativa), in primis sotto il profilo delle situazioni sostanziali coinvolte. E’ evidente la necessità di tutelare, da un lato, i diritti soggettivi individuali (personali e patrimoniali), da un altro, l’interesse diffuso (superindividuale) all’ambiente salubre quale garanzia di salvaguardia di un contesto sociale in cui la fruizione dell’ambiente da parte del gruppo debba sottrarsi al rischio di pregiudizio sui singoli[3].  Il contesto entro cui si muovono le climate change litigations è invece diverso, quanto meno sul piano delle situazioni soggettive protette (declinate, sia nel diritto individuale, sia nell’interesse collettivo), seppure non va trascurata la relazione che intercorre tra l’uno e l’altro. Il clima rappresenta quindi il contesto in cui si trovano gli elementi che compongono l’ambiente, nel senso che se il «sistema climatico» comprende l’atmosfera (l’aria), l’idrosfera (l’acqua), la criosfera (i ghiacci e i ghiacciai), la litosfera (il suolo), la biosfera (gli esseri viventi) e i processi tra queste sfere, l’ambiente trova una sua definizione in aspetti particolari della legislazione in un contesto più circoscritto[4].

Ne deriva – sul piano della tutela giurisdizionale – che, mentre il contenzioso ambientale ha una puntuale regolamentazione (con inclinazione, nel riparto, a favore del giudice amministrativo), quello climatico è fenomeno venuto imponendosi per via di prassi e tuttora non si giova di una specifica disciplina[5]. Dal momento che lo stato di avanzamento della normativa intorno alla tutela dell’ambiente è maggiore di quello che si può riscontrare nelle liti climatiche, è interessante concentrare l’attenzione su queste ultime, il cui studio emerge dalla realtà concreta più che dalla normativa generale ed astratta.

La seconda premessa riguarda gli strumenti di indagine che si vorranno prediligere. Nonostante la sua “giovinezza”, il contenzioso climatico si presenta già corredato di non pochi precedenti, espressione di plurime istanze, nonché geograficamente radicato in contesti ordinamentali, culturali e politici tra loro molto diversi. Proprio la sua diffusione a livello mondiale – nella molteplicità delle rappresentazioni fenomeniche che lo caratterizzano – rende difficile (né sarebbe utile) una ricostruzione davvero esaustiva, considerato che le profonde diversità di soluzioni finiscono per rispecchiare le molteplici realtà ordinamentali in cui si collocano.

E’ bene dunque affrontare il tema concentrando l’attenzione sulla situazione vigente in Italia, reduce peraltro della prima sentenza civile in materia, seguita, a pochi mesi di distanza, da un altro centrale intervento della Corte EDU; entrambi provvedimenti particolarmente interessanti in quanto espressione di regole suscettibili di generalizzazione. Il riferimento è, da un lato, alla sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 26 febbraio 2024, n. 3552[6], nel contenzioso “Giudizio Universale”[7], prima causa di diritto interno in questo ambito (sebbene, ad oggi, non l’unica[8]), da un altro alla sentenza della Corte EDU 9 aprile 2024 KlimaSeniorinnen v. Switzerland[9], di poco successiva, che giunge a conclusioni ed enuncia principi parzialmente contraddittori rispetto alla prima[10].

Nell’indagare i profili processuali, partirò dalle diverse declinazioni in cui può presentarsi il contenzioso climatico a seconda di quale sia il bene protetto  e, a cascata, esaminerò le conseguenze che ne derivano, sia sul piano processuale (presupposti processuali, giurisdizione, legittimazione ad agire ecc.), sia rispetto all’oggetto del giudizio (oggetto della domanda, natura dell’azione intentata nell’alternativa tra un contenzioso pubblico o privato, individuale o collettivo, inibitorio o risarcitorio).

 2.L’oggetto della tutela.

Il primo tema che entra in gioco è quello dell’oggetto della tutela, il quale se sul piano del diritto sostanziale impone di individuare la situazione soggettiva protetta, sotto il profilo processuale va declinato nei termini del petitum. Si tratta del nodo centrale attorno a cui ruota l’intera materia, con difficoltà riuscendosi ad individuarne il contenuto invocando la tradizionale strumentalità del diritto processuale al diritto sostanziale (nel senso che il processo si pone al servizio di situazioni soggettive meritevoli ed è ad esso strumentale). Indiscussa una tale strumentalità, occorre anche considerare – rovesciando la prospettiva – che è l’evidenza di un contenzioso che si fa sempre più presente nella realtà sociale a far emergere l’esistenza di una (o più) situazioni soggettive meritevoli. E’ questo il fenomeno dei cd. diritti in veste di azione, quali situazioni sostanziali protette in quanto (e solo perché) esiste per esse un rimedio processuale ad hoc[11]. Si pensi, per tutte, al procedimento di repressione della condotta antisindacale (art. 28 st. lav.), nonché, più in generale, alla disciplina delle azioni collettive, ove la dignità di tutela degli interessi superindividuali, diffusi, collettivi trae linfa vitale dall’esistenza dello strumento processuale (art. 840-bis ss. c.p.c.).

Le cd. climate change litigations[12] ben si collocano in tale scenario. Che il cambiamento climatico potesse essere fonte di contenzioso, anni addietro non si sarebbe neanche immaginato. Oggi invece è in crescita la domanda di giustizia (individuale o diffusa[13]) legata al riscaldamento globale, il che a sua volta stimola interrogativi circa il corretto inquadramento del fenomeno sul piano sostanziale. Si tratta per lo più di cd. strategic litigation: un contenzioso strumentale alla diffusione di informazioni circa i rischi del cambiamento climatico allo scopo di sollecitare opinione pubblica, Stati, imprese verso un cambiamento culturale, sociale e legislativo diretto ad adottare misure protettive per il clima[14] (tanto da non essere considerato un effetto solo “indiretto” delle relative azioni[15]).

È dunque dal nascere della litigiosità che deriva la necessità di descrivere gli interessi sottesi, qualificandoli come situazioni sostanziali protette. Va detto che quello sul clima è un contenzioso multiforme, che attraversa plurime giurisdizioni e si orienta verso varie tutele: dal processo amministrativo, a quello civile o penale[16], dalla protezione degli interessi legittimi a quella dei diritti soggettivi, declinati questi ultimi nei termini di diritti fondamentali della persona, del diritto di proprietà, dai diritti personali a quelli patrimoniali[17] (alle public climate litigations, azioni pubblicistiche rivolte contro gli Stati, si contrappongono le private climate litigations aventi ad oggetto la responsabilità delle imprese per le conseguenze della propria attività sul clima[18]). Si evidenziano così due tipologie di contenzioso: quello “strategico” volto ad indurre gli Stati o le imprese ad assumere deliberazioni o comportamenti destinati a ridurre le emissioni (con funzione preventiva e inibitoria, quindi), e quello “routinario” avente contenuto risarcitorio, per consentire il ristoro dei danni causati dal mutare del clima[19].

C’è da chiedersi il perché di una tale ampiezza ed eterogeneità di prospettive. Qui a ben vedere, l’azione giudiziale non è riconosciuta dalla legge (come, ad esempio, nel caso dell’art. 28 st. lav.), bensì nasce dall’esperienza applicativa. D’altra parte, ampiezza esprime indeterminatezza. Al cospetto dei gravi pericoli provocati dalle emissioni di gas serra[20], il diritto (e la giurisprudenza che ne è espressione) si adeguano, e lo fanno alla maniera più articolata, e potenzialmente completa, l’ordinamento giuridico (mai uguale a sé stesso) subentrando quale risposta alle esigenze pratiche, per proteggere interessi e/o situazioni soggettive indistintamente meritevoli. Di qui la varietà degli scenari giudiziali: così come il cambiamento climatico è fenomeno mondiale, altrettanto diffuso è il relativo contenzioso, cangiante a seconda dell’ordinamento in cui si radica (variabile di Paese in Paese, di regione in regione). Sicché, la pericolosità della vicenda, sotto l’impulso di interventi antropogenici, trova risposte differenziate al variare delle rispettive realtà normative, sociali, economiche.

 

3.L’esperienza della sentenza della Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, e di quella del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024.

Volendo applicare le considerazioni generali appena svolte ai giudizi pendenti, si noterà da subito come sia evidente la tendenza delle corti a riconoscere dignità di tutela al diritto (o interesse) ad un clima stabile e sicuro, seppure nella vaghezza della definizione e con non poche difficoltà di inquadramento sotto il profilo giurisdizionale. Ne è espressione la sentenza della Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit. la quale colloca le situazioni soggettive emergenti dal contenzioso climatico entro i principi fondamentali[21] della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Si ritiene inciso il “diritto alla vita” (art. 2 CEDU), riscontrandosi, nel caso considerato, i presupposti – di cui all’art. 2 cit. – di un pericolo “reale ed immediato” per la vita, potendosi tale criterio intendere nel contesto del cambiamento climatico quale “minaccia grave, effettiva e sufficientemente identificabile per la vita” (ciò consente di includere un elemento di vicinanza materiale e temporale della minaccia ai danni fatti valere).

Viene poi evidenziato il pericolo di danno legato alla violazione dell’art. 8 CEDU quale pericolo “rilevante e sufficientemente grave di pregiudizio” alla vita, alla salute, al benessere alla qualità della vita (offrendo, a seguire, taluni criteri che consentano di individuare quando tale danno o pericolo di danno sia verificabile). Va precisato che nel caso esaminato dalla Corte EDU l’azione è rivolta nei confronti degli Stati, chiamati perciò ad adottare misure che nel contesto del cambiamento climatico consentano di adempiere all’obbligo di protezione in materia di diritti umani, sì da creare un quadro giuridico ed amministrativo che garantisca un’effettiva protezione della salute e della vita. Sulla legittimazione passiva degli Stati (e dunque sul ruolo delle strategic litigations nel contesto della lotta al cambiamento climatico) tornerò a breve[22]. Per il momento, è sufficiente rilevare come l’atteggiamento della Corte EDU[23] nella sentenza 9 aprile 2024 sia nel senso di riconoscere come meritevoli situazioni soggettive legate al cambiamento climatico, riconducendole non solo a pieni diritti soggettivi, ma anche a diritti fondamentali della vita e della dignità umane (diritti costituzionalmente garantiti dalla Carta Europea sui Diritti dell’Uomo e condivisi dalla nostra Costituzione).

A fronte di una tale apertura, si colloca l’atteggiamento più rigoroso del Tribunale di Roma (sentenza del 26 febbraio 2024), il quale, nella già citata causa “Giudizio universale”, giunge a conclusioni che negano la tutela, seppure implicitamente riconoscendo come quello del riscaldamento globale sia un problema attuale ed effettivo, che coinvolge situazioni sostanziali meritevoli. I profili problematici sono infatti orientati, più che sull’esistenza dei diritti/interessi da tutelare, su limiti e modalità della tutela stessa. Collocata anche qui la questione nel contesto delle strategic litigation contro gli Stati, il Tribunale di Roma finisce per dichiarare il difetto di giurisdizione (assoluto sotto certi profili e relativo per altri[24]), negando che, pur ammessa l’astratta dignità di tutela delle situazioni coinvolte, queste ultime possano essere qualificate come diritti soggettivi. L’azione è nella specie intentata ai sensi dell’art. 2043 c.c. (o, in subordine, dell’art. 2051 c.c.) sul presupposto della “perdurante (permanente) violazione dei modi e dei tempi dei doveri statali di protezione” da cui deriva una “responsabilità climatica dello Stato italiano convenuto, riconducibile alla fattispecie di cui agli artt. 2043 c.c. ovvero 2051 c.c., nonché degli artt. 1173 e 1218 c.c.. La sentenza indugia nel ricostruire il fenomeno sotto il profilo dell’evoluzione normativa, convenzionale e giurisprudenziale, interna ed internazionale[25]. E’ quindi rinvenibile, nel caso di specie, una situazione soggettiva meritevole, nel senso di riconoscere il diritto dell’uomo ad un ambiente salubre; il fatto è – afferma il Tribunale – che tale situazione giuridica soggettiva – “differenziata da quella della collettività in generale” – non è tutelabile con i rimedi civilistici ivi evocati (artt. 2043 o 2051 c.c.); dal che si può dedurre – a voler semplificare il pensiero – che non si tratta di un diritto soggettivo risarcibile. Ulteriori avrebbero dovuto essere le strade percorribili attivando i rimedi previsti dall’ordinamento europeo per contestare la legittimità degli atti dell’UE. In altri termini, l’attore avrebbe dovuto censurare gli atti emanati dall’UE (e volti a regolare i limiti tollerabili di CO2) ovvero esperire l’azione risarcitoria ex art. 340 TFUE; il che, se da un lato, consente di dirottare l’attenzione verso i rimedi europei – così negando la risarcibilità secondo gli strumenti di diritto interno – dall’altro implicitamente attribuisce dignità di tutela alle situazioni sostanziali emergenti in relazione al clima.

Osserva in particolare il tribunale che “la domanda, coì prospettata non è diretta a richiedere l’accertamento del diritto degli attori al risarcimento del danno per l’illegittimo esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa afferente al cambiamento climatico in violazione degli obblighi vincolanti e a tutela dei diritti umani fondamentali. La domanda risarcitoria ricollegata alla titolarità di un diritto soggettivo (e come tale considerata scrutinabile dal giudice ordinario), per come formulata, è diretta in concreto a chiedere, quale petitum sostanziale, al giudice un sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione”. Sicché, non è in discussione l’esistenza del bene da proteggere, quanto la modalità con cui esso viene assicurato[26].

In sintesi. La giurisprudenza evocata è incline a riconoscere la gravità della situazione e dunque l’esistenza di un generico “interesse” da proteggere. Tuttavia, orientando tale protezione verso scenari giurisdizionali diversi da quelli invocati dall’attore, finisce per negarne la qualificazione in termini di pieno diritto soggettivo e perciò per precludere l’azione giudiziale; la protezione resta quindi fittizia data l’incapacità di individuare nell’ordinamento interno un giudice dotato del potere di censurare comportamenti lesivi di quella stessa situazione sostanziale.

 4.Il difetto assoluto di giurisdizione secondo il Tribunale di Roma 26 febbraio 2024.

Il tema si sposta a questo punto sul riparto di giurisdizione, e dunque sul primo dei presupposti processuali attinenti al giudice. Appurato che quella “al clima stabile e sicuro” (per utilizzare le espressioni tratte dalla medesima causa “Giudizio Universale”) è una situazione sostanziale tutelabile, occorre decifrare in concreto i termini dell’azione. Ho già accennato alle molteplici declinazioni che può assumere la tutela, nell’alternativa tra azioni fondate sulla protezione di un mero interesse a che il potere pubblico sia correttamente esercitato nell’approntare le misure volte a ridurre l’emissione di gas serra, ovvero di un diritto pieno, di natura personale (alla vita, alla salute, alla personalità), ma anche patrimoniale, ove si agisca per il risarcimento del danno. E’ perciò che alle public litigations si accompagnano le private litigation, le prime volte a proteggere interessi rispetto al corretto esercizio del potere, le seconde orientate sulla tutela di diritti.

Anche da questo punto di vista, è bene richiamare l’esperienza giurisprudenziale più recente e in particolare i due citati eventi che maggiormente collocano il fenomeno nel contesto italiano. Il Tribunale di Roma, come già anticipato, dichiara il difetto di giurisdizione, in una duplice modalità. Intorno alla richiesta principale di condanna al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., o in subordine ex art. 2051 c.c., la sentenza osserva come le valutazioni di parte attrice in ordine all’inadeguatezza delle scelte politiche effettuate per realizzare gli obiettivi a cui lo Stato è vincolato, si basano su dati sostanzialmente non verificabili di fronte al giudice ordinario, non disponendo quest’ultimo delle informazioni necessarie per accertare la correttezza delle complesse decisioni prese dal Parlamento e dal Governo; non si rinviene perciò, nella specie, una vera e propria obbligazione dello Stato a ridurre le emissioni, con le dovute conseguenze in punto di (negato) risarcimento del danno. Non si può perciò considerare l’interesse invocato quale diritto risarcibile ex art. 2043 c.c. o 2051 c.c. non rientrando esso nel novero dei diritti giuridicamente tutelabili “in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico […]    rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio”[27].  In altri termini, con l’azione giudiziale intrapresa, gli attori nella sostanza chiedono al tribunale di annullare i provvedimenti anche normativi di carattere primario e secondario i quali costituiscono però il frutto di scelte legislative e del governo (per il raggiungimento degli obiettivi assunti sul piano internazionale ed europeo) finendosi così per violare il principio di separazione dei poteri. Gli atti posti in essere dallo Stato infatti – prosegue la sentenza – sono espressione di un indirizzo politico volto a determinare le linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e di politica dello Stato nella questione del cambiamento climatico antropogenico; una questione che il tribunale non nega né rinnega, ma che non può essere in quella sede sindacata onde evitare l’invasione di poteri altrui nella fisiologica tripartizione (legislativo/esecutivo/giudiziario).  Di qui il difetto assoluto di giurisdizione[28], non essendovi nel territorio nazionale alcun altro giudice abilitato a decidere in relazione alla situazione soggettiva tutelata[29].

A ben vedere, a me sembra che invocare il principio di separazione dei poteri per porre uno sbarramento assoluto alla giurisdizione, allo scopo di non invadere la sfera della discrezionalità legislativa, se è condivisibile in punto teorico, sul piano concreto finisce per nullificare ogni protezione avverso scelte normative o governative che in qualche modo ostacolino il diritto ad un ambiente salubre. In altri termini, in una prospettiva di strategic litigation, la via giurisdizionale dovrebbe avere proprio lo scopo di incidere sulle scelte legislative, limitando i confini della discrezionalità, e di conseguenza introducendo un deterrente al dilagare del fenomeno patologico; il che, piuttosto che violare il principio di separazione dei poteri, avrebbe la funzione di accertare in che termini da una tale discrezionalità possano derivare danni quantificabili o pericoli di danno. Sicché, l’intervento giurisdizionale dovrebbe intendersi non come volto a incidere sull’atto concretamente emesso dallo Stato, bensì in una valutazione prospettica degli esiti che tali scelte potenzialmente produrranno (di qui la funzione deterrente, seppure legata a danni consumati e dunque risarcibili). Quella della lite strategica che conduce alla condanna degli Stati è d’altra parte una scelta di politica giudiziaria, non ostacolata da insuperabili regole giuridiche e non a caso soluzione già invocata in altri paesi (vd. soprattutto il caso Urgenda[30]), ove non si è esitato a condannare lo Stato al risarcimento dei danni provocati dalle sue stesse condotte. Nulla avrebbe impedito perciò al Tribunale di Roma di adottare analoghe soluzioni. Ho l’impressione, piuttosto, che la sentenza del febbraio 2024 abbia voluto vestire dei panni dell’argomentazione giuridica una scelta aprioristicamente fatta per porre un freno al dilagare in Italia di una tale litigiosità.

Problema sovrapponibile è, non a caso, quello esaminato dalla Corte EDU con la citata sentenza della Grande Camera del 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit., ma con l’ulteriore esigenza di indagare i confini della discrezionalità legislativa e dei poteri dello Stato in relazione al principio di sussidiarietà (distribuzione delle competenze tra autorità statali e diritto sovranazionale). La Corte EDU riconosce una certa discrezionalità agli Stati, sia nella definizione degli obiettivi necessari per combattere il cambiamento climatico, sia nella scelta dei mezzi per raggiungere tali obiettivi. Ciò nonostante, essa ammette – come prevalente e riconducibile alla garanzia convenzionale degli artt. 2 e art. 8 CEDU – il diritto del singolo individuo ad una protezione efficace da parte dello Stato contro gravi effetti negativi sulla sua vita, la sua salute, il suo benessere e la sua qualità di vita derivanti dagli effetti deleteri dei rischi al cambiamento climatico (riconosce così, senza esitazione, una “obbligazione climatica” che gli Stati sono chiamati ad osservare alla luce dei diritti fondamentali enunciati dalla CEDU)[31].

E’ dunque proprio la sentenza della Corte EDU ad individuare e circoscrivere i doveri degli Stati nella prospettiva di adottare misure protettive per i diritti evocati (sia in relazione alla loro definizione, sia sotto il profilo dell’attuazione e applicazione delle relative misure protettive).

Sicché, pur nei limiti imposti dall’autonomia dei singoli Stati, è evidente qui un atteggiamento più aperto a concretamente tutelare le situazioni soggettive legate al riscaldamento globale, non solo riconoscendo in linea di principio la necessità di proteggere i diritti fondamentali della persona, ma anche offrendo le direttive affinché una tale protezione possa indirizzarsi verso scelte legislative compatibili; il che – sotto il profilo delle questioni di giurisdizione – consente di superare il problema meglio dialogando con la divisione dei poteri. E’ in altri termini la meritevolezza della tutela e la centralità delle situazioni soggettive protette (convenzionalmente e costituzionalmente tutelate) a costituire il fulcro della sentenza di Strasburgo, punto di partenza da cui muovere per definire (ed adeguare) i confini della giurisdizione. Approccio, questo, che consente di offrire soluzioni più protettive nell’interesse dei cittadini, anche se la sua tenuta sarà da verificare alla luce della applicazione che se ne farà in concreto nei singoli Stati.

 

5.Segue: e il difetto relativo di giurisdizione.

Vi è un secondo aspetto esaminato dalla sentenza del Tribunale di Roma del 26 febbraio 2024, che evoca un ulteriore profilo legato ai confini della giurisdizione. Accanto alla dichiarazione di difetto assoluto di giurisdizione, la pronuncia esamina anche – per una porzione del decisum – il difetto relativo di giurisdizione, per essere il potere spettante alla giurisdizione del giudice amministrativo[32]. In particolare, il Tribunale di Roma affronta la questione ravvisando un difetto relativo di giurisdizione con riferimento alla domanda, proposta in via subordinata, volta ad ottenere una modifica del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), quale atto di pianificazione generale predisposto dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dello Sviluppo Economico, dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare, previo esperimento della procedura di consultazione pubblica. Lamentando gli attori talune carenze del piano sotto il profilo della adeguatezza e ragionevolezza rispetto agli obiettivi individuati dall’UE, la sentenza evidenzia come la questione rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, attenendo essa alla legittimità dell’atto amministrativo e, comunque, a comportamenti e omissioni riconducibili all’esercizio di poteri pubblici in materia di contrasto al cambiamento climatico antropogenico e quindi afferente alla giurisdizione generale di legittimità. La sentenza dichiara perciò il difetto relativo di giurisdizione e devolve la lite al giudice amministrativo.

E’ questo un altro profilo delicato del riparto di giurisdizione che in materia di contenzioso climatico è destinato a trovare ampio spazio, non diversamente da come avviene nel contenzioso ambientale.  E’ evidente infatti che, qualora le strategic litigations siano indirizzate verso gli Stati – ritenuti responsabili per adottare misure non conformi ai diritti soggettivi al clima stabile e sicuro – il rischio che si invada il potere del giudice amministrativo nel sindacare la legittimità degli atti ivi adottati è piuttosto concreto. Un rischio, d’altra parte, non minore di quello configurabile in tanti alti ambiti della giurisdizione, essendo notoriamente difficile da decifrare il confine tra giurisdizione amministrativa e ordinaria (civile).

6.La legittimazione ad agire (azioni individuali e collettive).

La varietà delle prospettazioni con cui si può presentare il contenzioso climatico è evidente anche sotto il profilo della legittimazione, sia dal lato attivo che passivo.

Quanto al primo aspetto, il tema si incrocia con quello dell’uso delle class action nella materia che mi occupa. L’esperienza applicativa, a livello mondiale, dimostra come le azioni collettive trovino terreno fertile nelle climate change litigations, e come l’iniziativa processuale sia spesso assunta tanto da singoli individui (riuniti in gruppi che lamentano la medesima tipologia di danno, nei termini della lesione del diritto alla salute, alla persona, alla vita ecc), quanto da organizzazioni collettive portatrici di interessi diffusi; singoli individui ed associazioni di categoria finiscono così per unire le forze (spesso rappresentati dal medesimo legale[33]) per agire (in via preventiva o a scopo risarcitorio) in ipotesi di danno (o pericolo di danno) provocato dall’emissione di CO2 climalteranti. E’ questo ad esempio il caso della controversia “Giudizio universale”, in cui l’iniziativa vede coinvolti un elevato numero di persone, qualche minore e talune associazioni di categoria dei consumatori[34].

Piuttosto, accade che l’azione collettiva sia talora preferita rispetto a quella individuale dovendosi in quest’ultima aggiungere un ulteriore accertamento stante nell’interesse del singolo rispetto all’oggetto della tutela. Questo è quanto restituisce la sentenza della Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit., la quale, nel fornire puntuale e rigorosa indicazione dei requisiti che deve avere lo “statuto di vittima” in relazione alle singole persone[35], nonché nel descrivere le condizioni di cui si devono corredare le associazioni di categoria[36], finisce – nella specie – per precludere la strada dell’actio popularis ammettendo con maggiore elasticità[37] (tenuto conto degli interessi in gioco e della rappresentatività) l’iniziativa giudiziale delle associazioni[38].

Indiscussa la possibilità per ciascun individuo di intraprendere un’azione ordinaria in presenza di “danni da clima”, i profili problematici ruotano intorno alla legittimazione attiva con riferimento alle class actions, se cioè sia possibile che, tanto le associazioni di categoria, quanto i singoli appartenenti al gruppo agiscano nella medesima direzione[39]. Occorre distinguere l’ipotesi in cui l’azione sia intentata individualmente da quella in cui l’iniziativa sia assunta da un ente rappresentativo di un gruppo e se tale azione possa assumere le fattezze dell’azione collettiva.

Nel nostro ordinamento, entra in gioco la disciplina delle azioni collettive come recepita nel codice di rito agli artt. 840 bis ss c.p.c.[40]. Il tema si pone, sia con riferimento all’azione collettiva risarcitoria, sia in relazione all’inibitoria dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c.[41] Va detto sin da subito che nel contenzioso climatico risulta particolarmente opportuna l’apertura della legittimazione attiva ai singoli componenti la classe, apertura che nell’azione collettiva risarcitoria trova affermazione nell’art. 840 bis c.p.c., laddove stabilisce che l’iniziativa processuale può essere assunta da un’organizzazione o associazione senza scopo di lucro, nonché da “ciascun componente della classe”[42]; ancor maggiore è poi l’apertura dell’iniziativa individuale nell’azione inibitoria dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c. la cui legittimazione è riconosciuta a “chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria”, nonché alle “organizzazioni o le associazioni senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela degli interessi pregiudicati dalla condotta” lesiva (art. 840-sexiesdecies comma 1 c.p.c.).

L’iniziativa si estende così al singolo che vanti un interesse nell’inibire la condotta (potenzialmente) pregiudizievole, ma confermando il carattere collettivo (diffuso) dell’interesse sotteso[43], dovendo l’azione, quand’anche individuale, soddisfare al contempo un interesse generale (superindividuale). L’interesse del singolo coincide quindi con quello di un gruppo[44], trattandosi di azioni poste al servizio di indefiniti diritti individuali omogenei che trovano fonte in condotte illecite plurioffensive[45]. È duplice, perciò, la prospettiva: da un lato, l’azione del singolo, che opera iure proprio, seppure in virtù di un interesse comune ad un gruppo; dall’altro, l’azione effettivamente collettiva che fa capo alle organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro[46].

Una tale estensione della legittimazione attiva trova spazio proprio nelle liti climatiche, in cui – di là dall’esistenza di associazioni rappresentative che agiscono nell’ambito della disciplina consumeristica – è la lesione della posizione individuale a giustificare l’iniziativa processuale. Vieppiù se si guarda all’esigenza che l’interesse del singolo sia condiviso da una collettività.

In effetti, la protezione emergente nel contenzioso climatico è duplice: per il pregiudizio che l’emissione di gas serra produce sul piano individuale (in termini di danno alla persona, alla salute, alla proprietà ecc.), nonché nella prospettiva del diritto della collettività ad un ambiente salubre. L’azione collettiva, tanto risarcitoria dell’art. 840 bis c.p.c., quanto inibitoria dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., soddisfa entrambe le situazioni protette[47].

Occorre però un chiarimento, con riferimento all’azione inibitoria. Il potere di agire in capo al singolo – oggi generalizzato nell’art. 840 sexiesdecies c.p.c. a “chiunque abbia interesse” – poteva in effetti riconoscersi al medesimo pure in precedenza, al cospetto di una qualsiasi condotta illecita in suo danno. Il fatto è che, in assenza di una disposizione legittimante, l’effetto dell’azione individuale avrebbe fatto capo solo al singolo e non avrebbe potuto estendersi alla collettività; sicché, esso si sarebbe riversato solo nei suoi confronti, non anche nei confronti del gruppo, rispetto al quale la decisione sarebbe rimasta inter alios[48].  Il vantaggio dell’azione individuale finiva così per rivelarsi limitato[49]. L’esplicita previsione dell’iniziativa individuale, oggi, accompagnata dalla necessità che l’interesse individuale sia comune ad un gruppo, risolve il problema ed estende l’effetto inibitorio all’intera collettività[50].

 

7.Segue: la legittimazione a resistere (gli Stati o le imprese).

Veniamo alla legittimazione passiva. Tanto l’azione di classe inibitoria, quanto quella risarcitoria (ma non diversamente può accadere per l’azione individuale ordinaria) vedono come destinatari «imprese o […] enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività» (art. 840 sexiesdecies comma 3 c.p.c.)[51]. Nel contenzioso climatico, destinatarie dell’azione possono dunque essere le imprese, la cui attività provoca l’emissione di CO2 climalteranti. Non è la gestione del servizio pubblico in sé che arreca (o minaccia di arrecare) pregiudizio, quanto lo svolgimento di una (qualsiasi) attività imprenditoriale (pubblica o privata) che può pregiudicare l’ambiente salubre per la diffusione di prodotti inquinanti.  La casistica ad oggi nota intorno alle azioni esperite su scala mondiale dimostra la diffusione di iniziative contro le imprese ed anche nel territorio italiano è pendente un primo giudizio di tal fatta nei confronti dell’ENI S.p.a. e i suoi due maggiori azionisti, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti S.p.a. Il problema principale che si pone qui riguarda la dimostrazione del nesso di causalità tra condotta illecita e danno[52], problema, peraltro, che costituisce una delle principali criticità del contenzioso in questione[53].

Nell’ampia congerie dei modelli di contenzioso climatico, quando legittimate passive sono le imprese, è l’azione inibitoria a trovare ampio spazio allo scopo di ingiungere loro di astenersi da (o di cessare) condotte potenzialmente lesive stanti nell’emissione di gas serra[54]. Il tema incrocia quello relativo al valore degli interessi pregiudicati, se posti a confronto con la garanzia costituzionale sulla libertà dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), cedevole rispetto alla tutela dell’ambiente e della salute[55], in virtù della modifica apportata al precetto costituzionale dalla legge n. 1/2022[56]. Di qui la necessità di individuare il giusto bilanciamento dei valori.

Si frappongono due interessi in conflitto: l’uno all’integrità della salute e dell’ambiente (con riguardo puntualmente al clima), l’altro a preservare libera l’attività imprenditoriale. Di qui le difficoltà legale all’individuazione del nesso di causalità tra condotta lesiva e danno (anche potenziale), nel senso che di dover ritenere la libertà di iniziativa economica sottoponibile a limiti solo quando (e se) sia causalmente connessa con il pericolo di pregiudizio all’interesse protetto. In altri termini, la meritevolezza dell’attività economica va parametrata all’interesse protetto, costruendo nuovi vincoli che rendano i valori di impresa recessivi rispetto al diritto ad un ambiente salubre e alla salute. Quando quindi si accerta – nella fattispecie concreta – che la tutela accordata al clima (in relazione al pericolo di danno a cui esso è esposto) sia un bene non solo da proteggere, ma anche da rendere prevalente rispetto all’autonomia imprenditoriale, la centralità del nesso causale finisce per recedere lasciando prevalere proprio il pericolo di danno (che l’accoglimento della domanda dovrebbe potenzialmente evitare)[57].

Vi è poi la legittimazione passiva nei confronti degli Stati e le istituzioni[58]. Su di essa mi sono già soffermata[59] esaminando il caso italiano del “Giudizio Universale” in cui l’azione nei confronti dello Stato – conclusasi, come visto, con il difetto assoluto di giurisdizione – puntava a condannarlo «all’adozione delle iniziative di abbattimento delle emissioni di gas serra, necessarie a realizzare, sulla base della migliore scienza disponibile a livello mondiale, la stabilizzazione climatica e contestualmente garantire la tutela effettiva dei diritti umani per le presenti e future generazioni, in conformità con il dovere costituzionale di solidarietà e con quello internazionale di equità tra gli Stati». Come visto, si annidano qui i problemi legati al riparto di giurisdizione, essendo tutt’altro che chiara la linea di confine tra la giurisdizione del giudice civile (nel momento in cui l’azione giudiziale punta all’accertamento e condanna dello Stato stesso per responsabilità extracontrattuale) e quella del giudice amministrativo (ove l’indagine si estende sull’attività amministrativa e rischia di invadere la sfera della discrezionalità, con conseguente rischio di violazione del principio di separazione dei poteri[60]).

8.Azioni risarcitorie ed azioni inibitorie. Il nesso causale.

E’ bene ora tornare su un profilo già accennato intorno all’alternativa tra azioni collettive risarcitorie o inibitorie. E’ evidente la differenza tra le due in relazione al petitum (nello specifico contesto delle climate change litigations). In linea di estrema semplificazione, l’azione risarcitoria ha ad oggetto la condanna per responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.p.c.), mentre quella inibitoria punta ad inibire ai legittimati passivi comportamenti climalteranti, o ad adottare misure volte a prevenire il danno. Nell’ambito delle class action, il riferimento normativo è rispettivamente all’art. 840 bis c.p.c. (azione risarcitoria) e all’art. 840 sexiesdecies c.p.c. (inibitoria). Il tema è stato esplorato con riferimento alla tutela dell’ambiente[61], e (nella relazione tra ambiente e clima), non diversamente trova spazio nelle liti relative al cambiamento climatico.

Occorre muovere dalla consapevolezza – già acquisita per quanto evidenziato finora – che l’interesse alla preservazione del clima costituisce una situazione soggettiva degna di tutela, come l’esperienza applicativa insegna (non ultimi i due interventi giurisprudenziali descritti nei paragrafi precedenti), in considerazione del suo carattere sovraindividuale, a prescindere dalla specifica qualificazione delle posizioni individuali sottostanti (persona, salute, territorio, proprietà). Si tratta di un interesse che a sua volta può essere fatto valere in giudizio come azione collettiva[62] (attraverso enti rappresentativi del gruppo) ovvero, in forma diffusa[63], attribuendo la legittimazione ad agire ai portatori delle singole posizioni individuali[64].

In altri termini, ciò che rileva – ai fini della qualificazione dell’interesse protetto – non è tanto l’individuazione del legittimato ad agire (nell’alternativa tra singolo, gruppo di individui o ente rappresentativo), quanto il fatto che l’interesse minacciato o pregiudicato dalla condotta altrui è comune ad una collettività e necessita di tutela in quanto tale. Pregiudizio, d’altra parte, che, guardato sotto il profilo del singolo, può essere doppiamente declinato: dell’individuo stesso in quanto parte del gruppo, ovvero in quanto singolo (sebbene sempre in virtù della sua partecipazione al gruppo). Esemplificando: il pregiudizio provocato dall’incremento delle temperature per l’emissione di CO2 climalteranti può leggersi rispetto al singolo (in relazione alla sua integrità fisica, alla salute, al diritto ad un ambiente salubre, al diritto di proprietà), nonché quale parte di una collettività (pregiudicata nel suo complesso rispetto agli effetti prodotti sul clima dai gas serra). Di qui l’utilità dei modelli di class action (anche pubblica[65]) per la gestione del contenzioso climatico, in cui la dignità di tutela di una situazione soggettiva astrattamente descrivibile e concretamente individuabile è vincolata alle fattispecie da cui emerge il contenzioso stesso.

Veniamo allora alla distinzione tra azione risarcitoria e inibitoria.

Il distinguo sul piano concettuale è evidente: come già rilevato, se l’azione risarcitoria punta a ripianare il danno ingiusto, l’azione inibitoria ha una funzione tendenzialmente preventiva (che può assumere anche fattezze cautelari) laddove mira ad inibire condotte (potenzialmente) lesive. Entrambe ruotando intorno al configurarsi di un danno, ma con una diversa collocazione temporale dell’azione stessa rispetto al suo maturarsi (successiva nell’azione risarcitoria, tendenzialmente preventiva in quella inibitoria). Il che si riflette sui presupposti per l’accertamento della condotta lesiva. La ricostruzione di diritto sostanziale[66] – situazione soggettiva protetta nelle controversie climatiche – non basta per offrire risposta positiva al dubbio circa la dignità di sua tutela. Ulteriori elementi, di difficile decifrazione, vanno individuati per accordare protezione all’interesse tutelato: la condotta lesiva (illecita) e il nesso di causalità rispetto all’eventuale danno.

La questione più complessa è quella che ruota intorno al nesso causale tra condotta e danno, presupposto il cui accertamento assume un’intensità diversa a seconda che si tratti di azione risarcitoria ovvero inibitoria. L’accertamento del nesso causale si mostra più severo nel contesto dell’azione risarcitoria fondata su un illecito (a monte) e su un danno consumato (a valle) per la cui quantificazione la causalità si impone quale indagine necessaria[67]; diversamente nell’azione inibitoria, in cui l’attenzione è spostata sul pericolo di danno (sulla base di una valutazione preventiva[68]) e sulla lesività della condotta rispetto al soggetto esposto al pericolo stesso, piuttosto che sulla illiceità della medesima. In quest’ultimo caso, si ha riguardo, in altri termini, più che alla condotta del soggetto agente alla sfera di chi invoca protezione e che subisce la minaccia di danno[69]. Vi sono dunque due comportamenti a confronto: quello del soggetto agente e quello del destinatario del fatto lesivo (esposto al pericolo di danno), comportamenti tra i quali occorre individuale il giusto bilanciamento degli interessi. Al cospetto di un danno o pericolo di danno, quando però l’obiettivo è inibire un certo comportamento, l’accertamento della causalità si attenua, e si rende oggetto di un’indagine sommaria, potendosi in ogni caso perseguire l’effetto inibitorio se il pericolo di danno espone a un pregiudizio la cui meritevolezza deve prevalere.  Voglio dire, cioè, che di fronte al danno (o pericolo di danno) arrecato al clima, la tutelabilità degli interessi protetti è in re ipsa e senz’altro domina sulla necessità di assicurare piena libertà all’iniziativa economica; ciò al punto da rendere recessiva l’indagine intorno al nesso di causalità, il quale invece mostra maggiore severità in presenza di un danno consumato e di un illecito accertato rispetto a cui occorre agire in via risarcitoria[70] (va detto, d’altra parte, che anche in quest’ultimo caso l’accertamento del nesso causale tende ad essere, presso la giurisprudenza, oggetto di una indagine recessiva, non mancandosi di evidenziare come, nel contesto del contenzioso climatico, il criterio della condicio sine qua non al fine di stabilire la causalità tra condotta e violazione dei diritti fondamentali non può essere rigorosamente applicato, tenuto conto del fatto che si tratta di situazioni in cui un medesimo danno può essere causato da fattori diversi e tra loro concorrenti)[71].

Di fronte al pericolo di pregiudizio a un valore fondamentale quale l’ambiente salubre, dunque, è cedevole l’interesse a proteggere l’iniziativa economica, come anche ad indagare la causalità, dominando, piuttosto, l’esigenza di prevenire ed evitare il danno. É cioè la capacità di prevenire il danno (piuttosto che la sua rimozione, eventualmente in via risarcitoria) a giustificare l’appetibilità del rimedio inibitorio, assicurandosi così un “arretramento della soglia di accesso alla tutela giurisdizionale al momento che precede il verificarsi del danno”[72]. Ragione, questa, che ulteriormente giustifica la possibilità che l’azione veda come legittimati passivi plurimi soggetti responsabili, ove la lesione sia causata da una azione congiunta oltre che dilazionata nel tempo (più imprese operanti in una medesima area geografica, tutte responsabili per l’emissione di CO2 climalteranti)[73].

9. Segue. I presupposti dell’inibitoria nelle climate change litigations.

Un maggiore approfondimento merita a questo punto il tema dei caratteri dell’inibitoria nelle climate change litigations. Plurime le questioni di interesse: il rapporto tra inibitoria tipica e atipica, tra inibitoria preventiva (cautelare) o finale (dichiarativa), la sua relazione con la tutela risarcitoria. Premetto – come ho già evidenziato nei suoi termini generali – che di fronte a pericoli di danno quali quelli in esame (con la minaccia di effetti irreversibili) la prevenzione è senz’altro da preferire, collocandosi il risarcimento del danno in posizione succedanea, solo qualora la prima non trovi spazio (salvo che la tutela risarcitoria non sia guardata sotto il profilo “strategico” a valere da deterrente contro l’adozione, da parte di Stati e imprese di condotte climalteranti).

Seppure non si manca di rilevare come, ai fini di un inquadramento generale della tutela inibitoria, non è determinante distinguere l’inibitoria con funzione preventiva (cautelare e urgente) da quella finale (resa in sede di tutela dichiarativa)[74], nel caso qui indagato il pericolo di danni irreversibili sul clima impone di concentrare l’attenzione sugli strumenti volti ad evitare il verificarsi dei danni stessi[75]. La tutela risarcitoria, dunque – impostata sul principio “chi inquina paga”[76] – può subentrare quale rimedio successivo, o anche contestuale a quello inibitorio, ma comunque incapace di assorbire tutte le espressioni della giurisdizione. Si supera il principio “chi inquina paga”, creando un ordine logico che collochi in posizione prioritaria l’inibitoria (tenuto conto anche delle maggiori difficoltà nella prova del nesso di causalità[77] e della quantificazione del danno che contraddistingue l’azione risarcitoria)[78].

La natura dell’inibitoria quale strumento preventivo – capace di anticipare il danno e dunque logicamente anteriore rispetto al risarcimento[79] – a sua volta, impone di dirottare l’attenzione sul pericolo di danno (che l’intervento autoritativo di tipo inibitorio dovrebbe perciò evitare)[80]. Più che focalizzarsi sull’illecito – il cui accertamento in sede giurisdizionale implica un’indagine duratura nel tempo e dunque probabilmente incompatibile con la celerità (anche cautelare) dell’intervento inibitorio – occorre avere riguardo al pericolo di danno che quest’ultimo dovrebbe prevenire (regola che vale vieppiù nel caso di situazioni soggettive emergenti, quale proprio il diritto ad un clima incontaminato). L’assumere come punto di riferimento il pericolo di danno – con conseguente funzione preventiva dell’inibitoria – così riducendo la centralità dell’illecito, impone anche di guardare l’elemento soggettivo in una prospettiva molto diversa da come è nella tutela risarcitoria. Si ritiene infatti che fra i presupposti dell’azione inibitoria manchi quello del dolo o della colpa da parte di colui che ha commesso o sta per commettere l’illecito che si vuole inibire (il che ulteriormente la differenzia dalla tutela risarcitoria), mentre centrale è l’accertamento del pericolo o della continuazione della condotta, ovvero il pericolo della sua commissione[81].

Tornando al contenzioso climatico, l’intervento inibitorio, volto ad impedire alle imprese la diffusione di gas serra, può trovare una giustificazione in sé, quale espressione della necessità di evitare effetti irreversibili sul piano del riscaldamento globale, anche al costo di attenuare (magari residuando ad una valutazione sommaria di fumus boni iuris) i presupposti dell’illecito, nei termini, tanto dell’illiceità della condotta, quanto del nesso causale, quanto ancora dell’elemento soggettivo (dolo o colpa). A giustificare un tale arretramento della tutela – nonché l’allentamento del carico probatorio per l’accoglimento della domanda – soccorre proprio l’art. 41 Cost., nella sua nuova formulazione, il quale impone una diversa valutazione comparativa tra illiceità della condotta, interessi protetti e meritevolezza della tutela (non solo dell’iniziativa economica, ma anche di tutti gli altri interessi individuali o superindividuali che ruotano attorno al diritto ad un clima sano e incontaminato). È oggi proprio il precetto costituzionale a spostare l’ago della bilancia, inclinandolo verso interventi che evitino danni alla salute e all’ambiente (ma non diversamente al clima), seppure a scapito di un’iniziativa economica che finisce per subire una compressione nella sua “libertà”, rivelandosi lecita (e dunque esercitabile) nei limiti in cui non leda ulteriori fondamentali interessi protetti.

 10.Segue. La tutela cautelare.

Poche riflessioni intorno alla tutela giurisdizionale cautelare ed a quella esecutiva, nell’ambito applicativo qui di interesse.

Quanto alla prima, la questione si pone prevalentemente nell’azione inibitoria (quella risarcitoria essendo riconducibile, semmai, ai presupposti di un sequestro conservativo nella prospettiva della condanna al pagamento di somme di denaro a titolo risarcitorio). Si tratta di un aspetto della tutela giurisdizionale che, nell’ambito del contenzioso climatico, può assumere primaria attenzione quando l’azione giudiziale è volta a prevenire il danno piuttosto che intervenire successivamente al suo consumarsi[82]. D’altra parte, che l’intero contenzioso sia ispirato ad esigenze di urgenza è quanto si legge tra le righe della sentenza Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit. ove a più riprese si evidenzia l’esigenza di contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico con “urgenza”.

Assicurare in via cautelare l’intervento inibitorio significa legittimare la richiesta di un provvedimento urgente volto ad inibire alle imprese l’emissione di gas serra (ben più difficile sarebbe immaginare l’intervento urgente nelle azioni che vedono legittimati passivi gli Stati o più in generale nelle strategic litigations). L’urgenza avrebbe qui il vantaggio di consentire l’ottenimento nel breve del provvedimento (cautelare), sulla base della verifica sia del periculum in mora, sia del fumus boni iuris, con una valutazione di entrambi i presupposti che tenga conto della situazione complessiva. In sede cautelare, infatti, l’accoglimento della domanda è subordinato all’indagine (sommaria) di fondatezza, tale che ove vi sia un periculum evidente, si possa anche allentare l’accertamento del fumus e viceversa (in presenza di una particolarmente probabile fondatezza della domanda a cautela della quale si chiede la misura, può allentarsi la valutazione di urgenza cautelare). Una siffatta rappresentazione della soluzione giudiziale ben si cala nella tutela inibitoria, che, come più volte detto, nelle controversie climatiche dovrebbe prevenire il verificarsi della lesione.

Quanto alla qualificazione del rimedio come anticipatorio ovvero conservativo – secondo la nota distinzione fatta propria dal codice di rito (art. 669 octies comma 4 c.p.c.) – è indubbio come la misura richiesta vada considerata anticipatoria, non solo e non tanto perché rientrante nel modello dell’art. 700 c.p.c. (che l’art. 669 octies comma 4 c.p.c. espressamente sottrae al regime di strumentalità forte), quanto perché evidente è l’anticipazione degli effetti della sentenza[83]. Di là dalla componente risarcitoria (domanda che può anche cumulativamente formularsi nel medesimo giudizio di merito), è evidente come il provvedimento inibitorio (se di accoglimento) sia in grado di anticipare gli effetti della sentenza di merito, e perciò sia del tutto satisfattivo degli interessi sottesi all’azione giudiziale[84], seppure con l’unico limite legato all’incapacità del provvedimento cautelare non seguito dal giudizio di merito di “fare stato” (la sua autorità non essendo invocabile in un altro processo: art. 669 octies ultimo comma c.p.c.).  Ci si può chiedere d’altra parte quale vantaggio avrebbe corredare una tale misura della stabilità del giudicato. Abbiamo già visto come l’interesse primario che ruota intorno al pericolo di pregiudizio sul clima sia quello di inibire la condotta lesiva, prevenendo o limitando i danni, a prescindere dalla componente risarcitoria, che pure può accompagnare l’azione in giudizio. Se dunque in quest’ultima la stabilizzazione degli effetti è l’auspicato esito di un accertamento della responsabilità che appartiene naturaliter alla tutela giurisdizionale, con riferimento all’inibitoria, l’effetto sperato (impedire la condotta lesiva) finisce per rivelarsi di per sé satisfattivo, a prescindere dalla stabilità dei relativi accertamenti (se non nelle forme di una condanna in futuro). Vale anzi il contrario. Ciò che interessa in sede di anticipazione cautelare nei confronti delle imprese che tengono condotte climalteranti non è tanto accertare in maniera irretrattabile l’illecito (non è questo l’obiettivo primario dell’iniziativa processuale inibitoria), quanto impedire l’ulteriore verificarsi di eventi dannosi, ovvero, nelle strategic litigations, diffondere una cultura protettiva per l’ambiente, nonché dissuadere dall’adozione di comportamenti lesivi. Che dunque la relativa decisione (legata ad un accertamento rebus sic stantibus) sia o meno idonea alla cosa giudicata e si stabilizzi non è poi così centrale nell’economia generale dell’intervento giurisdizionale.

11.La tutela esecutiva.

Poche considerazioni intorno ai profili esecutivi. Quanto al provvedimento inibitorio, è evidente la difficoltà nel dare attuazione alla misura (in caso di mancato adempimento spontaneo), essendo essa incoercibile[85]. Ciò, sia quando si tratta di provvedimento che vede legittimata passiva un’impresa sia quando l’azione è rivolta nei confronti dello Stato, ponendosi qui[86] il noto problema della separazione dei poteri[87]. Soccorre così lo strumento dell’esecuzione indiretta, nel nostro ordinamento oggetto di un crescente affermarsi, prima nella legislazione speciale e su singole fattispecie, poi quale regola generale nell’art. 614-bis c.p.c.[88] (con l’ulteriore recente estensione realizzata dalla riforma Cartabia, che l’ha resa misura concedibile, tanto dal giudice della cognizione, quanto dal giudice dell’esecuzione). In effetti, all’ampliamento della portata applicativa non ha fatto seguito un parimenti diffuso riscontro concreto, scarsa essendo ad oggi l’operatività del rimedio.

Tuttavia, nelle controversie climatiche, esso attrae – quanto meno allo stato potenziale – un discreto interesse con riguardo alle azioni contro le imprese volte ad inibire l’emissione di gas serra.  Le conseguenze pregiudizievoli, sul piano economico, che la condanna al pagamento di astreinte può produrre sull’attività imprenditoriale valgono infatti quale significativo deterrente per le imprese stesse, poste di fronte all’alternativa tra l’approntare misure preventive rispetto al prodursi del riscaldamento globale (dunque considerare nella valutazione comparativa tra costi e ricavi le spese occorrenti per l’adozione di tali misure) ovvero subire la condanna inibitoria e con essa il pagamento delle somme a titolo di esecuzione indiretta.

D’altra parte, quando l’azione è esercitata nelle modalità dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c.[89] l’utilizzabilità dell’art. 614 bis c.p.c. è espressamente prevista (comma 6 art. 840 sexiesdecies c.p.c.), con un’ulteriore estensione applicativa rispetto a quanto stabilito dall’art. 614-bis c.p.c., potendo la misura essere adottata «anche fuori dei casi ivi previsti»[90].

Per l’attuazione della pronuncia inibitoria dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c. soccorre poi la regola secondo cui «con la condanna alla cessazione della condotta omissiva o commissiva, il tribunale può, su richiesta del pubblico ministero o delle parti, ordinare che la parte soccombente adotti le misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate» (comma 7)[91]. Anche questa è una misura che ben si cala nel sistema delle controversie climatiche, sebbene con il limite del più volte evocato art. 41 Cost., id est nel rispetto della libertà di iniziativa economica privata.

Ben diverso, e ancor più irto di insidie, il contesto quando legittimati passivi sono gli Stati o le altre istituzioni, dovendosi qui invocarsi gli strumenti pubblicistici del commissario ad acta, ma con esiti prevedibilmente fallimentari nel caso in cui l’azione sia esercitata in sede civile ed assuma contenuto condannatorio la relativa decisione (art. 112 lett. C) c.p.a.).

*Testo, con modifiche, della relazione tenutasi al Convegno dal titolo “La tutela ambientale e le ricadute sistematiche” presso l’Università della Calabria, il 2 dicembre 2024.

[1] Sulla pluralità di azioni che contraddistinguono il contenzioso climatico, vd. per tutti, E.  D’Alessandro, Climate change litigations, ovvero la nuova frontiera della tutela giurisdizionale: il processo come strumento per combattere i cambiamenti climatici, in Le pag. de l’aula civ., 2020, 51; E. D’Alessandro, D. Castagno (a cura di), Reports & Essays on Climate Change Litigation (Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino), Torino, 2024; S. Vincre-A. Henke, Il contenzioso “climatico”: problemi e prospettive, in BioLaw journal – Rivista di BioDiritto, 2013, 137 ss.; A. Merone, Lo Stato quale legittimato passivo della climate change litigation: tra diritti fondamentali e giudizi universali, in Il processo, 2024, in corso di pubblicazione; E. Gabellini, Accesso alla giustizia in materia ambientale e climatica: le azioni di classe, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2022, 1105 ss., spec. 1111; Id, Note sul contenzioso climatico e le azioni di classe, in Jus, 2n 4; D. Castagno, Le procès pour l’environnement et le climat en droit italien: potentialités, limites et alternatives dans un cadre de contentieux «stratégiques», in Rev. Int. Droit Comp., 2023, 583; Giabardo, Climate Change Litigation, State Responsibility and the Role of Courts in the Global Regime: Towards a “Judicial Governance” of Climate Change?, in B. Pozzo, V. Jacometti (a cura di), Environmental Loss and Damage in a Comparative Law Perspective, Intersentia, 2021, 393; G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione nel contenzioso climatico: c’è un giudice per il clima?, in Riv. trim. dir. proc.civ., 2021, 1273 ss.; M .Marinai, Il contenzioso e la legislazione climatica: un interminabile valzer sulle note della due diligence, in Resp. civ. prev., 2023, 1327; M. Meli, Piove! Governo ladro. Cambiamenti climatici e nuove istanze di tutela, in TCRS, 2020, 87; A. Pisanò, Il diritto al clima. Il ruolo dei diritti nei contenziosi climatici europei, Napoli, 2022, 191; S. Baldin, P. Viola, L’obbligazione climatica nelle aule giudiziarie. Teorie ed elementi determinanti di giustizia climatica, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 3, 2021, 597 ss.; G. Contaldi (a cura di), Aspetti problematici della giustizia climatica, in Ordine internazionale e diritti umani, 3/2003.

[2] Ne dà conto la stessa recente sentenza della Corte EDU, 9 aprile 2024 KlimaSeniorinnen v. Switzerland, su cui infra nel testo.

[3] Sul tema, R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, 2008, 689. Rileva E. Gabellini, Accesso alla giustizia, cit., 1108 come la disciplina sulla tutela dell’ambiente enfatizza l’idea che sia necessaria una gestione unitaria del danno ambientale alla luce del carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici.

[4] Gli elementi climatici descrivono perciò una nozione più ampia del “bene ambiente”, sia perché ne partecipano le condizioni di vita e salute delle diverse matrici, sia perché esso stesso, nelle sue componenti fisiche (i fattori climatici), ne costituisce una parte (pure essenziale). Cfr. G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione, cit., 1280.

[5] Nel contenzioso climatico la disciplina disegnata sui danni ambientali non opera, essendo in quest’ultima, in base all’art. 300 cod. amb., nonché in base alla direttiva 2004/35/CE, il danno ambientale coincidente con il deterioramento di specie e di habitat naturali protetti dalla normativa nazionale ed europea, di acque interne, acque costiere e terreno. D’altra parte, l’obiettivo della normativa sull’ambiente è quello di ripristinare le risorse danneggiate e dunque non trova corretta collocazione nel caso dei danni derivanti dal cambiamento climatico antropogenico (G. Puleio, Rimedi civilistici e cambiamento climatico antropogenico, in Persona e mercato, 2021, 189; M. Delsignore, Il contenzioso climatico dal 2015 ad oggi, in Giorn. dir. amm., 2022, 199).

[6] Molteplici i commenti editi su tale sentenza. Senza alcuna pretesa di completezza, C.V. Giabardo, Qualche annotazione comparata sulla pronuncia di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione nel primo caso di climate change litigation in Italia, in www.giustiziainsieme, 29 aprile 2024; G. Tropea, Il cigno verde e la separazione dei poteri, in www.giustiziainsieme, 18 aprile 2024; Vanetti, I cambiamenti climatici tra cause civili, scelte politiche e giurisdizione amministrativa, in RGA online, aprile 2024, n. 52; Merone, Lo Stato quale legittimato passivo, cit.

[7] Le notizie sulla causa sono reperibili in https://www.google.com/ giudiziouniversale.eu.

[8] Pende davanti al Tribunale di Roma la causa, intentata il 9 maggio 2023 da Greenpeace Onlus e reCommon APS (e altri) contro ENI Spa e i suoi due maggiori azionisti, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti Sp.a., volta ad ottenere la dichiarazione di responsabilità solidale dei convenuti per presunti danni alla salute, alla proprietà e alla qualità della vita, anche in relazione al pericolo per effetto delle conseguenze del cambiamento climatico. E’ inoltre chiesta la condanna dei convenuti, affinché limitino il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di gas serra in atmosfera in maniera tale che le emissioni vengano ridotte di almeno il 45% a fine 2030 rispetto ai livelli del 2020 (sul tema, E. Gabellini, Note sul contenzioso climatico, cit., § 2.

[9] Si tratta in realtà di un trittico di sentenza, la principale delle quali è quella citata, ma accompagnata, nella stessa data, dalle pronunce Duarte Agostinho and Others v. Portugal and Others, nonché Carême vs. France. Queste ultime, tenuto conto del loro oggetto e degli esiti, sono destinate ad avere, nel contesto europeo, un impatto minore di quello che avrà il caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland. Vd. per una ricostruzione di insieme, Serafinelli, Dal caos all’ordine (e viceversa): l’impatto del trittico della Corte EDU sul contenzioso climatico europeo di diritto privato, in DPCE online, n. 2/2024, 727; Id, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, Torino, 2024, passim. Vd. anche F. Gallarati, L’obbligazione climatica davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo: la sentenza KlimaSeniorinnen e le sue ricadute comparate, in DPCE online, n. 2/2024, 691; D. Ragone, Nuove frontiere delle climate litigation. Riflessioni a partire dalla sentenza KlimaSeniorinnen della Corte EDU, in Osservatorio costituzionale, 5/2024, 1° ottobre 2024.

[10] Né può del tutto obliarsi un altro precedente significativo, quale quello reso nel caso Urgenda, Suprema (Hoge Raad), civile, 20 dicembre 2019, azione – dalla forte diffusione mediatica – intrapresa da più di 800 cittadini olandesi e dalla Fondazione Urgenda contro il Governo olandese; si tratta del più vicino – sul piano del petitum – all’esperienza del Tribunale di Roma (e su cui avrò perciò modo di soffermarmi).

[11] Anche in questo contesto (e forse di più) emerge prepotente l’esigenza di creare uno stretto legame tra interessi sostanziali, forme di tutela e meccanismi processuali (P. Perlingieri, Azione inibitoria e interessi tutelati, in Giusto proc. civ., 2006, 7 ss; Id, Il “giusto rimedio” nel diritto civile, in Giusto proc. civ., 2011, 1 ss., spec. 3).

[12] A voler cercare una definizione di climate change litigation, non si può non percepire da subito la genericità dell’espressione, trattandosi di un contenzioso idoneo ad abbracciare tutte le azioni giudiziarie che direttamente ed espressamente sollevano una questione (di fatto o di diritto) che riguarda il clima nei termini di effetti dell’inquinamento e del riscaldamento globale.

[13] Sulla distinzione del tipo di azione a seconda che si tratti di iniziativa individuale o condivisa da un gruppo, vd. amplius infra §§ 6, 8 e 9.

[14] S. Vincre-A. Henke, Il contenzioso “climatico”, cit., 139; Valaguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il pianeta?, in Diritto processuale amministrativo, 2021, 293 ss.; M. Marinai, Il contenzioso e la legislazione climatica, cit., 1329. Osserva G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione, cit., 1277 come il ricorso al processo, in questa materia, sia reso necessario dagli insuccessi prodotti sul piano sostanziale, con particolare riguardo al diritto internazionale, rivelatosi incapace di prevedere sistemi vincolanti per l’adozione di misure di mitigazione e adattamento rispetto all’avanzare dei cambiamenti climatici.

[15] Giabardo, Qualche annotazione, cit., § 1.

[16] Altra è la questione – su cui non posso soffermarmi in questa sede – intorno al riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice civile, con riguardo alla tutela dell’ambiente, questione sulla quale è venuta formandosi una copiosa giurisprudenza (per tutte, Cass. sez.un. 23 febbraio 2023, n. 5668, in Giur. it., 2023, 1551, con nota di Alunni; Cass. 23 aprile 2020, n. 8092, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 1284, con nota di G. Ceccherini.

[17] Oltre al caso “Giudizio Universale”, va ricordato poi – sempre con riguardo ad azioni contro gli Stati – il celebre caso Urgenda v. Paesi Bassi, 24 giugno 2015, in primo grado, e 10 settembre 2018, in appello, e 20 dicembre 2019, davanti al Tribunale Supremo, in cui lo Stato olandese fu condannato al risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale provocato dal cambiamento climatico antropogenico, adducendo a tal proposito la violazione dei diritti umani, e perciò la conseguente violazione, da parte dello Stato, degli impegni assunti sul piano internazionale. Si veda poi nella medesima direzione il caso Juliana c. Stati Uniti d’America, la Inuit Petition c. Stati Uniti d’America, nonché la Leghari c. Pakistan. Vi è poi un (seppure limitato) contenzioso climatico che si articola fra Stati, quale quello che ha riguardato alcuni Stati dell’Oceano Pacifico esposti al rischio di scomparire a causa dell’innalzamento del livello del mare. Il contenzioso che vede legittimati attivi i privati va distinto a seconda che sia rivolto nei confronti dello Stato, ovvero contro le imprese. Esempio di contenzioso contro le imprese è il caso Llyula c. RWE AG, azione proposta da un cittadino peruviano che radicava una lite in Germania contro un’impresa di energia allo scopo di accertare la responsabilità di quest’ultima, che persisteva nell’uso del carbone (così provocando il surriscaldamento globale e con ciò pregiudicando il suo diritto di proprietà su un fondo). Mentre il giudice di primo grado rigettava la domanda non ravvisando alcun nesso di causalità tra l’evento e il danno, il giudice di seconde cure ammetteva la richiesta.  La causa Smtih v. Fonterra Co. Operative Group Limited, è proposta da un cittadino della Nuova Zelanda contro alcune imprese ritenute responsabili della produzione di gas serra (un caseificio, una centrale elettrica, una raffineria di petrolio).

[18] Ad una iniziale costruzione del contenzioso climatico nei confronti degli Stati, ha fatto seguito una fase giudiziale che ha visto protagoniste principalmente le imprese (M. Marinai, Il contenzioso e la legislazione climatica, cit., 1335).

[19] Per una ricostruzione dell’articolato contenzioso, E.  D’Alessandro, Climate change litigations, ovvero la nuova frontiera della tutela giurisdizionale, cit., 51; E. Gabellini, Accesso alla giustizia, cit., 1112; G. Ghinelli, Le condizioni dell’azione, cit., 1278 ss.;  C.V. Giabardo, Climate change litigations and tort law. Regulation through litigation?, in Dir. e proc., 2019, 361; G. Puleio, Rimedi civilistici e cambiamento climatico antropogenico, in Persona e mercato, 2021, 189; M. Delsignore, Il contenzioso climatico dal 2015 ad oggi, in Giorn. dir. amm., 2022, 265; Marino, La climate change litigation nella prospettiva del diritto internazionale privato e processuale, 2021, 898; F. Vanetti-L. Ugolini, Il “Climate change” arriva in tribunale: quadro giuridico e possibili scenari giudiziali, in Amb. & sviluppo, 2019, 739 ss.; S. Nespor, I principi di Oslo: nuove prospettive per il contenzioso climatico, in Giorn.dir.amm., 2015, 750; C. Vivani, Climate change litigation: quale responsabilità per l’omissione di misure idonee a contrastare i cambiamenti climatici?, in Amb. & sviluppo, 2020, 599; S. Baldin-P. Viola, L’obbligazione climatica nelle aule giudiziarie. Teorie ed elementi determinanti di giustizia climatica, in Dir. pub. comp. europeo, 2021, 597 ss.; V. Zampaglione, L’accesso alle informazioni ambientali e le prime azioni per danno da cambiamento climatico. Esperienze a confronto, in Rivista giuridica ambientediritto.it, 2002, 273. Sulla distinzione tra “giustizia climatica” e “contenzioso climatico”, «quest’ultimo appartenente al formante giurisprudenziale e alla strategy processuale radicata in una questione ambientale o sociale di livello locale», S. Baldin-P. Viola, L’obbligazione climatica nelle aule giudiziarie. Teorie ed elementi determinanti di giustizia climatica, cit., 602. Sul piano normativo ambientale, cfr. F. Altamura, Gli strumenti di mercato nella lotta al cambiamento climatico: riflessioni in chiave di analisi economica del diritto, in Quad. dipartimento jonico, 2020, 389 ss.

[20] È certo – quanto meno allo stato attuale delle conoscenze – che il cambiamento climatico antropogenico possa essere arrestato significativamente solo riducendo le emissioni di gas a effetto serra (anidride carbonica). Tutte le altre (ad esempio la costruzione di dighe) sono misure di adattamento che mitigano le conseguenze negative, ma non eliminano il problema dalla base. Su questi temi, G. Puleio, Rimedi civilistici, cit., 195.

[21] Offre una utile ricostruzione Merone, Lo Stato quale legittimato passivo, cit., § 3.

[22] Infra § 7.

[23] In realtà un tale riconoscimento è evidente anche nella giurisprudenza precedente al 2024. Per tutti è bene menzionare il caso Urgenda.

[24] Amplius infra §§ 4 e 5.

[25] Il riferimento è al contenzioso sviluppatosi successivamente al noto caso Urgenda, dove lo Stato olandese (considerato tra i Paesi maggiormente emissivi d’Europa) è stato condannato definitivamente dalla Corte Suprema nel dicembre 2019 a ridurre del 25 % le emissioni di CO2 nell’atmosfera entro la fine del 2020 e del 40 % entro il 2030. Successivamente altre pronunce sono state rese in cause promosse nei diversi Stati: la sentenza pronunciata dal Tribunale amministrativo di Parigi il 3 febbraio 2021 (con la quale è stata riconosciuta una responsabilità omissiva in relazione agli obiettivi e agli impegni comunitari e nazionali in materia derivanti dalla Decisione n. 406/2009/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009); la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 29 aprile 2021 che si è pronunciata sulla parziale incostituzionalità della legge federale sui cambiamenti climatici del 2019.

Ciò detto è opportuno ricostruire il quadro normativo di riferimento in materia di contrasto al fenomeno del riscaldamento globale. Trattandosi di un problema provocato da una molteplicità di fattori che coinvolgono il pianeta, il contrasto ai cambiamenti climatici richiede un impegno unitario degli Stati che sul tema si sono “autoregolamentati”.

A livello internazionale sono noti gli accordi intervenuti in materia: nel 1992 la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) che rappresenta la prima risposta globale al problema; il Protocollo di Kyoto nel 1997 poi modificato dall’emendamento di Doha del 2012, ratificato dall’Italia e approvato dall’UE , con cui è stato previsto un rafforzamento degli impegni delle parti; la Convenzione Aahurs del 1998, entrata in vigore in Italia nel 2001 (il cui obiettivo è quello di assicurare ai cittadini l’informazione e la partecipazione alle decisioni in materia di ambiente); l’accordo di Parigi entrato in vigore nel 2016, firmato dall’EU e da tutti gli Stati membri, con cui sono stati fissati degli obiettivi a lungo termine per la riduzione delle emissioni e piani aggiornati in materia di clima. Quest’ultimo accordo ha trovato la sua base scientifica nel IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e si è prefissato l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 2° C rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire l’impegno per limitarlo a 1,5° C, prevedendo delle verifiche periodiche sulla attuazione degli impegni presi e l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica (emissioni zero) entro il 2050.”.

[26] Afferma il tribunale “La dimensione emergenziale del fenomeno non è oggetto di contestazione tra le parti (cfr. p.4 e ss della comparsa di costituzione della convenuta); l’oggetto del giudizio è nella sostanza incentrato sull’accertamento della correttezza e/o legittimità di una serie di provvedimenti emanati dal legislatore e dal governo – finalizzati al raggiungimento degli obiettivi individuati a livello europeo e internazionale – che nel loro complesso sono espressione della politica nazionale in materia di lotta al cambiamento climatico. Si chiede al giudice di accertare i presupposti dell’illecito, ma tale accertamento non può prescindere da un sindacato sul “quando” e sul quomodo dell’esercizio di potestà pubbliche (che pure tiene conto delle indicazioni provenienti dalla scienza) e la pretesa risarcitoria è solo la conseguenza eventuale di tale accertamento”.

[27] Trib. Roma, 26 febbraio 2024, cit.

[28] Più precisamente, secondo G. Tropea, Il cigno verde, cit., § 3, si dovrebbe trattare di eccesso di potere giurisdizionale ai danni del legislatore e dell’amministrazione. Nel medesimo senso Merone, Lo Stato quale legittimato passivo, cit., § 5 nt., 95.

[29] “In conclusione, le domande proposte dagli attori con cui si chiede accertare la responsabilità dello Stato e di “condannare il convenuto ex art. 2058, co. 1, c.c., all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni nazionali artificiali di CO2-eq nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990, ovvero in quell’altra, maggiore o minore, in corso di causa accertanda” sono inammissibili per difetto assoluto di giurisdizione del Tribunale adito” (Trib. Roma, 26 aprile 1014, cit.).

[30] E’ il caso Urgenda (su cui retro…).

[31] Per una puntuale disamina, in prospettiva comparatistica, Serafinelli, Dal caos all’ordine, cit., 739.

[32] Più possibilista sul punto G. Tropea, Il cigno verde, cit., § 4.

[33] Si nota come nel contenzioso climatico sia evidente la sinergia tra associazioni e avvocati-attivisti, tale per cui le controversie climatiche presentano un elevato tasso di uniformità (Serafinelli, Dal Caos all’ordine e viceversa), cit., 733.

[34] In particolare, l’azione è stata intentata da più di 200 ricorrenti tra cui 162 adulti, 17 minori (rappresentati dai genitori) e 24 associazioni di categoria impegnate nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente.

[35] Specificatamente: a) una singola persona ricorrente deve essere fortemente esposta agli effetti negativi del cambiamento climatico, cioè la portata e la gravità (del rischio) di conseguenze pregiudizievoli di un’azione o di un’omissione dello Stato che la concernono devono essere considerevoli; b) deve sussistere l’urgente necessità di assicurare la protezione individuale della singola persona ricorrente poiché le misure adeguate per ridurre il danno non sono disponibili o sono insufficienti (Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit.).

[36] Per essere legittimate ad agire, le associazioni devono: a) essere legalmente costituite sul territorio nazionale interessato o essere legalmente autorizzate a ricorrere nel territorio in questione; b)poter dimostrare che, conformemente ai propri statuti, perseguono lo scopo di difendere i diritti umani dei propri membri o di altre persone colpite presenti sul territorio nazionale interessato, indipendentemente dal fatto che l’associazione si limiti a misure collettive per la protezione di tali diritti dalle minacce derivanti dal cambiamento climatico oppure la le includa; c) poter dimostrare di essere considerata seriamente qualificata e rappresentativa per agire a nome dei suoi membri o di altre persone interessate all’interno del territorio nazionale che sono esposte a minacce specifiche o a effetti negativi del cambiamento climatico sulla loro vita, la loro salute, il loro benessere (Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit.).

[37] Un’analoga soluzione era stata adottata nel caso Urgenda, in cui però la sentenza era stata più elastica nell’ammettere la legittimazione ad agire delle associazioni.

[38] Sul tema Serafinelli, Dal caos all’ordine, cit., 736.

[39] Vd. ampiamente, E. Gabellini, Note sul contenzioso climatico, cit., § 3.

[40] Nella quale è confluita la corrispondente disciplina già contenuta nel codice del consumo.

[41] Su cui tornerò anche in seguito (infra §§ 8 e 9).

[42] Sul tema Donzelli, L’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire, in Class action. Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019 n. 31, a cura di Sassani, II ed., 2024, 1 ss, spec. 36.

[43] Sulla base di questa duplice configurazione dell’interesse superindividuale, vi è chi ritiene che oggetto dell’azione collettiva sia una mera questione di fatto rilevante per una pluralità di diritti e di processi (M. Bove, L’oggetto del processo “collettivo” dall’azione inibitoria all’azione risarcitoria, in Giusto proc. civ., 2008, 842; S. Menchini, La tutela giurisdizionale dei diritti individuali omogenei: aspetti critici e prospettive ricostruttive, in Le azioni seriali, a cura di S. Menchini, Napoli, 2008, 85, che richiama la questione di fatto o di diritto che assume rilevanza per una pluralità di diritti).  Secondo I. Pagni, L’azione inibitoria collettiva, in A. Carratta (a cura di), La class action riformata, in Giur. it., 2019, 2029 ss. spec. 2330, la selezione di coloro che possono agire deve passare, prima ancora che dal criterio dell’interesse ad agire, dalla previa individuazione della situazione soggettiva astrattamente suscettibile di essere pregiudicata dalla condotta illecita; l’A. riconduce quindi l’oggetto del processo nell’azione inibitoria collettiva al diritto soggettivo sostanziale, seppure da ricostruire tenendo conto delle caratteristiche peculiari della situazione in esame, sia dal lato attivo che dal lato passivo. Per una chiara ricostruzione del tema, in relazione alle climate change litigations, E. Gabellini, Note sul contenzioso climatico e le azioni di classe, cit., § 3. Vd. anche Petrillo, Le situazioni soggettive, in Class Action, cit., 45 ss.;    

[44] Secondo D. Amadei, L’azione inibitoria collettiva, in Class action, cit., 321, si tratta in realtà di due azioni sensibilmente diverse tra loro, in quanto mentre il singolo agisce iure proprio, in virtù della titolarità di un diritto o interesse che egli ha sul piano sostanziale prima e aprescindere dalla previsione dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., le associazioni e le organizzazioni agiscono iure proprio, ma grazie alla creazione di una loro situazione sostanziale da parte della norma stessa.

[45] Si tratta di «azioni od omissioni dotate di una lesività diffusa in grado di colpire contemporaneamente una serie indeterminata di soggetti» (E. Gabellini, op. cit., 1113). È evidente come l’interesse che spinge verso l’esercizio di tali azioni non può essere il generico interesse ad agire, bensì deve trattarsi di un interesse specifico ed omogeneo (G. Basilico, L’inibitoria collettiva secondo la legge 12 aprile 2019, n. 31, in Giusto proc. civ., 2020, 123 ss., spec. 126). Sul tema vd. anche D. Amadei, L’azione inibitoria collettiva, cit., 319 ss.; Id, Nuova azione di classe e procedimenti collettivi nel codice di procedura civile (l. 12 aprile 2019, n. 31), in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1049 ss., spec. 1052.

[46] Osserva Amadei, L’azione, cit., 325 come nella nuova azione l’aggettivo “collettiva” è fuorviante perché in realtà esso identifica solo il caso in cui l’iniziativa provenga dalle associazioni. In realtà, se si ha riguardo alla necessità che anche l’interesse del singolo sia superindividuale e comune ad un gruppo, pure nell’ipotesi di azione individuale si identifica un interesse che esprime il senso della “collettività”.

[47] Quando l’azione è esercitata dal singolo, l’interesse della collettività ne costituisce una questione pregiudiziale, tale per cui su di essa può scendere il giudicato solo se vi sia una domanda di parte o una previsione di legge ex art. 34 c.p.c. (E. Gabellini, op. cit., 1117).

[48] Lo nota D. Amadei, La nuova azione inibitoria collettiva, cit., 325.

[49] «In altri termini: se il condannato, nel rispetto dell’ordine inibitorio, attua condotte corrette solo nei confronti del singolo individuo attore vittorioso, ma non verso tutti gli altri soggetti interessati, è adempiente rispetto alla sentenza, con riguardo alla tutela (inibitoria) della situazione sostanziale fatta valere dall’individuo, anche se continua a mantenere comportamenti illeciti, pur se inibiti, verso tutti gli altri» (D. Amadei, La nuova, cit., 324).

[50] D. Amadei, La nuova, cit., 235; E. Gabellini, op. cit., 1117.

[51] Rispetto alla precedente versione della disposizione contenuta nel codice del consumo, quella in esame sembra avere una portata più circoscritta perché nega la possibilità che nella categoria dei legittimati passivi rientri anche il professionista (D. Amadei, La nuova, cit., 326). Si tratta tuttavia di una limitazione irrilevante nel caso delle controversie climatiche, non essendo la condotta del professionista potenzialmente pregiudizievole per il clima.

[52] Infra § 8.

[53] Oltre ad essere causa di costi notevoli, dovendo i ricorrenti giovarsi di complesse tecniche accertative per giungere alla prova del nesso di causalità (E. Gabellini, Note sul contenzioso climatico, cit., § 4).

[54] L’azione inibitoria, in effetti, può anche immaginarsi nei confronti dello Stato, ponendosi qui però problemi diversi soprattutto collegati alla divisione dei poteri.

[55] La migliore dottrina è da tempo – anche prima della riforma costituzionale – consapevole del fatto che nel conflitto tra attività produttiva e ragioni della salute, queste ultime sono destinate a prevalere (anche nel sistema italo-comunitario delle fonti): P. Perlingieri, Azione inibitoria e interessi tutelati, cit., 12; Id, Il “giusto rimedio”, cit., 20.

[56] Sul tema, G. Azzariti, Appunto per l’audizione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica del 16 gennaio 2020 – Modifica articolo 9 della Costituzione, in Osservatorio AIC, 2020, 77; R. Bifulco, La legge costituzionale 1/2022: problemi e prospettive, in Analisi giuridica dell’economia, 2022, 140;  L. Cassetti, Salute e ambiente come limiti “prioritari” alla libertà di iniziativa economica, in www.federalismi.it, 23 giugno 2021; M. Cecchetti, Virtù e limiti della modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione, in Corti Supreme e salute, 2022, 140; F. De Leonardis, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost. e la riforma “programma” dell’art. 41 Cost. nella legge costituzionale n. 1/2022: suggestioni a prima lettura, in Aperta contrada, del 28 febbraio 2022; G. Capo, Libertà d’iniziativa economica, responsabilità sociale e sostenibilità dell’impresa: appunti a margine della riforma dell’art. 41 della Costituzione, in Giust. civ., 2023, 81. Con uno sguardo (civilistico) al tema sotto il profilo della proprietà, G. Alpa, Proprietà privata, funzione sociale, poteri pubblici di «conformazione», in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 599 ss.

[57] Ritiene invece sempre necessaria la prova piena del nesso di causalità M. Meli, Piove! Governo ladro. Cambiamenti climatici e nuove istanze di tutela, cit., 87, pur evidenziando i vantaggi della tutela inibitoria, proprio sotto il profilo della prova della causalità, nonché in considerazione delle difficoltà nell’addossare sugli Stati la responsabilità per il cambiamento climatico.

[58] Escludono, normativa vigente, tanto una azione inibitoria collettiva, quanto quella risarcitoria nella materia del contenzioso climatico, S. Vincre-A. Henke, Il contenzioso “climatico”, cit., 147, data la platea limitata di legittimati passivi evocata in questa disciplina.

[59] L’iniziativa nei confronti dello Stato apre la strada ai problemi legati alla divisione dei poteri, S. Vincre-A. Henke, Il contenzioso “climatico”, cit., 144; S. Valaguzza, Liti strategiche, cit., 300, nonché quanto osservato in relazione alla causa “Giudizio Universale”, cit.

[60] Emblematico è il caso “Giudizio Universale” su cui vd. retro § 3, 4.

[61] Ampi sono gli studi intorno alla tutela dell’ambiente proprio in relazione all’azione inibitoria. Per tutti e senza alcuna pretesa di completezza, M.A. Lupoi (a cura di), Emergenze ambientali e tutela giuridica, Rimini, 2017; M. Maugeri, Violazione delle norme contro l’inquinamento ambientale e tutela inibitoria, Milano, 1997; A. Miletti, Tutela inibitoria individuale e danno ambientale, Napoli, 2006; G. Ceccherini, Danno all’ambiente e garanzia dell’accesso alla giustizia: una questione aperta, in Riv. dir. civ., 2021, 347; F. Giglioni, La legittimazione processuale attiva per la tutela dell’ambiente alla luce del principio di sussidiarietà orizzontale, in Dir. proc. amm., 2015, 414.

[62] Vi è chi ritiene, in dottrina, che anche l’interesse collettivo sia da ricondurre entro la figura generale del diritto soggettivo (R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., 398).

[63] Occorre accennare alla distinzione tra interessi diffusi e interessi collettivi, distinzione a tratti sfumata, ma in linea generale così ricostruibile. L’interesse collettivo fa capo a un gruppo, anche non organizzato, ma rispetto al quale gli effetti processuali del provvedimento richiesto si producono sul gruppo nel suo complesso; in esso, quindi, deve esistere un’organizzazione intesa come «relazione di interessi stabilita per il raggiungimento del fine comune» (V. Vigoriti, Interessi collettivi e processo. La legittimazione ad agire, Milano, 1979, 39). Diversamente, gli interessi diffusi sono riferibili ad uno stadio ancora fluido del processo di aggregazione degli interessi stessi riservato alle posizioni di vantaggio riconosciute ai singoli dall’ordinamento, di uguale contenuto e dirette verso il medesimo fine, ma non organizzate (V. Vigoriti, Interessi collettivi e processo, cit., 40. De Santis A.D., La tutela giurisdizionale collettiva, cit., 171). In altri termini, mentre l’interesse collettivo sorge e si identifica con il soggetto che se ne fa portatore, l’interesse diffuso è sprovvisto di un soggetto qualificato come ente esponenziale, in grado di agire; sicché, mentre negli interessi diffusi l’iniziativa è affidata al singolo che, in quanto titolare di un diritto soggettivo o interesse legittimo originario, quale tassello della posizione giuridica, agisce in giudizio, l’interesse collettivo è ricondotto ad un soggetto che assume l’iniziativa ed ha legittimazione ad agire in sostituzione dei singoli membri del gruppo.

[64] Una siffatta dualità trova espressione nell’azione inibitoria collettiva dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c. su cui mi soffermerò a breve (infra § successivo).

[65] Sui vantaggi e gli svantaggi della class action pubblica nelle climate change litigation, vd. R. Louvin, Spazi e opportunità per la giustizia climatica in Italia, in Dir. pubbl. com. europeo, 2021, 935 ss., spec. 948.

[66] Su cui retro, § 2.

[67] Osservano S. Vincre-A. Henke, Il contenzioso “climatico”, cit., 153, che la difficoltà di dimostrare il nesso causale, sia sotto il profilo fattuale che sotto quello giuridico, tra la condotta tenuta dal soggetto convenuto (Stato o società privata) e l’impatto sullo stato climatico che avrebbe a sua volta determinato danni a cose o persone è maggiore quando l’azione punta ad ottenere una compensazione monetaria. «Questo forse spiega in parte perché, nonostante le espresse richieste degli attori di ottenere la compensazione monetaria, i giudici nazionali si siano sinora limitati ad ordinare l’adozione di azioni concrete (in taluni casi molto “aggressive”) per limitare le emissioni inquinanti (e.g. un facere o non facere), senza tuttavia mai spingersi fino alla condanna al risarcimento dei danni (e ad una loro quantificazione)».

[68] D’altra parte, che nel contenzioso climatico la tutela preventiva rivesta una funzione centrale è confermato dall’art. 191 TFUE, il quale in materia ambientale, sancisce il principio di precauzione, imponendo di adottare misure e cautele di tipo preventivo per evitare eventi dannosi per l’ambiente. Sul tema, F. Vanetti-L. Ugolini, Il “Climate change” arriva in tribunale, cit., 741.

[69] In questi termini, R. Fornasari, La struttura, cit., 2074. Ragione per la quale nell’azione inibitoria, rispetto a quella risarcitoria, assume un ruolo meno decisivo anche l’imputazione soggettiva. Mentre infatti nell’illecito occorre accollare a un soggetto le conseguenze di una condotta, nell’inibitoria occorre impedire che inizi o continui un fatto lesivo.

[70] Sul tema ampiamente R. Fornasari, La struttura della tutela, cit., 2074.

[71] Sulla necessità di allentare il rigore intorno all’accertamento del nesso di causalità si pronuncia anche la Corte EDU, grande camera, 9 aprile 2024, KlimaSeniorinnen v. Switzerland, cit. vd. per un’approfondita ricostruzione di tali argomentazioni, Serafinelli, Dal caos all’ordine, cit., 744.

[72] A.D. De Santis, L’inibitoria collettiva: profili processuali, in U. Ruffolo (a cura di), Class action ed azione collettiva inibitoria, Milano, 2021, 268; nel medesimo senso, R. Louvin, Spazi e opportunità per la giustizia climatica in Italia, cit., 950.

[73] Ancora Fornasari, op. cit., 2077, evocando l’esempio del danno da fumo dove la malattia è causata da fumo continuato nell’arco del tempo di prodotti di società differenti oltre che da ulteriori fattori ambientali e personali. In questi casi, la responsabilità andrà proporzionata alla contribuzione di ciascuno all’illecito (così i Principles of European tort law). Sul punto, cfr. anche Marino, La climate change litigation, cit., 908. Quanto alle emissioni di carbonio, gli studi più recenti si sono orientati sulla necessità di individuare le aziende di una medesima zona che maggiormente si possono ritenere responsabili della produzione di combustibili fossili (cd. carbon majors), così individuando il contributo proporzionale di ciascuna al riscaldamento globale (sul tema, M. Marinai, Il contenzioso e la legislazione climatica, cit., 1332).

[74] Vi è chi evoca una «unità concettuale tra inibitoria cautelare e inibitoria resa in sede dichiarativa». Per tutti, A. Frignani, voce Inibitoria (azione), cit., 562 ss.; M. Libertini, La tutela civile inibitoria, cit., 315; Id., Nuove riflessioni in tema di tutela civile inibitoria, cit., 385; Basilico, In tema di tutela inibitoria, cit., 397 (diversamente C. Rapisarda-M. Taruffo, voce Inibitoria (azione), cit., 12). Nel medesimo senso, con riferimento alle climate change litigantions, R. Fornasari, La struttura della tutela inibitoria, cit., 2064.

[75] Favorevole alla tutela preventiva rispetto al rischio di danno alla persona, P. Perlingieri, Azione inibitoria e interessi tutelati, cit., 12; Id., Il “giusto rimedio” nel diritto civile, cit., 5.

[76] Per tutti, M. Meli, Il principio comunitario “chi inquina paga”, Milano, 1996, passim; F. Vanetti-L. Ugolini, Il “Climate change”, cit., 741.

[77] Sul tema, retro § precedente.

[78] Con riguardo alla tutela dell’ambiente e della salute, ma non diversamente a protezione del clima – «il più recente trend legislativo ed una “giurisprudenza valutativa” dimostrano così che gli interessi relativi alla protezione dell’ambiente richiedono una tutela preventiva e specifica e non una tutela surrogatoria, finalizzata ad assicurare l’integrità patrimoniale dell’interesse leso» (P. Perlingieri, Azione inibitoria e interessi tutelati, cit. 14).

[79] Si è correttamente osservato come «una lettura in chiave teleologico funzionale del sistema rimediale implica la considerazione della tutela inibitoria come tecnica che interviene non soltanto nel momento patologico della lesione, ma soprattutto in via preventiva, cioè nella fase fisiologica della realizzazione degli interessi rilevanti» (P. Perlingieri, op. cit., 16).

[80] A. Frignani, voce Inibitoria (azione), cit., 560; G. Basilico, In tema di tutela inibitoria, cit., 402, ritengono invece l’illecito elemento imprescindibile che accomuna la tutela inibitoria e quella risarcitoria, a differenza del danno che invece le differenzia.

[81] In questo senso A. Frignani, voce Inibitoria (azione), cit., 561. Conf. A. Motto, Note per uno studio sull’azione di condanna nella giurisdizione civile, in Riv. dir. civ., 2013, 911 ss. spec., 932, sebbene – quanto alla illiceità della condotta – ammette la possibilità di agire in inibitoria ancor prima del verificarsi dell’illecito, solo sulla base dell’operare di un delicato bilanciamento di valori: «da un lato gli interessi che, se pregiudicati, sono definitivamente sacrificati (ad esempio il diritto alla salute, all’ambiente salubre) e da un altro lato, gli interessi, anch’essi meritevoli di tutela, e parimenti costituzionalmente garantiti, che sono realizzati dal compimento di una determinata attività (ad esempio, l’esercizio di un’impresa che costituisce espressione di libertà di iniziativa economica e può condurre all’attuazione del diritto al lavoro)».

[82] In questo senso anche I. Pagni, L’azione inibitoria collettiva, cit., 2330, con riferimento all’azione inibitoria collettiva.

[83] Nel medesimo senso, G. Basilico, In tema di tutela inibitoria, cit., 400.

[84] L’instaurazione del giudizio di merito, quindi – in linea con la dinamica dei provvedimenti anticipatori – sarebbe solo eventuale (con iniziativa rimessa a coloro che hanno ottenuto la misura, per stabilizzarne gli effetti, ovvero al soccombente sulla misura stessa, per ottenere un accertamento negativo sulla fondatezza del diritto) e non avrebbe altra funzione se non  confermare, modificare o revocare il provvedimento urgente, attribuendo alla relativa decisione una stabilità (il giudicato) che altrimenti non avrebbe (ex art. 669 octies ultimo comma c.p.c.). Va ricordato che l’ultimo comma art. 669 octies c.p.c. stabilisce che l’autorità del provvedimento cautelare – quand’anche non travolto dall’estinzione del giudizio di merito o anche in caso di mancata instaurazione del medesimo giudizio – «non è invocabile in un diverso processo».

[85] Il che, proprio in relazione alle controversie climatiche, finisce per costituire il vero punctum dolens, al cospetto – di contro – della costante ricerca di effettività della tutela. Osservano S. Vincre-A. Henke, Il contenzioso “climatico”, cit., 148 come «il rapporto tra tutela giurisdizionale dichiarativa e quella esecutiva (ancorché in senso lato) è infatti un profilo fondamentale – se si vuole andare oltre lo scopo “pubblicitario” delle strategic litigations – ma, al contempo, assai problematico in questo tipo di azioni; e tale criticità viene in rilievo già nella prima fase del giudizio di cognizione, con riferimento alla condizione dell’azione relativa all’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), da intendersi come rapporto di utilità della tutela richiesta rispetto al bisogno allegato». Evocano gli AA. il caso Juliana v. United States (2015), in cui i giudici del Ninth Circuit court of Appeals hanno rigettato la domanda sul presupposto della assenza di uno strumento esecutivo, tale da giustificare un diniego di giurisdizione già in fase di cognizione.  

[86] Sul profilo problematico vd. anche retro § 9.

[87] Nel caso Juliana v. United States, il diniego di tutela giurisdizionale fu giustificato anche sul fatto che una eventuale esecuzione forzata nei confronti dello Stato avrebbe provocato una prevaricazione della giurisdizione sugli altri poteri dello Stato.

[88] Così anche S. Vincre-A. Henke, op. cit., 148.

[89] Retro § precedente.

[90] L’opinione dominate è nel senso di ritenere che l’espressione legittimi all’uso dello strumento anche nelle controversie di lavoro, in deroga all’esclusione espressa contenuta nello stesso art. 614-bis c.p.c. (A.D. De Santis, Azione di classe e azione collettiva inibitoria, cit., 323; D. Amadei, La nuova, cit., 239). Se questo è il senso, deve ritenersi che essa non sia più di tanto rilevante nel caso delle controversie climatiche.

[91] Si è notato come questa previsione non deve fare “concorrenza sleale” all’azione risarcitoria, nel senso che essa non può essere sostitutiva di quest’ultima finendo invece per rivelarsi solo un capo accessorio dell’azione inibitoria stessa (D. Amadei, La nuova, cit., 240).