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I nuovi criteri di nomina degli arbitri da parte del presidente del tribunale
Di Francesco Porcari -
Sommario: 1. La riforma dell’art. 810, terzo comma, c.p.c.: l’ambito di applicazione della novella. – 2. La natura giuridica del potere presidenziale di nomina degli arbitri e l’individuazione degli interessi coinvolti nel relativo procedimento. – 3. Una riflessione sull’attuazione dei nuovi criteri e sulla formazione di buone prassi.
1.La riforma dell’art. 810, terzo comma, c.p.c.: l’ambito di applicazione della novella.
La recente riforma introdotta dal D. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150[1] ha modificato il procedimento di nomina presidenziale degli arbitri predisposto dal legislatore per supplire all’inerzia della parte destinataria della domanda di arbitrato (ex art. 810, 2° comma, c.p.c.).
In particolare, è noto come l’art. 1, 15° comma, lett. h), l. 26 novembre 2021 n. 206[2] avesse onerato il governo di «prevedere che, in tutti i casi, le nomine degli arbitri da parte dell’autorità giudiziaria siano improntate a criteri che assicurino trasparenza, rotazione ed efficienza». Tale direttiva è stata attuata inserendo in coda al terzo comma dell’art. 810 c.p.c. il seguente periodo: «la nomina avviene nel rispetto di criteri che assicurano trasparenza, rotazione ed efficienza e, a tal fine, della nomina viene data notizia sul sito dell’ufficio giudiziario».
Deve tuttavia osservarsi che il nuovo precetto sembra avere una più ampia sfera di applicazione. Esso pare infatti estendersi, più in generale, a tutte le ipotesi di nomina rimessa dai privati alla «autorità giudiziaria» e al caso in cui «essendo (la nomina) demandata a un terzo, questi non vi ha provveduto». Tale impressione è suggerita dalla circostanza che è rimasto immutato l’ultimo comma dell’art. 810 c.p.c., secondo cui le disposizioni dettate dai commi precedenti del medesimo articolo si applicano anche ai casi di nomina proveniente dall’autorità giudiziaria, genericamente indicata, e alle ipotesi di omessa nomina dell’arbitro per inerzia del terzo onerato.
Sembra inoltre plausibile che la novità possa riguardare anche nel caso in cui la nomina giudiziale dell’arbitro sia occasionata, al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 811 c.p.c., dalla necessità di sostituire l’arbitro (o gli arbitri) precedentemente designati[3].
Siffatti rilievi inducono a ritenere che la ratio della nuova disposizione sia sganciata dalla variabilità delle circostanze del caso concreto (inerzia della parte onerata, inerzia del terzo, sostituzione dell’arbitro), essendo ispirata unicamente dalla matrice giudiziaria della nomina, che assurge a condizione necessaria e sufficiente per l’attuazione dei nuovi criteri[4].
I nuovi principi dovrebbero poi potersi applicare anche all’arbitrato irrituale, che da tempo si giova di una sedimentata giurisprudenza che estende a quell’àmbito, per via analogica, le regole poste dall’art. 810 e dall’art. 811 c.p.c.[5].
Volgendo lo sguardo oltre il codice di rito civile, si deve evidenziare come la nuova disposizione possa trovare applicazione anche laddove la legge si riferisca espressamente, per l’attività di nomina suppletiva, al «presidente del tribunale», o se a questi sia comunque riconosciuta, anche per via interpretativa, una tal competenza. Non si intravedono infatti ragioni ostative a questa ulteriore estensione dei nuovi precetti, come ad esempio può accadere nel caso dell’art. 34 del D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (ora art. 838 bis c.p.c.): tale norma, nel disciplinare gli effetti delle clausole compromissorie contenute negli statuti societari, dispone che la clausola conferisca, a pena di nullità, il potere di nomina degli arbitri ad un soggetto estraneo alla società e, ove questi non provveda, lo rimette nelle mani del «presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale». È pur vero che ratione loci «questo» presidente non coincide con «quello» individuabile ai sensi dell’art. 810, 2° comma, c.p.c., ma è da chiedersi se ciò possa avere una qualche importanza (e non mi pare), soprattutto quando è evidente che l’inerzia di questo soggetto estraneo alla società — cioè, tecnicamente, un «terzo» — non si distingue da quella del «terzo» di cui parla l’art. 810, ultimo comma, c.p.c., prevedendo la supplenza del presidente del tribunale lì individuato.
Nondimeno, i nuovi principi potrebbero trovare applicazione, come si accennava, ove la competenza del presidente emergesse per via interpretativa, come è accaduto in un recente caso deciso dal Consiglio di Stato, che per l’ipotesi della nomina suppletiva dell’arbitro di parte ex art. 209 del D. lgs. 18 aprile 2016, ha escluso che siffatta attività competesse all’Anac, osservando che in base al rinvio che il 10° comma del predetto articolo compie «(al)le disposizioni del codice di procedura civile», essa spetti al presidente del tribunale[6].
La riforma ha dunque imposto al presidente del tribunale il rispetto dei canoni cui deve ispirarsi la nomina, ma non si è spinta sino a prescrivere l’obbligo della predisposizione di appositi elenchi, lasciando a riguardo piena libertà d’azione alle singole autorità giudiziarie[7].
Si è quindi ritenuta sufficiente l’astratta previsione delle regole cui il presidente dovrà conformare la propria scelta, rimettendo ogni aspetto di ulteriore dettaglio organizzativo alle valutazioni discrezionali di ciascun ufficio giudiziario, in assenza peraltro di contrappesi volti a presidiare, dall’interno, l’effettivo rispetto della norma e la verifica della sua concreta attuazione.
Manca infatti qualsiasi ipotesi di controllo «gerarchico». L’impressione è quella che il legislatore delegato abbia ritenuto che la forma di verifica più efficace sia quella «diffusa», affidata alla pubblicità-notizia delle nomine inserite sul sito dell’ufficio giudiziario, in modo che ciascun interessato possa averne piena contezza. Parimenti, nulla è previsto per l’ipotesi in cui i criteri normativi fossero disattesi o mal attuati. Si tace infatti sui possibili rimedi per contrastare eventuali malpractice e, in assenza di ogni controllo esercitato dall’interno, non s’intravede nella norma quale possa essere la «sanzione» da comminare ai capi degli uffici, eccettuata forse l’ipotesi, comunque ardua a configurarsi de iure condito[8], della responsabilità disciplinare.
Il dato certo è che in base ai nuovi criteri, nel procedimento di nomina presidenziale vi sarà spazio per la valutazione di esigenze diverse rispetto all’interesse di natura puramente negoziale che muove la parte istante. Tali esigenze sono appunto compendiate nelle finalità di «trasparenza», «rotazione», «efficienza» e pubblicità «notizia» che evocano, suggestivamente, atmosfere più consone alla cura dell’interesse pubblico che non al soddisfacimento di aspettative schiettamente privatistiche[9].
Preconizzare quali possano essere le ricadute pratiche di questa novità normativa appare prematuro[10], ma è comunque utile esercitarsi nell’individuazione dei punti di probabile impatto della novella rispetto ad alcune consolidate interpretazioni relative al procedimento di nomina suppletiva ex art. 810 c.p.c.
2.La natura giuridica del potere presidenziale di nomina degli arbitri e l’individuazione degli interessi coinvolti nel relativo procedimento.
Non è quindi inutile fare un cenno al dibattito relativo alla natura giuridica del potere presidenziale di nomina degli arbitri e all’individuazione degli interessi coinvolti nel relativo procedimento.
Notoriamente, la giurisprudenza ritiene che nel procedimento in questione: a) il presidente del tribunale intervenga in funzione integrativo-sostitutivo della volontà negoziale, previa verifica che essa non sia contra legem o non più concretamente attuabile; b) sia inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. avverso il decreto di nomina o di sostituzione di un arbitro, trattandosi di un provvedimento privo di carattere decisorio e insuscettibile di produrre effetti sostanziali o processuali di cosa giudicata[11]; c) la nomina giudiziale dell’arbitro debba essere effettuata, in assenza di ragioni impeditive, tenendo conto della volontà manifestata dalle parti nella clausola compromissoria in relazione alla designazione di soggetti dotati di particolari qualità o appartenenti a determinate categorie, atteso che l’intervento del presidente del tribunale è di tipo integrativo-sostitutivo della volontà negoziale[12].
Muovendo proprio da quest’ultimo aspetto[13], un autorevole studioso ha di recente osservato che se il giudice che nomina l’arbitro può esercitare solo gli stessi poteri riconosciuti dalla convenzione alla parte rimasta inerte, si è in presenza di una potestà «non già autonomamente discrezionale» e va escluso che ricorra «alcuna pubblicità dell’interesse da proteggere»[14]. Tale assunto è da condividere, posto che nel procedimento de quo non pare scorgersi un interesse pubblico da tutelare.
A riprova del fatto che manca un interesse pubblico, sembra militare anche un ulteriore ragionamento. Difatti, se si volesse intravedere nell’attività sostitutiva del presidente una finalità di cura dell’interesse pubblico[15], la fattispecie disciplinata dall’art. 810 c.p.c. dovrebbe scomporsi, a rigore, e non senza marcate forzature, in due fasi: la prima, schiettamente privatistica e rimessa alla parte destinataria dell’invito, scandita dalla cesura temporale del termine di venti giorni dall’invito stesso (che dovrebbe considerarsi di natura perentoria in quanto, spirando infruttuosamente, fungerebbe da spartiacque con la fase rimessa al presidente); la seconda — apud iudicem — una volta instaurata[16] dovrebbe a sua volta perseguire finalità pubblicistiche, sortendo giocoforza l’effetto di esautorare definitivamente la parte (che ne era onerata) dalla possibilità di nominare tardivamente il suo arbitro, anche ove tale designazione pervenisse prima della nomina giudiziale. Se difatti si concepisse il presidente come curatore dell’interesse pubblico, quest’ultimo non potrebbe farsi da parte dinanzi al tardivo adempimento del privato; salvo ritenere, con ulteriori forzature, che la legge abbia affidato al presidente una specifica attività di ponderazione di interessi, in cui quello alla nomina di parte può prevalere fino a quando non si è compiuto l’esercizio della nomina suppletiva di matrice presidenziale.
Orbene, una simile ricostruzione sembra davvero implausibile, non solo per l’artificiosità di una scomposizione bifasica del procedimento ex art. 810 c.p.c. (che sconta — ante omnia — l’indimostrata diversa natura degli interessi coinvolti in ciascuna fase)[17] ma soprattutto perché, a monte di ogni discorso, non si comprende quale specifico interesse pubblico sarebbe tutelato dall’attività giurisdizionale svolta dal presidente. Tale non può essere, nel caso di specie, quello del buon andamento e dell’imparzialità ex art. 97 Cost. che riguarda sì l’amministrazione della giustizia, ma esclusivamente sotto l’aspetto dell’organizzazione degli uffici, restando invece ben in disparte l’esercizio della funzione giudiziaria da parte dei magistrati[18]. Ora, non pare esservi alcun dubbio che il procedimento di nomina suppletiva dell’arbitro, pur nella sua peculiarità[19], si concluda con un provvedimento che concreta l’esercizio della funzione giurisdizionale affidata al presidente del tribunale. Tale esercizio conferisce effettività al diritto di azione che l’art. 810 c.p.c. attribuisce «(al)la parte che ha fatto l’invito», attuando così il principio dell’art. 24, 1° comma, Cost. al pari di qualsiasi altra estrinsecazione della funzione giurisdizionale, ma è affatto estraneo alle finalità perseguite dall’art. 97 Cost.
È pertanto da escludere che i nuovi criteri ispiratori della nomina giudiziale possano incidere sulla funzione dell’attività richiesta al presidente del tribunale, che è e che resta una sorta di doveroso «servizio»[20] affidatogli dalla legge per garantire al contempo l’effettività dell’azione[21] riconosciuta in capo alla parte adempiente e la concreta attuazione della volontà compromissoria. L’impressione è che questi canoni, in specie quelli della «trasparenza» e della «rotazione» siano stati introdotti per concorrere, sulla falsariga delle modifiche apportate agli art. 813 e 815 c.p.c. in tema di imparzialità dell’arbitro[22], al rafforzamento di aspetti latamente «reputazionali» dell’arbitrato, anche se le modifiche dell’art. 810 c.p.c. non potevano avere valore cogente[23], come ha ben recepito il legislatore delegato, che difatti si è limitato a replicare le parole del delegante, senza nulla aggiungere al criterio direttivo[24]. Non è quindi immaginabile che l’eventuale mancato rispetto di uno o più criteri di nomina possa costituire motivo di ricorso innanzi al giudice amministrativo, giacché al presidente del tribunale non è affidata la cura di un interesse pubblico[25]. Uno spunto in tal senso sembra suggerito anche dall’epilogo di una recente vicenda in cui l’Anac, prospettando una lacuna normativa[26], aveva posto al Consiglio di Stato un quesito relativo all’individuazione dell’organo cui attribuire la competenza in tema di designazione (in via surrogatoria) dell’arbitro di parte ai fini della composizione del collegio arbitrale in materia di contratti pubblici. Orbene, il Consiglio di Stato, sciogliendo l’interrogativo a favore del presidente del tribunale (al lume dell’ampio rinvio contenuto nell’art. 209, 10° comma, d.leg. 12 aprile, 2006, n. 50, alle norme del codice di rito) motiva la propria decisione facendo anche riferimento alla natura giuridica della camera arbitrale istituita presso l’Anac, sottolineando che essa è «un organo amministrativo (…) soggetto al principio di legalità dell’azione amministrativa, principio quest’ultimo che comporta la possibilità di ritenere esistenti solo i poteri espressamente conferiti a tale organo amministrativo dalla legge (…)» e che «se si ritenesse la camera arbitrale competente alla nomina dell’arbitro nel caso di inerzia della parte, sarebbe necessario altresì individuare il procedimento amministrativo che tale organo deve seguire, così svolgendo un compito che è demandato unicamente al legislatore». Per converso, osserva che il presidente del tribunale procede a tale designazione «nello svolgimento del suo ruolo istituzionale» e agendo «nell’esercizio di poteri di volontaria giurisdizione»[27].
3.Una riflessione sull’attuazione dei nuovi criteri e sulla formazione di buone prassi.
La scelta legislativa di affidare la nomina ex officio dell’arbitro al rispetto di canoni che si prestano (almeno nominalmente) ad essere accostati più alla cura dell’interesse pubblico che non ad un contesto, qual è la cornice dell’art. 810 c.p.c., in cui viene in rilievo soprattutto l’interesse privato della parte istante, induce una riflessione su quali possano essere le modalità di attuazione pratica di quei criteri da parte del presidente del tribunale.
La questione appare di più semplice soluzione solo per quanto concerne la regola della pubblicità «notizia» delle nomine sul sito internet dell’ufficio giudiziario, in modo che ciascun interessato possa verificare, in via diretta e con libero accesso allo spazio web, sia la consistenza e la regolare tenuta dell’elenco sia i provvedimenti di nomina dei professionisti prescelti.
Meno immediata appare invece l’individuazione di modalità attuative del criterio di «rotazione» negli incarichi, in quanto l’art. 810 c.p.c. non fornisce alcuna indicazione sul numero di nomine arbitrali cumulabili in capo ad un singolo professionista in un determinato lasso di tempo. In mancanza di appigli normativi, è allora verosimile che ogni tribunale stabilirà in via autonoma il numero massimo di incarichi conferibili al singolo iscritto, con il rischio che ogni ufficio giudiziario declini a modo proprio gli indirizzi generali espressi dall’art. 810, 3° comma, c.p.c.
Per scongiurare la creazione di prassi disomogenee, viziate da letture «domestiche» dei nuovi principi, occorrerebbe una disciplina di dettaglio, magari inserita tra le disposizioni di attuazione del codice di rito dedicate all’arbitrato[28], che affidi al presidente del tribunale, o a un giudice da lui delegato, compiti di vigilanza circa l’effettivo conferimento degli incarichi arbitrali ai professionisti iscritti nell’elenco e compiti di verifica circa il rispetto del limite massimo di nomine stabilito dalla norma di dettaglio. In quest’ottica, il legislatore potrebbe introdurre una disposizione attuativa ad instar dell’art. 179-quater c.p.c., che già disciplina le modalità di distribuzione degli incarichi ai professionisti che provvedono alle operazioni di vendita. Sarebbe infatti opportuno specificare altresì che gli elenchi o i registri che si istituiranno presso ciascun tribunale sono pubblici, liberamente consultabili e accessibili anche mediante rilascio di copie o di estratti.
Strettamente correlata alle modalità di attuazione del principio della «rotazione» negli incarichi è la questione dell’eventuale iscrizione plurima di un professionista in più elenchi ex art. 810, 3° comma, c.p.c. Orbene, nulla potrebbe impedire – de iure condito – che un aspirante arbitro possa iscriversi nei registri di più circondari di tribunale. Manca infatti un divieto in tal senso, come quello espressamente sancito dall’art. 179-ter, comma 11, disp. att. c.p.c., secondo cui nessun professionista delegato può essere iscritto in più di un elenco. Peraltro, il 12° comma del citato art. 179-ter attenua il rigore del suddetto divieto consentendo al giudice dell’esecuzione di conferire la delega delle operazioni di vendita anche ad un professionista iscritto nell’elenco di un altro circondario, a condizione che il provvedimento di nomina dia conto in modo analitico dei motivi della scelta. Va poi aggiunto che un’ulteriore apertura verso la circolarità intra districtum delle nomine di professionisti delegati alle operazioni di vendita proviene dallo schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, che all’art. 4, comma 4, lett. f), prevede che la nomina del professionista iscritto presso un altro circondario sia svincolata dall’obbligo di specifica motivazione[29].
Quanto al criterio della «trasparenza» delle nomine arbitrali, l’attuazione del principio dovrebbe suggerire in primo luogo la predisposizione di moduli che, accanto alla richiesta di iscrizione nell’elenco, contengano l’impegno del professionista, assunto ora per allora, a rilasciare, al momento di accettazione dell’incarico, una dichiarazione di disclosure che attesti l’insussistenza di conflitti di interesse dell’arbitro, a tutela della sua imparzialità e indipendenza rispetto alle parti in lite. Ciò sembra ineludibile in specie dopo la recente modifica dell’art. 813 c.p.c., secondo cui ora l’accettazione degli arbitri deve essere accompagnata, a pena di nullità, da una dichiarazione nella quale è indicata ogni circostanza rilevante ai sensi dell’articolo 815, primo comma, c.p.c. o nella quale l’arbitro attesti la relativa insussistenza di siffatte circostanze, rinnovando tale dichiarazione in presenza di fatti sopravvenuti. Ad ulteriore presidio delle esigenze di trasparenza, il citato art. 813 prevede anche che, in caso di omessa dichiarazione o di omessa indicazione di circostanze che legittimano la ricusazione, la parte possa richiedere, entro dieci giorni dalla accettazione o dalla scoperta delle circostanze, la decadenza dell’arbitro nei modi e con le forme di cui all’articolo 813-bis c.p.c.
Vi è poi osservare che, per effetto della recente novella, all’art. 813 c.p.c. è stato aggiunto il numero 6-bis), che legittima la ricusazione «se sussistono altre gravi ragioni di convenienza, tali da incidere sull’indipendenza o sull’imparzialità dell’arbitro».
Orbene, l’espressione «altre gravi ragioni di convenienza», pur circoscritta dall’opportuno riferimento alla capacità di incidere negativamente sull’indipendenza e sull’imparzialità dell’arbitro, resta comunque sconfinata nella sua ampiezza.
L’individuazione di altre gravi ragioni che rendano sconveniente la nomina dell’arbitro, potrà certamente giovarsi dell’esperienza e della qualificata prassi applicativa delle camere arbitrali, che già da tempo richiedono all’arbitro alcune dichiarazioni aggiuntive rispetto alle circostanze ostative espressamente contemplate dall’art. 815 c.p.c. In questa direzione, i moduli di domanda predisposti dai singoli tribunali potrebbero ad esempio imporre all’arbitro di dichiarare, al momento dell’accettazione della nomina, se e quali rapporti vi siano con i difensori delle parti o con gli studi legali cui essi appartengono[30].
Non secondario ai fini della «trasparenza» appare anche l’obbligo di dichiarazione, da rinnovare al momento di accettazione della nomina, relativo alla presenza di condanne o alla pendenza di procedimenti penali e alla irrogazione di sanzioni disciplinari in un periodo di tempo congruo rispetto a quello di conferimento dell’incarico (ad esempio: nei tre o nei cinque anni precedenti).
Neppure l’introduzione del canone di «efficienza» appare di agevole lettura, posto che tale principio si riferisce, di norma, ai mezzi impiegati dalla pubblica amministrazione nella propria attività e si rispecchia nel criterio di «economicità» dell’azione pubblica, che può dirsi efficiente se adotta i mezzi più consoni e meno costosi per la cura dell’interesse pubblico. Sotto questo profilo, si avverte un certo disorientamento a riferire il criterio dell’efficienza all’attività di nomina dell’arbitro da parte del presidente del tribunale. Tale compito, infatti, rientra tra quelli istituzionali del presidente e ovviamente viene svolto senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica. Peraltro, come si è già detto, qui il ruolo del presidente è di mero «servizio», senza che vi sia alcun interesse pubblico da tutelare.
L’impressione è che il legislatore, pur riferendosi all’«efficienza», abbia voluto esprimere in realtà un indirizzo generale per l’attuazione del principio di «efficacia» della nomina. Ciò avrebbe molto più senso nel contesto normativo in cui sono stati inseriti i nuovi criteri di scelta dell’arbitro. Non vi è dubbio infatti che una nomina «efficace» sia sinonimo di «adeguata». In altre parole, il servizio reso all’arbitrato dal presidente del tribunale potrà ritenersi «efficace» se il professionista designato possiede un’adeguata preparazione tecnica per lo svolgimento dell’incarico.
Dalla porta dell’«efficienza» (rectius: dell’«efficacia») della nomina, ci si immette nella ben più ampia prospettiva (affatto trascurata dal legislatore della riforma) dei requisiti professionali che dovrebbero avere gli aspiranti arbitri.
Anche sotto questa angolazione, si avverte nitidamente la necessità di una disposizione di attuazione dei nuovi criteri. Sulla falsariga di quanto già previsto dall’art. 179-ter disp. att. c.p.c. per i professionisti delegati, si potrebbe richiedere agli aspiranti arbitri di dimostrare di aver partecipato in modo proficuo e continuativo a scuole o corsi di alta formazione, nello specifico settore del diritto dell’arbitrato, organizzati da università pubbliche o private, dal Consiglio nazionale forense o dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, anche mediante delega in favore degli Ordini locali, oppure organizzati dalle associazioni forensi specialistiche maggiormente rappresentative di cui all’articolo 35, comma 1, lettera s), della legge 31 dicembre 2012, n. 247.
Parimenti, alla Scuola superiore della magistratura si potrebbe delegare l’elaborazione periodica di linee guida generali per la definizione dei programmi dei corsi di formazione e di aggiornamento, di concerto con il Consiglio nazionale forense e con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
Meno praticabile sembra invece, almeno in fase di primo popolamento degli elenchi ex art. 810, comma 3, c.p.c., l’adozione di criteri selettivi degli aspiranti arbitri che faccia leva sull’autocertificazione di incarichi arbitrali già svolti. Va infatti osservato che l’incarico arbitrale, in specie nelle procedure non amministrate, viene svolto dal professionista in piena autonomia e al di fuori di ogni controllo. Sotto questo profilo, non sembra quindi mutuabile la soluzione adottata dal citato art. 179-ter, che tra i requisiti richiesti alternativamente per la prima iscrizione ai relativi elenchi, ha previsto anche quello di «avere svolto nel quinquennio precedente non meno di dieci incarichi di professionista delegato alle operazioni di vendita, senza che alcuna delega sia stata revocata in conseguenza del mancato rispetto dei termini o delle direttive stabilite dal giudice dell’esecuzione». Appare infatti evidente come la valorizzazione da parte del legislatore dell’esperienza maturata nel campo delle operazioni di vendita si giustifichi esclusivamente alla luce della vigilanza che sulle medesime operazioni esercita il giudice dell’esecuzione. Non è cosi, invece, per l’esperienza maturata come arbitro, che mantiene le sue radici negoziali e private, seppur acquisita in contesti particolarmente qualificati, quali i procedimenti amministrati da camere o autorità[31].
Da ultimo, va anche evidenziato che la verifica della preparazione dell’aspirante arbitro non potrà neppure giovarsi dei criteri previsti dal decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144 ai fini del conseguimento del titolo di avvocato specialista, in quanto l’art. 3 del prefato decreto non contempla il diritto dell’arbitrato tra i settori di specializzazione forense.
[1] In GU n. 243 del 17 ottobre 2022 – Suppl. Ordinario n. 38.
[2] Si tratta della legge di «Delega al governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», pubblicata nella G.U. 9 dicembre 2021, n. 292.
[3] Ciò può accadere, com’è noto, quando per qualsiasi motivo vengano a mancare tutti o alcuni degli arbitri nominati. In tal caso, si provvede alla loro sostituzione secondo quanto è stabilito per la loro nomina nella convenzione d’arbitrato, ma se la parte a cui spetta la nomina sostitutiva o il terzo non vi provvede, o se la convenzione d’arbitrato nulla dispone al riguardo, si applicano allora le disposizioni dell’articolo 810 c.p.c.
[4] A questi casi, mi pare che possano agevolmente aggiungersi anche quelli del mancato accordo sulla nomina del terzo arbitro o dell’arbitro unico, pur non contemplati dall’art. 810 c.p.c., ma da lungo tempo ammessi, in via additiva, dalla giurisprudenza (cfr., per la nomina del terzo arbitro, Cass. 21 ottobre 1982, n. 5489, Foro it., Rep. 1982, voce Arbitrato e compromesso, n. 75; Cass. 22 luglio 2009, n. 17152, ForoPlus e Riv. dir. proc., 2010, 702 ss., con nota adesiva di E. Marinucci; per la nomina dell’arbitro unico, cfr. Cass. 15 aprile 1953, n. 997, Giur. it. 1954, I, 1, 476 ss., con nota critica di R. Vecchione, Clausola compromissoria apparente e nomina dell’arbitro unico nel dissenso fra le parti; Cass., 3 febbraio 1976, n. 348, Giust. civ. Mass., 1976, 173 s.) e da larga parte della dottrina (A. Briguglio, sub art. 810, in A. Briguglio – E. Fazzalari – R. Marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario, Milano, 1994, 39; C. Cecchella, L’arbitrato, Torino 1991, 122; Id., subartt. 809–813 c.p.c., in Aa.Vv., La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di S. Menchini, cit., 132; G. Ruffini, subart. 810 c.p.c., Codice di procedura civile commentato, I, II, III, (a cura di) C. Consolo – F.P. Luiso, 3a ed. diretta da C. Consolo, Milano 2007, 5787; S. La China, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, 3a ed., Milano, 2007, 81 ss.; E. Marinucci, Sulla nomina giudiziale del terzo arbitro in caso di mancato accordo tra le parti, in Riv. dir. proc., 2010, 702 ss.; L. Bergamini, subart. 810 c.p.c., Commentario alle riforme del processo civile, a cura di A. Briguglio – B. Capponi, III.II, Arbitrato. Entrata in vigore delle nuove discipline sul Giudizio di cassazione e sull’Arbitrato, Padova, 2009, 586). le novità normative in commento non intaccano difatti il ragionamento che ha finora sorretto, in dottrina e in giurisprudenza, l’estensione applicativa dell’art. 810 c.p.c. ai casi di disaccordo sulla nomina dell’arbitro unico o del terzo arbitro. A riguardo, Cass. 22 luglio 2009, n. 17152, cit., ha affermato che la nomina giudiziale del terzo arbitro è possibile, se la parte «diligente» ha dato prova di aver notificato alla controparte le sue proposte di designazione dell’arbitro mancante (terzo o unico che sia), con l’importante precisazione che tale prova può considerarsi raggiunta in ragione del consistente lasso di tempo trascorso tra la nomina degli arbitri di parte e il ricorso al presidente del tribunale, in quanto ciò dimostra «implicitamente, ma evidentemente (…) l’incapacità delle parti stesse di trovare un accordo sul nome del terzo arbitro legittimando perciò la richiesta di investitura presidenziale» (in dottrina, a commento di questa sentenza, v. le osservazioni adesive di E. Marinucci, Sulla nomina giudiziale del terzo arbitro in caso di mancato accordo tra le parti, cit., 704 ss., spec. 706 ss.). Appare quindi evidente, sul piano logico, come i nuovi criteri siano affatto indifferenti rispetto ai termini della questione appena esposta: la vicenda del mancato accordo sul terzo arbitro o sull’arbitro unico costituisce infatti, al pari delle altre ipotesi applicative in esame, l’antecedente fattuale che consente l’intervento giudiziale in via surrogatoria. Analoghi rilievi mi pare che possano estendersi all’ipotesi disciplinata dall’art. 809, 3° comma, c.p.c., secondo cui «in caso d’indicazione di un numero pari di arbitri, un ulteriore arbitro, se le parti non hanno diversamente convenuto, è nominato dal presidente del tribunale nei modi previsti dall’articolo 810» e «se manca l’indicazione del numero degli arbitri e le parti non si accordano al riguardo, gli arbitri sono tre e, in mancanza di nomina, se le parti non hanno diversamente convenuto, provvede il presidente del tribunale nei modi previsti dall’articolo 810» (in dottrina, v. C. Cecchella, sub artt. 809-813 c.p.c., La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di S. Menchini, in Nuove leggi civ., Padova, 2010, 132, secondo cui la norma, dinanzi all’invalidità della pattuizione circa un numero pari di arbitri, svolge una funzione «sostitutiva»). Per l’estensione della portata applicativa dell’art. 810 c.p.c. anche al terzo che risenta degli effetti della convenzione di arbitrato, subendo l’efficacia obbligatoria della clausola compromissoria inter alios acta, v. ancora C. Cecchella, sub artt. 809-813 c.p.c., La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 133, che riconosce in capo a questo terzo la legittimazione all’azione per la nomina giudiziale, negli stessi casi in cui vi è legittimata la parte.
[5] La questione è stata affrontata da Cass., sez. un., 3 luglio 1989, n. 3189, ForoPlus e Riv. arbitrato, 1991, 61 ss., con nota di E. Fazzalari, Supplenza giudiziale nella nomina e nella sostituzione dell’arbitro libero. In seguito, tra le tante, v. Cass. 21 luglio 2010, n. 17114, ForoPlus.
[6] Cons. Stato, sez. I, 5 maggio 2022. Per ulteriori riferimenti su questa pronuncia v. infra, in questo paragrafo, al richiamo della nota 26.
[7] Sulle possibili ricadute pratiche dei nuovi criteri e sulle prime applicazioni della nuova norma presso i tribunali v. infra al § 3.
[8] La norma pare infatti concepita più per dare un «indirizzo» di carattere generale alla condotta dei presidenti di tribunale (una sorta di invito alla formazione, in uno scenario da «moral suasion», di prassi virtuose) e non sembra prestarsi a interpretazioni rigidamente precettive.
[9] Il tenore letterale del nuovo 3° comma dell’art. 810 c.p.c. rimanda, almeno concettualmente, ai canoni di «buon andamento» ex art. 97, 2° comma, Cost., cui deve rispondere l’attività amministrativa nel perseguimento degli obiettivi di trasparenza, efficienza e pubblicità dell’azione pubblica (oltre all’economicità). Nondimeno, il riferimento al rispetto delle esigenze di «rotazione» nelle nomine, riecheggia quei criteri rotativi da tempo adottati presso le pubbliche amministrazioni nei procedimenti di conferimento degli incarichi — ratione materiae — a professionisti esterni (c.d. «short list»). Ma, come si dirà subito nel testo, al netto di queste spiccate assonanze terminologiche, non è pensabile che la riforma abbia voluto conferire alla nomina giudiziale dell’arbitro la natura di vero e proprio procedimento amministrativo.
[10] Per una riflessione sulle prime prassi applicative dei nuovi criteri v. infra al § 3.
[11] Cass. 9 giugno 2020, n. 10985, ForoPlus; Cass. 9 luglio 2018, n. 18004, ibid.; Cass. 27 gennaio 1993, n. 1021, Foro it., 1993, I, 1326, che estende l’applicazione dei medesimi principi anche alla nomina ex officio dell’arbitro irrituale.
[12] Cass. 20 aprile 2016, n. 7956, ForoPlus; Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15290, ibid., che ha ritenuto legittimo il rifiuto del presidente del tribunale, adìto per la nomina del terzo arbitro, di designare un magistrato, nonostante vi fosse in tal senso l’espressa indicazione delle parti contenuta nella clausola compromissoria: l’atto di nomina di un magistrato, infatti, sarebbe stato inefficace, stante l’orientamento del Csm, contrario alla nomina del terzo arbitro nella persona di un magistrato in servizio. Contra, si segnala Cass. 14 maggio 2012, n. 7450, Riv. arbitrato, 2014, 1, 153, con nota di R. Tuccillo, La nomina degli arbitri: capacità e qualifiche tra autonomia privata e poteri discrezionali dell’autorità giudiziaria, secondo cui il presidente del tribunale, nel designare l’arbitro, non tempestivamente nominato dalle parti ai sensi degli art. 810 e 811 c.p.c., non è tenuto al rispetto delle categorie professionali previste nella convenzione arbitrale, che vincola solo le parti, ex art. 1372 c.c., e non può estendere i propri effetti sui poteri di nomina di cui la legge investe, nell’inerzia delle parti, l’autorità giudiziaria, il cui intervento non è, dunque, soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata, ma si attua con la discrezionalità tipica del magistrato. Vi è però da segnalare che la motivazione di quest’ultimo precedente di legittimità pare viziata da una malintesa interpretazione del dictum di Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15290, cit., che concerneva invero il particolare caso di una convenzione arbitrale contraria a norme imperative (quali sono le disposizioni in tema di incompatibilità dei magistrati) e che solo in virtù di tali peculiarità del caso concreto ha ritenuto corretta la condotta del presidente del tribunale che ha nominato arbitro un soggetto estraneo alla categoria professionale indicata dalle parti. Invece, Cass. 14 maggio 2012, n. 7450, cit., sembra aver tratto dal ben circoscritto assunto delle sezioni unite, un principio di carattere generale, forzandone impropriamente la reale portata applicativa.
[13] Ci si riferisce a quello appena descritto sub lett. c).
[14] F. Auletta, Lo stato presente del processo di giurisdizione volontaria, in ildirittoprocessualecivile.it, 2020, 172-173, il quale sottolinea ancora che se la parte doveva scegliere per forza il suo arbitro da un elenco, anche il giudice che esercita in via surrogatoria il medesimo potere deve sceglierlo dallo stesso elenco. Il ragionamento di Auletta è stato poi ripreso e ampliato da M. Stella, Nomina dell’arbitro da parte del presidente del tribunale e rimedi nel caso di rifiuto di nomina, in <www.ildirittoprocessualecivile.it>, 2022, 42-43, per il quale il procedimento in questione non prevede una ponderazione di interessi né rimette al presidente un sindacato di opportunità sull’an della adozione del provvedimento, in quanto l’interesse pubblico sotteso alla nomina giudiziaria dell’arbitro è frutto di pre-valutazione legislativa e il supporto giudiziario all’arbitrato è l’interesse politico che presiede all’accoglimento dell’istituto nel nostro ordinamento.
[15] Come si dirà tra poco nel testo, ciò ne postulerebbe una specifica individuazione: quale interesse pubblico e quale speculare posizione soggettiva di «interesse legittimo», e in capo a chi, sarebbero sottesi al precetto normativo?
[16] L’inizio di tale fase coinciderebbe con il deposito del ricorso proposto dalla parte adempiente (id est: quella che ha nominato il suo arbitro), anche se, oltre alle osservazioni che seguiranno in appresso nel testo, vi è da considerare che per immaginare tale fase come un autonomo segmento procedimentale, l’art. 810 c.p.c. dovrebbe prevedere — ma così non è — la notificazione o la comunicazione del prefato ricorso alla parte che non ha provveduto alla nomina nel termine di venti giorni, ciò per sancire che il termine perentorio è ormai spirato e che è maturata la decadenza dalla facoltà di nomina.
[17] L’unico interesse coinvolto nel procedimento appare quello, strettamente negoziale, della nomina dell’arbitro mancante, che non muta la sua natura giuridica a seconda che tale nomina provenga dal presidente — adìto in via suppletiva — o che sopraggiunga tardivamente (id est: in pendenza dell’istanza ex art. 810 c.p.c. e prima della nomina giudiziale) ad opera della parte che vi era ab origine onerata. Ciò che importa al legislatore è la rimozione dello stallo in cui versa l’attuazione della volontà compromissoria. In quest’ottica, l’interesse negoziale alla costituzione del giudice privato (collegiale o unico che sia) coincide con l’interesse dello Stato a rendere effettiva la scelta arbitrale compiuta dalle parti, eliminando gli ostacoli che vi si frappongono. L’opzione legislativa contenuta nell’art. 810 c.p.c. in favore dell’effettività della giustizia privata, evidenzia in modo chiaro l’interesse politico perseguito dallo Stato mediante il riconoscimento e la disciplina dei fenomeni arbitrali all’interno del codice di rito civile. In questa prospettiva, l’intervento giudiziale si pone come extrema ratio rispetto alla nomina di parte, che difatti la giurisprudenza ritiene possibile anche se perviene dopo la scadenza del termine di legge: cfr. Cass. 2 dicembre 2005, n. 26257, ForoPlus e Corriere giur., 2006, 1551, con nota di R. Muroni, Alcune riflessioni sulla natura del termine di venti giorni per la nomina del secondo arbitro ai sensi dell’art. 810 comma 1, c.p.c., secondo cui «ove si consideri che la nomina partecipa della stessa natura del compromesso o della clausola compromissoria, essendo destinata ad integrare detta clausola, e che l’ordinanza di nomina degli arbitri ha carattere sostitutivo di un’attività negoziale delle parti, ovvero carattere suppletivo della manchevole attività di parte, non vi è ostacolo a ritenere che, sin quando un tale potere non venga esercitato, in mancanza di una esplicita previsione di decadenza a carico della parte inadempiente, ovvero in mancanza di un effetto automatico che si verifichi alla scadenza del termine, la parte non possa essere privata del potere di nomina ad essa spettante in forza della clausola compromissoria o del compromesso; né può ritenersi che il procedimento di nomina previsto dall’art. 810, secondo comma, c.p.c., una volta introdotto, sia insensibile alle vicende sopravvenute alla sua instaurazione, ed in particolare alla nomina dell’arbitro tardivamente effettuata dall’altra parte; l’attivazione di tale procedimento non può produrre, sin quando questo non si sia concluso con la nomina dell’arbitro, la inefficacia della nomina medio tempore effettuata, ancorché tardivamente». In dottrina, per analoghi rilievi, v. M. Bove, La giustizia privata, 4a ed., Milano, 2018, 93, che ammette la nomina di parte tardiva, purché antecedente alla pronuncia del presidente del tribunale.
[18] Corte cost. 30 marzo 1992, n. 140, Foro it., 1992, I, 2620: l’art. 97, 1° comma, della Costituzione (che fa parte del titolo primo della parte seconda ed è collocato nella sezione riguardante la pubblica amministrazione), disponendo che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che sia assicurato il buon andamento dell’amministrazione, va riferito anche alla disciplina dell’organizzazione giudiziaria. Tale disciplina si applica, oltre che agli uffici amministrativi in senso stretto, anche all’aspetto organizzativo degli uffici preposti all’attività giurisdizionale. Essa concerne la «organizzazione giudiziaria» in senso stretto, intesa come apprestamento di mezzi personali e strumentali per rendere possibile nel miglior modo l’attuazione della funzione giurisdizionale. In tale concetto di organizzazione non è compreso, in via normale, l’esercizio della funzione. A questo esercizio, dunque, non è riferibile l’art. 97 Cost.: il processo, infatti, è momento e modo di attuazione di valori, la cui tutela è assicurata da norme costituzionali secondo princìpi del tutto specifici, volti a regolare da un lato il diritto di azione e il diritto di difesa, garantendone alle parti l’effettività (art. 24 e 113 Cost.). Corte cost. 10 ottobre 1993, n. 376, ForoPlus: sebbene la giustizia consista in un sistema ordinamentale ed organizzativo ben differenziato dagli altri apparati pubblici, la Corte ha già statuito che l’art. 97 della Costituzione, nello stabilire che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che sia assicurato il buon andamento dell’amministrazione, ha inteso riferirsi non soltanto agli organi della pubblica amministrazione in senso stretto, ma anche agli organi dell’amministrazione della giustizia (sentenze n. 18/1989, Foro it., 1989, I, 305, e n. 86/1982, ForoPlus). Peraltro, tanto detto principio quanto il correlativo sindacato di legittimità costituzionale attengono, come ben risulta dalle richiamate decisioni, alle leggi concernenti l’organizzazione della giustizia: quindi a quelle che definiscono l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo. Ambito del tutto diverso, ed estraneo per definizione alla tematica del buon andamento della pubblica amministrazione, è l’esercizio della funzione giurisdizionale, nel suo complesso e in relazione ai diversi provvedimenti che nel contesto di tale esercizio possono o devono essere adottati. Tali assunti sono stati poi più volte ribaditi dalla Consulta: cfr. Corte cost. 3 dicembre 1993, n. 428, Foro it., 1994, I, 1283; Corte cost. 21 marzo 1996, n. 84, id., 1996, I,1113, con nota di R. Romboli, Il controllo dei decreti legge da parte della Corte costituzionale: un passo avanti ed uno indietro; Corte cost., 20 ottobre 2000, n. 433, id., 2001, I, 430; GT – Riv. giur. trib., 2001, 373, con nota di M.C. Giorgetti, Sull’insindacabilità della conciliazione da parte del giudice tributario; Corte cost. 4 maggio 2005, n. 174, ForoPlus e Diritto & giustizia, 2005, 22, 76, con nota di V. Pezzella, Beni sequestrati, bocciate le tesi dei Gip, Consulta sorda alle ragioni dell’efficienza.
[19] E. Allorio, A proposito di non impugnabilità di provvedimento presidenziale di nomina di arbitro, in Giur. it, 1956,, I, 2, 1079 ss., spec. 1083, che sottolineava la particolarità della fattispecie in esame quanto al regime di impugnazione del provvedimento, ammettendo la proponibilità di un’azione ordinaria di accertamento della nullità dell’ordinanza di nomina: «è esatto dire che il legislatore ha voluto l’ordinanza non impugnabile: ma non impugnabile (tale è il manifesto significato dell’art. 810) in sede volontaria»; Id., Sulla non impugnabilità della ordinanza del presidente del tribunale di nomina degli arbitri, Giur. it., 1964, I, 2, 39 ss., spec. 39-40, precisava che l’introduzione dell’art. 742 bis c.p.c. (con la novella del 1950) non influiva sul regime di non impugnabilità dell’ordinanza in sede volontaria, restando quindi pienamente vigente il disposto dell’art. 810 c.p.c.
[20] È beninteso, ovviamente, che la nomina giudiziale si renderà «doverosa» solo dopo che il presidente avrà verificato che «la convenzione d’arbitrato non è manifestamente inesistente o non prevede manifestamente un arbitrato estero» e solo dopo che avrà escluso la sussistenza di eventuali ragioni ostative (come, ad esempio, nel caso deciso da Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15290, cit., ove il presidente del tribunale non ha ritenuto di poter nominare arbitro un magistrato in servizio, nonostante vi fosse in tal senso la concorde indicazione delle parti).
[21] È opinione diffusa che si tratti di un procedimento di volontaria giurisdizione: cfr., C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 368; G. Verde, Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 1997, 75; Id., Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 2ª ed., Torino, 2006, 77; M. Bove, La giustizia privata, cit., 92-93; A. Briguglio, sub art. 810, in A. Briguglio, E. Fazzalari, R. Marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario, cit., 45-46; C. Giovannucci Orlandi, sub art. 810 c.p.c., in Arbitrato, diretto da F. Carpi, 2ª ed., Bologna, 217; V. Carnevale, la nomina e l’accettazione degli arbitri, in L’arbitrato, a cura di L. Salvaneschi e A. Graziosi, Milano, 2020, 185. Diversamente, C. Cecchella, sub artt. 809-813 c.p.c., La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 131, ritiene che si tratti di una «speciale azione di tutela specifica» in coerenza con le esigenze postulate dalla attuazione della convenzione arbitrale mediante sostituzione della volontà di parte.
[23] Non così quelle che riguardano il testo dell’art. 813 c.p.c., dove oggi è previsto, da un lato che l’accettazione degli arbitri sia «accompagnata, a pena di nullità, da una dichiarazione nella quale è indicata ogni circostanza rilevante ai sensi dell’articolo 815, primo comma, ovvero la relativa insussistenza» e, dall’altro, che «l’arbitro deve rinnovare la dichiarazione in presenza di circostanze sopravvenute», pena, in caso di omessa dichiarazione o di omessa indicazione di circostanze che legittimano la ricusazione, la richiesta di parte, da formularsi entro dieci giorni dalla accettazione o dalla scoperta delle circostanze, volta ad ottenere la dichiarazione di «decadenza dell’arbitro nei modi e con le forme di cui all’articolo 813 bis c.p.c.». Per quanto concerne invece l’art. 815 c.p.c., è stato reintrodotto il motivo di ricusazione — vigente fino alla riforma del 2006 — relativo alle «altre gravi ragioni di convenienza» in grado di incidere sull’indipendenza o sull’imparzialità dell’arbitro.
[24] Essendo quelle parole rivolte al presidente del tribunale, già dal tenore delle espressioni adoperate nella legge delega (cfr. art. 1, comma 15, lett. h, l. n. 206/2021) non traspare alcun intento costrittivo: «prevedere che (…) le nomine (…) siano improntate a criteri di (…)». E difatti, nell’attuazione del criterio di delega, si è previsto, col minimo sforzo redazionale, e senza l’uso di rafforzativi, che «la nomina avviene», come se fosse scontato che i presidenti di tribunale si conformeranno alle novità o, meglio, ne coglieranno lo spirito esortativo a proseguire con le buone prassi che, non si ha ragione di dubitarne, già orientavano le loro scelte. Per analoghi rilievi riferiti al testo della legge delega, v. A. Briguglio, Lett. h): nomina degli arbitri da parte della autorità giudiziaria, in Aa.Vv., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, c. 15, in Riv. arb., 2022, 92, che definisce il principio direttivo in questione «lapalissiano, non certo dannoso, ma solo minimamente utile (ci mancherebbe davvero che quelle nomine fossero state fino ad ora improntate a criteri di opacità, consolidamento di rendite di posizione e inefficienza)» osservando che «il criterio di delega appare davvero self-executing ed il legislatore delegato farà bene a ripeterne pedissequamente il tenore, confidando nella serietà e nella organizzazione pragmatica e regolamentare interna dell’ufficio del presidente del tribunale».
[25] Di cui infatti non vi è traccia, come si evince anche dalla circostanza, poc’anzi evidenziata, che il legislatore delegato ha replicato alla lettera le parole usate dal delegante, senza quindi introdurre alcuna nuova posizione giuridica soggettiva, men che meno di interesse legittimo, nel testo dell’art. 810 c.p.c.; diversamente, nell’attuazione della delega si sarebbe dovuto prevedere almeno un simulacro di motivazione del provvedimento presenziale che fungesse da minimo presupposto logico per consentire l’esercizio di un controllo ab externo. Ciò dovrebbe essere sufficiente per scoraggiare eventuali aneliti impugnatori dinanzi al giudice amministrativo (per alcuni rilievi sul criterio direttivo della legge delega, v. ancora A. Briguglio, Lett. h): nomina degli arbitri da parte della autorità giudiziaria, in Aa.Vv., Commento ai principì in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, c. 15, cit., 92, secondo cui «qualsiasi ulteriore specificazione normativa, vieppiù se malauguratamente inserita nel testo dell’art. 810 c.p.c., rischierebbe di dare esca — nel paese dei cavilli (e degli avvocati più fantasiosi del mondo) — a speciose doglianze post-arbitrali». Del resto, la questione non è nuova e si era già posta in tema di impugnazione della nomina presidenziale, trovando accoglimento da parte della giurisprudenza amministrativa: per la sospensione in via cautelare del provvedimento di nomina di un arbitro pronunciato dal presidente della corte d’appello di Roma, v. Cons. Stato, sez. IV, 23 giugno 1999 n. 1412, Riv. arbitrato, 2000, 476 ss., con nota critica di G. Verde, Il giudice amministrativo interviene nel procedimento di nomina degli arbitri, il quale esclude che nella questione devoluta al Consiglio di Stato siano coinvolte posizioni di interesse legittimo; per l’annullamento della nomina di un arbitro da parte del consiglio della camera arbitrale presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, v. Tar Lazio, sez. III, 16 marzo 2010, n. 4119, secondo cui il predetto consiglio della camera arbitrale avrebbe dovuto rifiutarsi di nominare l’arbitro ai sensi dell’art. 241, 15° comma, del d.leg. 12 aprile 2006, n. 163, accertando previamente la «manifesta inesistenza» o la «manifesta inoperatività» della clausola compromissoria (se pur tale potere di verifica non si scorge nel testo del prefato art. 241, 15° comma: «in caso di mancato accordo per la nomina del terzo arbitro, ad iniziativa della parte più diligente, provvede la camera arbitrale, sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, scegliendolo nell’albo di cui all’articolo 242» né in quello dell’art. 810 c.p.c., applicabile anche al caso di specie in forza del generale rinvio disposto dall’art. 241, 2° comma, cit., alle norme del codice di rito: «ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, salvo quanto disposto dal presente codice»).
[26] La questione riguardava l’art. 209, 4° comma, del codice degli appalti (d. leg. 12 aprile, 2006, n. 50) che nel disciplinare l’arbitrato in materia di contratti pubblici, non contempla l’ipotesi in cui le parti non procedano alla designazione dell’arbitro di loro competenza: da qui, il dubbio sollevato dall’Anac se tale designazione spetti in via suppletiva alla medesima autorità o se invece competa al presidente del tribunale ex art. 810 c.p.c. in virtù del rinvio disposto dallo stesso art. 209, 10° comma, alle norme del codice di procedura civile.
[28] Cfr. il Capo III del R.D. 18 dicembre 1941, n. 1368, «Disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile e disposizioni transitorie».
[29] V. la relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, recante «attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», consultabile al seguente link: https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/435744.pdf.
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[30] Cfr. le Note per la compilazione della dichiarazione di indipendenza dell’arbitro redatte dalla Camera arbitrale di Milano (https://www.camera-arbitrale.it/upload/documenti/arbitrato/Disclosure%20con%20note.pdf), che estende l’obbligo di disclosure anche «(a)i fatti, (al)le circostanze e (al)le relazioni (dell’arbitro) con: (…) i rappresentanti delle parti; i difensori delle parti e gli studi professionali dei medesimi».
[31] Come nel caso della procedura che si svolge presso la camera Arbitrale dell’Anac.