Cosa residua della discrezionalità amministrativa tra giudicato a formazione progressiva e giudicato a spettanza stabilizzata?[

Di Giovanni Pesce -

Premessa.

Sul giudicato amministrativo e sulla presunta inesauribilità del potere decisionale della p.a.  (e del suo giudice) il dibattito è sempre vivo e (a ragion veduta) trova un altissimo grado d’interesse in dottrina e giurisprudenza.

Se, infatti, si accoglie la teoria secondo cui il processo amministrativo investe non soltanto l’atto in sé e per sé considerato, ma coinvolge altresì l’esercizio del potere in senso sostanziale, si comprende che per parlare con contezza di giudicato amministrativo, non si può prescindere da una visione circolare, integrata, di procedimento amministrativo e giurisdizione amministrativa.

Giuseppe Chiovenda, come noto, scrisse: «Il processo deve dare, per quanto è possibile, praticamente a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire»[2]. In queste parole c’è il nucleo irrinunciabile del principio dell’effettività della tutela, che congiunge procedimento e processo. L’elemento finalistico dell’ottenimento del bene della vita, cui la tutela (giurisdizionale e non) tende, condiziona funzionalmente le riflessioni riguardo l’ampiezza del giudicato amministrativo (ciò anche alla luce dei principi di efficienza, economicità, buon andamento).

Per decifrare il rapporto tra potere amministrativo, giudizio di cognizione e sindacato giudiziale di ottemperanza è sempre utile rileggere, per un verso, la sentenza del Consiglio di Stato, VI, n. 1321/2019 (pres, Carbone, est. Simeoli) e per altro verso la sentenza della Corte di Cassazione SS.UU., 7 settembre 2020, n. 18592 (pres, Mammone, est. Tria), di conferma dell’impianto logico giuridico della prima.

Si pensava che l’assetto dato dal c.p.a. al predetto rapporto fosse sufficiente. Basta considerare i casi di poteri amministrativi ancora da esercitare, di scelte discrezionali ancora non compiute e di accertamenti riservati all’amministrazione, che l’art. 31, c. 3, c.p.a. individua (del tutto logicamente) come ostacoli all’accertamento della fondatezza della pretesa. Sicché non sempre, come si diceva, il singolo giudizio di legittimità è in grado accertare chi ha ragione e chi ha torto in ordine ad un bene della vita assoggettato all’esercizio di potestà amministrative.

Invece, nel caso oggetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 1321/2019, si è accertata “la consumazione della discrezionalità” (dopo il susseguirsi di vari giudicati di annullamento), per cui il Consiglio di Stato non solo ha annullato l’ennesimo atto impugnato, ma ha anche disposto l’ordine di emissione dell’atto conforme all’interesse legittimo sostanziale del cittadino (nella specie, si trattava della abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento universitario in un caso limite, invero, di tensione tra p.a. e giudice).

Nelle more della pubblicazione della sentenza della Sezioni Unite interviene la Legge. La centralità del procedimento e delle sue garanzie è stata colta dal legislatore che ha meritoriamente individuato criticità rilevanti nella cd. inesauribilità del potere amministrativo, prevedendo, in particolare, che, in sede di riesercizio del potere a seguito di annullamento giurisdizionale, “l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”. In tal senso dispone, infatti, l’articolo 12, comma 1, lett. e), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 secondo cui “In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”.

Una lente attraverso la quale può essere interessante analizzare la complessità del giudicato amministrativo è, dunque, quella del preavviso di diniego ex art. 10 bis della l. n. 241/1990.

La riflessione odierna intende svilupparsi attraverso tre linee direttrici, tre temi essenziali:

1.il preavviso di rigetto e i limiti alla ri-edizione del potere;

2.la regola del one shot temperato e il cd. giudicato a formazione progressiva;

3.l’effetto conformativo della sentenza di annullamento e le ricadute sul giudizio di ottemperanza.

Il preavviso di rigetto, i vincoli e le (eventuali) preclusioni procedimentali nella ri-edizione del potere dopo la pronuncia di annullamento del Giudice amministrativo.

L’art. 10 bis della legge n. 241/1990 illumina i profili di strettissima connessione tra procedimento amministrativo e giurisdizione amministrativa, mostrando la continuità sostanziale tra due momenti che, seppur ontologicamente separati, non possono risultare disallineati l’uno dall’altro.

Come noto, l’art. 10 bis della legge n. 241/1990 prevede che l’Amministrazione, prima di adottare un provvedimento di rigetto di un’istanza, comunichi all’interessato le ragioni ostative al suo accoglimento e instauri un contraddittorio del quale dovrà poi dare contezza nel provvedimento finale. L’art. 10 bis prevede altresì che, qualora il provvedimento di diniego venga annullato in sede giurisdizionale «nell’esercitare nuovamente il suo potere, l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato». Tale previsione, introdotta con il c.d. decreto Semplificazioni (d.l. n. 76/2020) non ha soltanto sovvertito la tradizionale teoria dell’inesauribilità del potere amministrativo (che già da tempo era ormai svuotata di contenuto nel diritto vivente: si pensi non soltanto alla giurisprudenza, ma anche alla dottrina, che ne ha ridimensionato l’attualità, valorizzandone l’importanza in chiave storica ma promuovendone il superamento in favore di un sistema più equilibrato per gli amministrati), ma presenta un quid pluris anche rispetto alla più attuale regola del cd. one shot temperato che, ispirata a principi nobili come quelli di buona amministrazione, buona fede, correttezza, concede all’amministrazione in sede di riedizione del potere di integrare l’istruttoria originariamente svolta ed adottare un nuovo provvedimento che contenga tutte le ragioni poste a fondamento del (nuovo) diniego[3].

L’art. 10 bis, nella sua nuova formulazione, oltre a porsi l’ambizioso obiettivo di «superare un dogma radicato nella cultura dell’amministrazione e del diritto amministrativo» e cioè di superare «l’idea che il potere amministrativo, in ragione della sua inesauribilità, non si consuma attraverso il suo esercizio e dunque rimane intatto in capo all’amministrazione anche dopo l’annullamento del provvedimento»[4], presenta ampie ricadute sul giudicato amministrativo.

Se, infatti, sia la dottrina che la giurisprudenza sono state storicamente scettiche riguardo la preclusione per l’amministrazione ad indicare, in un secondo momento, motivi di diniego ulteriori rispetto a quelli esposti nel preavviso di rigetto (e dunque, caducati dall’annullamento del provvedimento impugnato)[5], all’indomani del decreto Semplificazioni il dibattito intorno al tema sembra acquisire nuova linfa.

In vigenza della versione ante 2020 la giurisprudenza ha rilevato che: «il corretto svolgimento del contraddittorio procedimentale non esige la completa disclosure da parte dell’Amministrazione, in sede di adempimento dell’onere partecipativo di cui all’art. 10 bis l. n. 241/1990, delle ragioni astrattamente fondanti l’adozione del provvedimento conclusivo: proprio perché, infatti, la relazione partecipativa si colloca nella fase della gestazione del provvedimento conclusivo, sarebbe contrario ai principi di efficienza ed economicità dell’attività amministrativa se l’Amministrazione fosse tenuta ad enucleare compiutamente i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in una sorta di integrale anticipazione del contenuto motivazionale del futuro ed eventuale provvedimento di diniego»[6].

Anche la dottrina, nel riconoscere – sempre con riferimento alla vecchia formulazione della norma – la preclusione endo-procedimentale del preavviso di rigetto, ha escluso che questa potesse estendersi oltre l’atto di diniego reiterato dopo un annullamento in sede giurisdizionale[7].

La novella invece sembra abbia voluto conferire rilievo eso-procedimentale alla preclusione istruttoria e decisionale del preavviso di rigetto (salve, ovviamente, le sopravvenienze). Si è a riguardo sostenuto che l’art. 10 bis in tal senso si ponga come l’aggancio normativo dal quale far discendere «l’obbligo dell’amministrazione, già nel primo procedimento, di esaurire one shot tutti i margini di discrezionalità del potere»[8]. Tale tesi apre la strada alla una teoria del one-shot non temperato, che imporrebbe all’Amministrazione di illustrare tutte le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza in una volta sola, esaminando globalmente la vicenda sottesa all’istanza del singolo ed esternando già nella fase procedimentale (tra preavviso di diniego e motivazione finale del provvedimento, che, si ripete, contiene i motivi ostativi ulteriori emergenti dal contraddittorio con l’istante) tutti i motivi, le questioni rilevanti, che ostano all’accoglimento della richiesta del privato. Con il limite che ciò opererebbe soltanto nei procedimenti ad istanza di parte (e quindi, ragionando secondo le categorie tradizionali del diritto amministrativo, quando si sia dinanzi ad un interesse legittimo di tipo pretensivo), si potrebbe sostenere, in forza del 10 bis, che l’amministrazione sia tenuta ad «esercitare il suo potere in modo completo ed esaustivo, esaurendo tutti gli spazi di discrezionalità ad essa riservati, attraverso un contraddittorio e un’istruttoria procedimentali definitivi e del tutto autosufficienti»[9].

Dal quadro normativo appena descritto, sembra ci sia margine per concludere che nel giudizio amministrativo, successivo a un primo diniego dell’istanza del singolo, entrano tutte le questioni sulla fondatezza della pretesa, sia quelle dedotte, sia quelle soltanto deducibili ma non esternate dall’amministrazione, con cognizione piena del giudice in ordine a tutti i profili della vicenda sostanziale [Di Cagno; Clarich[10]]. Non mancano, però, posizioni giurisprudenziali di diverso avviso[11].

La regola del one shot temperato e il cd. giudicato a formazione progressiva.

 

L’orientamento giurisprudenziale maggioritario si attesta, però, su un principio più mite, che è quello del c.d. one shot temperato, che comporta il dovere della pubblica amministrazione di riesaminare una seconda volta l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato, alla condizione che i giudicati annullatori (quello afferente all’atto iniziale e quello afferente all’atto successivo) non riguardino vizi meramente procedimentali, bensì il merito della vicenda (così la pronuncia capostipite Cons. Stato, V, 6 febbraio 1999, n. 134).

La giurisprudenza considera tale rimedio in grado di contemperare la regola per cui il processo amministrativo non può attribuire un bene della vita prima di una determinazione della pubblica amministrazione, con l’esigenza di assicurare, sin dove possibile, una tutela piena anche all’interesse legittimo pretensivo (per il quale la pronuncia di annullamento raramente si presenta autonomamente satisfattiva), tenuto conto delle specificità correlate al sindacato sul potere pubblico.

Alla stregua di tale orientamento interpretativo, è compito precipuo della giustizia amministrativa approntare i mezzi che consentono di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività delle tutele[12].

Nel quadro attuale la PA gode di un second shot, una “doppia chances”, in virtù della quale può consumare il suo potere nella riedizione dell’attività amministrativa successiva al primo giudicato di annullamento. Dunque, l’amministrazione, dopo aver subito l’annullamento di un proprio atto, può rinnovarlo una sola volta riesaminando l’affare nella sua interezza evidenziando, “una volta per tutte”, ogni aspetto potenzialmente e concretamente legato alla vicenda da amministrare. Il principio, in altri termini, è quello secondo cui l’amministrazione “deve mettere sul piatto” tutto ciò che emerge dall’istruttoria[13].

L’art. 10 bis, codificato nei termini che abbiamo appena descritto, si pone quale elemento rafforzativo di tale teoria, ma si presta altresì ad una lettura più netta: se si considera, infatti, l’esercizio del potere in senso sostanziale, basta il solo dato letterale della norma per sostenere che l’Amministrazione è onerata di individuare tutte le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sede di prima analisi. Se poi, al diniego definitivo succede una pronuncia giurisdizionale di annullamento, discenderebbe inevitabilmente che essa si presta a conoscere della vicenda nella sua interezza, con riferimento sia alla motivazione espressa nel provvedimento che agli altri elementi che – pur non posti a fondamento della decisione finale – costituiscono parte integrante dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ex art. 10 bis.

A partire da quest’ordine di considerazioni, si potrebbe a ragione sostenere che l’adozione del provvedimento esaurisce – salvo sopravvenienze – il potere dell’amministrazione di provvedere in concreto. Così che nell’eventuale giudizio avverso un provvedimento si discuta, come è stat efficacemente rilevato, della legittimità di un “potuto” e non di un potere[14].

L’art. 10 bis, peraltro, non è l’unica norma procedimentale che presenta tale vocazione trasversale adatta a produrre effetti anche all’interno del processo amministrativo: si può richiamare altresì l’art. 6, comma 1, lett. b), che impone all’amministrazione, nella persona del responsabile del procedimento, la completezza dell’istruttoria con l’adozione di ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento della stessa. Da ciò discende che nella fase istruttoria la PA deve recuperare tutti gli elementi, i fatti e gli interessi da porre a monte della decisione, di cui, poi, occorrerà dar conto nella motivazione del provvedimento finale. In quest’ottica l’amministrazione, tenuta a introdurre nel procedimento tutte le questioni sottese alla pretesa del singolo sul piano sostanziale, di riflesso, si apre al controllo giudiziale sui profili di eccesso di potere. È allora possibile che a una decisione, magari reiterata più volte su basi diverse e non fondata su un’istruttoria completa e su una motivazione esaustiva, corrisponda un sindacato del giudice più penetrante e approfondito, sia pur di carattere non sostitutivo[15].

Accedere a tale tesi comporta il potenziamento di due profili: l’uno, procedimentale, del presupposto della decisione amministrativa (con la costruzione di quell’onere di preclusione procedimentale gravante sulla amministrazione), l’altro, di carattere processuale, che valorizza i poteri istruttori officiosi in capo al giudice.

Si tratterebbe di un evidente passo in avanti (in favore di un ampliamento della giurisdizione amministrativa di legittimità) rispetto alla teoria del giudicato a formazione progressiva, per come conosciuta ed elaborata dalle pronunce della Plenaria nn. 2/2013 e 11/2016[16], ove si esprime l’idea per cui ogni atto costituente riedizione del potere amministrativo dopo un giudicato di annullamento deve essere conosciuto dal giudice dell’ottemperanza con conseguente ampliamento del thema decidendum al rapporto controverso[17]. Già in tal senso, si è detto che il giudicato amministrativo si caratterizza per la proiezione verso il futuro: esso non disciplina direttamente il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ma abbisogna di un ulteriore passaggio (la riedizione del potere) che conformi la decisione amministrativa al giudicato.

L’effetto conformativo della sentenza di annullamento e le ricadute sul giudizio di ottemperanza.

Quanto detto sinora apre la strada ad interrogativi che mettono in discussione la tradizionale concezione meramente preclusiva del giudicato di annullamento, in favore di un rafforzamento dell’effetto conformativo del giudicato amministrativo di legittimità, fino a spingersi verso la tesi dell’esistenza di un giudicato amministrativo cd. “a spettanza stabilizzata”[18].

Alla base di tale tesi vi è l’aspirazione ad un giudicato amministrativo connotato dai caratteri della completezza e della stabilità, che può essere ottenuto o valorizzando l’antecedente fase procedimentale o incidendo sul giudizio amministrativo. Nel primo caso è ipotizzata l’esistenza di un vero e proprio onere di preclusione procedimentale a carico della amministrazione, sulla scorta di taluni principi che sovrintendono all’esercizio della funzione amministrativa e sul fondamento di specifici istituti di diritto positivo. Nel secondo caso la via prescelta si innesta sulla rimodulazione (soprattutto) della istruttoria che può svolgersi officiosamente nel corso del processo.

In entrambi i casi vuole essere soddisfatto l’anelito ad ampliare le preclusioni discendenti dalla sentenza amministrativa e correlati al giudicato che l’accompagna, allo scopo di introdurre limiti più stringenti al rinnovato esercizio post iudicatum del potere discrezionale amministrativo per circoscrivere la parte libera che per sua natura lo contraddistingue.

L’esaurimento degli spazi residui di discrezionalità in capo alla p.a. viene perseguito nell’un caso onerandola, già nel corso del procedimento amministrativo, ad allegare i titoli costitutivi sottostanti al potere amministrativo esercitato; nell’altro, potenziando l’impiego dei poteri istruttori officiosi del giudice amministrativo, favorendo in vario modo (anche attraverso il trapianto in sede istruttoria dello strumento del cosiddetto remand) la emersione nel corso del processo di tutti quei profili implicati nell’esercizio del pubblico potere i quali, per essere stati in questa maniera presenti al giudice al momento della pronunzia, confluirebbero (dilatandolo in misura corrispondente) nel giudicato di accoglimento del ricorso del privato. Qui la estensione dei limiti oggettivi del giudicato amministrativo che conclude il processo è raccordata ai temi decisori che vi sono stati trattati anche, se non solo, attraverso la potenziata iniziativa istruttoria giudiziale.

Seguendo viceversa l’altra alternativa delineata, che fa leva sulla determinazione di un onere a carico della p.a. nella antecedente fase procedimentale, la estensione della portata del giudicato è bensì possibile, ma sempre subordinatamente alla prospettazione della parte ricorrente che insorga contro l’atto nel quale si è espresso il pubblico potere (in esito ad un procedimento preventivo nel quale dovrebbe essere stati spesi tutti i titoli costitutivi rilevanti e ad esso sottesi)[19]..

Il vincolo del giudicato di annullamento è stato tradizionalmente limitato all’effetto cosiddetto preclusivo, che comporta l’impossibilità per l’Amministrazione, pena la nullità per violazione del giudicato, di motivare l’atto di riesercizio del potere con le stesse ragioni che avevano fondato la pronuncia di annullamento, restando la P.A. libera di addurre ogni altro profilo motivazionale non considerato nella pronuncia di prime cure. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’effetto conformativo del giudicato si deduce dalla motivazione della sentenza in riferimento ai vizi di legittimità rilevati, senza che abbiano rilievo gli eventuali profili emersi in sede procedimentale che non abbiano trovato seguito nel provvedimento finale e di conseguenza non siano stati rilevati come motivi di illegittimità nella sentenza finale. Ciò si traduce, a livello processuale, nel detto secondo cui il giudicato amministrativo si differenzia da quello civile in quanto non copre “il dedotto e il deducibile”[20].

Il vincolo “conformativo” del giudicato comporta, in sostanza, che «l’Amministrazione nella riadozione del provvedimento di diniego, dovendosi adeguare agli effetti conformativi e preclusivi del giudicato di annullamento, fornisca una motivazione basata esclusivamente sugli stessi motivi ostativi comunicati o che avrebbero dovuto essere comunicati agli istanti mediante il c.d. preavviso di rigetto»[21]. La tesi del giudicato a spettanza stabilizzata individua nell’art. 10 bis una preclusione procedimentale che sancisce l’esaurimento del potere istruttorio e decisionale della PA (al di là della tesi del one shot temperato e ben oltre il concetto tradizionale di inesauribilità del potere amministrativo) e fa confluire nel giudizio di annullamento non soltanto la legittimità della pretesa sul piano formale/procedimentale, bensì anche l’oggetto sostanziale della determinazione amministrativa, che viene individuato e definito una volta per tutte e non potrà essere riproposto in maniera sostanzialmente identica ma sotto altra veste attraverso il ricorso a profili di motivazione nuovi rispetto a quelli espressi nel (primo) provvedimento finale. Sembra vi sia un margine per sostenere che, attraverso il 10 bis, si anticipi la parte dispositiva e motivazionale del provvedimento, che non potrà esser nuovamente oggetto di ri-considerazione una volta che sia intervenuto il giudicato sul (primo) diniego.

Ciò caducherebbe la tesi accolta dal Consiglio di Stato secondo cui «ben può l’Amministrazione riproporre, quindi, in sede di riesercizio del potere, quale motivi di ulteriore diniego, profili non esaminati nella sentenza di annullamento, indipendentemente dalla circostanza se tali aspetti fossero già emersi in sede procedimentale, adottando un nuovo diniego diversamente motivato»[22].

Spingersi fino a sostenere la stabilizzazione del giudicato potrebbe incidere altresì sull’ambito di cognizione del giudice amministrativo nella sede dell’ottemperanza: «la rimeditazione dell’oggetto della fase successiva alla conclusione del giudizio di cognizione, nella non infrequente ipotesi di mancato spontaneo adempimento della amministrazione al comando giudiziale. Il fatto è che, una volta che si ammetta che la sentenza amministrativa di accoglimento possa elevarsi ad un giudicato a spettanza stabilizzata, la fase successiva della ottemperanza può guadagnare (in contemplazione di una decisione ottemperanda contrassegnata in tesi da cogente puntualità) i connotati di una esecuzione forzata vera e propria (secondo gli auspici espressi, non da ora, fra i processualcivilisti, in particolare da Giovanni Verde) e così dismettere quel carattere misto che continua tuttora ad esibire (e che fatalmente deriva oggi dalla ben nota usuale incompletezza della sentenza amministrativa – e così dalla simmetrica efficacia oggettiva circoscritta che le spetta –, la quale non può non richiedere una attività di specificazione ad opera del giudice della ottemperanza di taglio sovente schiettamente cognitorio)»[23].

Del resto, ciò sarebbe coerente anche con quanto espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 18592 del 2020, la quale, nel confermare la citata sentenza del Consiglio di Stato (n. 1321/2019), ha escluso la configurabilità del vizio di eccesso di potere giurisdizionale, rimarcando come «il sistema della giustizia amministrativa deve dimostrarsi in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali, come delineata dal codice del processo amministrativo»[24].

In conclusione, il giudicato amministrativo cd. “a spettanza stabilizzata” lascia aperte varie questioni. Il Giudice amministrativo si è mostrato in grado di accertare la fondatezza della pretesa sostanziale, anche nei casi più complessi, relativi agli interessi legittimi pretensivi.

Un Giudice già grado di “catturare” la famosa tartaruga di Achille, fin dove spingerà i suoi vasti poteri in sede di ottemperanza[25]? E a quali costi per la discrezionalità amministrativa? Come sarà inteso il tradizionale divieto di sostituzione del giudice all’amministrazione nella scelta tra opzioni possibili? Assisteremo in futuro ad altri interventi del giudice dal sapore riformatore di una già malandata p.a.[26]?

[1] Il testo riproduce, con adattamenti e note,  l’intervento dell’Autore al Seminario tenutosi presso la Sapienza l’8 maggio 2024 dal titolo “Il giudicato tra processo civile e amministrativo”.

[2] G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933.

[3] Sul punto, si veda, tra gli altri, M. Clarich, Manuale di giustizia amministrativa, Il Mulino, Bologna, 2021, ma già sul tema il suo fondamentale Giudicato e potere ammnistrativo, Padova, 1989.

[4] Così M. Trimarchi, Note sul preavviso di rigetto dopo la legge n. 120 del 2020, in Diritto e processo amministrativo, n. 2/2022.

[5] Sulla giustizia amministrativa nella Costituzione (artt. 103-111-113): M. CLARICH, Voce “La Giustizia”, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Vol. I, Milano, II Ed., 2003; A. POLICE, Il ricorso piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, vol. II, Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001; L.P. COMOGLIO, La riforma del processo amministrativo e le garanzie del “giusto processo, in Riv. Dir. Proc., 2001, 633 ss., spec. 648 –650; E. PICOZZA, Il giusto processo amministrativo, in Cons. Stato, II, 2001, 1061 ss., spec. 1076; F.P. LUISO, Il principio del contraddittorio nel processo amministrativo e tributario, in Dir. Proc. Amm., 2/2000, p. 328 ss.; G. CORSO, Per una giustizia amministrativa più celere, in www.giust.it; V. CERULLI-IRELLI (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000; R. CARANTA, Effettività della garanzia giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione e diritto comunitario: il problema comunitario, in Foro Amm., 1991, pag. 1889 ss.; A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, 2000, Padova, p. 222 ss.; G. FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione di spettanza, in Dir. Proc. Amm. 2001, 287; F. G. SCOCA, Sulle implicazioni del carattere sostanziale dell’interesse legittimo, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, III, pag. 670; M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, spec. p. 1180 ss;.

[6] Consiglio di Stato, sez. III, 1 giugno 2020, n. 3438.

[7] A. Carbone, Il contraddittorio procedimentale: ordinamento nazionale e diritto europeo-convenzionale, Torino, 2016.

[8] A. Di Cagno, Giudicato e riedizione del potere: esaurimento della discrezionalità nel rapporto con la pronuncia del giudice amministrativo, in Giurisprudenza Italiana, Marzo 2020.

[9] Di Cagno, cit.

[10] Clarich applica la regola del dedotto e deducibile alla fase procedimentale, con l’obiettivo di raggiungere la stabilità del rapporto amministrativo, con copertura definitiva di tutti i fatti costitutivi del potere.

[11] Si veda infra, par. 3.

[12] Così, Consiglio di Stato, sez. IV, 30 gennaio 2024, 936; occorre tener comunque presente che la regola del one shot temperato, incontra un limite oggettivo nella sua stessa ratio, in quanto riguarda soltanto la preclusione alla pubblica amministrazione di esercitare una terza volta il potere discrezionale in senso negativo, essendo volto a impedire che la stessa possa reiterare all’infinito provvedimenti successivi negativi (Consiglio di Stato, sez. V, 8 gennaio 2019, n. 144, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321 e sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660, tutte in www.giustizia-amministrativa.it)

[13] Cons. Stato, V, 21 giugno 2023, n. 6107 in www.giustizia-amministrativa.it.

[14] Trimarchi, op. cit.

[15] Ancora Di Cagno, cit.

[16] La Plenaria n. 11 del 2016 ha chiarito che: a) la situazione accertata con il giudicato non può essere rimessa in discussione al fine di non porre nel nulla il principio di ragionevole durata del giudizio, di effettività della tutela giurisdizionale e di stabilità e certezza dei rapporti giuridici. Sicché, il ricorrente vittorioso vanta una legittima aspettativa alla stabile definizione del contesto procedimentale; b) l’Amministrazione soccombente a seguito di sentenza irrevocabile di annullamento di propri provvedimenti ha l’obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato e con effetto retroattivo, per evitare che la durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa; c) il suddetto obbligo varia in ragione della natura dell’interesse legittimo azionato; d) l’obbligo in capo all’amministrazione non incide sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo; e) l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima; f) anche per le situazioni istantanee il ripristino può trovare un limite nel sopravvenuto mutamento della realtà fattuale o giuridica, sicché la tutela della posizione giuridica potrà eventualmente avvenire non in forma specifica, ma per equivalente.

[17] F. S. Marini-A. Storto, Diritto processuale amministrativo, La Tribuna, Milano, 2018.

[18] S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017.

[19] A. Panzarola, Brevi considerazioni a margine del volume di S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Giappichelli, Torino, 2017.

[20] Consiglio di Stato, sez II, 4 agosto 2022, n. 6829.

[21] M. R. Calderaro, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in federalismi.it, 6 aprile 2022.

[22] Consiglio di Stato, sez II, 4 agosto 2022, n. 6829.

[23] A. Panzarola, Brevi considerazioni a margine del volume di S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Giappichelli, Torino, 2017.

[24] Consiglio di Stato, sez II, 4 agosto 2022, n. 6829.

[25] Ad esempio: Tar Lomb., Brescia n. 10/2024, in sede di ottemperanza su procedura comparativa a posti di professore ordinario, dichiara la nullità degli atti impugnati (di riedizione del potere) e ridetermina i punteggi dei due candidati per le due sottovoci delle quali la sentenza cui ottemperare aveva imposto la rivalutazione, e riformula conseguentemente la graduatoria; Tar Lazio, II, n. 7882/2024 giunge a sostituirsi alla p.a. nel giudizio di anomalia dell’offerta (sino a ora ritenuto ad elevata discrezionalità tecnica).

[26] Si veda per esempio il capo 11 della motivazione della citata sentenza delle SS.UU. n. 18592/2020: la riduzione o “consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile frattura del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contraddittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri”, in quanto in presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’Amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.