Contraddittorio Ordine Lógos

Di Gianluca Tracuzzi -

SOMMARIO: 1. Alla ricerca di un rapporto dialogico tra teoresi e prassi. – 2. L’alternanza ordine-disordine. – 3. Dal conflitto alla controversia. – 4. Il lógos come pensiero e discorso. – 5. La transazione, morte del processo? – 6. Dalla trasformazione alla metánoia del conflitto.

1. Nel 1986 Pietro Perlingieri organizzava, a Benevento, un incontro – dal titolo Soggetti e norma, individuo e società – nell’ambito del Dottorato di ricerca su I problemi civilistici della persona dell’Università Federico II di Napoli. Relatore, tra gli altri, Francesco Gentile, il quale – sulla scia della costante promozione di vari dibattiti, i cui titoli, differenti solo nella scelta della declinazione finale, muovevano dal comune prefisso Teoria e prassi alle radici del diritto (…) – proponeva alcune riflessioni su La controversia alle radici dell’esperienza giuridica[1].

Si trattava di un ulteriore sviluppo di un’idea di ordinamento giuridico – inteso come sistema normativo che si specchia nell’organizzazione sociale – seminata con il tramite delle categorie paterne dell’intelligenza e della ragione[2] e, nel fluire del tempo, fiorita in acute specifiche capaci di intercettare anche l’interesse dei giuristi di diritto positivo. Del resto lo schema architettato dal Maestro patavino li poneva – anche fisicamente, a simboleggiare l’importanza del caso concreto – al centro del confronto dialettico con i filosofi del diritto, per favorire – riconosciuto «il valore del principio»[3] – una feconda contaminazione delle differenti conoscenze[4] e, con il tramite del dubbio, orientarle verso la «direzione comune» dell’inesauribile sapere[5].

Per centrare un obiettivo così ambizioso occorreva rimeditare sulla co-implicazione degli elementi che compongono la struttura ontologica dell’uomo, ossia la difettività indigente, la relazionalità interna finito-infinito e quella, invece, esterna io-altrouella, invece[6]. Il lógos, al postutto, non è solo tra (dià-logos) chi parla e chi ascolta, ma anche tra i due aspetti – passionale e riflessivo – che abitano l’anima di ognuno. È discorso e, insieme, pensiero[7]. È connettibilità, in un caso e nell’altro, di ciò che è diverso[8]. Ne consegue la scelta solipsistica di fermarsi nella posizione dell’io, ovvero di proseguire, integrandola, con quella – parimenti discutibile – sostenuta dall’altro. Insomma, una volta ancora, esistenza o possibilità[9].

La distanza con i giuristi, un passo dopo l’altro, sembrò ridursi, così attenuando «il peso immenso delle infinite obbiezioni»[10] che erano state rivolte – sin dagli albori del suo travagliato percorso – alla filosofia del diritto, ad un dato momento accusata di essere perfino un «filosofico ircocervo»[11]. Una metafora dell’inesistente, al fine di denunciare – tanto per la prassi, quanto per la teoresi – la sua presunta inutilità[12]: troppo complicata per i giureconsulti, poco profonda per i filosofi puri.

Il severo giudizio crociano[13], rinvigorendo il germe di una mal celata verità, suonò come una sveglia nel comodo torpore della disciplina, fino a divenire un’irrinunciabile sfida che, inesausta come la filosofia autenticamente intesa, si è compreso di non poter mai considerare vinta per sempre. Il necessario ri-pensamento delle antiche convinzioni mutò ben presto in un vero e proprio “esame di coscienza”[14], favorendo la valorizzazione dell’originario – anche se sovente travisato[15] – legame “di sangue” con la scienza giuridica[16].

Tra gli studiosi che nutrirono questa ritrovata consapevolezza di non sapere vi fu, per quanto accennato, anche Francesco Gentile che, accarezzando le cicatrici del passato, decise di utilizzare proprio l’immagine dell’ircocervo come provocatorio “marchio di fabbrica” del suo gruppo di ricerca, a perenne monito della – già storicamente rilevata – tendenza della filosofia del diritto a disinteressarsi dell’esperienza giuridica[17]; quest’ultima afferrabile, nella sua integralità, a patto di non smettere di problematizzarla, ossia di esperire (ricercare) non tanto soluzioni nel recinto della logica statualistica, quanto posizioni nella galassia meta-logica in cui confluiscono «tutti i limiti, le contraddizioni, le cadute e le resurrezioni che condizionano l’umana esistenza»[18]. È l’impostazione di un qualsivoglia problema[19], a guardarci meglio, ciò che ne orienta i risultati. Arrestarsi a quanto pre-stabilito come valido, oppure – saggiandone l’efficacia[20] – immergerlo nella coscienza sociale che, svincolandosi da ogni volontarismo implicito (Santi Romano) o esplicito (Kelsen), intende prodursi autonomamente[21]. Una è la strada, piana e con precise indicazioni, già lastricata dal potere effettivo (ordinatum); l’altra, erta e sterrata, si sta preparando insieme (ordinatio), utilizzando come pietre d’appoggio proprio le condivise soluzioni scaturite dagli inciampi e dalla polvere respirata lungo il cammino, che resta pur sempre infinito. Ciò che diviene valore nella comunità politica costituisce l’humus che stabilizza il terreno su cui dovrà poggiarsi un piede, se si vuole alzare l’altro per procedere.

Quando il diritto – come si vedrà più diffusamente in seguito – non è artificialmente utilizzato da un unico ordinatore come strumento di controllo sociale, favorisce – stante la sua «naturalezza»[22] – la comunicazione civile[23], in cui teoria e prassi – avendo come sfondo del confronto l’orizzonte,  e non un raggiungibile traguardo, del vero – possono tornare ad integrarsi vicendevolmente[24].

2. Il compito del giurista – che è sempre un interprete e, pertanto, un mediatore[25] – è mettere ordine nel disordine delle relazioni intersoggettive confliggenti per rappresentare ciò che è proprio di ciascuno, ma nelle modalità con cui si è inteso realizzare tale missione riflette l’ulteriore duello tra il sapere per sapere e il sapere per fare, con una netta prevalenza – registrabile, in particolare, dalla seconda metà del secolo decimonono – dell’approccio «tecnico-funzionale» su quello umanistico[26]. Da una parte si mira alle profondità delle essenze, dall’altra all’immediato operare.

L’uso del sapere, nel nostro tempo, è misura dell’uomo. Ciò che si fa ha confinato ciò che si è tra gli inutili dettagli, come se la parte fosse davvero concepibile senza il tutto. Di più. Come se, essa stessa, potesse affermarsi come tutto, affrancandosi dai suoi fisiologici condizionamenti[27]. Il che ha comportato una supremazia del quid iuris a discapito del quid ius, del come sul perché e, in definitiva, del dover essere sull’essere[28]. La stessa filosofia del diritto, per non precipitare nelle antiche diffidenze, dovrebbe «convertirsi in metodologia dei saperi speciali»[29]. Ma si può credibilmente conoscere il diritto senza la considerazione di tutte le sue parti[30]?  Il problema della versio in unum diventa così un non-problema, il legame tra l’utile (diritto) e il bello (arte)[31] soltanto una suggestione (di una fraintesa[32]) retorica di cui occorre disfarsi, l’accettazione del verosimile preferibile alla ricerca del vero[33].

Tuttavia, attraverso il predominio dell’operatività – come dimostrano alcune osservazioni critiche, tipicamente francesco-gentiliane[34] – non si vuole tanto precedere il conoscere, quanto condizionarlo; e, indossando le scintillanti vesti dell’apparenza, senza dichiararlo apertamente, finendo per trasformare il diritto in una «maschera» del potere e, ancor peggio, il giurista nel suo «enzima»[35]. Questo, in estrema sintesi, il meccanismo dell’ordo ordinatus: alla volontà di dominio, a cui spetta stabilire convenzionalmente l’ordinamento, deve corrispondere una scrupolosa fedeltà dei sudditi, onde l’obiettivo operativo pre-fissato diventi spacciabile per bene comune[36].

L’insistente utilizzo, nei suddetti titoli delle Relazioni congressuali di Gentile, della parola radici mostrava, viceversa, l’evidente intento di non volersi accontentare dell’«esteriorità normativa»[37]; quindi, rinnegando ogni astratta s-personalizzazione, di muovere dalle riscontrabili complessità sociali e non da un ragionamento dato a priori. Insomma dal concetto di disordine, non intendibile però come un non-ordine oggettivo – si pensi al bellum omnium contra omnes di hobbesiana memoria – (solo) virtualmente governabile dall’auctoritas senza veritas di un sovrano[38], i cui comandi supererebbero finanche lo spazio e il tempo[39].

Per cogliere la profondità delle radici – che, dopo tutto, non sono altro che principi, cioè «le leggi delle leggi» – bisogna dissotterarle, ma senza questa fatica non si potrebbe scoprire la loro corrispondenza con i fini che occorre raggiungere[40]. Perciò il disordine – che la metodologia di stampo geometrico, mediante il contratto sociale, si era illusa di poter oscurare nella finzione – qui diventa protagonista di una verificabile attività esperienziale che – attraverso l’accertamento della finitezza, conoscitiva ed operativa, di ogni individuo – approda alla conclusione di come l’ordine sia un innato bisogno di unità che – andando oltre il percepito dei singoli – si lascia sempre meglio approssimare dall’intelletto umano, senza divenire mai afferrabile del tutto. Sicché diremo che l’ordine stabilito contiene comunque in sé una certa porzione di disordine[41], poiché la legge, essendo sempre necessaria (nec esse, mancanza di essere), non è mai sufficiente; come ogni prodotto dell’uomo partecipa delle sue debolezze che, invero, la rendono temporale e imperfetta. Lo dimostra il processo – «momento eterno dello spirito»[42] – che, vivificando senza sosta il diritto sostanziale, si pone a fondamento della giuridicità effettiva[43]. Del resto è nella contesa, come già osservato da Eraclito, che si rivela l’incipit della giustizia[44]. Sono i reati – nella sfera penale – e i conflitti di interessi – in quella civile – a turbare il fine della salvaguardia dell’ordine giuridico e della pace sociale, perciò il mezzo per sanare delitti e liti non potrà che essere il processo che, non a caso, anche il «Maestro fra i Maestri»[45] considerava un «surrogato della guerra» o, in altre parole, «un modo per addomesticarla»[46].

3. Per scorgere le radici dello «strumento gnoseologico» del processo[47], in cui il giudizio – il più evidente collante con il diritto[48] – deve essere implicato, occorre scavare in una sempreverde tradizione filosofica che, da Eschilo in poi, considera il contraddittorio il principio primo dell’ordine[49]. Non pare possibile negare la sua precedenza logica, cronologica e deontologica rispetto alle regole giuridiche che oggigiorno lo celebrano, dopo averlo per lungo tempo soltanto sottinteso[50]. Per questo “primo”, trattandosi di un principio forgiato dalla classicità – «per appagare bisogni pratici collettivi»[51] – e non dalle odierne garanzie normative, nazionali (art. 111 Cost.) o sovranazionali (art. 6 Cedu)[52], le quali ribadiscono valori risalenti di epocale dignità. Il cosiddetto contraddittorio in senso debole è allora la sorgente sotterranea, senza la quale quello forte (esteso al giudice) rischierebbe di inaridirsi. Escludendo l’imperfezione dell’uno non potrebbe prepararsi la “perfezione” dell’altro[53], poiché soltanto passando dalla consapevolezza della parzialità di ogni singola posizione è possibile realizzare la relazione – con se stessi (lógos come pensiero) e con gli altri (lógos come discorso) – da cui ogni giudice dovrà ripartire per poter plasmare, con le parti coinvolte, un sillogismo «cooperativo»[54].

Per ri-costruire la struttura simmetrica del contraddittorio – ridotta in macerie, nell’età moderna, dal sistema inquisitorio dell’ordine «asimmetrico» (processus), che si era sostituito a quello “accusatorio” dell’ordine «isonomico» (iudicium) dell’età medioevale[55] – bisogna abbandonare il concetto di conflitto dovendogli preferire, secondo Gentile, quello di controversia[56].

Invero il conflitto è mero dominio sulla cosa (o sulla riduzione a cosa del soggetto), prescinde – fondandosi su un’indimostrabile auto-evidenza – dalla considerazione sia dell’ordine che dell’altro[57] e, non contemplando alcuna misura, è espressione della cieca violenza[58]. Il suo di ciascuno è, in questo caso, ciò che decide l’arbitrio del Leviatano, come dimostrano i totalitarismi riscontrabili nella storia[59], nonché alcune denunce civili superbamente narrate[60].

La controversia, diversamente, muove dalla «forza non violenta»[61] di un diritto, che ciascuna delle parti – se a torto o a ragione lo accerterà un decisore, terzo e imparziale – considera proprio e che chiede al suo antagonista di riconoscergli pubblicamente[62]. Nella misura dialettica della controversia ogni parte cerca di dimostrare che la tesi dell’interlocutore è contraddittoria, per certificare la conseguente prevalenza della propria[63]. Il contraddittore, più che un rivale, è un «collaboratore» che stimola la correzione della personale posizione[64]. La debolezza di ogni singola opinione – lo dimostrano anche i dialoghi platonici – non va mai disprezzata, ma fondata ulteriormente.

Altro è la supremazia sulla cosa, altro è il riconoscimento del diritto sulla stessa. Al suum può così corrispondere la disgiunzione dell’avere o la congiunzione dell’essere, cioè la mera appartenenza ad una parte, a cui un’altra si contrappone sterilmente, ovvero la partecipazione della parte al tutto, in cui è rinvenibile ciò che si ha in comune con la parte diversa[65].

In altri termini, la compresenza di pretese può oscillare tra due opposte concezioni antropologiche: una sensistica e passionale, l’altra realistica e razionale. Mentre la prima – replicando la prospettiva individualistica dello stato di natura – ci conduce verso l’unica soluzione del bellum, la seconda delinea un approccio alternativo che – come insegna il congenito bisogno di reciprocità, rinvenibile sin dal linguaggio[66] – muta la pretesa soggettiva e conflittuale in diritto, vale a dire in regola «riconosciuta vera in comune»[67] e non esclusiva di alcuno; e su cui occorrerà confrontarsi – nel rispetto della parità, principio onto-esistenziale[68] e, soltanto in seguito, anche giuridico – per salvaguardare il se stesso di ciascuno, formula in cui tutti i grandi pensatori – da Ulpiano ad Omero, da Platone ad Aristotele, da Cicerone ai Padri della Chiesa[69] Ambrogio, Agostino e Tommaso[70] – sembrano aver cristallizzato il nocciolo duro del concetto di giustizia.

In tal guisa l’arbitrio diviene disordine, in cui – ecco la differenza – non tutti i bisogni individuali – essendoci ora un parametro di riferimento – possono trovare pubblica soddisfazione. Pena lo stesso dissolvimento di ciò che risulta essere condiviso: se tutto diventa diritto, niente lo sarà più davvero. Lo spazio comune, pur essendo propenso all’accrescimento, come ogni cosa dell’uomo non è infinito; così come non ogni relazione potrà dirsi giuridica poiché, di quest’ultima, universale è unicamente l’ambito umano di estensione[71] e non anche il suo potenziale oggetto. Perciò l’in-finito – di cui, in precedenza, si è fatto cenno – non è un non-diritto (conflitto), ma la possibilità, che si coglie proprio nella finitezza giuridica (controversia), di realizzare sempre meglio la giustizia[72]; o, detto altrimenti, la meditazione sull’esistenza del diritto che muove, però, dai lampi del futuro che si manifestano attraverso l’esperienza[73].

4. Nel disordine che ogni controversia determina vi è sempre – come visto – un dialogo tra diverse considerazioni dell’ordine che, avendo lo stesso centro di gravità, sono logicamente confrontabili. Ne consegue che la giustizia si sostanzia nell’alterità, cioè in un rapporto io-altro, laddove l’altro è tale in quanto diverso dall’io ma, a ben vedere, per ciò che con l’io ha in comune. Nello stesso momento in cui matura la consapevolezza della propria parzialità, sorge nell’io il bisogno di oltrepassarla mediante l’identificazione, con l’altro, tra ciò che si ha in comune e il bene.

L’alterità, in un processo, viene garantita dall’indipendenza del giudicante[74], a cui spetta un duplice compito: i) quello della verifica della giustizia tra le parti, avendo cura di misurare la relazione sul piano della loro parità, dell’affidamento reciproco e, infine, dell’equivalenza tra dare e avere (giustizia commutativa, o contrattuale); ii) quello della verifica della giustizia tra la relazione e l’intera comunità, in cui si riflette ogni litigio, quindi misurando l’aderenza tra la relazione in crisi e il bene comune rappresentato dalle norme legislative (giustizia distributiva, o politica)[75]. Sicché il contraddittorio, approdato nelle dinamiche processuali, dalle sole parti finisce per coinvolgere anche il giudice, mutando il rapporto duale (io-altro) in ternario (io-decisore-altro)[76] per realizzare l’actus trium personarum già invocato all’epoca della Glossa[77]. Pertanto il ragionamento processuale è anche retorico e non solo dialettico, dovendo ogni giudice valutare la razionalità e la persuasività dei discorsi proposti dalle parti[78].

Prima di approfondire ulteriormente le modalità con cui si sviluppa il discorso, va ribadito che il lógos è anche pensiero, il che significa dover promuovere nell’io una relazione dialogica tra istinti e razionalità – ossia tra quello che si de-sidera e ciò che si con-sidera[79] – che può essere auto-regolamentata[80].

Per raggiungere l’armonia interiore, prodromica a quella con gli altri, occorre mettere ordine nell’anima attraverso la virtù della temperanza (sophrosyne), da intendersi come «la capacità di non produrre né più né meno di ciò di cui si ha bisogno»[81] e non, geometricamente, come un imprecisato “senso del dovere” che presuppone – in palese contraddizione, peraltro, con il postulato individualistico – sia la validità dei comandi del sovrano che l’obbedienza dei sudditi[82].

Per produrre in maniera ordinata l’uomo non deve confondere l’invenzione, riflesso di un’idea alla quale deve restare debitore, con la creazione, orgogliosa illusione di saper plasmare da sé[83]. L’una – ascendendo – è dell’uomo, l’altra – discendendo – di Dio[84]. Nell’intima verifica della corretta proporzione – «non di più e non di meno»[85] è, pertanto, già rinvenibile il destino – disgiuntivo o congiuntivo (cfr. supra) – del suum di ciascuno.

A differenza della sapienza e del coraggio – che competono, rispettivamente, ai custodi e ai soldati – la temperanza riguarda l’intera comunità della polis e consiste, più precisamente, nella capacità di far prevalere nell’anima la parte riflessiva su quella passionale. La prima – ponderando tra intelligenza e ragione – è da considerarsi migliore, mentre la seconda – essendo, per sua natura, insaziabile – conduce al caos.

In altre parole, con il governo della saggezza si supera se stessi; se per «educazione inadatta» o «cattive compagnie» vi è, all’opposto, il sopravvento della parte peggiore si diventa caratterialmente deboli[86]. Quest’ultima strada – non comportando sudore[87] – è la più battuta dagli uomini, ma genera un conflitto nell’io. Perciò essere padroni di sé (autonomia), da non confondersi con l’essere principio a sé (autarchia)[88], è «la prima e più nobile vittoria»[89], poiché prepara l’attitudine dell’io ad accettare la legge di cui è co-autore con l’altro, respingendo l’illusione di poter essere legge di se stesso[90]. Ciò non significa – si badi – negare l’esistenza dei desideri individuali, ma voler impedire che le particolarità non coinvolte nel lógos possano dominare nella coscienza[91], non consentendo alle diversità di andare oltre il loro presentarsi.

Torniamo ora al lógos come discorso, per precisare che le parti non subiscono le regole – per il funzionamento della loro relazione – imposte dall’esterno, bensì riconoscono in comune ciò che all’interno sussiste ante rem e che, quindi, preesiste alla relazione stessa. A differenza della prospettiva more geometrico constructa, qui l’ordine non è ciò che artificialmente crea una soggettiva volontà di potenza[92], ma che naturalmente[93]nel senso di non-arbitrariamente – si trova[94].

Se così stanno le cose, occorre individuare quello che può essere reciprocamente inteso come modello, per coglierne l’indispensabile «fissità interlocutoria»[95]. Sul punto si è soliti riproporre un noto esempio platonico: appena iniziano ad avere dimestichezza con l’alfabeto, i fanciulli riconoscono ogni singola lettera nelle parole più facili e, infatti, le pronunciano correttamente, mostrando, per converso, incertezza sulle stesse lettere nelle parole più difficili. Per spiegare loro ciò che ancora non riescono a pronunciare bisognerà farli partire dalle lettere delle parole che hanno correttamente riconosciuto mostrando, subito dopo, le parole che non conoscono e avendo così cura di far notare che nelle conosciute e in quelle ignorate, nonostante le diversità, vi è qualcosa di identico[96].

Il campione esemplificativo utilizzato dal Maestro ateniese non è accidentale, ma fondante: senza uno stabile linguaggio, in effetti, non vi sarebbe né relazione né conoscenza[97]. I codici e le leggi sono allora l’alfabeto della lingua giuridica, che ha bisogno di impadronirsi – per promuovere un integrale dinamismo – di una sintassi[98] capace di far cogliere l’uno nel diverso.

Pertanto il recupero dell’ordine in ogni controversia non potrà che avvenire se non con il tramite della «regola aurea» della dialettica classica, «per la quale si è capaci di riconoscere le diversità di cose o situazioni in apparenza identiche ma non si lascia di considerare un insieme di cose o situazioni diverse prima di aver colto ciò che le accomuna»[99].

Le tesi contrapposte, in definitiva, non sono altro che due diverse specie del medesimo genere, come il bianco e il nero appartengono ai colori o il pari e dispari ai numeri[100]; o, più in dettaglio, come due parti che si trovano di fronte al tutto, ma in una diversa posizione. A prevalere sarà quella che verrà riconosciuta, acclaratosi il maggiore valore di cui si fa portatrice, «meno parte» dell’altra[101]. Per questo, come la parte riflessiva dell’io, considerata migliore. Del resto anche in un corpo umano il valore di una mano è inferiore a quello del capo, poiché l’una, a differenza dell’altro, non ha funzioni vitali. Il suum – e, ancor prima, la razionalità dell’io ha sempre a che vedere con il concetto di valore che, a sua volta, non può fare a meno di quello di misura, ovverosia del confronto, a cui solo il tutto può sottrarsi[102].

5. Alla vittoria di una parte, in ogni tipo di contesa, deve specularmente riconoscersi la sconfitta dell’altra. Di norma in una controversia processuale – specie se riemergono le scorie di un conflitto non risolto – la parte soccombente, per questo insoddisfatta, aspira alla replica in altra sede del duello con quella vincitrice. L’esperienza giuridica insegna come la ricomposizione, nella controversia, della divisione conflittuale sia attività di non facile realizzazione. La sua tenuta, soprattutto nel lungo periodo, è esente da garanzie. Il più delle volte è la relazione interna a difettare, allorquando s’intende forgiare il fondamento del pensiero con l’argilla dell’individualismo. Il gigante, per quanto maestoso, è destinato a crollare, ma fino ad allora l’amor di sé[103] non conosce confini.

Questa insaziabile domanda di giustizia ha, oramai da diverso tempo, comportato un aumento esponenziale delle giurisdizioni[104]. Non basta più riferirsi ai diversi gradi di giudizio di uno Stato nazionale, dato l’odierno proliferare, nell’arena globale, di nuove Corti «sempre più specializzate ed appoggiate alla tecnica»[105]. Insidiose diversità emergono con riferimento alle regole procedurali stabilite, nonché alla stessa percezione della realtà rappresentata, con il risultato di generare potenziali contraddizioni con i verdetti già pronunciati e un sicuro indebolimento del valore della certezza[106].

Il dominio dell’economia – nel cercare soluzioni congeniali, tanto all’avere (diritto civile) quanto all’essere (diritto penale)[107] – ha accresciuto l’importanza dello strumento contrattuale della transazione, cioè di quel libero accordo tra le parti – anche non assistite da professionisti – che consente di rimetterle in asse senza l’ausilio del processo e, anzi, probabilmente sancendone in tal modo la sua «morte». All’unica parte vincitrice subentra, nonostante un accantonamento della verità, una rapida soddisfazione di entrambe. Qui le parti non subiscono da un terzo, bensì agiscono tra loro per la ricerca di un punto di equilibrio, configurando una realtà che, pur virtuale, è ora volontariamente accettata[108].

L’odierno declassamento processuale – soprattutto nel campo degli affari – non deve, però, scoraggiare oltremisura, poiché le nuove dinamiche transattive sembrano continuare ad essere illuminate dalla stella polare del contraddittorio, genus di cui il processo si è dimostrato essere species. Anche a voler preferire la diversa dottrina che lo fa discendere dal procedimento[109], non potrà negarsi che la struttura generale del processo – in cui il contraddittorio resta imprescindibile[110] – si rinviene anche in ambiti esterni, per l’irrefrenabile diffusione del modello processuale nelle attività non giurisdizionali[111].

Nel farsi «reciproche concessioni», le diverse parti muovono da ciò che, nel contraddittorio, è comune ad entrambe, nel senso che l’autonomia delle azioni poste in essere non sembra poter eludere la dipendenza dal modello reciprocamente riconosciuto, in questo caso incarnato nelle disposizioni legislative che disciplinano tale meccanismo (artt. 1965 e ss.). Ad esempio, se una delle parti rinuncia alla propria pretesa accettando in toto le condizioni della controparte non potrà – riemergendo il dominio disgregante del conflitto – configurarsi l’essenziale sacrificio reciproco che la transazione richiede. In caso di inosservanza delle regole comuni ci si affiderà alle maggiori, pur lente, garanzie del contraddittorio in senso forte[112]; quindi alla «forza frenante» delle regole processuali, questa volta per la ricerca – attraverso il giudizio – della verità[113].

6.  Si è detto che la “via platonica”, qui ripercorsa, viene cristallizzata da Gentile nella formula della trasformazione del conflitto in controversia, sotto-intendendo – è ora il caso di precisare – la sua netta contrapposizione con quella, invece kelseniana, della trasformazione del potere in diritto. Si è, tuttavia, già dimostrato come al formalismo virtuale di quest’ultima debba preferirsi il realismo sostanziale della prima[114].

Ciò nonostante scardinare convinzioni così ben radicate – nel pensiero – dalla superbia e – nel discorso – dal positivismo legalistico è, ancora oggi, impresa ardua. A queste oggettive difficoltà si aggiunse anche un ripensamento, divenuto indispensabile, della stessa terminologia gentiliana. Invero il verbo trasformare, restando fedele alla sua matrice sofistica, sembrava ancorarsi ad una metamórphosis della sola forma, non consentendo di “prendere il largo” verso l’integrale rinnovamento che s’intendeva raggiungere[115]. Perciò Gentile decise di sostituire l’ambiguo concetto della trasformazione con quello, più profondo, della conversione (metánoia), già utilizzato dalla tradizione cristiana proprio per indicare il radicale rinnovamento che conduce dalla propria particolarità a ciò che, con l’altro, viene ritenuto principio ordinatore e che «imprime il movimento»[116] in direzione del vero. Ne consegue l’ulteriore specifica che soltanto divenendo persona – ossia mutando e, insieme, amplificando se stesso[117] – l’individuo potrà abbandonare i propri egoismi, in un fecondo passaggio dal sensibile (opinare) all’intelligibile (sapere)[118].

In questa nuova fase di affinamento del pensiero gentiliano, risulta decisivo il passaggio – fino ad allora inedito – dallo studio dei principi – o radici – del diritto a quello dell’Artefice, inteso come «inglobante, mediatore e unificante»[119]. Le difficoltà di afferrarne l’essenza si proiettano inevitabilmente nella realtà che, per tale ragione, non è mai trasparente. Se da A deriva B, il problema della spiegazione di A non potrà che investire anche B, generando disordine. Sicché per tentare di spiegare questo mondo bisognerà, presto o tardi, risalire alla «migliore delle cause»[120] in cui ogni differenza si dissolve.

Tuttavia il rischio di tornare ad essere inascoltati dagli operatori della scienza giuridica era dietro l’angolo, a causa del poco credito che si è normalmente disposti a concedere all’impostazione metafisica dei problemi.

Con lo scopo di rimanere fedele all’originario intento di dialogo, Gentile scelse con cura le fonti dell’apparato bibliografico da proporre, per dimostrare come il reciproco scambio potesse continuare a maturare tra le due diverse facce della medesima medaglia giuridica. È il pensiero di Ulpiano, un giurista, che viene richiamato per argomentare sull’importanza, per la conoscenza (notitia) del diritto, dell’intreccio tra le cose umane e divine[121]. È con Schmitt, ancora un giurista (nonché scienziato della politica), che si sostiene che «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati»[122]. Ed è, in queste pagine nuove, sempre un giurista – peraltro pagano – come Cicerone a ricordare, con sorprendente nostalgia, l’antico costume di pregare il giudice richiamandolo alla sua coscienza, il dono più divino ricevuto dall’uomo[123].

Si voleva, in tal modo, denunciare l’insufficienza del collegamento tra la mera legalità e la giustizia terrena, dovendosi anche considerare l’aggiuntivo cammino che, dalla miscela di entrambe[124], conduce alla giustificazione del fenomeno giuridico, cioè ad «un vero che non ha contrari»[125]. L’immagine proposta delle tre «stanze» comunicanti – a comporre una «piramide», il cui vertice è dato dal problema metafisico del Tutto[126] – sembra rappresentare, più che il lascito conclusivo, la preziosa chiave per aprire la porta del futuro contraddittorio – anch’esso, in effetti, propriamente lo è – tra scienza e filosofia del diritto.

[1] F. Gentile, Il processo e la conversione del conflitto, in Aa.Vv., Il processo e la conversione del conflitto. Relazioni ed interventi dell’incontro di studi, nel trentesimo anniversario dell’omicidio di Fulvio Croce, a cura di A. Berardi, Cedam, Padova, 2009, p. 94.

[2] Per un completo approfondimento, cfr. F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Giuffrè, Milano, 1984², nonché M. Gentile, Ragione e intelligenza, Guida, Napoli, 1984.

[3] Così F. Puppo, La forma retorica del contraddittorio, in Aa.Vv., Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola, a cura di M. Manzin e F. Puppo, Giuffrè, Milano, 2008, p. 24.

[4] Auspicava una maggiore collaborazione tra la filosofia del diritto e la scienza giuridica anche G. Capograssi, Intorno al processo, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1938, p. 265. Contra, tra gli altri, V. Manzini, Trattato di diritto penale, vol. I, Utet, Torino, 1933, pp. 6-10.

[5] Così M. Gentile, Trattato di filosofia, Esi, Napoli, 1987, p. 18.

[6] S. Cotta, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1991², p. 83.

[7] Invero Platone «chiama con la parola lógos, tanto il discorso, definito come “la corrente che esce dall’anima per la bocca con un suono” (Soph. 263 e) quanto il pensiero, definito come “il dialogo dell’anima con sé stessa” (Soph. 264 a)». Così ricorda F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Cedam, Padova, 2001², p. 142.

[8] Alla dominante razionalità «lineare», fondata sulla sola identità, va allora preferita la trascurata razionalità «frattale» che, invece, considera anche la differenza: «quindi, rispetto ad A, soggetti diversi quali B o C ecc. non rappresentano necessariamente minacciose negazioni della sua esistenza, ma, piuttosto, elementi di confronto atti a meglio determinare ciò che A realmente sia: differenze che concorrono alla definizione di un’identità. Con l’apprezzabile conseguenza di evitare, da una parte, la frammentazione delle differenze (ognuna delle quali finirebbe per diventare un’identità assoluta di sé a se stessa) e, dall’altra, l’equalizzazione forzata delle differenze in un’unità fittizia – facendo così salvo il valore della relazione, con tutto quel che ne consegue sul piano della πόλις». Così M. Manzin, L’insostenibile irregolarità dell’essere. Argomentazione e “razionalità frattale”, in «Teoria e critica della regolazione sociale», n° 1, 2021, p. 7.

[9] G. Tracuzzi, Esistenza e possibilità. Contributo allo studio della completezza dell’ordinamento giuridico, Cedam, Padova, 2020.

[10] Così E. Opocher, voce Filosofia del diritto, in Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Giuffrè, Milano, 1968, p. 518. Cfr., altresì, A. Punzi, voce Filosofia del diritto, in Enciclopedia del diritto, vol. VI, aggiornamento, Giuffrè, Milano, 2002, pp. 1163-1176. Per un commento sul predetto aggiornamento di Pagallo (pro) e Casa (contra), si veda «L’Ircocervo. Prima rivista elettronica italiana di metodologia giuridica, Teoria generale del diritto e Dottrina dello Stato», n° 1, 2004, in http://www.lircocervo.it/.

La vocazione antifilosofica della giurisprudenza era già stata segnalata, tra gli altri, anche da A.E. Cammarata, Su le tendenze antifilosofiche della Giurisprudenza moderna in Italia, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1922, pp. 234-258. Il vero è che il problema dei rapporti tra la filosofia del diritto e la scienza giuridica resta ancora aperto, come osserva Casa nell’introduzione di un suo volume che contiene un’accurata ricostruzione storica sul punto. Cfr. F. Casa, Sulla giurisprudenza come scienza, I: un dibattito attraverso l’esperienza giuridica italiana nella prima metà del ventesimo secolo, Cedam, Padova, 2005, p. 1.

[11] «Del Vecchio è un professore di filosofia del diritto, uso perciò a dar valore speculativo alle distinzioni meramente pratiche e solo praticamente giustificabili dai giuristi e a riverire l’universale giuridico, come lo chiamano, un filosofico ircocervo, che sarebbe giuridico ma avrebbe un carattere etico, e che, in fondo, adempie al solo ufficio di fornire una base alle cattedre di filosofia del diritto». Così Benedetto Croce, come ricorda F. Gentile, Legalità, giustizia, giustificazione. Sul ruolo della filosofia del diritto nella formazione del giurista, Esi, Napoli, 2008, p. 18 (nota 23).

[12] «La sentenza di Croce, che fa riferimento ad una creatura chimerica, inesistente, ma anche ibrida, perché incrocio tra due animali, stigmatizza la filosofia del diritto come un campo di ricerca senza senso, che non ha ragione di esistere e comunque finisce per non essere niente di definito, perché non riconducibile alla filosofia, ma neppure al diritto». Così A. Scerbo, Attualità e centralità della filosofia del diritto all’alba del XXI secolo, in «Teoria e critica della regolazione sociale», n° 1, 2016, p. 79.

[13] Che, secondo la diversa interpretazione di Nitsch, «muove dai presupposti essenziali della Filosofia dello spirito, e alla luce di essi va inquadrata e discussa», per non raccontare «una storia falsa. Integralmente costruita sulla tradizione di un’idea malintesa e contraffatta». Così C. Nitsch, Dell’ircocervo, o di una storia fantastica della filosofia del diritto, in «Rivista di filosofia del diritto», n°2, 2021, pp. 437 e 440. Tuttavia l’intento gentiliano – come dimostrano i mancati approfondimenti della sua Scuola, denunciati dallo stesso Nitsch (pp. 433-434), sulla genesi della polemica crociana – ci sembra essere unicamente quello di muovere da una storia – «fantastica» o no, poco importa – per denunciare una reale tendenza giusfilosofica, che pare ancora verificabile oggigiorno. Insomma, non «una vuota convenzione» (p. 441), ma un’utile allegoria di quanto riscontrabile nell’esperienza. Prova ne è il fatto che mentre quasi nulla delle sue riflessioni Gentile ha dedicato al Croce (che, evidentemente, non era considerato un pericoloso nemico ma, più semplicemente, il padre di una diversa visione della disciplina), lo stesso non può dirsi con riferimento al ruolo della filosofia del diritto nella formazione del giurista.

[14] Cfr. A. Scerbo, Introduzione, in Aa.Vv., Teoria e prassi dell’esperienza giuridica. In ricordo di Francesco Gentile, a cura di A. Scerbo, Esi, Napoli, 2021, p. 5.

[15] Lo dimostra E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1993², pp. 3-20.

[16] F. Gentile, Legalità, giustizia, giustificazione, cit., pp. 11-12.

[17] Ivi, p. 16.

[18] Così E. Opocher, voce Esperienza giuridica, in Enciclopedia del diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano, 1966, p. 736.

[19] E. Ancona e M. Fracanzani, Struttura e svolgimento della quaestio. Suggerimenti per la composizione di una tesi forniti agli scolari di Teoria generale e Filosofia del diritto, Cusl, Padova, 1998.

[20] «Siamo convinti, infatti, che ogni struttura logica obbedisce a presupposti i quali, implicitamente o esplicitamente, rimandano ad una concezione dell’intero; qualora tali presupposti non siano messi in luce, neppure la presenza del sistema nella storia risulterà pienamente intellegibile». Così M. Manzin, Ordo iuris. La nascita del pensiero sistematico, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 143.

[21] Per una pregevole carrellata sulle teorie giuridiche fondate sul volontarismo, cfr. S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, cit., pp. 30-38.

[22] Così F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 60.

[23] P.B. Helzel, Il diritto ad avere diritti. Per una teoria normativa della cittadinanza, Cedam, Padova, 2005, p. 43 e ss.

[24] Si raggiunge certamente una prima méta allorquando le due facce – il perché e il come – della medesima medaglia della cultura giuridica si confrontano attorno ad una visione formalistica e normocentrica, ma è soltanto il dialogo tra le diverse sensibilità nella concretezza processuale a poter sottoporre a costante verifica il fenomeno giuridico, salvandoci dalle «spinte nichilistiche» che alimentano l’odierno relativismo. Cfr. M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense. Dieci riletture sul ragionamento processuale, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 110-115.

[25] F. Carnelutti, Principi del processo penale, Morano, Napoli, 1960, p. 1.

[26] Cfr. N. Irti, La formazione del giurista, in Aa. Vv., La formazione del giurista. Atti del Convegno. Roma, 2 luglio 2004, a cura di C. Angelici, Giuffrè, Milano, 2005, pp. 3-12.

[27] F. Gentile, voce Ragion di Stato, in Aa.Vv., Lessico della politica, a cura di G. Zaccaria, El, Roma, 1987.

[28] Contra N. Lipari, Ricordo di Enrico Opocher, in Aa.Vv., Omaggio ad un maestro. Ricordo di Enrico Opocher, a cura di G. Zaccaria, Cedam, Padova, 2006, p. 53.

[29] Così N. Irti, La formazione del giurista, cit., p. 11. Contra F. Puppo, Brevi note sull’educazione del giurista, in «Cultura e diritti», n° 2, 2014, pp. 38-39, nonché, in forma più distesa, Id. Metodo, pluralismo, diritto. La scienza giuridica fra tendenze “conservatrici” e “innovatrici”, Aracne, Roma, 2013, spec. parte prima, cap. terzo.

[30] Sembra essere proprio questa la domanda che ha guidato alcune osservazioni di V. Italia, L’anatomia delle leggi, Giuffrè, Milano, 2018.

[31] F. Carnelutti, voce Arte del diritto, in Enciclopedia del diritto, vol. III, Giuffrè, Milano, 1958, p. 130.

[32] Per cogliere il valore logico-razionale della retorica cfr., almeno, F. Cavalla, voce Logica giuridica, in Enciclopedia filosofica, 7, Bompiani, Milano, 2006, pp. 6635-6638.

[33] Sulla differenza tra verosimiglianza e verità, cfr. P. Calamandrei, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in «Rivista di diritto processuale», 1955, pp. 164-192.

[34] F. Gentile, Pensiero ed esperienza politica. Strumento didattico a cura di Francesco Gentile. Anno accademico 1980-1981 (IV ristampa con due appendici), Università degli studi di Napoli, Napoli, 1981, pp. 48-50.

[35] Così F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 23.

[36] In questo caso «il discorso sul bene comune sembra poggiare su basi solo nominalistiche e stipulative, tutto sommato ideologiche, che lo privano di significato e di statuto filosofici e lo rendono politicamente e giuridicamente marginale». Così P. Savarese, La sussidiarietà e il bene comune, Nuova cultura, Roma, 2018³, p. 99.

[37] Così E. Opocher, voce Filosofia del diritto, cit., p. 530.

[38] F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 10.

[39] G.P. Calabrò, Diritto alla sicurezza e crisi dello stato costituzionale, Giappichelli, Torino, 2003, p. 75.

[40] Così F. Carnelutti, Diritto e processo, in Trattato del processo civile, vol. I, Morano, Napoli, 1958, pp. VIII-IX e XVIII.

[41] Lo dimostra, attraverso una carrellata storica, V. Ferrari, Prima lezione di sociologia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 67-79.

[42] Così S. Satta, Il mistero del processo (testo di una conferenza tenuta nell’Università di Catania il 4 aprile 1949), ora in Id., Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994, pp. 15-16.

[43] La processualità del diritto non rivendica primati – pur storicamente rilevabili (si pensi, ad esempio, al caso del diritto romano) – sulla sfera sostanziale, ma va comunque riconosciuto come il fondamento della giuridicità. Cfr. E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, cit., pp. 293-294.

[44] «Ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia». Così Eraclito, frammento 24, ora in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Mondadori, Milano, 1993, p. 17.

[45] Così, riferendosi a Francesco Carnelutti, Vittorio Emanuele Orlando, come ricorda M. Orlandi, Carnelutti teorico generale, in Aa.Vv. Per Francesco Carnelutti. A cinquant’anni dalla scomparsa, a cura di G. Tracuzzi, Cedam, Padova, 2015, p. 169.

[46] Così F. Carnelutti, Come si fa un processo, Eri, Torino, 1954, p. 11.

[47] Così A. Panzarola, Una lezione attuale di garantismo processuale: le conferenze messicane di Piero Calamandrei, in «Rivista di diritto processuale», n° 1, 2019, p. 165, nonché, in forma più distesa, Id. Principi e regole in epoca di utilitarismo processuale, Cacucci, Bari, 2022, pp. 143 e ss.

[48] Il più importante collante tra diritto e processo «resta il giudizio, che – precedendola – fa nascere la legge, nonché rinascere con il tramite dell’ufficio del giudice. Sostenere che il diritto è essenzialmente processuale significa, pertanto, che lo stesso nasce come – e non dal – processo». Così G. Tracuzzi, Esistenza e possibilità, cit., p. 38. Sul tema cfr., altresì, G.P. Calabrò, Logica del giudizio e certezza giuridica, la responsabilità dell’interprete, in Aa.Vv., Processo, processi e rivoluzione tecnologica, a cura di A. Teliti e P. Laghi, Cedam, Padova, 2022, pp. 15 e ss.

[49] Considera giudizio e contraddittorio i momenti essenziali del processo, tra gli altri, anche G. Capograssi, Giudizio processo scienza e verità, in Opere, vol. V, Giuffrè, Milano, 1959, p. 71.

[50] Per un completo approfondimento sul punto, cfr. M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense, cit., pp. 123-134.

[51] Così A. Panzarola, Una lezione attuale di garantismo processuale, cit., p. 183.

[52] R. Paradisi, Il logos del processo, Giappichelli, Torino, 2015, p. 108 e ss.

[53] Per Cordero il contraddittorio è «imperfetto» se le persone coinvolte sono due e, invece, «perfetto» se risultano implicate tres personae. Cfr. F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2001⁶, p. 867.

[54] Sulla problematica distinzione fra discorsi «cooperativi» e «strategici» in ambito giudiziale, cfr. M. Manzin, Is the Distinction Between “Cooperative” and “Strategic” Crucial for Jurisprudence and Argumentative Theory?, in D. Mohammed, M. Lewinski (eds.), Argumentation and Reasoned Action. Proceedings of the 1st European Conference on Argumentation, Lisbon 2015, 1, College Publications, Milton Keynes (UK), 2016, pp. 129-133.

[55] L’originaria differenza tra ordine isonomico e ordine asimmetrico si deve ad A. Giuliani, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico: “nuova retorica” e teoria del processo, in «Sociologia del diritto», nn° 2-3, 1986, pp. 81 e ss.; Id., L’ordo judiciarius medioevale (riflessioni su un modello puro di ordine isonomico), in «Rivista di diritto processuale», 1988, pp. 598-614. Alcune fondamentali specifiche furono aggiunte da N. Picardi, voce Processo civile (diritto moderno), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVI, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 101-117. Una dettagliata ricostruzione sul punto è rinvenibile in A. Panzarola, Le ricerche sulla giustizia di Nicola Picardi, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», n° 4, 2017, spec. pp. 1183-1192. L’alternanza tra i due modelli processuali, del resto, è rinvenibile sin dai tempi antichi. Si pensi, ad esempio, alla visione monologica della verità processuale dell’Antigone a cui si contrappone quella controversiale rinvenibile, invece, nelle Eumenidi. Lo ricorda S. Fuselli, La verità nel processo. Percorsi di logica ed epistemologia, Franco Angeli, Milano, 2023, p. 12.

[56] Distingue tra il conflitto degli uomini primitivi e la controversia della società organizzata anche L. Rossi, voce Procedimento civile (forme del), in Digesto italiano, vol. XIX², Utet, Torino, 1925, p. 348.

[57]  A tal proposito va ricordato che, secondo Incampo, il riconoscimento dell’altro, così come il rispetto assoluto dell’innocente, devono porsi alla base della conoscenza dello strumento processuale. Cfr. A. Incampo, Metafisica del processo. Idee per una critica della ragione giuridica, Cacucci, Bari, 2016², p. 109.

[58] S. Cotta, Perché la violenza? Un’interpretazione filosofica, Japadre, L’Aquila, 1978, spec. pp. 57-74.

[59] Basti pensare che Jedem das seine (a ciascuno il suo) era l’insegna affissa sul cancello d’ingresso del campo di concentramento nazista di Buchenwald.

[60] Si pensi al romanzo di denuncia civile di L. Sciascia, A ciascuno il suo (1966), Adelphi, Milano, 1988.

[61] Così F. D’Agostino, Corso breve di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2011, p. 84.

[62] F. Gentile, Il processo e la conversione del conflitto, cit., p. 98.

[63] F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 47. Sul punto cfr., altresì, P. Sommaggio, Il contraddittorio come criterio di razionalità del processo, in Aa.Vv., Audiatur et altera pars, cit., pp. 191 e ss.

[64] Così N. Picardi, La dichiarazione di fallimento. Dal procedimento al processo, Giuffrè, Milano, 1974, pp. 162-163.

[65] F. Carnelutti, Principi del processo penale, cit., pp. 8-11.

[66] P. Savarese, Il diritto nella relazione, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 178-187.

[67] Così S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, cit., p. 61.

[68] Ivi, pp. 54-64.

[69] Non a caso Unicuique suum è uno dei due motti – insieme a Non praevalebunt – scelti per la prima pagina dell’Osservatore romano.

[70] F. Gentile, Legalità, giustizia, giustificazione, cit., p. 145.

[71] S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, cit., p. 144.

[72] L. Scillitani, Il problema filosofico dell’infinito e il diritto. Spunti di lettura, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2018, p. 12.

[73] «[I]l problema metafisico si pone come lo stesso problema dell’esperienza; in quanto l’esperienza è quell’insieme delle conoscenze particolari e puntuali, che, per il fatto stesso di costituirsi in un insieme, pone una domanda e una difficoltà nuove». Così M. Gentile, Come si pone il problema metafisico, Liviana, Padova, 1955, p. 55.

[74] A. Panzarola, Processo, procedimento e iudicium (brevissime osservazioni a margine di una celebre dottrina), in Aa.Vv., Procedimento e processo. Metodi di ponderazione di interessi e risoluzione di conflitti, a cura di R. Martino, A. Panzarola e M. Abbamonte, Giuffrè, Milano, 2022, p. 414.

[75] «Nell’attivare il dinamismo della giustizia commutativa, il giudice ha bisogno non solo del legislatore che attraverso la giustizia distributiva tende al bene comune, ma anche dell’avvocato che attraverso la giustizia commutativa tende all’interesse privato. Il giudice, che sta nel mezzo, deve assolutamente realizzare la complementarietà delle due forme di giustizia». Così F. Gentile, Filosofia del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi, Cedam, Padova, 2006, p. 149.

[76] Sul punto si veda il «discorso unitario» delle sei Lezioni messicane di Piero Calamandrei (tenutesi dal 14 al 28 febbraio 1952), lucidamente analizzate da A. Panzarola, Una lezione attuale di garantismo processuale, cit., spec. pp. 176-177. L’intuizione del Maestro fiorentino è stata successivamente collaudata attraverso quelle disposizioni – quali, ad esempio, gli artt. 101 comma 2°, 183 comma 4°, 384 comma 3° del Codice di procedura civile – secondo cui il contraddittorio deve intendersi come uno strumento operativo di cui il giudice deve servirsi quando esercita legittimamente un suo potere, pena l’invalidità – a certe condizioni – della decisione. Occorre precisare che, secondo la Cassazione (Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2013, n° 25054), anche nel sistema antecedente all’introduzione – nel 2009 – del secondo comma dell’art. 101, il dovere costituzionale di evitare le cosiddette pronunce “a sorpresa” o della “terza via” – in palese violazione del principio del contraddittorio – aveva un preciso fondamento normativo, rinvenibile nell’art. 183, che fa carico al giudice di indicare alle parti «le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione».

[77] Lo ricorda C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, Giappichelli, Torino, 2012², p. 43.

[78] M. Manzin, Dalle norme codificate al diritto “liquido”: effetti della secolarizzazione sul ragionamento processuale, in Aa.Vv., Diritto e secolarizzazione. Studi in onore di Francesco D’Agostino, a cura di S. Amato, A.C. Amato Mangiameli, L. Palazzani, Giappichelli, Torino, 2018, p. 329. Alcuni studiosi definiscono questa situazione «trilogo argomentativo». Così Ch. Plantin, Le trilogue argumentatif. Présentation de modèle, analyse de cas, in Langue Française, 112, 1996, pp. 9-30.

[79] «Desiderare e considerare sono due opposti atteggiamenti di fronte alle stelle (desiderium, da sidus; ma il de, in confronto del con, indica privazione); c’è proprio il motivo del volgersi verso il basso o verso l’alto». Così F. Carnelutti, Tempo perso, Sansoni, Firenze, 1963, p. 26.

[80] F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 38. Si tratta, secondo Manzin, di fattori di natura emozionale (pathos), che la retorica deve – per forgiare un “luogo argomentativo” forte – saper riunire con quelli etici (ethos) e logici (logos). Invero il retore deve essere, oltre che “dicendi peritus”, anche “vir bonus”. Cfr. M. Manzin, Dalle norme codificate al diritto “liquido”, cit., p. 327.

[81] Così F. Gentile, Filosofia del diritto, cit., p. 199 (corsivo nostro).

[82] F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., pp. 35-37.

[83] F. Gentile, Politica aut/et statistica. Prolegomeni di una teoria generale dell’ordinamento politico, Giuffrè, Milano, 2003, p. 226.

[84] F. Carnelutti, La storia e la fiaba, Tumminelli, Roma, 1945, p. 144.

[85] Così si legge anche nell’Antico Testamento, come ricorda M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense, cit., p. 128.

[86] Così Platone, Repubblica, IV (431 a), ora in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2008, pp. 1167-1171.

[87] Platone, Leggi, IV (718 e), cit., p. 1537.

[88] F. Gentile, Filosofia del diritto, cit., pp.  201-202.

[89] Così Platone, Leggi, I (626 e), cit., p. 1462.

[90] F. Gentile, Filosofia del diritto, cit., p. 202.

[91] Lo ricorda, meditando il pensiero di Eraclito, F. Cavalla, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Cedam, Padova, 1996, p. 152.

[92] Per cogliere le problematiche legate alla penetrazione dell’intelligenza artificiale nel processo, cfr. A. Panzarola, Processo, procedimento e iudicium, cit., pp. 411-423.

[93] Sul punto si veda la “brillante” suggestione rinvenibile in F. Carnelutti, Figure del vangelo, Sansoni, Firenze, 1958, pp. 61-62.

[94] «In altri termini, ciò che costituisce primariamente ogni ente è l’appartenenza ad un mondo che è originariamente disposto a comparire solo là dove si dipani il linguaggio». Così F. Cavalla, La verità dimenticata, cit., p. 129.

[95] «[C]osì la legge, con la sua fissità interlocutoria, esercita la funzione di modello per l’azione umana, nel senso che l’uomo trova nella legge, in cui si sono raccolti i tratti qualificanti di un rapporto, le indicazioni utili per disporsi alla relazione con gli altri». Così F. Gentile, come riportato in G. Marini, Giudice regale. L’ordinamento giuridico italiano tra certezza e giustizia, Esi, Napoli, 1995, p. 135 (nota 13).

[96] Platone, Politico (278 c), cit., p. 337.

[97] Platone, Cratilo (440 a), cit., p. 182.

[98] La sintassi della lingua giuridica non va, per quanto detto, intesa «come discorso sviluppatosi in funzione di alcuni principi dati e non discussi». Così F. Gentile, Pensiero ed esperienza politica, cit., p. 67.

[99] Così F. Gentile, Il processo e la conversione del conflitto, cit., p. 98.

[100] «La differenza tra predicati contrari e predicati contraddittori è che tutti i predicati contrari appartengono allo stesso genere». Così G. Pasquale, Il principio di non-contraddizione in Aristotele, Bollatti Boringhieri, Torino, 2008, p. 20.

[101] Così F. Carnelutti, Diritto e processo, cit., p. 25.

[102] Ivi, pp. 4 e 25.

[103] Si tratta di una delle dinamiche emotive dell’unico dello stato di natura roussoniano, come ricorda F. Gentile, Filosofia del diritto, cit., p. 73.

[104] «Più di cento sono le vere e proprie corti; a queste bisogna aggiungere organismi quasi giudiziari o semi-contenziosi, variamente denominati, ormai presenti in molti dei circa duemila regimi regolatori globali». Così S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Roma, 2009, p. 4.

[105] Così M.M. Fracanzani, L’identità. Diritti fondamentali fra Corti europee e Pubblica amministrazione, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 78.

[106] Ivi, pp. 79-80.

[107] F. Carnelutti, Cenerentola, in «Rivista di diritto processuale», 1946, p. 77.

[108] M.M. Fracanzani, L’identità, cit., pp. 81, 84 e 91.

[109] Per cogliere la differenza tra processo e procedimento, cfr. E. Fazzalari, voce Processo (teoria generale), in Novissimo Digesto Italiano, vol. XIII, Utet, Torino, 1966, p. 1072. Contra M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 827 e ss.

[110] Invero è proprio il contraddittorio «l’elemento di discriminazione» tra procedimento e processo. Così N. Picardi, La dichiarazione di fallimento, cit., p. 163.

[111] R. Martino, Prefazione, in Aa.Vv., Procedimento e processo, cit., pp. VII-XX, a cui si rinvia anche per il completo apparato bibliografico sul punto.

[112] Per maggiori riferimenti sulla differenza tra la concezione soltanto formale (o debole) e quella sostanziale (o forte) del contraddittorio, cfr. A. Panzarola, Alla ricerca dei substantialia processus, in «Rivista di diritto processuale», n° 3, 2015, p. 692. Non pare, tuttavia, condivisibile richiamare le analogie tra gioco e processo per «la ricostruzione del contraddittorio in senso debole come principio logico formale». Così, ricordando il pensiero di Picardi, A. Panzarola, Le ricerche sulla giustizia di Nicola Picardi, cit., p. 1190 (nota 85). Invero la relazione ludica, pur ponendo i giocatori su un piano iniziale di parità, è «sublimazione del conflitto». Così S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, cit., p. 137. Nel gioco, a differenza del processo, non vi deve essere necessariamente una giustificazione logico-argomentativa delle decisioni dell’arbitro. Cfr. M. Manzin, Dalle norme codificate al diritto “liquido”, cit., p. 331.

[113] P. Calamandrei, Processo e democrazia, ora in Opere giuridiche, vol. I, Morano, Napoli, 1965, p. 682.

[114] F. Gentile, Il processo e la conversione del conflitto, cit., p. 98.

[115] Ivi, p. 99.

[116] Ivi, p. 102.

[117] Sul punto cfr. G. Tracuzzi, Unum esse, in Aa.Vv., La filosofia del diritto di Francesco Carnelutti, a cura di G. Tracuzzi, Cedam, Padova, 2019, p. 125.

[118] Per cogliere la medietà e l’articolazione della dóxa in Platone, cfr. S. Fuselli, La verità nel processo, cit., pp. 60-74.

[119] Così S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, cit., p. 154.

[120] Così Platone, Timeo (29 a), cit., p. 1362.

[121] «Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia» (D.1, 1, 10). Cfr. F. Gentile, Legalità, giustizia, giustificazione, cit., p. 71.

[122] Ibidem (corsivo nostro).

[123] Ivi, p. 76. Alla coscienza del giudice, che deve essere illuminata dal contraddittorio tra le parti, sembra riferirsi anche F. Carfora, voce Procedura penale, in Digesto italiano, vol. XIX², Utet, Torino, 1925, p. 467.

[124] Del resto, anche secondo Cotta, la giustizia può essere formulata dall’uomo unicamente in termini trascendentali o formali. Cfr. S. Cotta, voce Diritto naturale, in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Giuffrè, Milano, 1964, p. 649.

[125] Così S. Fuselli, La verità nel processo, cit., p. 15.

[126] Cfr. F. Gentile, Legalità, giustizia, giustificazione, cit., pp. 83-85.