Conversione del rito (da ordinario a semplificato) per chiamata in causa del terzo. Prime applicazioni del novellato art. 183-bis c.p.c. (Trib. Piacenza, 1° maggio 2023).

Di Biagio Limongi -

1. Come è noto, il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, ha introdotto nel libro II del codice di rito quattro disposizioni (art. 281-decies – 281-terdecies c.p.c.), a disciplinare un nuovo rito in primo grado: il semplificato di cognizione[1]. Si è preso a modello il rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e ss., inserito tra i procedimenti speciali dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, e ora abrogato.

L’art. 702-ter, comma 3, c.p.c. dettava la disciplina del passaggio dal rito sommario all’ordinario: era stabilito che il giudice, ritenendo che «le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria», dovesse fissare, con ordinanza non impugnabile, l’udienza ex art. 183 c.p.c., trovando applicazione da quel momento in poi le disposizioni del rito ordinario. La scelta dell’attore di introdurre la causa nelle forme del procedimento sommario, essenzialmente libera entro il campo d’applicazione di tale rito[2], era così assoggettata al controllo del giudice, il quale, azionando lo “scambio” dell’art. 702-ter, comma 3, c.p.c., poteva deviare la controversia sul binario del rito ordinario, ritenuto nel caso concreto più adatto[3].

Fino al 2014 la comunicazione tra i due riti era a senso unico: non esisteva infatti una norma speculare all’art. 702-ter c.p.c. che consentisse il passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Con il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modif. in l. 10 novembre 2014, n. 162, venne introdotto l’art. 183-bis c.p.c. – significativamente collocato subito dopo la disposizione che regola l’udienza di trattazione del processo ordinario – il quale stabiliva che in tale udienza il giudice, «valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria», potesse disporre il passaggio al rito sommario di cognizione: si stabiliva così la piena intercomunicabilità tra i due procedimenti; alla possibilità che la forma sommaria venisse prescelta dall’attore, si aggiungeva quella della conversione disposta dal giudice, avuto riguardo alla complessità dell’istruttoria[4].

L’abrogazione del rito sommario e la contestuale nascita del semplificato – frutti della recente riforma del processo civile – hanno comportato anche la riscrittura delle due disposizioni ora menzionate. Il nuovo art. 281-duodecies c.p.c., al comma 1, ha preso il posto del vecchio 702-ter, comma 3, c.p.c. (ma è bene avvertire subito che il contesto parrebbe notevolmente cambiato, perché il legislatore del 2022 ha previsto l’“obbligatorio” utilizzo del procedimento semplificato quando la domanda presenti determinate caratteristiche[5]).

L’art. 183-bis c.p.c. è stato a sua volta integralmente sostituito. Il nuovo testo recita: «All’udienza di trattazione il giudice, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria e sentite le parti, se rileva che in relazione a tutte le domande proposte ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’art. 281-decies, dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato e si applica il comma quinto dell’articolo 281-duodecies».

2. Il provvedimento in epigrafe[6] è fra i primi a dare applicazione al nuovo testo dell’art. 183-bis c.p.c. Esso offre l’occasione di svolgere alcune considerazioni sulla disciplina della conversione dal rito ordinario al rito semplificato; ma prima deve essere affrontato un punto preliminare, attinente all’entrata in vigore delle nuove disposizioni sul processo civile.

L’art. 35, d.lgs. 149 del 2022, nella formulazione come modificata dalla l. 29 dicembre 2022, n. 197 (Legge di bilancio per l’anno 2023), stabilisce che le disposizioni del decreto, salvo che non sia diversamente previsto, «hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti»[7].

Nel caso di specie, emerge dal provvedimento che il giudizio era stato introdotto con atto di citazione notificato il 20 febbraio 2023 ed era stato iscritto al ruolo il successivo 6 marzo. Il Tribunale richiama l’art. 39 c.p.c., u.c., in ragione del quale la pendenza della lite è determinata dalla notificazione dell’atto introduttivo, ma ritiene che sia preferibile una diversa interpretazione. In particolare, si sostiene che con l’inciso «ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti», contenuto nell’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 149 del 2022, il legislatore avrebbe inteso indicare esclusivamente i procedimenti già pendenti, purchè «a rapporto processuale già delineato, vale a dire con il contraddittorio ritualmente già instaurato quantomeno nei confronti del convenuto». Il Tribunale conclude che la causa debba essere trattata secondo la nuova disciplina del rito ordinario di cognizione: interpretazione ritenuta «più coerente con lo spirito della riforma e con l’intenzione del legislatore», in quanto sarebbe dubbio che il legislatore, con l’art. 35 citato, abbia inteso valorizzare la distinzione tra instaurazione e pendenza, ritenuta «foriera di problemi interpretativi e applicativi».

La tesi fatta propria dal Tribunale non è condivisibile[8]. Appare infatti più corretto ritenere che utilizzando il termine «instaurazione» il legislatore abbia voluto riferirsi al momento della notificazione dell’atto di citazione, ovvero quello del deposito del ricorso; nozione, in sostanza, non diversa da quella fatta propria dall’art. 39, u.c., c.p.c.[9] Il periodo immediatamente successivo dell’art. 35, comma 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, come precisa la Relazione illustrativa, starebbe soltanto a «fugare possibili dubbi interpretativi» sul fatto che nei procedimenti già «pendenti» alla data del 28 febbraio – la relazione illustrativa fa naturalmente riferimento alla data del 30 giugno – trovano applicazione le disposizioni previgenti[10].

Sicchè deve ritenersi che nel caso di specie il giudizio fosse soggetto alle disposizioni codicistiche nella loro formulazione antecedente alla riforma Cartabia e non poteva farsi applicazione dell’art. 183-bis c.p.c. nel testo introdotto dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149.

Fatta questa necessaria premessa, il provvedimento è d’interesse perché affronta non solo varie questioni in tema di conversione del rito ope iudicis poste dalla nuova disciplina degli artt. 183-bis e 281-decies c.p.c. e ss., ma anche il tema della concreta compatibilità del nuovo rito ordinario con i processi in cui la pluralità di parti si realizza tramite la chiamata in causa.

3. Nel caso di specie era accaduto che il convenuto, costituendosi, aveva chiamato un terzo in garanzia. Il giudice – sempre sul presupposto della soggezione del giudizio al rito ordinario riformato – ha ritenuto che da ciò derivasse il pericolo della «moltiplicazione esponenziale delle memorie ex art. 171-ter c.p.c.», in quanto i termini previsti ad hoc dalla nuova disposizione decorrono nuovamente ogni volta che venga disposto il differimento dell’udienza ex art. 183 c.p.c.

Questo, in estrema sintesi, il quadro normativo. L’art. 269 c.p.c., come modificato dal d.lgs. 149 del 2022, richiede che il terzo venga citato nel rispetto dei termini dell’art. 163-bis c.p.c. e che a tal fine il giudice fissi una nuova udienza, su istanza del convenuto da proporsi nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Lo stesso accade se è l’attore a voler chiamare il terzo in causa, ciò che è possibile, nel nuovo rito, con la prima memoria integrativa ex art. 171-ter c.p.c., quando a seguito delle difese svolte dalla controparte nella comparsa di risposta, sorge l’interesse ad effettuare la chiamata. L’ultimo comma dell’art. 269 c.p.c. precisa, da un lato, che restano ferme per le parti le preclusioni maturate prima della chiamata del terzo; dall’altro, che i termini per le memorie 173-ter c.p.c. decorrono nuovamente a ritroso dall’udienza fissata per la citazione del terzo.

Nella paventata reiterazione delle memorie il giudice ravvisa «un andamento processuale del tutto incompatibile con i canoni di ordinata gestione del processo, di lineare instaurazione del contraddittorio […] nonché con il principio di ragionevole durata del processo, risultando la auspicabilmente definitiva udienza di trattazione fissata a mesi se non anni di distanza da quella individuata in citazione». Ci si chiede, anzitutto, se sia possibile evitare questo meccanismo: in altri termini, se la formulazione delle nuove disposizioni consenta di inibire il deposito delle memorie ex art. 171-ter c.p.c. o «comunque di escludere che dia luogo a decadenze l’omesso deposito di una o più delle memorie ex art. 171-ter c.p.c., ove tale deposito sia destinato a ripetersi per la decorrenza ex novo in base all’art. 269 c.p.c.». Ma questa soluzione viene scartata, attesa l’obbligatorietà (e l’automaticità) del decorso dei termini[11].

Sicchè, la necessità di «disporre la trattazione secondo forme processuali ragionevoli e idonee a consentire una efficace instaurazione del contraddittorio nel caso di chiamata di terzo» viene perseguita disponendo la conversione del rito ordinario in rito sommario.

4. È bene svolgere subito qualche riflessione attorno all’intervento riformatore in materia di chiamata del terzo, che ad avviso di molti commentatori effettivamente solleva delle perplessità.

Questa la disciplina risultante dalla riforma. In continuità con il regime precedente, il convenuto può instare per la chiamata del terzo con la comparsa di risposta, a pena di preclusione (artt. 167, comma 3 e 269, comma 2, c.p.c.); con la stessa deve chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza fissata dall’attore: la data della nuova udienza sarà stabilita in modo da consentire la citazione del terzo chiamato all’udienza nel rispetto dei termini di cui all’art. 163-bis c.p.c. (art. 269, comma 2, c.p.c.), e cioè deve decorrere termine libero di non meno di centoventi giorni tra la data della notificazione della citazione al terzo ad opera del convenuto e la data dell’udienza.

Il giudice istruttore deve disporre lo spostamento dell’udienza in occasione delle verifiche preliminari (art. 269, comma 2, c.p.c.) ex art. 171-bis c.p.c. e cioè entro quindici giorni dalla scadenza del termine per la costituzione tempestiva del convenuto[12]. Secondo la nuova scansione procedimentale, dunque, il provvedimento di fissazione della nuova udienza per consentire la citazione del convenuto dovrebbe[13] intervenire in un momento nel quale le parti non si saranno scambiate nessuna delle memorie integrative di cui all’art. 171-ter c.p.c. (la prima deve essere depositata «almeno quaranta giorni prima dell’udienza di cui all’art. 183[14]»). Quando sarà emesso il decreto, i termini a ritroso dell’art. 171-ter c.p.c. decorreranno dalla data della nuova udienza (mentre i precedenti termini, calcolati in base all’udienza fissata in citazione, non avranno più alcun rilievo): sicchè in questo caso non dovrebbe esservi reiterazione delle difese, né quindi spreco di attività difensive.

Decisamente problematica è invece l’ipotesi in cui sia l’attore a chiedere di chiamare un terzo in causa, ciò che è possibile se l’esigenza sorge dalle difese del convenuto. L’attore deve fare istanza di chiamata del terzo con la prima delle tre memorie integrative, a pena di preclusione non oltre quaranta giorni prima dall’udienza ex art. 183 c.p.c. In questo caso il provvedimento giudiziale di autorizzazione, con fissazione della nuova udienza, arriverà soltanto all’udienza, e cioè dopo che le parti si saranno scambiate tutte le memorie. L’art. 269, u.c., c.p.c. detta la regola: «nell’ipotesi prevista del terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni maturate anteriormente alla chiamata in causa del terzo e i termini indicati dall’artico 171-ter decorrono nuovamente rispetto all’udienza fissata per la citazione del terzo». In questa circostanza emerge davvero il pericolo paventato nel provvedimento in epigrafe: se la chiamata è effettuata dall’attore, l’intero scambio di memorie non potrà che ripetersi per consentire l’interlocuzione tra il terzo e le parti originarie[15].

Certamente il terzo avrà a disposizione i tre termini di cui all’art. 171-ter c.p.c. Per quanto riguarda le parti, è da chiedersi se esse possano depositare nuovamente gli scritti difensivi, anche alla luce della previsione per cui «restano ferme le preclusioni maturate anteriormente alla chiamata in causa del terzo». La disposizione non di è di facile decodificazione: sicuramente le parti originarie hanno diritto a depositare le memorie per esercitare il contraddittorio nei confronti del terzo, il riferimento alle preclusioni maturate dovendo riferirsi alle sole attività difensive svolte nei confronti dell’altra parte originaria. Ma probabilmente anche questa soluzione attende di essere confermata, volta a volta, in base alla concreta dinamica del processo[16].

Una situazione analoga a quella descritta – in cui, cioè, lo scambio di memorie “anticipate” è destinato ad essere ripetuto – si verifica quando il terzo chiamato (dall’attore, dal convenuto o dal giudice ex art. 107 c.p.c.) intenda a sua volta chiamare un terzo: a norma dell’art. 271 c.p.c. egli ne deve fare dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta «ed essere poi autorizzato dal giudice ai sensi del terzo comma dell’articolo 269» (art. 271 c.p.c.)[17]. Anche in questo caso, dunque, l’autorizzazione alla chiamata arriverà soltanto all’udienza, e cioè dopo che siano decorsi (eventualmente: decorsi nuovamente) i termini di cui all’art. 171-ter c.p.c. (art. 269, comma 5, c.p.c., che regola «l’ipotesi prevista dal terzo comma» del medesimo articolo)[18]. Circostanze analoghe dovrebbero verificarsi pure se il giudice dispone, all’udienza, la chiamata del terzo ex art. 107 c.p.c.; anche se l’art. 270 c.p.c. è rimasto immutato e non richiama i termini di cui all’art. 171-ter c.p.c., è verosimile che anche in questo caso il contraddittorio debba ripetersi pure nei confronti del terzo chiamato: i termini si calcoleranno a ritroso rispetto all’udienza fissata dal giudice per la citazione del terzo[19].

È da condividersi, dunque, il rilievo che nei processi con pluralità di parti, quando il cumulo sia realizzato attraverso la chiamata in causa, l’aver anticipato lo scambio di scritti difensivi rispetto all’udienza non si rivela funzionale all’economia processuale, dando luogo ad uno scambio di memorie a ripetizione[20], generando pure qualche incertezza sulle attività che le parti originarie – considerato l’operare delle preclusioni – possono svolgere negli scritti quando questi ultimi debbano essere “rinnovati”[21]. Con esito un po’ paradossale: se, da un lato, il rito semplificato di cognizione è stato disegnato per le liti meno complesse, dall’altro, il rito ordinario mostra gli inconvenienti di cui si è detto proprio nei processi soggettivamente cumulati, cioè in controversie che verosimilmente presentano complessità maggiori. In altri termini – e precisando subito che non si intende sostenere che i processi con pluralità di parti non possano essere trattati anche nelle forme del semplificato (v. infra, §7) – il nuovo rito ordinario manifesta svantaggi in una di quelle circostanze in cui il semplificato potrebbe essere parimenti inadeguato ad “ospitare” la controversia.

5. E infatti, nel provvedimento in epigrafe, la valutazione circa l’insussistenza di profili di complessità della lite si unisce alla considerazione che la conversione in rito sommario risponda «al miglior interesse di tutte le parti alla più sollecita ed efficiente trattazione della causa». In altri termini, al Tribunale di Piacenza sembra che soltanto convertendo il rito da ordinario a semplificato sia possibile gestire razionalmente la causa, perché si evita «quell’abnorme, esponenziale moltiplicazione di memorie ex art. 171-ter c.p.c. che oggettivamente complica la trattazione in assenza di una apprezzabile contropartita, rectius di utilità ed economia processuale».

Senonchè, affinchè la conversione del rito possa essere disposta, occorre forzare il dato normativo sotto un altro profilo. L’art. 183-bis c.p.c., infatti, radica la decisione del giudice di disporre la conversione del rito in un momento preciso: e cioè all’udienza di trattazione. La disposizione restituisce chiaramente l’idea che il potere giudiziale di disporre la conversione, da esercitarsi sui parametri della complessità della lite e dell’istruzione probatoria, debba essere vagliata nel contraddittorio con le parti: non soltanto il momento in cui il provvedimento può essere adottato – appunto l’udienza 183 c.p.c. – è intrinsecamente vocato al contraddittorio, ma la norma specifica altresì che il giudice debba sentire le parti prima di provvedere[22]. Si noti pure che anche nel vecchio testo dell’art. 183-bis c.p.c., quando cioè il rito “di arrivo” era il sommario ex art. 702-bis c.p.c., si faceva espressamente precedere l’assunzione del provvedimento dal contraddittorio «anche mediante trattazione scritta»[23].

Orbene, osserva il Tribunale che a voler prestare ossequio alla lettera della disposizione, il passaggio del rito si verificherebbe «a danno processuale già prodottosi». Sicchè ritiene, a pena di veder frustrato lo stesso scopo per cui si è determinato a mutare il rito, di poter disporre il passaggio anche prima dell’udienza e anche in assenza di contraddittorio su tale punto: la necessità di interloquire con le parti è superata perché non è «agevolmente ravvisabile una lesione del diritto di difesa ad opera di un provvedimento che in luogo di un rito ingestibile opti per uno più celere ed efficace, che di per sé tutela maggiormente le parti»; e aggiunge che non è da escludersi, ove sopravvengano ragioni di complessità della lite, che sia adottato in seguito provvedimento di senso uguale e contrario, con ritorno al rito ordinario.

Infine, occorre stabilire come si innesti, fuori dall’udienza, un provvedimento (l’ordinanza che dispone la conversione, appunto) che il legislatore ha collocato all’udienza anche dal punto di vista “dinamico”. L’art. 183-bis c.p.c., infatti, richiama direttamente l’applicazione dell’art. 281-duodecies, comma 5, c.p.c. («Se non provvede ai sensi del secondo [chiamata in causa del terzo con fissazione di nuova udienza] e del quarto comma [autorizzazione allo scambio di memorie dopo l’udienza] e non ritiene la causa matura per la decisione il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione»), il quale sembra presuppore che il problema della chiamata del terzo sia stato già “gestito” e che le attività previste per l’udienza di trattazione – su tutte fissazione di thema decidendum e thema probandum – siano già state espletate[24]. Così, il Tribunale afferma che il richiamo all’art. 281-duodecies c.p.c. debba estendersi all’articolo nella sua interezza e, dunque, in applicazione del secondo comma, autorizza la chiamata e fissa l’udienza assegnando termini di rito per la costituzione del terzo.

6. Che l’art. 183-bis c.p.c., per come congegnato, presenti il rischio di restare scarsamente applicato, è, in effetti, opinione condivisa da molti[25]. Appare problematico, ancorchè per ragioni diverse rispetto a quelle esposte dal Tribunale, il fatto che il provvedimento di conversione sia da adottarsi all’udienza. Infatti, le più significative differenze tra il rito ordinario e il rito semplificato, come disciplinati dopo il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, si collocano proprio nella fase precedente all’udienza: basta notare che la disciplina del rito semplificato non reca praticamente alcuna disposizione per l’istruzione probatoria, limitandosi l’art. 281-duodecies, comma 5, c.p.c., a prevedere che il giudice «ammette» i mezzi di prova «rilevanti» e «procede alla loro assunzione». Quanto alla fase decisoria, il rito semplificato adotta come modello unico quello dell’art. 281-sexies c.p.c., se la causa è a trattazione monocratica, o l’art. 275-bis c.p.c. se è collegiale. Disposizioni che sono destinate – quantomeno nell’intenzione del legislatore – ad essere applicate in modo esteso anche nel rito ordinario[26].

Dunque, appare giustificato chiedersi a quale fine il giudice dovrebbe, all’udienza ex art. 183 c.p.c., disporre la conversione del rito, se nulla cambia in punto di svolgimento dell’istruttoria[27] e anche in difetto avrebbe possibilità di instradare la causa, secondo il suo discrezionale apprezzamento, verso la decisione nelle forme del 281-sexies c.p.c. Si è quindi ragionevolmente profetizzato che la disposizione rimanga praticamente lettera morta.

Potrebbe proporsi, dunque, come in effetti fa il provvedimento che qui si annota, un’interpretazione correttiva dell’incipit dell’art. 183-bis c.p.c. che consenta al giudice di adottare l’ordinanza di conversione fuori udienza, magari in uno all’emissione del provvedimento ex art. 171-bis c.p.c., in limine litis, prima ancora che siano maturate le preclusioni delle memorie integrative. In questo modo, la conversione avrebbe maggior pregnanza, perché inciderebbe profondamente sulla fase introduttiva, anticipando l’udienza d’incontro tra le parti e il giudice e, soprattutto, inibendo lo scambio di memorie.

Sembra però che a sfavore di questa tesi militino alcuni argomenti di rilievo, oltre al chiaro tenore letterale della disposizione[28]. In primo luogo, la necessità che sulla conversione sia provocato il contraddittorio: nell’esercizio dei poteri assegnatigli dall’art. 171-bis c.p.c. il giudice agisce in solitudine[29] e al più il convenuto, nella comparsa di risposta, potrà aver preso posizione sull’adeguatezza del rito prescelto dall’attore, in tal caso instando per la conversione. Anzi, proprio l’art. 171-bis c.p.c. conferma la necessità che il giudice sottoponga al contraddittorio la questione della conversione del rito, prevedendo che «il giudice […] indica alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, anche con riguardo […] alla sussistenza dei presupposti per procedere con rito semplificato». Si potrebbe anche ammettere che il giudice, sollevata in quei termini la questione, possa adottare l’ordinanza di conversione fuori udienza, dopo il primo termine 171-ter c.p.c., cosicché da un lato le parti hanno modo di prendere posizione sul punto, dall’altro si evita un in tesi superfluo scambio delle memorie. Ma anche questa ipotesi – oltre a sembrare esclusa da una serie di dati normativi[30] – presta il fianco ad un’obiezione: va infatti considerato che in tale momento ancora non sono precisati il thema decidendum e, soprattutto, il thema probandum. È noto infatti che con la seconda memoria è possibile dare ingresso a nuove eccezioni (con riferimento alle domande proposte nella prima memoria); e soprattutto è soltanto con la seconda e la terza memoria che le parti devono indicare, a pena di decadenza, i mezzi istruttori di cui intendono avvalersi. Sicchè consentendo che sia disposto il mutamento del rito prima che sia terminata l’attività assertiva e compiute le richieste istruttorie, il provvedimento di conversione verrebbe emesso senza avere alle spalle un quadro completo della «complessità della lite e dell’istruzione probatoria», parametri sui quali deve fondarsi la valutazione giudiziale[31]. Salvo ammettere, come in effetti fa il provvedimento in epigrafe, che la conversione del rito potrebbe essere poi sconfessata in qualunque momento, se la valutazione prognostica dovesse essere ribaltata dagli sviluppi successivi della contesa: ma un processo che passa più volte da un rito all’altro non sembra una soluzione appagante[32].

7. Il provvedimento qui annotato ha dato l’occasione per segnalare gli inconvenienti cui il nuovo rito ordinario dà luogo in caso di pluralità di parti. Ne esce confermata l’autorevole opinione secondo cui il novello rito semplificato è benvenuto «poiché sicuramente più razionale e lineare rispetto a quello ordinario»[33]. È chiaro, però, che il rito semplificato intanto potrà essere una soluzione alle complicazioni evidenziate, in quanto la controversia si presti ad essere trattata in tali più snelle forme.

Il nuovo rito è compatibile con la pluralità di parti (lo era anche il vecchio sommario, che all’art. 702-bis, u.c., c.p.c., consentiva la chiamata ancorchè soltanto «in garanzia»[34]): lo presuppongono gli artt. 281-undecies, comma 5, e 281-duodecies, comma 2, c.p.c. Occorre però tener conto della complessità della controversia: e certamente la presenza di un elevato numero di contraddittori incide sulla valutazione che il giudice deve svolgere ai sensi dell’art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c. Così pure il fatto che alla domanda originaria se ne cumuli una o più, come è prevedibile avvenga per effetto della chiamata del terzo: se la riconvenzionale è presa espressamente in considerazione come eventualità possibile e non incompatibile con l’andamento del semplificato (v. gli art. 281-undecies, comma 3 e 281-duodecies, comma 1 c.p.c.), anch’essa può senza dubbio rappresentare un fattore di complicazione[35].

Sotto questo profilo si è anche notato che, se è vero, da un lato, che scegliendo le forme sommarie l’attore si garantisce un rito più snello, allo stesso tempo, deve tenere in conto che in difetto di autorizzazione del giudice (art. 281-duodecies, comma 4, c.p.c.) tutte le attività assertive ed istruttorie dovranno svolgersi direttamente all’udienza e dunque senza poter disporre di un termine per note[36]. È bene ricordare, infatti, che il rito semplificato prevede che avvenga sempre in forma scritta, prima della fase decisoria, soltanto lo scambio degli atti introduttivi. La possibilità che venga concesso ulteriore termine per memorie è condizionata all’esistenza di un giustificato motivo: soltanto in questo caso il giudice può concedere un primo termine di venti giorni «per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti» e un ulteriore termine di non più di dieci giorni per repliche e richieste di prova contraria. Di fronte alla genericità della formula «giustificato motivo», sembra condivisibile l’invito ad intenderla in modo “liberale”: in questo modo il rito semplificato, significativamente accostandosi al vecchio ordinario, assumerà una struttura consona a consentire anche la trattazione di quelle controversie di complessità media, anche nel caso di eventuale coinvolgimento nella lite di più di due soggetti[37].

[1] Sul nuovo rito semplificato, v., senza pretesa di completezza, Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, in La riforma del processo civile, a cura di Dalfino, Foro it., Gli speciali, n. 4/2022, 155 ss.; Califano, Il “rito semplificato di cognizione” davanti al tribunale e al giudice di pace, Bologna, 2023; Carratta, Le riforme del processo civile, Torino, 2023, 54 ss.; Luiso, Commento agli artt. 281-decies – 281-duodecies, in Il nuovo processo civile, Milano, 2023, 132 ss.; Id., Due modelli processuali a confronto: il rito ordinario e quello semplificato, in Giur. it., 2023, 697 ss.; Giussani, Le nuove norme sul rito semplificato di cognizione, in Riv. dir. proc., 2023, 632 ss.; Motto, Prime osservazioni sul procedimento semplificato di cognizione, in www.judicium.it, 2023; Tiscini, Commento agli artt. 183-bis e 281-decies – 281-terdecies, in Aa. Vv. La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Tiscini, Pisa, 2023, 395 ss.

[2] Vale a dire nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica: si tratta dell’unico requisito individuato dalla legge per proporre la domanda nella forma del rito sommario, sotto pena d’inammissibilità.

[3] Sul tema della conversione del rito, v. diffusamente Abbamonte, Il procedimento sommario di cognizione e la disciplina della conversione del rito, Milano, 2017, passim e spec. 287 ss. sulla conversione ex art. 702-bis. V. anche Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Bologna, 2013, passim e spec. 364 ss. e Id., La conversione dal e nel rito sommario, in Giur. it., 2020, 461; Tiscini, Commento all’art. 702-ter, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Comoglio – Consolo – Sassani – Vaccarella, VII, II, 634 ss. e spec. 646.

[4] Sull’art. 183-bis c.p.c., oltre all’opera di Abbamonte, Il procedimento sommario, cit., passim e spec. 339 ss., v. anche, senza pretesa di completezza, Basilico, Art. 183-bis: passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, in Giur. it., 2015, 1749 ss.; Martino, Conversione del rito ordinario in sommario e processo semplificato di cognizione, in Riv. dir. proc., 2015, 916 ss.; Metafora, Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, in Il giusto proc. civ., 2016, 1179; Tedoldi, La conversione dal e nel rito sommario, cit.; Turatto, Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione: il nuovo art. 183-bis c.p.c., in Le Nuove Leggi Civ. Comm., 2015, 737.

[5] L’art. 281-decies, comma 1, c.p.c. prevede che il giudizio «è introdotto» nelle forme del procedimento semplificato «quanto i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruttoria non complessa». È sufficiente confrontare la nuova previsione con l’incipit dell’art. 702-bis c.p.c. («nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda può essere proposta con ricorso al tribunale competente») per avvedersi del cambio di paradigma che il legislatore più recente ha imposto. L’art. 281-decies, comma 2, c.p.c. continua a prevedere uno spazio d’applicazione facoltativa: «nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica la domanda può sempre essere proposta nelle forme del procedimento semplificato» (i corsivi sono – ovviamente – nostri). Peraltro, la dottrina ha avvertito che la contrapposizione tra casi di applicazione obbligatoria e facoltativa del rito semplificato, lungi dall’essere risolta dai due commi dell’art. 281-decies c.p.c., deve essere indagata tenendo conto di altre risultanze normative: per qualche ulteriore cenno sul punto, v. infra, § 6.

[6] Pubblicato anche in www.ilprocessocivile.it, con nota di Masoni, Verifiche preliminari ed immediata conversione del rito ordinario in semplificato di cognizione.

[7] L’art. 1, comma 380 della l. 29 dicembre 2022, n. 197 ha sostituito il testo originario dell’art. 35 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Con la legge di bilancio il legislatore ha rimesso mano ad alcune delle regole originariamente dettate; ma soprattutto ha anticipato l’entrata in vigore della riforma, sostituendo al 30 giugno 2023, data individuata come spartiacque nel precedente testo dell’art. 35 citato, la più prossima data del 28 febbraio 2023. Per un commento a prima lettura, v., si vis, Limongi, Commento all’art. 35 d.lgs. n. 149/2022, in Aa. Vv. La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Tiscini, cit., 1384. V. anche Carratta, Le riforme del processo civile, cit., 303 ss., anche per riferimenti all’ulteriore intervento contenuto nel decreto c.d. Milleproroghe (d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. con modif. dalla l. 24 febbraio 2023, n. 14), con il quale è stata prorogata l’efficacia di alcune disposizioni dettate durante l’emergenza pandemica: sul punto v. Fichera, Lo strano caso dell’udienza pubblica in cassazione, in www.judicium.it., 2023; M. Farina, L’udienza pubblica in Cassazione: che succede fino al 30 giugno 2023, in www.judicium.it, 2023; Ziino, Le novità di fine anno introdotte dalla Legge di Bilancio 2013 e dal d.l. milleproroghe, in Riv. Esec. Forz., 2023, 191 ss.; v. anche la Relazione n. 8 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo presso la Corte Suprema di Cassazione, dell’8 febbraio 2023, in www.cortedicassazione.it. Per considerazioni attorno alla disciplina dettata dall’art. 35 citato, in relazione a specifici profili problematici, oltre agli scritti appena citati, v. Campione, Il d.lgs. 149/2022, la legge di bilancio 2023 e il regime transitorio delle modifiche in tema di mediazione e negoziazione assistita: una brevissima riflessione, in www.judicium.it, 2023; Capponi, Un dubbio sul regime transitorio della riforma degli artt. 475, 476, 478 e 479 c.p.c., ivi, 2023; Id., Un dubbio sul regime transitorio della riforma dell’art. 614-bis c.p.c., ivi, 2023; Gravante, Riforma Cartabia: prime riflessioni sulla disciplina transitoria con riferimento all’opposizione a decreto ingiuntivo, ivi, 2023.

[8] In giurisprudenza v. ad es. Trib. Verona, 13 aprile 2023, in www.onelegale.it, secondo cui trovano applicazione le disposizioni come modificate dalla riforma Cartabia ai procedimenti per i quali, alla data del primo marzo, sia «inviato l’atto di citazione, se soggetti al rito ordinario o depositato il ricorso, se soggetti al rito semplificato» (nel caso di specie l’atto di citazione era stato notificato via posta il 27 febbraio ed il giorno successivo era stata inviata integrazione dello stesso, a correzione della data d’udienza precedentemente fissata; il giudice ha ritenuto che il processo soggiacesse alla disciplina ante riforma).

[9] La disposizione è simile a quella dettata dall’art. 58, comma 1, l. 18 giugno 2009, n. 69 («Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore»), entrambe prendendo in considerazione l’instaurazione del giudizio. La giurisprudenza l’ha interpretata quale riferimento al momento in cui è notificato l’atto di citazione o depositato il ricorso: v., per es., Cass., 16 novembre 2017, n. 27236; Cass., 4 maggio 2012, n. 6784; Cass., 17 aprile 2012, n. 6007; v. anche Cass., Sez. Un., 9 giugno 2016, n. 11844, in motivazione, in Corr. giur., 387, con nota di Bertollini – Buonafede.

[10] V., per es., la soluzione adottata dalla giurisprudenza rispetto all’art. 90 della legge 26 novembre 1990, n. 353. «Ai fini della disciplina di cui all’art. 90 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (come modificata e sostituita con decreto legge 18 ottobre 1995 n. 432, convertito con modificazioni nella legge 20 dicembre 1995, n. 534) la quale dispone che ai “giudizi pendenti” alla data del 30 aprile 1995 si applichino le disposizioni vigenti anteriormente a tale data, l’individuazione della “pendenza” del procedimento va fissata, nei giudizi che iniziano con citazione, nel momento della “notificazione” di tale atto, ed, in quelli introdotti con ricorso, nel momento del “deposito” dello stesso»: così la massima di Cass., 20 aprile 1998, n. 3999 e successive conformi.

[11] Non sembra nemmeno più porsi il tema della “concessione” dei termini per memorie, che si era posto per l’art. 183, comma 6, c.p.c., vecchio testo: oggi gli artt. 171-bis e 171-ter c.p.c. fanno decorrere senz’altro i termini per le memorie, da computarsi a ritroso dall’udienza 183 c.p.c. fissata in citazione (o meglio, da quella confermata o differita dal giudice con il decreto 171-bis, comma 3, c.p.c.).

[12] Prima della riforma, il decreto di fissazione dell’udienza doveva intervenire entro cinque giorni dal deposito della comparsa di risposta. Le verifiche preliminari sono, come è noto, una novità introdotta dal d.lgs. 149 del 2022. In tema v., senza pretesa di completezza, Capponi, Note sulla fase introduttiva del nuovo rito ordinario di cognizione, in www.giustiziacivile.com, 2022; Carratta, Le riforme del processo civile, cit., 40; Id., Due modelli processuali a confronto, cit., 698 ss.; Delle Donne, Commento agli art. 171-bis, 171-ter, 182, 183, 185, 187 c.p.c., in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Tiscini, cit., 285 ss.; Lai, Le nuove regole per l’introduzione della causa nel rito ordinario di cognizione, in www.judicium.it, 2023, spec. § 3; Luiso, Commento all’art. 171-bis c.p.c., in Il nuovo processo civile, cit., 68; Menchini-Merlin, Le nuove norme sul processo ordinario di primo grado davanti al Tribunale, in Riv. dir. proc., 2023, 578 ss.; Reali, La fase introduttiva e della trattazione, in La riforma del processo civile, a cura di Dalfino, cit., 89.

[13] È comune nei commentatori il rilievo che in realtà il termine individuato dall’art. 171-bis c.p.c. ha valore meramente «esortativo» (così Menchini-Merlin, Le nuove norme, cit., 586, nota 19; conf. Delle Donne, op. cit., 289 ss., in base al rilievo che la nuova disposizione, pur riferendosi a molte questioni assoggettate a rilievo d’ufficio, non determina un mutamento nel regime del rilievo di tali questioni e dei conseguenti provvedimenti, sicchè l’intento del legislatore è quello «enfatizzare […] una linea di tendenza», e cioè che i controlli sulle questioni preliminari – da intendersi in senso atecnico – possano svolgersi in limine litis; Carratta, Due modelli processuali a confronto, cit., 699; Luiso, Commento all’art. 171-bis, cit., 70); dunque, deve ammettersi che il rilievo delle questioni cui fa riferimento la disposizione in parola e l’adozione dei provvedimenti conseguenti possa avvenire anche successivamente, ed eventualmente in udienza. In questo caso, la fissazione di nuova udienza, ove necessaria, determina una nuova decorrenza dei termini indicati dall’art. 171-ter c.p.c. (v. l’art. 171-bis, comma 2): se le verifiche preliminari non funzionano e il rilievo della questione è postergato, il processo gira a vuoto (le memorie depositate sono destinate ad esser sostituite da nuove) e subisce perciò un grave rallentamento.

[14] Peraltro, se vi è concordia – v. nota precedente – nel ritenere che il decorso del termine dell’art. 171-bis c.p.c. non preclude di per sé al giudice di rilevare in seguito le questioni d’ufficio, resta da capire in quale occasione ciò possa avvenire. In altri termini, ci si potrebbe chiedere se mentre corrono i termini per le memorie 171-ter c.p.c. (per fare un esempio: tra seconda e terza memoria) il giudice possa emettere un nuovo provvedimento con il contenuto che avrebbe dovuto avere il decreto 171-bis c.p.c. La risposta è probabilmente negativa: v. Capponi, Note sulla fase introduttiva, cit., – ove anche ipotizzato che il giudice volontariamente ometta di adottare il decreto, al fine di affrontare le questioni indicate dalla disposizione soltanto dopo che la posizione delle parti sia venuta definitivamente precisandosi attraverso le memorie – secondo cui, una volta che lo scambio di memorie sia iniziato, egli dovrà attendere l’udienza 183 c.p.c. per svolgere i controlli preliminari; rilievo condiviso da Menchini-Merlin, op. loc. ult. cit.

[15] Il problema è evidenziato da D’Addazio, Commento agli artt. 267, 269, 269, 271, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Tiscini, 380 ss., ove si osserva che se nella previgente disciplina la chiamata in causa del terzo da parte dell’attore determinava la duplicazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c., dopo la riforma invece si duplicano anche i termini di cui all’art. 171-ter. Menchini-Merlin, op. cit., 598, nota 54, notano che per questa evenienza «non è prevista l’interruzione dello “scambio” di memorie per autorizzare fuori udienza l’attore alla chiamata del terzo, sicchè al riguardo occorrerà provvedere in udienza, come previsto dal nuovo art. 183, comma 2, c.p.c.». Gli Aa. citati (pp. 602-603) considerano la situazione in esame quale esempio del genere di inconvenienti a cui si presta un rito che preveda lo svolgimento della fase preparatoria prima dell’udienza;

[16] Il punto è l’interpretazione della frase, contenuta nell’u.c. dell’art. 269 c.p.c., «nell’ipotesi prevista dal terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni maturate anteriormente alla chiamata in causa del terzo». D’Addazio, op. loc. cit., ipotizza che rimangano ferme le preclusioni maturate «con esclusivo riferimento alle reciproche posizioni processuali ovvero all’oggetto originario del giudizio»; ad avviso di Luiso, Commento all’art. 269 c.p.c., in Il nuovo processo civile, cit., 114, si riapriranno anche fra le parti originarie tutte le repliche consequenziali alle difese del terzo quando quest’ultimo, intervenendo «fa oggetto delle sue difese il rapporto originario fra attore e convenuto» (ciò che avviene sempre nell’ipotesi di chiamata non innovativa e può accadere nel caso di chiamata innovativa; Menchini-Merlin, op. cit., 613, ritengono che le parti originarie possano depositare nuove memorie soltanto se collegate al contenuto della comparsa di costituzione del terzo chiamato, non potendo invece configurarsi quest’evenienza come occasione per una rimessione in termini.

[17] E cioè all’udienza, con fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione di tale ulteriore chiamato nei termini previsti dall’art. 163-bis c.p.c. L’art. 271 ha visto modificato il suo primo periodo, con l’inserimento del richiamo all’art. 171-ter c.p.c.: in tal modo si rende palese che i termini per le memorie si estendono anche al terzo: per tutti v. D’Addazio, Commento, cit., 383. Nello stesso senso indicato nel testo, v. Menchini-Merlin, op. cit., 603.

[18] Qui rileva il fatto che non è previsto, in caso di fissazione di nuova udienza, che il giudice emetta nuovamente il decreto ex art. 171-bis; per cui il provvedimento di autorizzazione alla chiamata e fissazione dell’udienza non può che intervenire all’udienza successiva. Da ciò sembra trarre conferma quanto rilevato retro, nota 12: e cioè che il legislatore non ha previsto in nessun caso che un provvedimento diverso da quello previsto dall’art. 171-bis c.p.c. possa intervenire mentre è in corso di svolgimento la fase di trattazione scritta, e che quel provvedimento rappresenti l’unica occasione di pronunciamento del giudice prima ed al di fuori dell’udienza.

[19] Va rilevato che l’art. 171-bis c.p.c. richiama l’art. 107 c.p.c. nell’elenco di provvedimenti che il giudice può adottare in quell’occasione; ma, come detto già nel testo, l’art. 270 continua a consentire la chiamata iussu iudicis «in ogni momento» per un’udienza a tal fine fissata. Dunque, anche in questo caso il riferimento dell’art. 171-bis c.p.c. deve intendersi come esortativo a svolgere tale attività in quel contesto, ma non certo idoneo a precludere l’intervento per ordine del giudice: in tal senso, Delle Donne, Commento, cit., 293; cfr. Menchini-Merlin, op. cit., 602 e nota 67.

[20] Menchini-Merlin, op. loc. ult. cit.

[21] V. retro, nota 14.

[22] La ragione per cui il legislatore ha individuato l’udienza di trattazione come momento per l’adozione della decisione sul mutamento del rito è più d’una. Oltre alla necessità che il provvedimento sia adottato nel contraddittorio tra le parti, v’è da considerare che nel rito ordinario pre-riforma l’udienza era il primo momento utile affinchè il giudice potesse ottenere dalle parti delucidazioni sulle reciproche posizioni, considerato che le preclusioni assertive ed istruttorie scattavano prevalentemente dopo l’udienza (nelle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c.). Il provvedimento di conversione è radicato nell’udienza anche nel semplificato (art. 281-duodecies, comma 1); nel vecchio sommario, l’art. 702-ter, comma 3, c.p.c. taceva, ma doveva ritenersi necessaria comunque la previa presa di contatto tra il giudice e le parti: v. Abbamonte, Il procedimento sommario, cit., 318 ss. L’A. ora citato (passim, e spec. pp. 202-204) ricostruisce la previa instaurazione del contraddittorio tra parti e giudice sull’eventualità della conversione – anche a bilanciare il fatto che il mutamento del rito è operato d’ufficio – quale elemento comune ai vari modelli di conversione che si sono via via succeduti nella legislazione processuale italiana (e straniera).

[23] In questa parte la disposizione aveva destato qualche perplessità: la possibilità che il contraddittorio sull’eventualità del mutamento del rito avvenga in forma scritta appare estraneo alla logica dello snellimento della procedura, cui la conversione stessa mira: per queste considerazioni e ampi riferimenti, v. Abbamonte, Il procedimento sommario di cognizione, 356 ss.; Consolo, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della “degiurisdizionalizzazione”, in Corr. giur., 2014, 1173 ss. e spec. 1178.

[24] V. Menchini-Merlin, op. cit., 606: «Il rinvio all’art. 281-duodecies, comma 5, c.p.c., sta a significare che il giudizio prosegue con le forme semplificate, senza regredire alla fase preparatoria che si è compiutamente svolta, con una duplice prospettiva: o la causa è rimessa in decisione, ai sensi dell’art. 187 c.p.c., o il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti e procede alla loro assunzione». In nota 72, si osserva che il richiamo al comma 2, contenuto nel comma 5 dell’art. 281-duodecies c.p.c. «non sembra essere pertinente» alla situazione che si verifica quando è disposta la conversione del rito ex art. 183-bis, «posto che la valutazione circa l’opportunità di ordinare la trasformazione del modello processuale deve avvenire quando già sono state autorizzate ed effettuate le chiamate di terzi».

[25] Tiscini, Commento agli artt. 183-bis e 281-decies – 281-terdecies, cit., 397-398, in riferimento alla generale tendenza del giudice a lasciare immutato il rito (nota 12), e con specifico riguardo alle dinamiche dei due diversi procedimenti: constatato che, come si dirà anche nel testo, non vi sono sostanziali differenze nello svolgimento della fase istruttoria, e che la causa può essere decisa nelle forme del 281-sexies c.p.c. anche se si mantiene il rito ordinario, «è dunque superfluo riconoscere il potere di conversione […] in un momento in cui le dinamiche processuali si omologano»;   conf. Motto, op. cit., § 2; Menchini-Merlin, op. cit., 606; v. anche le considerazioni di Giussani, Le nuove norme, cit., 633.

[26] Tiscini, op. cit., 398: «Non si vede bene in cosa si distinguano il caso del giudice che converte il rito in semplificato – esercitando il potere dell’art. 183-bis c.p.c. – da quello in cui egli decide nelle forme ordinarie optando per la medesima modalità dell’art. 281-sexies c.p.c.: sia nell’uno che nell’altro il processo si chiude con pronuncia in udienza e stesura della sentenza a verbale».

[27] V. Luiso, Commento all’art. 281-duodecies, cit., 142, secondo cui la differenza tra il vecchio sommario (e, in particolare, con quanto previsto dall’abrogato art. 702-ter, comma 5, c.p.c., al cui disposto il legislatore non ha dato continuità nei nuovi artt. 281-decies e ss. c.p.c.) e nuovo il semplificato sta nel fatto che in quest’ultimo «le prove sono assunte nei modi previsti dal codice civile e dal codice di procedura civile, ed hanno l’efficacia prevista dalle norme che disciplinano il rito ordinario»; v. anche Califano, op. cit., 22; Carratta, Due modelli processuali a confronto, cit., 704; Motto, op. cit., § 5; cfr. Balena, Il procedimento sommario, cit., 164. In sede di commento alla nuova disciplina, si è affermato (Tiscini, op. cit., 437 ss.) che il rito ordinario e il rito semplificato continuano distinguersi, in fase istruttoria, non per la pienezza della cognizione, ma per il diverso “tasso” di formalità che può caratterizzare le attività, sicchè «è consequenziale ritenere che l’attività istruttoria sia consentita nella forma più ampia e approfondita, ma nella totale deformalizzazione», e che ciò faccia dunque auspicare l’adozione di modalità atipiche di formazione e acquisizione della prova. La tesi da ultimo riferita cerca di attribuire una qualche autonomia alla disciplina della fase istruttoria del semplificato rispetto a quella del rito ordinario, ciò che potrebbe conferire maggiore pregnanza alla possibilità che il giudice disponga all’udienza ex art. 183 c.p.c. la conversione del secondo nel primo.

[28] Cfr. Menchini-Merlin, op. cit., 604.

[29] È piuttosto significativo che il giudice debba adottare d’ufficio questi provvedimenti, al punto che tale circostanza è da molti considerata come espressione del mutamento culturale che il legislatore, attraverso la riforma, vuole proporre al giudice: v. Menchini-Merlin, op. cit., 579-580; Capponi, Note sulla fase introduttiva, cit.

[30] Si tratta di quelle norme dalle quali emerge, più o meno nitidamente, che l’unico provvedimento giudiziale previsto dalla riforma è quello dell’art. 171-bis c.p.c., secondo la scansione temporale ivi prevista. V. l’art. 269 c.p.c., ove, consentendo all’attore di instare per la chiamata del terzo prevede che il giudice provveda all’autorizzazione soltanto all’udienza (così escludendo che possa essere adottato il provvedimento di autorizzazione e fissazione dell’udienza mentre le parti si stanno scambiando le memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c.); analogamente l’art. 271 c.p.c., laddove stabilisce che sulla chiamata in causa fatta dal terzo con comparsa di risposta, il giudice si pronuncia all’udienza, dunque, dopo che sia avvenuto lo scambio ex art. 171-ter c.p.c.; come si è già detto retro, in questo caso alla comparsa di risposta (si intende del terzo) non segue l’adozione del provvedimenti 171-bis c.p.c. V. retro, nota 12.

[31] Su questi parametri, condizionanti la conversione del rito, v. diffusamente Tiscini, op. cit., 399 ss.; 417 ss.; e spec. 430 ss.; Menchini-Merlin, op. cit., 604 ss.; Balena, Il procedimento semplificato, 156 ss. Complessità della lite e dell’istruzione probatoria ricorrono anche come parametri in forza dei quali il giudice del semplificato deve provvedere al mutamento in ordinario. L’art. 281-duodecies c.p.c., comma 1, c.p.c., infatti, coniuga la valutazione dell’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 281-decies, comma 1, con la verifica della complessità della lite e dell’istruzione probatoria. Ciò è molto significativo, anche al fine di determinare gli esatti termini in cui l’introduzione della causa nelle forme del rito sommario è obbligatoria (art. 281-decies, comma 1, c.p.c.) o facoltativa (art. 281-decies, comma 2, c.p.c.): sul punto v. Tiscini, op. locc. ult. cit.

[32] Ci si può chiedere, infine, se il provvedimento di conversione adottato fuori udienza e in assenza dei presupposti indicati dall’art. 183-bis c.p.c. sia affetto da un qualche vizio e se e come possa essere rimosso. Si osservi che la disposizione in questione (come il reciproco, 281-duodecies, comma 1, c.p.c.) esclude che l’ordinanza in questione possa essere impugnata. Sicchè si dovrebbe immaginare un motivo di gravame fondato sull’errata conversione del rito. Il provvedimento di conversione del rito è tradizionalmente non impugnabile: e ciò appare opportuno ad avviso di molti, in considerazione del fatto che la soluzione contraria determinerebbe un dispendio di risorse certamente non giustificato per risolvere una questione non incidente sul merito della lite. Per tutti, v. Abbamonte, Il procedimento sommario, cit., 201 ss., ove riflessioni attorno al problema dell’adozione del provvedimento senza la previa istaurazione del contraddittorio, nel vecchio art. 183-bis c.p.c. (pp. 360 ss.). Secondo l’A., la parte potrebbe formulare apposito motivo di gravame, che potrebbe essere accolto soltanto «ove la parte riesca a dimostrare che dalla mancata interlocuzione con le parti sia derivato un concreto pregiudizio sul piano processuale», ciò che potrebbe avvenire laddove si dimostri che in conseguenza alla decisione di convertire il rito, il giudice abbia impedito alle parti lo svolgimento di attività essenziali. In ogni caso, la scelta della non impugnabilità, unita nuovo dettato dell’art. 101 c.p.c. (su cui v. Delle Donne, Commento all’art. 101, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Tiscini, cit., 59 ss., e Donzelli, Note sul nuovo art. 101 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2023, 214 ss.), sembra lasciare poco spazio a motivi di gravame così costruiti: non pare facile individuare di quale sacrificio del diritto di difesa possano in concreto dolersi; ciò non deve però indurre alla conclusione che la sottoposizione al contraddittorio della questione del mutamento del rito sia una mera formalità, e che dunque possa essere evitata. Peraltro, la dottrina è concorde nell’escludere che avverso l’ordinanza di conversione del rito la parte possa esperire il ricorso straordinario per cassazione, difettando il requisito della decisorietà: v. Basilico, Art. 183-bis, cit., 1753; Martino, Conversione, cit., 938, Tiscini, Commento, cit., 401 e nota 27; Turatto, Il passaggio, cit., 751.

[33] Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 166.

[34] V., per tutti, anche per citazioni, Abbamonte, Il procedimento sommario, cit., 97 ss.; Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario, cit., 282 ss. e spec. 286.

[35] Sul punto si registra anzi un significativo progresso rispetto alla disciplina della domanda riconvenzionale nel vecchio rito sommario: l’art. 702-ter c.p.c. infatti prevedeva (i) al comma 2, che qualora la domanda riconvenzionale non rientrasse nell’ambito d’applicazione del sommario, il giudice avrebbe dovuto dichiararne l’inammissibilità; (ii) al comma 4, che se la riconvenzionale avesse richiesto un’istruzione sommaria, il giudice avrebbe dovuto senz’altro disporne la separazione. In altre parole, la vecchia disposizione escludeva sempre la possibilità del mutamento del rito per entrambe le domande, così di fatto sacrificando sempre le ragioni del simultaneus processus. Sul punto era intervenuta la Corte costituzionale, con sentenza 4 novembre 2020, n. 253 (in Foro it., 2021, I, 19 e 383, con nota di Metafora; in Corr. giur., 2021, 681, con nota di Faramondi, in www.judicium.it, con nota di Licci e Sandulli-Fanesi), dichiarando illegittimo l’art. 702-ter, comma 2, ultimo periodo, c.p.c. nella parte in cui, in caso di connessione per pregiudizialità necessaria tra la domanda principale e la riconvenzionale, e quest’ultima non rientri fra quelle in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, non consente al giudice di disporre il mutamento del rito fissando l’udienza ai sensi dell’art. 183. L’art. 281-duodecies c.p.c. oggi vigente prevede che il giudice debba valutare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 281-decies, comma 1, c.p.c., unitamente alla complessità della lite e dell’istruzione probatoria, considerando unitariamente domanda principale e domanda riconvenzionale e fissando l’udienza di cui all’articolo 183. In tema v. Tiscini, Commento, cit., 432-433.

[36] Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 166.

[37] V. ancora Balena, Il procedimento semplificato, cit., 161-162, che condivisibilmente precisa che i giustificati motivi rilevano esclusivamente ai fini della concessione della trattazione scritta (e non anche per compiere all’udienza le attività che il comma 4 dell’art. 281-duodecies c.p.c. prevede). Per quanto riguarda l’esegesi della formulazione usata dal legislatore, l’A. citato auspica un’interpretazione liberale, «soprattutto se l’alternativa è rappresentata dall’esercizio dello ius novorum o dello ius variandi all’udienza, con l’inevitabile appesantimento del relativo verbale»; v. anche Califano, op. cit., 21, secondo cui giustificato motivo è ravvisabile «non soltanto nella non pronta soluzione della causa per necessario approfondimento del contraddittorio tra le parti su questioni dirimenti o per la necessità di raccolta di ulteriori mezzi di prova rilevanti per la decisione», dovendo concedere i termini il giudice anche a fronte dell’istanza di una sola parte. Cfr. Motto, op. cit., § 4; Tiscini, Commento, cit., 434-435.