Esperienze applicative del rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 363 bis c.p.c. – Terza Puntata

Di Antonio Briguglio -

Giunge alla Terza Puntata il commentario ai primi passi del rinvio pregiudiziale alla Cassazione.

Quattro decreti della Prima Presidente (decreto 9-10.5.2023, n. 12522, decreto 9-10.5.2023, n. 12484, decreto 9-10.5.2023, n. 12502, decreto 9.6.2023, n. 16435), questa volta di inammissibilità: i primi passi di qualunque entità, vivente o culturale come un nuovo istituto giuridico, vanno guidati anche con qualche divieto. Qui i divieti non sono solo tali ma densi di complesse implicazioni sistematiche riguardo alla dialettica trilaterale Giudice di merito – Prima Presidente – Corte di Cassazione.

 

I provvedimenti

Il commento: quattro modi e quattro stili per dichiarare la inammissibilità del rinvio pregiudiziale per difetto di “difficoltà” o di “novità” della questione interpretativa; nomofilachia presidenziale nella declaratoria di inammissibilità.

SOMMARIO 1. Il rapporto simbiotico fra le condizioni di ammissibilità della “novità” e delle “gravi difficoltà” e la importanza della espressa previsione di entrambe nel testo dell’art. 363, c. I: a) la “novità” della questione (se la Cassazione ha già parlato non c’è difficoltà della questione che tenga, ovverosia niente rinvio pregiudiziale per sollecitare l’overruling). – 2. Segue: la verifica delle “gravi difficoltà” (di là dalla théorie de l’acte clair) aumenta la discrezionalità del Primo Presidente; alla ricerca di una qualche oggettività. – 3. In claris non fit interpretatio: il carattere inevitabilmente “didascalico”, per il giudice di merito, del provvedimento presidenziale di inammissibilità (primo decreto di inammissibilità del 9-10 maggio 2023, n. 12522). – 4. La motivazione presidenziale di inammissibilità per difetto di “grave difficoltà”, fuori dall’ambito dell’in claris non fit interpretatio, ed il suo carattere forzatamente “non didascalico”. – 5. La motivazione puramente “didascalica” (come nel caso dell’in claris non fit interpretatio) del decreto presidenziale di inammissibilità per difetto di “novità” della questione (secondo decreto di inammissibilità del 9-10 maggio 2023, n. 12484). – 6. La motivazione presidenziale: “ultra-didascalica” di inammissibilità per difetto di “novità” della questione: dove il Primo Presidente accende qualche luce in più a beneficio del giudice a quo e partecipa direttamente ma sobriamente alla affermazione/evoluzione del diritto giurisprudenziale. Considerazioni generali, muovendo da un possibile catalogo di casi in cui la questione resta nuova perché in realtà i precedenti della Cassazione non la risolvono. – 7. Segue: a) nel caso di precedente “indiretto” ma utilizzabile (terzo decreto di inammissibilità del 9-10 maggio 2023, n. 12502). – 8. Segue: b) nel caso di solo apparente contrasto interno alla Cassazione (quarto decreto di inammissibilità del 9 giugno 2023, n. 16435). – 9. Ancora due chiose al decreto presidenziale del 9 giugno 2023: profilo sui generis di rilevanza della motivazione di inammissibilità per il giudice a quo (eterogenesi dei fini o consapevole sottostante dialettica fra giudice a quo e Primo Presidente). – 10. Segue: rinvio pregiudiziale e regolamento di competenza.

1.Il rapporto simbiotico fra le condizioni di ammissibilità della “novità” e delle “gravi difficoltà” e la importanza della espressa previsione di entrambe nel testo dell’art. 363, c. I: a) la “novità” della questione (se la Cassazione ha già parlato non c’è difficoltà della questione che tenga, ovverosia niente rinvio pregiudiziale per sollecitare l’overruling).

Ecco, per questa “terza puntata”, quattro decreti di inammissibilità della Prima Presidente: stili opportunamente diversi, diverso numero di caratteri nel rispetto della imperante, e qui comunque imprescindibile, sintesi. Prima di commentarli, giova una premessa per così dire teorica e astratta. Ne vedremo poi i possibili risvolti a contatto con i casi concreti.

Quale è esattamente il rapporto simbiotico fra le condizioni di ammissibilità, ormai note lippis et tonsoribus, previste espressamente dall’art. 363 bis, c. I, nn. 2 e 3, c.p.c.: quella della “novità” (“la questione non è stata ancora risolta dalla Corte di Cassazione”) e quella della “difficoltà” (“la questione presenta gravi difficoltà interpretative”)?.

La prima condizione, in astratto, potrebbe essere assorbita dalla seconda e dunque anche non oggetto di espressa previsione: se la questione è già risolta dalla Cassazione essa non presenta, almeno in apparenza, “gravi difficoltà’”. Almeno in apparenza, perché il giudice di merito potrebbe ben sottolineare argomentatamente che la soluzione della Cassazione risulta non condivisibile ed inappagante, donde appunto la intrinseca “difficoltà” di una questione interpretativa che vede in modo effettivamente problematico contrapporsi due soluzioni, una già resa dall’organo di vertice ed una diversa non peregrina e fors’anche preferibile. Ebbene la espressa previsione della condizione di ammissibilità in parola, nel novero di presupposti tutti concorrenti, esclude in radice questa possibilità: come che si voglia arzigogolare sulla “difficoltà” della questione, se quest’ultima è già risolta dalla Cassazione, condivisibilmente o meno secondo il giudice del merito, il rinvio è inammissibile. Il che vuol dire che esso è soprattutto inammissibile quale strumento di sollecitazione dell’overruling in Cassazione, e la fresca aria evolutiva, se meritata, spirerà in futuro e solo all’esito di un ricorso ordinario; restando ovviamente da stabilire – e ne diremo ancora – quando una questione possa dirsi effettivamente risolta.

2.Segue: la verifica delle “gravi difficoltà” (di là dalla théorie de l’acte clair) aumenta la discrezionalità del Primo Presidente; alla ricerca di una qualche oggettività.

Anche la seconda condizione, quella della “difficoltà” potrebbe essere non espressamente prevista. Ciò non comporterebbe affatto che tutte le questioni nuove, anche le più banali, sarebbero suscettibili di essere rinviate alla Cassazione. Verosimilmente infatti trasmigrerebbe sul nostro piano interno quella théorie de l’acte claire che fin da subito ha ragionevolmente orientato la funzione della Corte di Giustizia: anche se nuova, una questione interpretativa cervellotica, capricciosa, a risposta obbligata di fronte al tenore letterale chiaro e univoco di una disposizione di legge, è una “non questione” e non può essere oggetto di rinvio. La espressa previsione condizionante, non della semplice “difficoltà”, ma della “grave difficoltà” interpretativa alza, almeno in astratto, l’asticella della lecita richiesta di aiuto ermeneutico dal giudice di merito alla corte suprema interna, rispetto a quanto non accada tuttora – pur da tempo superata la lunga fase pionieristica – nel rapporto fra giudice nazionale e Corte di Giustizia. E la ragione è ben comprensibile e risiede nella componente di particolare “specializzazione” della Corte di Giustizia, unita alla componente di maggior rischio di difformità giurisprudenziali fra giurisdizioni di culture e paesi diversi chiamati ad interpretare il diritto euro-unionale rispetto a quanto non possa accadere per giudici di merito italiani chiamati ad interpretare il diritto nazionale.

Su questi due elementi empirici campeggia poi un concorrente dato istituzionale, rappresentato dal confinamento della funzione uniformatrice della Corte di Giustizia al solo livello preventivo, mentre la funzione uniformatrice delle corti superiori nazionali si esplica comunque ed a posteriori a livello impugnatorio. Questo dato istituzionale – al quale vanno riferite anche altre differenze tangibili fra il modello del rinvio pregiudiziale “comunitario” ed il modello della saisine pour avis e filiazioni varie compresa quella del nostro art. 363 bis (in primo luogo il carattere ad un certo stadio obbligatorio del rinvio nel primo modello, mai nel secondo) – influisce per ovvie ragioni anche sulla cennata alternativa fra la semplice estrinsecazione dell’in claris non fit interpretatio e le “gravi difficoltà interpretative” di cui al nostro art. 363 bis, c. I, n.2, separati dalla potenzialmente ampia zona delle questioni interpretative non risolvibili elementarmente e su base esclusivamente letterale ma neppure particolarmente “difficili” da risolvere.

Non solo: tutti e tre i sopradetti elementi combinati fra loro, e riassumibili, ancora una volta empiricamente, nel noto e notevole favor della Corte di Giustizia – perfino oggi ed in epoca di suo non indifferente overload – per il soccorso ermeneutico al giudice nazionale, hanno fatto sì che la théorie de l’acte clair non sia stata pressoché mai utilizzata dalla Corte, pur potendolo concettualmente essere, per la selezione dei rinvii pregiudiziali ricevibili, bensì per la ragionevole modulazione dell’obbligo di rinvio[1]. Viceversa la “grave difficoltà” ex art. 363 bis, c. l, n. 2 consegna direttamente e determinatamente al Primo Presidente in sede di filtro di ammissibilità un notevole potere di selezione dei rinvii.

È evidente altresì come questo potere sia ampiamente discrezionale, essendo tutt’altro che scolpito nel marmo il connotato oggettivo della particolare complessità interpretativa e dovendo in fin dei conti prevalere, sulla impressione soggettiva del giudice del merito (pur in perfetta buona fede e non animato, come chiunque auspica, da intenti dilatori) circa le “gravi difficoltà”, la convinzione altrettanto soggettiva del Primo Presidente e del suo ufficio.

È ancora presto per ricavare linee orientative in proposito. Può solo immaginarsi che l’approccio sarà per così dire indulgente e particolarmente collaborativo in una prima fase operativa del nuovo istituto, e dunque non troppo lontano – a dispetto di quanto è scritto nell’art. 363 bis – da una sostanziale applicazione del brocardo in claris non fit interpretatio. E sarà semmai più rigido in futuro a misura che (altra circostanza allo stato non prevedibile) aumenti notevolmente o no il flusso dei rinvii pregiudiziali. Ed è in ogni caso immaginabile che alla ricerca di un qualche scampolo di oggettività nella individuazione delle “gravi difficoltà” (rispetto al novero di questioni effettivamente tali e cioè non solo apparenti e risolvibili in virtù della chiarezza letterale della legge, ma non particolarmente difficili) lo si riscontri traendo comunque spunto dalla “novità”; sia pure considerando questa in senso diverso rispetto alla già necessaria (art. 363 bis, c. I, n. 1) mancata risoluzione della quaestio in Cassazione: scontato tale requisito, il rinvio sarà ammissibile per “grave difficoltà” della questione tutte le volte che la disposizione da interpretare sia relativamente nuova o che una apprezzabile novità socio-economica getti un fascio di luce potenzialmente innovativa su disposizione pur da tempo vigente ed affrontata dalla giurisprudenza di merito disponibile e perfino univoca, insomma tutte le volte che – a prescindere da qualunque profilo personale e soggettivo di percezione del quoziente di difficoltà interpretativa – appaia particolarmente utile al Primo Presidente (fermo l’ulteriore requisito della “serialità”) che la Corte esplichi in via preventiva la sua funzione nomofilattica; non invece ove la questione, pur non ancora risolta dalla Cassazione, possa essere affrontata scegliendo fra opzioni ermeneutiche già sedimentate nella giurisprudenza di merito o in dottrina.

3.In claris non fit interpretatio: il carattere inevitabilmente “didascalico”, per il giudice di merito, del provvedimento presidenziale di inammissibilità (primo decreto di inammissibilità del 9-10 maggio 2023, n. 12522).

Di là da ciò vi è comunque un aspetto che riguarda lo stile o meglio il contenuto del decreto presidenziale di inammissibilità per carenza di “grave difficoltà interpretativa”, ed è quello ben esibito dal primo dei provvedimenti in epigrafe.

3.1.      Il decreto presidenziale del 9-10 maggio 2023, n. 12522 dichiara inammissibile un quesito pregiudiziale prospettato del Giudice di pace di Caserta concernente la decorrenza del termine biennale di prescrizione dei corrispettivi per forniture idriche, introdotto dall’art. 1, c. 4-10, della legge di bilancio n. 205 del 2017.

La Prima Presidente rimprovera anzitutto alla ordinanza di rinvio la totale mancanza della “sintetica d’illustrazione dei fatti di causa e della conseguente incidenza della questione pregiudiziale sulla decisione”. La prima ragione di inammissibilità del rinvio è dunque la carenza della condizione di “necessità” (“alla definizione anche parziale del giudizio”) o rilevanza che dir si voglia, prevista dal n. 1 del c. I dell’art. 363 bis. Il wording della Prima Presidente, letto a contrario, detta utile integrazione del tenore dell’art. 363 bis, il quale è stato perfino sovrabbondante quanto al requisito formale integrativo della condizione di “grave difficoltà” (“l’ordinanza…..con riferimento alla condizione di cui al numero 2) del primo comma” – si legge nel c. II – “reca la specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”[2], ma fin troppo poco quanto alla condizione di rilevanza). D’ora in poi è chiaro che in relazione a questa il giudice a quo dovrà sinteticamente indicare i fatti di causa ed il profilo di incidenza della quaestio sulla decisione totale o parziale da assumere[3].

3.2.      La fumosa ordinanza di rinvio, a quanto pare, non consente neanche di stabilire esattamente quale dilemma interpretativo il giudice di merito ritenga rilevante. Ma quello che la Prima Presidente desume proposto, e su cui evidentemente l’ordinanza insiste, consisterebbe nello stabilire se il dies a quo del termine prescrizionale per il corrispettivo decorra dalla data di erogazione della fornitura idrica e di effettuazione del relativo consumo ovvero dalla data di scadenza del pagamento indicata in fattura.

A questo punto la Prima Presidente ravvisa anche la inammissibilità per carenza di “gravi difficoltà interpretative”, anzi di difficoltà qualsivoglia: in claris non fit interpretatio appunto. Ed enuncia il parametro normativo solutorio sul piano letterale: “la disposizione transitoria di cui all’art. 1, comma 10, della legge n. 205 del 2017 ha determinato esplicitamente l’evento temporalmente rilevante ai fini della decorrenza del regime prescrizionale biennale, individuandolo nella data di scadenza del pagamento delle fatture e non nella erogazione e od effettuazione e dei consumi”.

Verrebbe fatto di osservare (senza voler qui approfondire l’argomento) che l’“atto (normativo) chiaro” così segnalato elimina sicuramente e ad un tempo il problema di diritto sostanziale puro (dies a quo del termine prescrizionale) e quello di diritto intertemporale (applicazione del nuovo termine di prescrizione biennale) per il pagamento della fattura scadente dopo l’entrata in vigore della legge. Quid iuris, sotto entrambi i profili, se consumo e scadenza del corrispettivo si collocano prima dell’entrata in vigore della legge? Ma era ciò (l’uno o l’altro dei due cennati profili o entrambi) o anche ciò che interessava al Giudice di pace ai fini del decidere?            Nella lacunosità assoluta della ordinanza di rinvio in punto di rilevanza non è dato saperlo. E la Corte di Cassazione non sarà mai né dovrà mai essere la governante premurosa che fu all’inizio della sua carriera la Corte di Giustizia, allora così esotica e nuova, la quale dichiarò ricevibile un rinvio pregiudiziale che, più o meno, consisteva nella trasmissione dell’intero fascicolo con domanda equivalente, più o meno, a: “Corte di Giustizia vedi un po’ tu che questioni di interpretazione di questo nuovo strano diritto occorre risolvere per decidere il caso concreto”.

3.3.      Quel che tuttavia mi preme maggiormente sottolineare a proposito del decreto presidenziale in commento è una evidenza palpabile ma non del tutto banale: quando il Primo Presidente dichiari inammissibile il rinvio per carenza di “gravi difficoltà interpretative” e lo faccia nel modo più inossidabile e meno soggettivo che sia dato e cioè in nome dell’in claris non fit interpretatio, è ben possibile e doveroso che la motivazione del decreto additi, anzitutto al giudice remittente, la disposizione normativa il cui tenore letterale offre l’indiscutibile chiarezza solutoria. Il Primo Presidente non sta con ciò indicando una propria personale opinione interpretativa, bensì l’“atto chiaro” che elide in radice ed oggettivamente la quaestio[4], e sarebbe davvero spiacevole ed antiestetico che il Primo Presidente si richiamasse immotivatamente alla carenza del requisito ex art. 363 bis, c. I, n. 2, e cioè dicesse che la questione è una “non questione” perché letteralmente risolta dal legislatore senza dire dove e come. Sennonché motivando, e ciò dicendo, il Primo Presidente anticipa comunque, con tutta la sua non vincolante autorevolezza, il compito in punto di diritto che…integralmente rimette al giudice a quo.

4.La motivazione presidenziale di inammissibilità per difetto di “grave difficoltà”, fuori dall’ambito dell’in claris non fit interpretatio, ed il suo carattere forzatamente “non didascalico”.

Ciò non accade invece e non può accadere quando la soluzione ermeneutica sia tutt’altro che elementare e letteralmente attingibile “in claris”, e tuttavia non così ardua da integrare, ad avviso questa volta particolarmente soggettivo del Primo Presidente, la condizione delle “gravi difficoltà interpretative”. Ancor qui appigli oggettivi onde orientare la discrezionalità vincolata del Primo Presidente nel singolo caso o se si vuole il complessivo ed anche mutevole indirizzo di politica giudiziaria del suo ufficio non mancano e se ne è già fatto cenno al par. 2. Sennonché si tratta – a differenza che nel caso dell’ “atto chiaro” – di elementi estrinseci ed indifferenti rispetto alla soluzione della questione. Mentre ove il Primo Presidente volesse motivare la declaratoria di inammissibilità offrendo – di là dall’apodittico e soggettivo dire “a me non sembra poi questione così difficile” – qualche elemento intrinsecamente solutorio, incorrerebbe, a differenza a che nel caso dell’“atto chiaro”, in un paradosso difficilmente giustificabile.

Si consideri in proposito il secondo decreto in epigrafe, sempre del 9-10 maggio 2023, n. 12484 ed anch’esso di inammissibilità.

Il Tribunale del lavoro di Taranto, adeguatamente motivando, questa volta, in punto di rilevanza, propone la seguente questione: “se, ai fini della misura del trattamento pensionistico avente decorrenza dal 1 maggio 2020, la quota di pensione calcolata con il sistema «contributivo», per il periodo dal 1 gennaio 1996 in poi, possa essere riliquidata in base alla maggiorazione prevista dall’art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (come modificato dalla legge 4 agosto 1993, n. 271) per i lavoratori esposti all’amianto”.

Il Tribunale offre poi diligentemente all’attenzione della Prima Presidente e della Corte le due opzioni ermeneutiche alternative: una, favorevole all’ente previdenziale convenuto, fondata “sull’argomento testuale della norma (riferita espressamente solo al periodo lavorativo) e sulla ratio della stessa, intesa non già a conferire una provvidenza a titolo risarcitorio o indennitario” ma a “consentire un più agevole esodo dal mondo del lavoro, non trovando il beneficio applicazione ove l’interessato abbia già raggiunto l’anzianità contributiva massima”; l’altra, di segno opposto, “orientata a dare risalto alla funzione risarcitoria o indennitaria del beneficio in questione, come emergerebbe” sia pure indirettamente da altra disposizione di legge.

Caso vuole però che la Sezione Lavoro della Suprema Corte abbia già risolto la questione (come lo stesso Tribunale di Taranto mostra di sapere citando una sentenza del 2015 ed all’apparenza trascurando la necessaria concorrenza come requisiti distinti, nel senso che si è chiarito in apertura, di “novità” e “grave difficoltà”). Sicché la Prima Presidente non ha bisogno di occuparsi del quoziente di difficoltà della questione e dichiara de plano il rinvio inammissibile “facendo difetto il requisito della novità della questione” (su tale aspetto del decreto v. specificamente il paragrafo successivo).

Cosa sarebbe accaduto in caso diverso e qualora la Prima Presidente, non potendola ritenere già risolta, avesse però ritenuto la quaestio non già banale e solo apparente sulla base dell’“in claris” (come in effetti non è), e però non particolarmente ardua? La risposta in termini di inammissibilità, questa volta per difetto del requisito della grave difficoltà, avrebbe dovuto essere di regola tutt’altro che pencolante verso una delle due plausibili opzioni ermeneutiche[5] ed invece forzatamente apodittica ed autoreferenziale ed al più risolventesi in una locuzione di stile più o meno equivalente a “dalla indicazione delle diverse possibili interpretazioni offerta dallo stesso giudice di merito non si ravvisa alcuna particolare difficoltà che renda la questione meritevole di essere risolta dalla Suprema Corte con lo strumento preventivo di cui all’art. 363 bis”. Insomma: pressoché pura discrezionalità soggettiva o se si vuole assolutamente discrezionale politica giudiziaria. Perché qualunque determinata indicazione in un senso interpretativo o nell’altro da parte del Primo Presidente in sede di filtro porrebbe paradossalmente in discussione la stessa ritenuta assenza di particolare difficoltà. Il Primo Presidente che si sentisse in dovere di prendere posizione (“la quaestio è tutt’altro che particolarmente difficile perché si risolve così….”) indurrebbe immediato ed imbarazzante interrogativo in ossequio ad una ragionevole nomofilachia: “perché allora non fare intervenire la Corte, con effetto vincolante per il giudice a quo nonché potenziato effetto persuasivo per i giudici futuri?”. Di fronte a plausibili e divergenti opzioni ermeneutiche segnalate esplicitamente o implicitamente dal giudice di merito ha senso rispondergli in termini di inammissibilità per difetto di “gravi difficoltà” solo se, almeno di regola, ci si limita a dirgli “veditela tu perché ciò rientra assolutamente nei tuoi normalissimi compiti”, non se gli si danno al contempo istruzioni solutorie[6]. Le quali, tosto che ritornino alla base, sebbene contenute in un semplice decreto di inammissibilità, incentiverebbero inopportunamente altri giudici di merito a fare altrettanto e cioè a rinviare questioni nuove ma semplici, per soprassedere ad un compito in realtà agevole se lo si assolve con sufficiente studio, e per ottenere, in luogo di ciò, una qualche autorevole illuminazione pur non vincolante.

5. La motivazione puramente “didascalica” (come nel caso dell’in claris non fit interpretatio) del decreto presidenziale di inammissibilità per difetto di “novità” della questione (secondo decreto di inammissibilità del 9-10 maggio 2023, n. 12484).

Intorno all’altra condizione di ammissibilità, quella della “novità” della questione, si agitano – quanto allo stile ed al contenuto ottimale del decreto di inammissibilità del Primo Presidente – problematiche da un lato più semplici d’altro lato comunque complesse e delicate.

5.1.      Semplificatorio è indubbiamente il fatto che la valutazione circa la constatazione della già intervenuta o meno risoluzione della questione ad opera della Cassazione sia di certo opinabile come tutto lo è (e qui in relazione alla proteiforme e ciclopica giurisprudenza della nostra Suprema Corte nonché al contenuto delle singole sentenze, più o meno chiaro e/o più o meno idoneo a risolvere in ipotesi oltre all’una questione, irrilevante nel giudizio a quo, anche altra invece rilevante), e però in astratto sia valutazione prevalentemente oggettiva e non venata dal soggettivismo che connota la valutazione di non particolare difficoltà del dubbio interpretativo al di fuori del caso dell’in claris non fit interpretatio: la precedente soluzione della Suprema Corte (così come la disposizione “chiara ed espressa” secondo quanto si è detto in precedenza) o c’è o non c’è, e normalmente l’Ufficio del Primo Presidente ha oltretutto maggiore facilità che non il giudice del merito nel rinvenirla, se c’è, e indicarla.

E come accade nel caso dell’in claris non fit interpretatio mediante la indicazione della disposizione di legge chiara ed univoca, di regola la indicazione degli estremi ed eventualmente della massima del precedente o dei precedenti solutori varrà insieme a giustificare la declaratoria di inammissibilità del rinvio, ma anche a dare lumi al giudice rimettente: “non hai necessità di pronuncia pregiudiziale sulla questione perché su di essa la Corte ha già pronunciato per come espressamente ti indico”. Ben inteso si tratta di lumi non vincolanti, che il giudice di merito potrà seguire o meno, e così potrà, non seguendoli, sollecitare consapevolmente o inconsapevolmente un revirement al momento della decisione sull’eventuale ricorso ordinario avverso la pronuncia di merito; quel che non potrà è invece – per come l’art. 363 bis è concepito e scritto – sollecitare il revirement o la conferma del precedente orientamento attraverso il rinvio pregiudiziale, per intrinsecamente complessa che egli, soggettivamente, reputi la questione interpretativa già risolta dalla Cassazione (va qui fermamente ribadito quanto si è già detto in apertura del commento, al par. 1).

5.2.      Il secondo dei due decreti di inammissibilità in epigrafe, sempre del 9-10 maggio 2023 n. 12484, esibisce per l’appunto questa semplice modalità di risposta. Semplice ma doverosamente accurata nella sua semplicità (forse non sarà sempre così oltre il primo anno di vita o non potrà esserlo se i rinvii si moltiplicheranno). La Prima Presidente non solo indica precedente specificamente solutorio della Sezione Lavoro (13 luglio 2017, n. 17433) aggiuntivo e successivo rispetto a quello del 2015 (6 luglio 2015, n. 13870), che lo stesso rimettente aveva evidentemente considerato come non risolutivo sebbene conforme ad uno dei due corni interpretativi, ma segnala anche altri precedenti su problematiche collaterali che si pongono con quelli in relazione di piena sintonia, come a dire nel complesso: la Sezione Lavoro ha già risolto, e più che fermamente e meditatamente.

Quando il Presidente adotta siffatta modalità nel motivare la inammissibilità restituisce al giudice rimettente una utile suggestione solutoria della lite senza però aggiungere nulla, neppure di semplicemente e vagamente persuasivo, rispetto allo stesso precedente della Suprema Corte che addita.

6.La motivazione presidenziale: “ultra-didascalica” di inammissibilità per difetto di “novità” della questione: dove il Primo Presidente accende qualche luce in più a beneficio del giudice a quo e partecipa direttamente ma sobriamente alla affermazione/evoluzione del diritto giurisprudenziale. Considerazioni generali, muovendo da un possibile catalogo di casi in cui la questione resta nuova perché in realtà i precedenti della Cassazione non la risolvono.

6.1.      E’ chiaro poi che all’opposto vi sono le ipotesi in cui, sebbene la questione interpretativa oggetto del rinvio sia tutt’altro che vergine e la Suprema Corte se ne sia già occupata, il rinvio debba essere ammesso perché non la si può considerare risolta. Si tratta di ipotesi varie che vanno, salvo altre,

(i) dal contrasto davvero irrisolto interno alla Corte (dopo di che il rinvio pregiudiziale dovrà invariabilmente prendere la strada delle Sezioni Unite);

(ii) alla soluzione solo apparente perché resa palesemente in obiter;

(iii) alla soluzione solo apparente perché assai risalente e formulata in relazione a contesto economico-sociale ovvero sistematico-normativo totalmente mutato;

(iv) alla soluzione intrinsecamente non chiara, ove cioè lo stesso giudice rimettente imposti un rinvio di fatto interpretativo, eventualmente anche in relazione alle peculiarità del caso concreto, del precedente della Suprema Corte ed il Primo Presidente ritenga in concreto ragionevole siffatta impostazione (in astratto non certo escludibile, come dimostra la analoga prassi di rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia più o meno dichiaratamente “interpretativi” di pronunce della medesima);

(v) alla soluzione in thesi smentita dalla Corte di Giustizia, dalla CEDU o (in selezionati casi) dalla Consulta, che merita dunque (ove possibile) specifica conferma o bouleversement ad opera della stessa Cassazione, avendo quei pronunciamenti valenza para-normativa; sennonché – salvo, di regola, il caso di declaratoria di incostituzionalità – essi non offrono, di regola, inossidabile certezza tale che la questione possa essere considerata di agevole soluzione e non meriti invece di essere riaffrontata dalla stessa Cassazione;

(vi) alla soluzione effettiva di questione A dalla quale non può prescindersi per risolvere armonicamente la diversa questione o sotto-questione B, sol che tale armonico svolgimento giurisprudenziale è opportuno affidare alla medesima Cassazione[7].

È inutile dire come il riscontro concreto di tali situazioni e la conseguente declaratoria di ammissibilità del rinvio sia palestra eminente della discrezionalità e della politica giudiziaria del Primo Presidente.

6.2.      Nel mezzo fra questi due poli vi è una ampia zona grigia – anche essa palestra di ampia discrezionalità del Primo Presidente – che conduce pur sempre a declaratoria di inammissibilità e però con modalità motivazionale diversa. Tale diversa modalità motivazionale è quella esibita dalla terza (ancora 9-10 maggio 2023, n. 12502) e dalla quarta (9 giugno 2023 n. 16435) delle pronunce presidenziali in epigrafe, e richiede particolare circospezione ed accortezza.

Si tratta dei casi in cui l’ordinanza di rinvio abbia evocato – o risulti comunque in apparenza evocabile – una delle situazioni appena sopra riassunte da (i) a (vi), ma il Primo Presidente sia tuttavia di contrario avviso e ritenga per chiarezza di dover spiegare il perché. Questa ulteriore esplicazione – ben inteso – non è affatto un imprescindibile dovere motivazionale nel quadro di un provvedimento inteso al semplice filtraggio, bensì un ulteriore e ragionevole ossequio all’effetto utile, anche in caso di declaratoria di inammissibilità, di un istituto che consiste pur sempre nel dialogo fra “giudice e giudice” finalizzato non solo all’incremento della nomofilachia pro futuro ma anche alla decisione sul caso concreto (accade insomma – mutatis mutandis – qualcosa di simile alla restituzione degli atti al giudice a quo, da parte della Corte Costituzionale, con qualche istruzione per l’uso della interpretazione costituzionalmente orientata).

Sicché, dunque, la precedente soluzione della Cassazione, che preclude il rinvio, non è solo additata, ma anche sobriamente illustrata ed esplicata: “il rinvio è inammissibile perché la Cassazione ha già risolto la questione e ti esplicito anche perché e come la questione va considerata risolta”. E così la motivazione del Primo Presidente aggiunge, rispetto a ciò che la Cassazione ha già detto, qualcosa di (sempre non vincolante ma) persuasivamente particolarmente illuminante – ultra-didascalico come ho detto nel titolo del paragrafo – per il giudice di merito, al quale pure restituisce la palla in termini di inammissibilità del rinvio.

Ed il problema sta nella dimensione e nel tono o contenuto di una simile “aggiunta”: se essa è troppo timida o troppo allusiva o evasiva rischia di risultare totalmente inutile (ed allora sarebbe meglio non aggiungere niente); se essa è eccessiva o troppo dettagliata susciterà immediatamente l’impressione che in realtà la precedente soluzione della Corte non fosse davvero tale, che si rientrasse piuttosto ed effettivamente in una delle ipotesi da (i) a (vi) di ragionevole ammissibilità del rinvio, ed insomma che tanto valesse che a rispondere dettagliatamente sulla portata e l’operatività del precedente orientamento della Cassazione fosse la stessa Cassazione in composizione collegiale, con effetto vincolante nel caso singolo e maggiore persuasività erga omnes.

7.Segue: a) nel caso di precedente “indiretto” ma utilizzabile (terzo decreto di inammissibilità del 9-10 maggio 2023, n. 12502).

7.1. Il Tribunale di Verona, nell’ambito di uno dei più peculiari e diffusi contenziosi seriali di questo ultimo torno di tempo, rinvia alla Cassazione il seguente quesito: “se sia consentito al giudice, in una controversia tra privati, disapplicare la norma nazionale istitutiva dell’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica (art. 6, comma 2, del decreto-legge n. 511 del 1988), mantenuta in vigore dal 1° gennaio 2010 fino all’abrogazione (decorrente dal 1° gennaio 2012) nonostante il contrasto con la sopravvenuta direttiva 2008/118/CE”.

Il contenzioso seriale in discorso vede contrapposti i clienti finali ai fornitori di energia elettrica. I primi, sul presupposto della contrarietà della normativa tributaria interna a direttiva unionale richiedono ai secondi, per il periodo corrente fra l’emersione del contrasto e l’abrogazione della prima, la restituzione a titolo di ripetizione di indebito oggettivo della quota parte del prezzo di fornitura mediante cui il fornitore ha ribaltato sul cliente la c.d. “addizionale accisa” sull’energia, prevista appunto da quella legislazione interna. Nel complicato, e dunque tipicamente nostrano, sistema normativo e giurisprudenziale di riferimento (che qui si sintetizza all’estremo) il fornitore potrà poi, ma solo dopo la sua eventuale condanna alla restituzione di quella parte del prezzo in favore del cliente, richiedere alla amministrazione competente (nella specie di regola l’Agenzia delle Dogane) il rimborso della corrispondente imposta.

La Cassazione ha da tempo chiarito che, analogamente a quanto accade in altri simili casi di triangolazione, il rapporto tra il cliente ed il fornitore è un rapporto “civilistico” rimesso in caso di contenzioso alla giurisdizione ordinaria, mentre quello fra il fornitore (quale unico soggetto di imposta) e l’amministrazione impositrice è un rapporto “tributario” rimesso eventualmente alla cognizione della giustizia tributaria.

Di fronte ai giudici di pace, ai tribunali ordinari ed ormai anche alle corti d’appello investiti delle controversie “civilistiche” fra clienti finali e fornitori si agitano varie questioni fattuali di dettaglio ma anche questioni giuridiche seriali (fra esse perfino quella di verificare se davvero vi sia contrarietà fra quella specifica normativa tributaria italiana sulla “addizionale accisa” e quella specifica direttiva, visto che la Corte di Giustizia si è fino ad ora pronunciata, interpretando la direttiva, sì nel senso del contrasto ma con riferimento ad altre imposte nazionali)[8].

Ma la principale quaestio iuris seriale, che sta dando luogo a responsi di segno diametralmente opposto sul territorio nazionale, è appunto quella posta dal Tribunale di Verona: se nel giudizio civile fra privati, quale è quello fra cliente e fornitore, al giudice non è dato disapplicare la disposizione interna[9] per eventuale contrasto con la direttiva in nome del noto principio della efficacia solo “verticale” e non “orizzontale” delle direttive, la domanda ripetitoria del cliente andrà respinta per la impossibilità di verificare in iure l’indebito; non così ove si ritenga possibile quella disapplicazione.

7.2.      Sia il Tribunale di Verona sia la Prima Presidente hanno ben chiaro che il dubbio non riguarda in generale ed in astratto la sussistenza o meno nel principio della efficacia solo “verticale” delle direttive con conseguente limite al dovere giudiziale di disapplicazione della normativa interna confliggente. Se fosse solo perciò la questione sarebbe tutt’altro che difficile, ed anzi a risposta più che tradizionale e “manualistica” che la stessa Corte di Giustizia ha seguitato a più riprese a confermare anche in epoca recente interpretando in via sistematica l’art. 288 TFUE.

Ma la motivazione del decreto presidenziale aggiunge esplicativamente alla enunciazione del quesito: “Nel disporre il rinvio pregiudiziale, il Tribunale di Verona considera, in particolare, le gravi difficoltà interpretative emerse, a tale riguardo, presso i giudici di merito, dove si fronteggiano due orientamenti. Un primo filone richiama l’indirizzo secondo cui non è consentito al giudice, in una controversia tra privati, disapplicare una disposizione nazionale contrastante con una direttiva UE, pena il riconoscimento dell’effetto diretto orizzontale delle direttive, escluso dalla Corte di giustizia. Vi si contrappone un diverso orientamento, il quale fa leva sulla contrarietà dell’addizionale ai principi unionali elaborati dalla Corte di giustizia”.

Si tratta dunque di calarsi nel peculiare contenzioso di che trattasi – relativo a quella imposta ed a quell’oggetto, “civilistico” e “contrattuale”, del giudizio a quo, e verificare se possa esservi una ragione per derogare al principio istituzionale e “manualistico” della efficacia solo “verticale” delle direttive. La ragione che pare adombrata dal Tribunale di Verona, e ripresa (in modo, per vero altrettanto sfumato) dalla motivazione presidenziale, è appunto quella – corrispondente ad uno dei due corni del dilemma interpretativo non a caso scelto da molte delle sentenze di merito che accolgono le domande dei clienti finali – data dalla circostanza che la portata della direttiva (sia pure con riferimento ad imposte previste da altri legislatori ed in thesi equivalenti alla “addizionale accisa” italiana) sarebbe stata già decifrata dalla Corte di Giustizia: la disapplicazione giudiziale della normativa interna avrebbe dunque luogo non per semplice contrasto con la direttiva bensì per contrasto con una direttiva illuminata dai “principi elaborati dal Corte di Giustizia” (insomma e detto a più chiare lettere – che forse avrebbero potuto essere adoperate utilmente anche dal giudice rimettente – la valenza erga omnes della interpretatio della Corte di Giustizia è o non idonea ad estendere in senso “orizzontale” la efficacia della fonte primaria interpretata, la quale, essendo una direttiva, avrebbe invece efficacia solo “verticale” ?)[10].

Stando così le cose, è ovvio che la soluzione pacifica e perfettamente riconoscibile, da parte della Cassazione, di una siffatta questione generale compenetrata però in una situazione contenziosa peculiare potrebbe arrivare (in alternativa al responso pregiudiziale che qui è stato negato) solo dalla decisione su un ricorso ordinario conclusiva di una delle cause seriali cui ho fatto cenno. Ma una tale decisione ancora non vi è e la Prima Presidente non può richiamarla per liquidare in due righe, per difetto di “novità” della questione, la richiesta di pronuncia pregiudiziale.

La inammissibilità del rinvio per difetto di “novità” è dunque enunciata in modo particolarmente ponderato ed ellittico: “Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione non manca l’enunciazione di principi idonei ad orientare la risoluzione [non, dunque, a somministrarla direttamente] della questione interpretativa posta dal rimettente”.

7.3.      Siamo in realtà sul crinale fra ammissibilità ed inammissibilità, fra “novità” e “non novità”, fra necessità di un intervento nomofilattico pregiudiziale della Corte rispetto a questione in sé nuova ma da risolversi in stretta contiguità ed armonia con soluzioni già date ad altre questioni, ma per carità che sia proprio la Corte a stabilire in cosa consistano contiguità e armonia, ed invece non necessità di quell’intervento perché la contiguità ed armonia ed il loro tracciato già emergono “dalla enunciazione” [in altro contesto] “di principi idonei ad orientare…..”.

La motivazione nel senso della inammissibilità del rinvio corrisponde alla scelta di questa seconda alternativa, ma qualche spiegazione aggiuntiva oltre alla mera indicazione dei precedenti utili, deve pur darla.

Si pone così, proprio in questo caso concreto, il difficile equilibrio cui accennavo in termini di massima al temine del paragrafo precedente: less is more, certamente, perché altrimenti – e se fosse too much – sarebbe forte il sospetto che la questione sia tutt’altro che (pur indirettamente e mediante orientamenti paralleli) già risolta e che allora tanto varrebbe ammettere il rinvio e farla risolvere alla Cassazione; ma quanto less ? perché se è too less il risultato sarà il perdurare della incertezza e, a misura che il requisito della serialità sussista, come nella specie, in modo pronunciato su tutto il territorio nazionale, il perdurare di quella incertezza ed il moltiplicarsi di decisioni di segno opposto, fino alla prima ventura decisione della Cassazione su ricorso ordinario, potrebbe far comunque ed egualmente rimpiangere un via libera alla decisione pregiudiziale.

Non vorrei neanche minimamente permettermi di giudicare – e lasciare semmai alla personale opinione del lettore – se la motivazione presidenziale sia in questo specifico caso too much, too less, ovvero pienamente adeguata. Ma per lo meno vorrei analizzare in che modo quella motivazione, dopo aver richiamato scientemente un precedente della Cassazione non esattamente e direttamente in termini, aggiunga sintetiche indicazioni sulla sua utilizzabilità solutoria della questione oggetto del rinvio.

Nel far ciò dovrò inevitabilmente propendere per una delle possibili soluzioni di merito: quella della impossibilità, anche nella specie, di deroga al confinamento solo “verticale” della efficacia della direttiva nei rapporti con l’assetto interno e perciò della impossibilità di disapplicazione, in un giudizio fra privati, delle disposizioni nazionali con essa in ipotesi confliggenti. La cosa mi mette alquanto in imbarazzo perché nel contenzioso seriale in discorso sono impegnato professionalmente. Ma siccome il decreto presidenziale era particolarmente interessante sul piano del metodo e nel complessivo quadro degli altri che commento, preferisco una volta tanto non astenermi – come si dovrebbe di solito fare – dalla commistione fra i due ruoli e perciò dichiarare apertamente quell’altro ruolo e far qui promessa della massima oggettività e sobrietà possibili. Promessa agevolata da ciò che è constatazione inevitabile di seguito a quanto ho fino ad ora esposto. Qui non si tratta ovviamente a) di ricavare dalla motivazione presidenziale, come fosse una normale motivazione della Cassazione sia pure in formato ridotto, la esposizione delle specifiche ragioni e degli argomenti solutori di una quaestio iuris (ad esempio gli svolgimenti argomentativi idonei a dimostrare che – come personalmente riterrei – le pronunce della Corte di Giustizia, del tutto a prescindere dai loro c.d. effetti erga omnes, e dalla esatta misura e dall’esatto senso di tali effetti, restano pronunce interpretative e non possono modificare l’efficacia originaria della fonte normativa interpretata né perciò trasformare in “orizzontale” la efficacia “verticale” delle direttive), ma più semplicemente b) di individuare nella motivazione presidenziale gli elementi illustrativi ed esplicativi, perfino  apodittici, di riconducibilità di quella soluzione ad una precedente decisione della Cassazione quando la cosa non è affatto di palmare evidenza. La differenza fra a) e b) può essere più o meno sottile, ma va tenuta ferma perché se la motivazione presidenziale di inammissibilità del rinvio prendesse la strada a) essa risulterebbe davvero too much; posto che anche il suo contenuto b), quando non sia too less, offre al giudice di merito, anzi ai giudici di merito, un ausilio motivazionale, foss’anche per una motivazione poco argomentata in diritto e prevalentemente per relationem alla auctoritas della Cassazione per come esplicata dalla auctoritas del suo Primo Presidente.

7.4.      La motivazione presidenziale richiama dapprima – ma la cosa come subito vedremo è marginale e dettata da scrupolo di completezza – due sentenze della Sezione Tributaria della Cassazione (Cass. 4 giugno 2019, n. 15198 e Cass. 23 ottobre 2019, n. 27101), e segnala come esse affermino la incompatibilità fra la direttiva, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, e la normativa tributaria interna sulle “addizionale accisa” di che trattasi, ed il conseguente dovere del giudice nazionale di disapplicare quest’ultima. Trattandosi di giudizio tributario nei confronti della Agenzia delle Dogane, e dunque di un giudizio fra pubblica amministrazione e privato, è ovvio che ciò nulla dice sul diverso problema della disapplicazione della normativa interna per contrasto con la direttiva in un giudizio fra privati e cioè sul problema (circa una eventuale ed eccezionale efficacia “orizzontale” della direttiva) posto dal Tribunale di Verona rimettente. Il quale da questo primo richiamo della motivazione presidenziale apprenderà soltanto, ammesso che non lo sappia già, che la Cassazione, sebbene la Corte di Giustizia abbia interpretato la direttiva in relazione ad imposte nazionali diverse da quella italiana, ritiene anche per questa sussistente il contrasto; dal che si trae semplicemente conferma della rilevanza del diverso quesito posto dal Tribunale di Verona circa la possibilità che quel contrasto generi disapplicazione della normativa interna anche in un giudizio fra privati[11].

Di seguito la motivazione presidenziale viene a tale quesito e, non avendo a disposizione un precedente fra privati e cioè fra cliente finale e fornitore di energia, ne indica altro utile (“più in particolare….”) sempre della Sezione Tributaria (Cass. 25 ottobre 2022, n. 31609 [da segnalare che altro e gemello fra le stesse parti reca la medesima data ed il n. 31618], con il quale quest’ultima ha, sulla scia del suo anch’esso costante insegnamento, respinto nel merito la richiesta di rimborso della “addizionale accisa” che il cliente finale aveva indirizzato direttamente alla amministrazione finanziaria ed innanzi al giudice tributario.

Di questo precedente riassume il decisum: il cliente finale di regola può solo agire “civilisticamente” nei confronti del fornitore per la ripetizione quale indebito oggettivo della quota parte del prezzo corrispondente alla imposta in tutto o in parte non dovuta; solo eccezionalmente, e quando sia dimostrata “l’impossibilità o la eccessiva difficoltà di tale azione”, il cliente finale può tutelarsi mediante azione diretta per il rimborso dell’imposta innanzi al giudice tributario e nei confronti dalla amministrazione; tale ipotesi eccezionale è tuttavia – riassume sempre la motivazione presidenziale – “da riferire alla situazione in cui si trovi il fornitore [ad esempio, e come la Cass. n. 31609/ 2022 chiaramente precisa sulla scia di pronunce della Corte di Giustizia, insolvenza del fornitore o troppo rigidi termini preclusivi di diritto interno per la richiesta di rimborso del fornitore] e non al fatto che il pagamento indebito dell’imposta derivi dalla contrarietà della direttiva a norma interna in tema di accise” [da Cass. n. 31609/2022 si evince altrettanto chiaramente che il ricorrente aveva appunto dedotto come ostacolo alla sua azione ripetitoria civilistica la impossibilità di applicare la direttiva e disapplicare le norme interne confliggenti in un giudizio fra privati: la Cassazione rileva che ciò riguarda la situazione del cliente finale e non quella oggettiva del fornitore, e cioè l’unica cui possa essere “riferita” la cennata ipotesi di “impossibilità o eccessiva difficoltà” della azione civilistica, che giustifica la diretta azione tributaria del cliente finale].

Poi la Cassazione del 2022 si preoccupa di precisare che il cliente finale non resta comunque senza tutela, e la motivazione presidenziale del decreto di inammissibilità aggiunge esplicativamente e conclusivamente: “la tutela – ha sottolineato la Corte, affrontando la questione alla luce della efficacia diretta solo verticale della direttiva – è comunque garantita (anche, ma non solo, in caso di carenza dei presupposti di eccezionalità che legittimerebbero l’azione nei confronti della Amministrazione finanziaria) con la possibilità di «esercitare azione nei confronti dello Stato per ottenere il risarcimento del danno subito per mancato adeguamento del diritto nazionale al diritto della Unione europea»                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             ”.

Sembra insomma che la motivazione presidenziale così spieghi il tutto: la Cassazione del 2022, pur non pronunciando fra privati e pur essendo costretta a confermare la normale impossibilità per il cliente finale di chiedere il rimborso della imposta direttamente alla amministrazione finanziaria, si è preoccupata della tutela effettiva del cliente finale; se ne è preoccupata proprio “alla luce della efficacia solo verticale della direttiva” e dunque al fatto che nel giudizio “orizzontale” di ripetizione fra cliente e fornitore ciò sia di ostacolo alla disapplicazione della normativa interna in favore del cliente; nonostante ciò – che discende, anche nella specie ed in tale giudizio, dalla perdurante efficacia solo “verticale” delle direttive – il cliente finale non è sguarnito di “tutela effettiva” (e dunque risulta pienamente rispettato il corrispondente e generalissimo principio unionale), perché – se pure non può ottenere, per mano del giudice civile e previa (impossibile) disapplicazione delle norme interne, la ripetizione dal fornitore e neppure si trova nelle condizioni oggettive per rivolgersi eccezionalmente e direttamente alla amministrazione finanziaria innanzi al giudice tributario (“anche, ma non solo, in caso di carenza” di quei “presupposti di eccezionalità”) – gli è aperta la via della causa risarcitoria allo Stato, innanzi al giudice civile, per violazione del diritto dell’Unione, e cioè per non essersi la legislazione statuale correttamente conformata alla direttiva.

Sicché nella complessiva “lettura” della motivazione presidenziale il precedente della Cassazione, che rende (indirettamente) già risolta la questione posta dal Tribunale di Verona, risulta esattamente combaciante con la fin troppo nota giurisprudenza Francovich [CGUE 19 novembre 1991, c. 6 e 9/90, ribadita anche dalle più recenti sentenze 7 agosto 2018, c. 122/17, 11 aprile 2019, c. 691/17] e cioè proprio quella che postula l’azione risarcitoria del privato contro lo Stato sul presupposto del pregiudizio non evitabile a cagione della impossibilità di disapplicare, nei rapporti fra privat,i la normativa interna pur confliggente con una direttiva.

8.Segue: b) nel caso di solo apparente contrasto interno alla Cassazione (quarto decreto di inammissibilità del 9 giugno 2023, n. 16435).

Dal decreto di inammissibilità del 9 giugno 2023 n. 16435 si evince chiaramente come il Tribunale di Milano – di fronte a questione di individuazione del foro erariale inderogabile da risolversi in correlazione con la normativa speciale sulla contabilità pubblica (art. 1 legge 28 marzo 1991, n. 104 “come richiamato implicitamente dalle altre disposizioni in materia di contabilità di Stato”) – prenda atto della recente Cass. Sez. VI-3, 8 novembre 2022, n. 32766, ma vi contrapponga una serie di altre pronunce esprimenti a suo dire un “consolidato orientamento” della Suprema Corte di segno contrario. Tale “consolidato orientamento” condurrebbe nella specie, sempre attraverso il tramite della determinazione della sede dell’Avvocatura erariale del distretto, al foro ove è localizzato il creditore (Milano); la pronuncia più recente condurrebbe invece al foro ove è localizzata l’amministrazione debitrice (Roma).

La motivazione presidenziale scioglie l’equivoco in una meditata pagina e mezzo: confina i “numerosi precedenti, richiamati dalla stesso giudice a quo”, e cioè il consolidato orientamento da lui assunto, alla semplice conferma della applicazione del criterio del “forum destinatae solutionis allorché sia evocata in giudizio una amministrazione centrale dello Stato per il pagamento di una somma di denaro”, in quei casi individuato, per pagamenti che non avvengono a mezzo ruolo, nel luogo della tesoreria provinciale del domicilio del creditore. Poi precisa che il portato autonomo e solutorio, ai fini della questione di specie, della recente Cass. 8 novembre 2022, n. 32766, tutt’altro che in contrasto diretto con quei precedenti, consiste nella coniugazione del criterio del forum destinatae solutionis con le regole di contabilità di Stato, le quali – come per altro lo stesso tribunale a quo aveva ben compreso nel riportare il contenuto di quella Cass. – “vertendosi in ipotesi di debiti di denaro della Presidenza del Consiglio dei Ministri” fanno coincidere il luogo di esecuzione dell’obbligazione, del tutto a prescindere dal pagamento mediante ruoli o meno, con “la tesoreria dell’ente debitore che ha sede in Roma”.

La morale è che la motivazione di inammissibilità da un lato rivela come insussistente l’apparente contrasto interno alla Suprema Corte e conferma come leading case, utile alla soluzione della questione di competenza per come posta, proprio Cass. n. 32766/2022, la quale poco tempo prima aveva pronunciato su regolamento di ufficio proposto dallo stesso Tribunale di Milano in situazione analoga; d’altro lato smaschera il vero tentativo sotteso alla ordinanza di rinvio come quello di un giudice di merito “ben consapevole di avere a sua disposizione un indirizzo univoco sul piano della enunciazione del principio” (l’aveva stimolato e ottenuto egli stesso quell’indirizzo) e mirante “piuttosto a fare emergere sfumature, a suo avviso, non pienamente collimanti nelle [precedenti] pronunce della Corte regolatrice” (contrasto insussistente dunque, e però situazione giurisprudenziale foriera di qualche equivoco), ma in realtà – ciò non dice la motivazione presidenziale ma credo di intuirlo io – a provocare un ripensamento della pronuncia più recente.

9.Ancora due chiose al decreto presidenziale del 9 giugno 2023: profilo sui generis di rilevanza della motivazione di inammissibilità per il giudice a quo (eterogenesi dei fini o consapevole sottostante dialettica fra giudice a quo e Primo Presidente).

La singolarità di questo caso risiede nella circostanza che – come si ricava anche dalla motivazione presidenziale – il Tribunale di Milano non era affatto chiamato a decidere sulla propria competenza, bensì solo a delibare ogni inerente questione allo scopo di statuire sulle spese di lite dopo che la parte attrice aveva aderito all’eccezione della amministrazione convenuta. La stessa parte attrice aveva dichiarato, chiedendo la compensazione delle spese, di aver aderito alla eccezione della convenuta alla luce della “oggettiva controvertibilità della materia del foro territorialmente competente, sulla quale solo da ultimo è stato individuato un indirizzo interpretativo univoco [quel che invece il Tribunale rimettente seguitava a non considerare univoco] anche in ragione della recentissima pronuncia della Suprema Corte di cassazione (ord. n. 32766/2022 dell’8 novembre 2022)”.

A voler sottilizzare, si poteva dunque perfino dire irrilevante il quesito pregiudiziale interpretativo di norme inerenti alla individuazione della competenza, perché a quella delibazione corrisponde discrezionalità vincolata del giudice di merito connessa a giudizio eminentemente fattuale (sebbene anche su fatti normativi e giurisprudenziali), concernente il se il grado di incertezza a parte actoris sulla individuazione della competenza sia o meno idoneo a giustificare la condanna alle spese. Ebbene, e senza voler dare ovviamente istruzioni pregiudiziali al Tribunale di Milano, un giudice che è anch’egli così “incerto” sull’assetto giurisprudenziale da interrogare la Cassazione ex art. 363 bis dovrebbe per un minimo di decenza ritenere più che giustificata l’incertezza dell’attore e compensare le spese. E, si badi, ciò dovrebbe fare – ed in ciò la conferma palmare della irrilevanza della questione rinviata – anche se il rinvio fosse ammesso e la Cassazione sciogliesse ma solo a posteriori l’incertezza. Che la motivazione presidenziale di inammissibilità, quanto alla pregressa soluzione della Corte, sia non meramente didascalica (il sospetto di incertezza giurisprudenziale in Cassazione non ha assolutamente ragion d’essere), bensì ultra-didascalica nel senso evidenziato al paragrafo precedente (l’incertezza giurisprudenziale in Cassazione in realtà non sussiste, ma la cosa non appare poi così scontata tanto da indurre il Primo Presidente a qualche spiegazione aggiuntiva) dovrebbe rafforzare il giudice a quo circa la ragionevolezza della compensazione delle spese, e cioè orientarlo in relazione alla vera decisione che egli è chiamata ad assumere.

10.Segue: rinvio pregiudiziale e regolamento di competenza.

Al termine del decreto di inammissibilità del 9 giugno 2023 n. 16435 si legge: “e tenendo conto, per altro verso, che se è interesse dell’ordinamento processuale la rapida definizione della questione di competenza, per il perseguimento di tale obiettivo il codice appresta il regolamento di competenza e il conflitto di competenza”.

Il riferimento alle due specie di regolamento di competenza pare qui venialmente ultroneo perché né le parti né il Tribunale di Milano avevano a disposizione, per forza di cose, quel mezzo.

Se lo avesse avuto a disposizione la parte, il riferimento sarebbe comunque per definizione inconferente e non vi sarebbe cioè, a differenza che per il regolamento di giurisdizione[12], il benché minimo sospetto di interferenza preclusiva del regolamento di competenza rispetto al rinvio pregiudiziale. Quando nasce il potere di parte di proporre il regolamento di competenza la questione è ovviamente già decisa dal giudice del merito; né si può certo dire che costui, prima di deciderla e di fronte ad un dubbio interpretativo in proposito, debba considerarsi sempre impedito dal rinvio pregiudiziale alla Cassazione sol perché in via meramente ipotetica una parte potrà sottoporre, a decisione assunta, il medesimo dubbio alla stessa Cassazione (questo tipo di approccio rientra semmai nelle subliminali valutazioni del giudice che presiedono alla sua semplice facoltà di utilizzare il mezzo del rinvio pregiudiziale).

Quanto invece al “secondo giudice”, che intenda proporre il regolamento d’ufficio e sollevare il conflitto ex art. 45 c.p.c., il rinvio pregiudiziale gli sarà sempre impedito dalla irrilevanza della questione interpretativa relativa alla competenza: per proporre il regolamento d’ufficio basta che egli, dopo la riassunzione della causa a seguito della prima declinatoria, (non già decida sulla, bensì) dubiti della propria competenza e non gli è affatto necessario risolvere ogni inerente questione, ché anzi è proprio l’incertezza e cioè la mancata soluzione che corrisponde al dubbio come requisito necessario e sufficiente per la proposizione del regolamento. E il dubbio, e perciò la piena facoltà di investire la Cassazione d’ufficio, può ben sussistere anche se vi è già un orientamento interpretativo della Suprema Corte sulla quaestio (correlativamente, e a differenza del rinvio pregiudiziale, la proposizione ex officio del regolamento può ben esprimere una divergenza del giudice di merito rispetto ad orientamento perfino consolidato della Suprema Corte e valere alla sollecitazione dell’overruling).

[1] Vedi, se vuoi, BRIGUGLIO, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova, 1996, 195 ss.

[2] Ho già detto del carattere tutto sommato esornativo di questa precisazione in Il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Cassazione, in Il Processo, 2022, 947 ss., spec. 954 s.

[3] In proposito v. già TISCINI, Il rinvio pregiudiziale. La disciplina. La casistica, di imminente pubblicazione in Giust. civ., 2023, § 6, anche con riferimento al caso qui esaminato.

[4] Che poi anche in ciò possa annidarsi valutazione eminentemente soggettiva, oltretutto nella esclusione di ogni diverso criterio ultra o praeter-letterale, è altro discorso e dipende dalla notoria relatività perfino di quel noto brocardo.

[5] Gli svolgimenti di cui nel testo nonché quelli immediatamente precedenti riguardano ovviamente le ipotesi di alternativa fra due o più plausibili opzioni ermeneutiche. Lo scarto di una opzione interpretativa assolutamente cervellotica, invece, altro non è che applicazione in negativo dell’in claris non fit interpretatio, e può ben essere dunque esplicitamente suggerito anche nella motivazione di un decreto di inammissibilità del Primo Presidente.

[6] Che poi ciò finisca col somigliare – mutatis mutandis – a quel cassare per violazione di legge e rinviare senza alcuna istruzione interpretativa al giudice di rinvio, che fu della originaria esperienza del Tribunal de Cassation rivoluzionario, non deve stupire: razionalmente opposto ma parallelo è il fondamento del self restraint, nel caso storico il divieto assoluto di “interpretare” la legge, nel nostro caso il dovere che lo faccia di regola il giudice del merito.

[7] È facile immaginare, ad esempio, che a seguito di Cass. Sez. Un. 1° febbraio 2022, n. 3086, la quale, in dichiarata contrapposizione alla precedente Cass. 6 dicembre 2019 n. 31886, pare aver notevolmente largheggiato nei poteri di acquisizione fattuale e documentale conferiti al CTU di là dalle preclusioni istruttorie imposte alle parti, potranno sorgere, nel confronto con la proteiforme realtà della consulenza tecnica, non semplici questioni di dettaglio correlate e quella decisione, ma da essa e dalla sua motivazione tutt’altro che compiutamente risolte.

Ad ancor più numerose questioni irrisolte darà probabilmente esca Cass Sez. Unite 6 aprile 2023, n. 9479, la quale – nel tentativo lodevole di coerenziare con il sistema interno, salvando la capra del giudicato ed i cavoli della tutela del consumatore, una maldestra e rozza Corte di Giustizia 17 maggio 2022, c. 693/19 e 831/19 (che andava invece, anche a non voler invocare una buona volta i “controlimiti”, semplicemente ed energicamente ridimensionata confinandone il portato pratico, pur con non poche difficoltà e con effetto comunque dirompente, ad un semplice problema di invalidità-inesistenza formale del titolo esecutivo sul decreto ingiuntivo non opposto) – crea un fantasioso e farraginoso sistema di opposizione ultratardiva a decreto ingiuntivo mediata però dal giudice dell’esecuzione. Le Sezioni Unite – animate, ripeto, dalle migliori intenzioni e notevolmente impegnate in uno sforzo di difficilissima creatività interpretativa – sono parse consapevoli del possibile futuro abisso di dubbi. E così, pronunciando ex art. 363 nell’interesse della legge, si sono lanciate, all’apparenza esornativamente, in una sorprendente laudatio proemiale del nuovo istituto del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis (vedi punto 2.3 della motivazione in diritto). La spiegazione ed il messaggio subliminale a me paiono evidenti: cari giudici di merito astenetevi se possibile dal risolvere la miriade di questioni collaterali che stiamo ingenerando con la presente sentenza, e di creare così un marasma di generale incertezza ricostruttiva; profittate piuttosto del rinvio pregiudiziale: noi siamo qui!; sul parallelismo in parte divergente fra nomofilachia ex art. 363 e nomofilachia ex art. 363 bis, v. sinteticamente ma perspicuamente TISCINI, Il rinvio, cit. § 1.

[8]Tale questione – consistente dunque nello specificare ulteriormente l’insegnamento già impartito dalla Corte di Giustizia onde appurare se esso possa valere anche in relazione alla particolare imposta italiana – ben difficilmente potrebbe essere oggetto di un ammissibile rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis, perché la Corte di Cassazione replicherebbe che, ove pure si consideri in astratto particolarmente difficile il dubbio, esso andrebbe semmai rimesso alla Corte di Giustizia, ed in altri termini che è la stessa facoltà del rinvio pregiudiziale “comunitario” ad escludere la “grave difficoltà” della quaestio per il giudice a quo: vedi in proposito anche il mio Il rinvio pregiudiziale, cit., 969-970.

[9] E l’aut-aut con essa coincidente neppure consenta la via compromissoria della c.d. “interpretazione conforme”; la quale è ben additata come possibile dalla stessa Corte di Giustizia, ma solo quando non comporti risultati in realtà contra legem: v. da ultimo CGUE 18 gennaio 2022, c. 261/20.

[10] In astratto ed altresì in concreto si potrebbe sostenere tranquillamente anche rispetto ad una questione così specificata che il rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis sia inammissibile per difetto delle “gravi difficoltà interpretative” alla stregua di quanto osservato alla nota precedente e cioè perché il giudice di merito ha a disposizione per risolverlo l’altro rinvio pregiudiziale, quello “comunitario”. Il decreto presidenziale ora in esame non si pone il problema  siccome assorbito dalla ritenuta inammissibilità del rinvio per la diversa ragione del difetto di “novità”. Ma va osservato pro futuro che potranno ben darsi casi in cui, coinvolgendo l’interrogativo del giudice di merito anche o perfino soprattutto profili relativi alla interpretazione (o alla validità) del diritto dell’Unione, il Primo Presidente propenda per la ammissione del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis a motivo della pregnante interconnessione, nel complesso della questione prospettata, di profili nuovi e difficoltosi concernenti la interpretazione del diritto interno, così riservando semmai alla stessa Cassazione la formulazione, nel corso del procedimento pregiudiziale, di un quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Questa scelta – sperabilmente rara ma non escludibile (vedi ancora il mio Il rinvio pregiudiziale, lc. cit.) – sarà insomma orientata, nella discrezionalità del Primo Presidente, dalla sua risposta alla domanda: chi, in funzione della nomofilachia e del fisiologico evolversi della giurisprudenza è più opportuno che valuti se ed in quali esatti termini ci si debba rivolgere alla Corte di Giustizia, il giudice di merito o la Cassazione ?

[11] Questo scenario richiama, sempre in termini generali e pro futuro, il possibile caso in cui, per i fini decisori del giudice di merito, la rilevanza di quesito pregiudiziale rivolgibile alla Cassazione dipenda dalla soluzione di quesito pregiudiziale rivolgibile alla Corte di Giustizia e/o viceversa (dico e/o perché ancor qui, come in molti contesti, l’ordine logico non è affatto scritto in cielo). Nei congrui casi (e senza naturalmente che il giudice di merito esageri in complicazioni sproporzionate rispetto a valore e complessità della causa nonché rispetto alla sua appartenenza ad un effettivo e angosciante filone seriale, la stessa economia processuale suggerirà come opportuno il doppio e contemporaneo rinvio.

[12] Vedi in proposito la Prima puntata di questo mio Commentario (“Chi decide riguardo ai quesiti pregiudiziali sul rinvio pregiudiziale”; in www.judicium.com, par. 5).