Il decreto correttivo n. 164/2024: le ultime modifiche al codice di procedura civile

Di Ilaria Pagni -

1.Col decreto correttivo, l’art. 171-bis viene modificato per andare incontro alle principali perplessità che erano sorte rispetto alla versione originaria frutto del D. Lgs. 149/2022.

Il legislatore non ha voluto viceversa intervenire per dare consacrazione normativa all’udienza che era stata immaginata dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 3 giugno 2024, n. 96[1], per offrire una interpretazione conforme a Costituzione della previsione relativa alle verifiche preliminari circa la regolarità del contraddittorio, che, seppure relative a questioni anch’esse rilevabili d’ufficio, possono essere decise col decreto ex art. 171-bis e non debbono soltanto essere indicate, ma non decise, nel medesimo decreto, come invece le altre.

A questo punto, le scelte compiute gli Osservatori sulla giustizia civile coi Protocolli per lo svolgimento della fase introduttiva divengono centrali per permettere che il diritto vivente si sviluppi nella direzione proposta dalla Corte e sarebbe opportuno che, oltre alla più ampia diffusione all’esterno del protocollo adottato (a escludere il difetto di conoscenza in chi proviene da sedi diverse), vi fosse una ragionevole condivisione delle soluzioni (a evitare i rischi della geografia giudiziaria).

2.- La Corte costituzionale non si è limitata a ritenere che l’art. 171-bis debba essere interpretato nel senso che il giudice, se emerge l’esigenza di discutere previamente con le parti le questioni relative alla regolarità del contraddittorio, ritenendole non liquide, possa fissare una udienza ad hoc nell’ambito dei propri poteri di organizzazione e direzione del processo.

La Corte ha anche ritenuto che possa essere la parte stessa a sollecitare la fissazione dell’udienza e, soprattutto, che dinanzi a un giudice che ne disattende l’istanza, non maturino preclusioni o decadenze per chi quell’istanza ha fatto, dovendosi attendere l’udienza ex art. 183 perché possa, almeno in quella sede, essere attivato il contraddittorio inutilmente richiesto. In altre parole, la parte dovrà ottemperare all’ordine del giudice solo dopo l’udienza, nella quale il giudice potrà confermare la propria decisione dopo l’esplicazione del dovuto contraddittorio.

Il legislatore, in assenza di una indicazione in tal senso ad opera delle Commissioni parlamentari, non ha ritenuto di poter modificare lo schema di decreto correttivo già approvato dal Consiglio dei Ministri nel mese di febbraio[2], agendo sull’art. 171-bis per allinearlo alla sentenza della Corte costituzionale, dal momento che la scelta della interpretativa di rigetto permette una interpretazione adeguatrice della norma che non richiede necessariamente l’intervento del legislatore.

Ciò è vero per quanto riguarda il richiamo all’art. 175 c.p.c., ma è meno vero per quanto attiene all’ulteriore ragionamento compiuto dalla Corte costituzionale in merito alle conseguenze della mancata fissazione della udienza richiesta dalla parte: per questo risultato, sarebbe stata necessaria una riformulazione della norma ad opera del decreto correttivo, e per questa ragione è opportuna una particolare attenzione dei giudici nel consentire il miglior funzionamento del principio del contraddittorio nel rispetto, al tempo stesso, delle esigenze di celerità volute dalla riforma.

3.- L’art. 171-bis viene riscritto dal decreto correttivo nel seguente modo:

i) si chiarisce al primo comma, con l’uso dell’indicativo “verifica”, che il giudice deve, entro quindici giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto (art. 166), verificare d’ufficio la regolarità del contraddittorio: come si è detto, questo controllo avviene senza confronto con le parti. Un confronto, invece, è previsto nelle soluzioni adottate dai diversi Protocolli;

ii) per effetto dell’intervento sull’art. 38, l’incompetenza per materia, valore e territorio inderogabile è rilevata d’ufficio col decreto ex 171-bis e non più entro la prima udienza,[3] per consentire alle parti di prendere posizione sul punto nelle memorie ex art. 171-ter; nei procedimenti nei quali quella norma non si applica (primo tra tutti il procedimento semplificato), il rilievo, invece, deve avvenire, come in precedenza, non oltre la prima udienza: anche nel primo caso, se il rilievo avviene col decreto ex art. 171-bis, non è previsto un confronto con le parti, ritenuto utile, invece, dai Protocolli anche – per il caso in cui l’eccezione sia sollevata dalla parte – per favorire l’eventuale adesione ex art. 38, comma 2. Il fatto che sia prevista, all’ultimo comma dell’art. 38, la possibilità di una decisione allo stato degli atti consente di immaginare che l’eventuale udienza disposta ex art. 175 c.p.c. possa essere la sede per tale pronuncia, mentre, normalmente, col decreto si avrà il rilievo dell’incompetenza, e la decisione interverrà solo dopo le memorie integrative (come avviene per tutte le decisioni sulle questioni pregiudiziali di rito);

iii) si separano, inserendole in due commi diversi (il secondo e il terzo), le verifiche circa la regolarità del contraddittorio dall’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio;

iv) per effetto della separazione tra i due commi, il secondo comma è riferito alle verifiche preliminari in senso stretto: la disposizione stabilisce che il giudice, compiute le verifiche preliminari sulla regolarità del contraddittorio, pronunci, quando occorre, i provvedimenti previsti dagli artt. 102, 107 (anche se, rimanendo ferma la previsione dell’art. 270, per cui la chiamata può essere ordinata in ogni momento, la prescrizione è puramente indicativa della opportunità di anticipare al massimo le occasioni di ingresso di un terzo nella lite), 164, 167 (non più terzo comma, perché il richiamo corretto è all’art. 269, secondo comma), 182, 269, secondo comma, 271, 291, primo comma, e 292, primo comma, e fissi una nuova udienza per la comparizione delle parti, con un secondo giro di verifiche preliminari almeno cinquantacinque giorni prima di quest’ultima (il termine – che è calcolato a ritroso dall’udienza perché non c’è più una data al quale agganciarlo per farlo operare in avanti – è pur sempre di quindici giorni successivo al nuovo termine di settanta giorni per la costituzione delle parti);

v) tra le verifiche preliminari è inserito il richiamo all’art. 271, per consentire che anche la chiamata del terzo ad opera del terzo sia autorizzata dal giudice prima dell’udienza ex 183, ed è cancellato il riferimento all’art. 171, terzo comma, che disciplina la dichiarazione di contumacia, ma sol perché quel comma è stato modificato con già la previsione, al suo interno, dell’inserimento della dichiarazione nel decreto ex art. 171-bis (la modifica dell’art. 171 si è resa necessaria perché nel testo originario, come rivisto dal D.Lgs. 149/2022, era rimasta invece la previsione – correlata a una dichiarazione di contumacia alla prima udienza, nel frattempo cancellata – di una dichiarazione con ordinanza); ciò non toglie che il convenuto si possa comunque costituire prima della pronuncia del decreto. A proposito della contumacia del convenuto, è stato opportunamente modificato l’art. 293, per allinearne il contenuto alla previsione dell’art. 268 che, per l’intervento del terzo, già stabiliva che l’intervento potesse avere luogo “sino al momento in cui il giudice fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione”, non essendoci più una udienza per la precisazione delle conclusioni, rimasta invece menzionata nell’art. 293 nella versione anteriore al decreto correttivo;

vi) quanto alla contumacia dell’attore, che rimane disciplinata dall’art. 290, nella modifica a questa norma si prevede che il processo prosegue se il convenuto ne fa richiesta nella comparsa di risposta, al fine di consentire, se il convenuto non lo chiede, che la cancellazione della causa possa avvenire già col decreto ex 171-bis;

vii) nel terzo comma si chiarisce meglio che il giudice deve comunque, anche quando non sorgono questioni di regolarità del contraddittorio, emettere un decreto di conferma o differimento, fino a un massimo di quarantacinque giorni, della data dell’udienza di comparizione delle parti (come nel previgente ultimo comma dell’art. 168-bis, nel quale rimane invece la previsione del quarto comma per cui, se nel giorno fissato per la comparizione delle parti il giudice non tiene udienza, la comparizione è rimandata d’ufficio all’udienza immediatamente successiva: previsione, questa, che si intreccia con l’altra, dal momento che, dopo la costituzione del convenuto, il giudice dovrà in ogni caso emettere un provvedimento di conferma o differimento, indipendentemente da quel che è avvenuto prima); si prevede comunque (all’ultimo comma) – con una disposizione tranquillizzante – che, finché il decreto non è emesso, non decorrano i termini per le memorie integrative.

Con questa previsione, però, i problemi dei tempi non si superano del tutto, neppure se viene rispettato il termine dei quindici giorni. Lo spazio tra il termine per la costituzione del convenuto e quello per la prima memoria è di trenta giorni, sicché se il giudice, al quindicesimo giorno, conferma la data indicata in citazione le parti si trovano a cinquantacinque giorni dalla prima udienza e hanno perciò soltanto quindici giorni per redigere la prima memoria (periodo, questo, che si riduce ulteriormente se il giudice provvede oltre il termine), ossia proprio la memoria nella quale dovrebbero essere precisate e modificate domande ed eccezioni anche alla luce della indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, e addirittura proposte domande nuove, se complanari.[4] Il che rende opportuno che in questi casi, insieme all’indicazione delle questioni di cui il giudice ritiene utile la trattazione, vi sia sempre il differimento, e mai la conferma, della data della prima udienza: non automaticamente di 45 giorni, se non si vogliono allungare eccessivamente i tempi della fase introduttiva, ma in maniera modulata sui contenuti che si vogliono indicare nel provvedimento ex art. 171-bis, per dare maggior respiro alla redazione delle memorie integrative. Recuperando così, almeno sotto questo profilo, quell’ottica di un processo flessibile, ritagliato sulle caratteristiche della controversia, che avrebbe dovuto essere prescelta dal legislatore della riforma in luogo dell’unica opzione che invece ha offerto alle parti: ossia l’alternativa rigida tra un rito ordinario e un rito semplificato.

L’opportunità, comunque, di un differimento della prima udienza, quando non venga fissata l’udienza anticipata ex art. 175 c.p.c., soprattutto, ma non solo, se il provvedimento ex art. 171-bis non interviene nei quindici giorni, per tener conto dei tempi stretti entro i quali le memorie debbono essere depositate, non è stata considerata in quei casi – e ve ne sono già stati alcuni – di provvedimenti tardivi con conferma dell’udienza o con suo insufficiente slittamento;

viii) si puntualizza, con la già ricordata separazione nei due commi (secondo e terzo) delle verifiche preliminari dall’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, che le questioni rilevabili d’ufficio sono le uniche a dover essere trattate nelle memorie integrative (mentre nella versione originaria dell’art. 171-bis il riferimento a “tali questioni” poteva includere anche quelle relative alla regolarità del contraddittorio): rimane esclusa, anche in questo caso, la previsione di un confronto anticipato parti-giudice;

ix) si interviene sulla conversione da rito ordinario a rito semplificato[5], prevedendo – sul modello di quanto disposto dall’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011, come modificato dal d.l.gs. n. 147 del 2022, che stabilisce che l’ordinanza con la quale il giudice dispone il mutamento del rito debba essere pronunciata «entro il termine di cui all’articolo 171-bis del codice di procedura civile» – che il passaggio dal primo al secondo non avvenga più all’udienza di trattazione, ma con un provvedimento preso in sede di verifiche preliminari. È soppresso, dunque, l’art. 183-bis, e la prescrizione in esso contenuta, con modifiche, è spostata nell’art. 171-bis: quando il giudice ritiene che in relazione a tutte le domande proposte ricorrano i presupposti per il rito semplificato, dispone la conversione e fissa sia un termine perentorio per l’integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti (integrazione che, come si dirà tra poco, diverge, nella formulazione, da quella possibile, nel caso di processo che nasce già nelle forme del rito semplificato, ex 281-duodecies, quarto comma, quando l’esigenza sorge dalle difese del convenuto), sia l’udienza ex art. 281-duodecies. Anche in questo caso non si prevede un confronto sul punto tra il giudice e le parti: dunque il giudice dispone la conversione del rito in un momento in cui il thema decidendum e il thema probandum non sono stati ancora illustrati compiutamente nelle memorie integrative, e lo fa (o lo può fare, se si accede all’idea dell’udienza anticipata, fissata discrezionalmente ex art. 175, nel quale caso il contraddittorio potrebbe aversi invece in quella sede) senza aver sentito le parti in proposito. Niente si dice neppure di eventuali strumenti per contestare la scelta del giudice: l’art. 183-bis, menzionando una ordinanza non impugnabile, non permetteva neppure che questa fosse modificata o revocata, in applicazione dell’art. 177, terzo comma, mentre del decreto, che è un tipico provvedimento provvisorio, non motivato, potrà essere disposta la revoca su richiesta delle parti (secondo quanto indicato dalla stessa Corte costituzionale), a meno che non si invochi un principio generale di divieto di regressione del procedimento, quando le parti siano state messe in condizioni di esercitare il diritto di difesa con le memorie integrative.

4.- Il legislatore, nel distinguere tra il secondo e il terzo comma dell’art. 171-bis, ha preso atto del fatto che le questioni oggetto del decreto ex art. 171-bis non sono tutte uguali.

Per vero, non sono tutte uguali, sotto il profilo della complessità, neppure le verifiche preliminari in senso stretto, perché è certamente più agevole un controllo di regolarità della notifica che non una valutazione del ricorrere dei presupposti per l’integrazione del contraddittorio o per la chiamata in causa del terzo.

In alcuni di questi casi, l’udienza ex art. 175 c.p.c. è sempre certamente opportuna.

È il giudice, tuttavia, che ne valuta l’opportunità. Se vogliamo suggerire quand’è che il confronto con le parti non può essere rinviato all’udienza ex art. 183, dobbiamo guardare quantomeno ai casi di diniego della chiamata in causa ad opera del convenuto o del terzo (nel caso di autorizzazione, la giurisprudenza non solo è ormai orientata nel senso di poter compiere una valutazione discrezionale, ma anche nel senso che non è richiesto il contraddittorio), di integrazione del contraddittorio nelle ipotesi più complesse di litisconsorzio necessario, di chiamata in causa iussu iudicis, di ritenuta inottemperanza all’ordine del giudice con conseguente estinzione del processo che, anziché avvenire all’udienza ex art. 183 c.p.c., oggi può essere aversi già nel secondo giro delle verifiche preliminari.

5.- Se su alcuni provvedimenti relativi alla regolarità del contraddittorio il confronto con le parti è opportuno, a maggior ragione lo è nel caso delle questioni rilevabili d’ufficio alle quali, è vero, è riservato il contraddittorio nelle memorie integrative dell’art. 171-ter, ma che spesso richiedono, già per essere individuate, che il giudice senta prima le parti.

Anche escludendo le questioni di puro diritto da quelle che debbono essere sottoposte al contraddittorio, le questioni rilevabili d’ufficio possono essere le più disparate e perciò di non semplice individuazione.

A proposito delle questioni di puro diritto, la giurisprudenza pressoché unanime ritiene che, «indiscussa la violazione “deontologica” da parte del giudicante che decide pronunciando sentenza sulla base di rilievi non previamente sottoposti alle parti», la mancata segnalazione di questioni di puro diritto non potrebbe determinare «la consumazione di altro vizio “processuale” diverso dall’error iuris in iudicando (ovvero ancora in iudicando de iure procedendo), la cui denuncia in sede di legittimità consentirebbe la cassazione della sentenza se (e solo se) tale error iuris risulti in concreto predicabile perché in concreto consumatosi».[6]

La dottrina tende invece a ricomprendere anche le questioni di puro diritto tra quelle che devono essere sottoposte dal giudice al contraddittorio delle parti: Luiso in particolare osserva che l’opinione restrittiva della giurisprudenza «in realtà confonde la nullità della sentenza che pone a suo fondamento una questione rilevata di ufficio – nullità incontrovertibilmente prevista dalla norma – con gli strumenti utilizzabili per contrastare tale nullità, e cioè con i mezzi di impugnazione»[7]; secondo Luiso, infatti, la distinzione tra questioni di puro diritto e questioni di fatto o miste rileva soltanto per il fatto che, mentre «le questioni di rito e quelle di puro diritto decise dal giudice di merito senza preventivamente sollecitare il contraddittorio, possono essere proposte, e quindi il vizio sanato, anche in Cassazione», «al contrario, le questioni che comportano la rilevanza di fatti ulteriori e diversi […], che non siano state sottoposte al contraddittorio delle parti, debbono anch’esse essere fatte valere in sede di impugnazione, ma l’errore è rimediabile solo in appello e non in cassazione».

Come dicevo, le questioni rilevabili d’ufficio sono le più varie: alcune condizionano la stessa nascita del processo (come il difetto di legittimazione, di capacità di essere parte, o di interesse ad agire), altre ne condizionano la prosecuzione (a cominciare dalla condizione di procedibilità), altre ancora la decisione (pensiamo alla nullità del contratto).

A proposito di quest’ultima, la giurisprudenza ha negato che si rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 101, comma 2° c.p.c., in quanto la relativa disamina sarebbe «naturaliter immanente al giudizio, facendo parte integrante del thema decidendum dell’azione di adempimento – o all’opposto, di accertamento dell’invalidità, sia pure a diverso titolo – proposta dalle parti».[8]

L’assunto tuttavia stona, e non poco, col peso che la Corte di Giustizia prima e le Sezioni Unite della Cassazione poi hanno attribuito alla mancata rilevazione della nullità da parte del giudice del decreto ingiuntivo, e col fatto che, proprio in coincidenza con la gestazione delle sentenze delle Sezioni unite sulle impugnative negoziali e la previsione della possibilità di un rilievo d’ufficio anche di cause di nullità diverse da quelle fatte valere dall’attore, furono fatti tentativi, all’epoca della Commissione ministeriale presieduta da Giuseppe Berruti, per includere espressamente anche le richieste istruttorie tra le attività (le «osservazioni») consentite nelle memorie, sul presupposto che il rilievo della nullità certamente imponesse la concessione del termine per nuove memorie. In altre parole, stona con l’importanza che al rilievo della nullità viene attribuito e che richiede quel confronto con le parti che l’art. 101 impone.

6.- Con riferimento alle questioni rilevabili d’ufficio, la previsione dell’udienza anticipata, contenuta in vari Protocolli, vuol rispondere all’interrogativo se sia sufficiente il contraddittorio nelle memorie integrative, o se sia opportuno comunque un confronto preventivo col giudice.

La risposta degli Osservatori è di frequente generale: il potere del giudice di fissare l’udienza è esercitato considerando, tra le altre cose, anche la presenza di questioni pregiudiziali di rito o di merito rilevabili d’ufficio (e ovviamente anche se oggetto di eccezione di parte) idonee a potenzialmente definire il contenzioso, anche nell’ottica dello svolgimento del tentativo di conciliazione e della formulazione della proposta ex art. 185-bis c.p.c.

Aggiungerei: l’udienza anticipata è opportuna anche già per consentire al giudice la stessa individuazione delle questioni, non sempre bastando, allo scopo, la lettura degli atti introduttivi senza un confronto con le parti; profilo, questo, che si lega con quello della funzione dell’interrogatorio libero, riservato invece dal legislatore all’udienza ex art. 183.

Il tema del confronto col giudice, anticipato o posticipato, sulle questioni rilevabili d’ufficio, si intreccia con l’interrogativo, più tradizionale, del se vi sia un potere o un dovere di indicare fin da subito (nel sistema anteriore alla riforma, alla prima udienza, qui nel decreto ex art. 171-bis) quelle questioni, oppure se, per effetto della previsione dell’art. 101 c.p.c., il dovere scatti solo prima della pronuncia della sentenza.

Com’è noto, l’art. 31 del Progetto Chiovenda[9] sanciva il dovere del giudice, «in ogni stato della causa», di richiamare «l’attenzione delle parti sui punti che devono essere esaminati d’ufficio»; anche l’art. 162 del Progetto preliminare Solmi del 1937, rubricato «determinazione delle questioni da risolvere», disponeva «che il giudice segnala inoltre alle parti le eccezioni rilevabili d’ufficio, delle quali ritenga necessaria la discussione», ma il dovere non era più enunciato in via generale, stante la previsione di una valutazione discrezionale del giudice intorno alla necessità della discussione. La «necessità» della discussione è diventata poi semplice «opportunità» nel Progetto definitivo Solmi del 1939, per poi essere sostituita, nel testo definitivo del codice, dalla indicazione delle questioni ad opera dell’istruttore, sfornito di poteri decisori.

Già Andrioli[10] si interrogava se l’art. 183 c.p.c., prevedendo che il giudice indicasse alle parti «le questioni rilevabili d’ufficio, delle quali ritiene opportuna la trattazione», enunciasse un comando oppure un consiglio, ritenendo che la portata della norma non fosse «soltanto direttiva, ma precettiva» al punto che «il collegio non [potesse] prendere d’ufficio in esame questioni, la cui rilevanza non [fosse] stata indicata alle parti dallo istruttore». Diversamente, Denti[11] non dava peso all’art. 183, escludendo «che il mancato dibattito sulle questioni rilevabili d’ufficio dia luogo a nullità della loro decisione in forza» di quella previsione, e ritenendo invece che la nullità della decisione trovasse fondamento nell’art. 101 c.p.c., allora da interpretarsi alla luce dell’art. 24, comma 2° Cost., in mancanza di una disposizione quale quella che sarebbe stata poi introdotta, nel 2009, nel suo secondo comma, ad escludere la possibilità delle sentenze della terza via.

Prima dell’introduzione nell’art. 101 dell’espresso riferimento a quel che il giudice deve fare prima di «porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio», la giurisprudenza ha sostenuto a lungo che l’esercizio del potere di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio rappresentasse «una facoltà discrezionale, il mancato esercizio della quale non può dar luogo a ricorso per cassazione»[12]. Tuttavia, a partire da Cass., 21 novembre 2001, n. 14637[13], è andato affermandosi l’orientamento opposto, secondo cui «è nulla la sentenza che si fonda su una questione rilevata d’ufficio, e non sottoposta dal giudice al contraddittorio delle parti», sul presupposto che la previsione di cui all’art. 183 c.p.c. sia «espressione del principio del contraddittorio che governa il processo», sicché se il giudice «si avvede tardivamente di una questione rilevabile di ufficio, e la indica alle parti dopo dell’udienza di trattazione, deve consentire ad esse di eccepire e di argomentare, con analoga tardività». Non si dice quando il giudice deve rilevare d’ufficio la questione e sottoporla al contraddittorio delle parti, ma si prevede che non possa decidere senza aver avviato il dibattito sul punto.

7.- A mio avviso, per quanto apparentemente riferito al momento della decisione, l’art. 101 fornisce una indicazione chiara al giudice, soprattutto oggi, affinché operi tempestivamente per assicurare fluidità al processo.

La prospettiva non è dissimile da quella dell’art. 115, che del resto ha condiviso con l’art. 101, nel 2009, la sottolineatura della collaborazione parti-giudice. Norma, quella dell’art. 115, che si vuole rivolta esclusivamente al giudice, e perciò al momento della decisione, ma che dev’essere letta invece, e ancor più oggi che il principio di non contestazione è particolarmente valorizzato dalle prescrizioni di specificità nella individuazione del contenuto degli atti introduttivi, come previsione che, sottolineando l’importanza del principio di non contestazione, ne impone il collegamento con le preclusioni previste per le parti nella vecchia e nella nuova appendice di trattazione scritta.

Allo stesso modo la ribadita centralità dell’art. 101 richiede, questa volta nella prospettiva rovesciata (del giudice, e non delle parti), una interpretazione dell’art. 171-bis che ne rafforzi l’importanza, a dispetto della circostanza che, all’apparenza, non siano previste conseguenze per la mancata indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio al momento della pronuncia del decreto. E ciò al di là del fatto che il riferimento, mantenuto nel passaggio dall’art. 183 all’art. 171-bis, alla mera ‘opportunità’ della trattazione della questione in luogo della originaria ‘necessità’ evocata nei progetti preparatori del codice di rito, possa o meno continuare a far immaginare che quello rivolto al giudice sia, almeno sotto il profilo temporale (l’unico, per il quale, è rimasta discrezionalità al giudice, data la previsione della nullità della sentenza emanata senza il rispetto dell’art. 101 c.p.c.), un consiglio, anziché un comando.

A mio avviso, solo con l’esclusione della libertà delle parti di contestare in qualunque momento il fatto originariamente non contestato, da un lato, e con la richiamata necessità che il giudice osservi alla lettera, anche nei tempi, il disposto dell’art. 171-bis, non rinviando l’enucleazione delle questioni rilevabili d’ufficio, dall’altro, si riesce a far funzionare quel meccanismo un po’ rigido che il legislatore della riforma ha immaginato per consentire alle parti e al giudice di arrivare all’udienza con i temi sufficientemente messi a fuoco perché possano essere chiesti chiarimenti e svolto un serio tentativo di conciliazione. Infatti, se la questione rilevabile d’ufficio dev’essere sottoposta al dibattito processuale, pena, altrimenti, la nullità della sentenza, rinviare l’indicazione della questione al momento dell’udienza ex art. 183 significa trasformare in una regola quella che nell’art. 101 è invece un’eccezione, ossia la riapertura del contraddittorio una volta esaurite le memorie.

Conferma questa lettura anche l’ultima modifica dell’art. 101 c.p.c., quella, cioè, che è stata apportata col D. Lgs. 149/2022 con l’inserimento della previsione per cui «il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione del diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni». La modifica è stata inserita non per riaprire il dibattito circa la necessità di una valutazione della offensività o meno del vizio – a escludere la quale, nel frattempo, è intervenuta anche la Cassazione, con la sentenza delle sezioni unite 25 novembre 2021, n. 36596, sulla sentenza pronunciata prima della scadenza del termine per le conclusionali  – ma per riaffermare, proprio tenuto conto delle criticità della collocazione dell’udienza a valle delle memorie e non a monte, un generale dovere del giudice, anche nei casi in cui non è espressamente prevista la modalità di attuazione del principio costituzionale, di intervenire ad allineare le posizioni delle parti quando il meccanismo del processo, per qualche ragione, non lo abbia consentito.

Che sia questa la ragione della modifica lo si legge anche nella Relazione illustrativa del d.lgs. n. 149 del 2022, la quale spiega come l’art. 101 sia stato modificato «per rafforzare le garanzie processuali delle parti nel nuovo “modulo” del rito ordinario (a trattazione scritta anticipata rispetto alla prima udienza di comparizione delle parti davanti al giudice), così come – laddove occorra – se vi sia necessità di ripristinare “la parità delle armi” nel nuovo rito semplificato», confermando che l’intenzione del legislatore delegato era piuttosto quella di ampliare, e non comprimere, le garanzie processuali delle parti. È appena il caso di notare che, in ogni caso, proprio per mettere a tacere ogni dubbio al riguardo, sarebbe stata più corretta una formulazione del tipo «il giudice assicura il rispetto del contraddittorio per tutto lo svolgimento del processo e, in caso di violazione, adotta i provvedimenti opportuni».

8.- È proprio dunque ripartendo dai rilievi relativi all’art. 101 c.p.c. che si deve tornare a ragionare su come devono essere letti gli artt. 171-bis e 183 se si vuole che il meccanismo processuale funzioni.

Si è detto che, se il processo dev’essere al tempo stesso efficiente e rispettoso delle esigenze di tutela delle parti, l’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio non può essere ritardata, nonostante non sia previsto un vero e proprio obbligo in tal senso: nell’art. 171-bis si usa l’indicativo “indica”, che allude alla doverosità della indicazione, è vero, ma, dal momento che la valutazione circa l’”opportunità” della trattazione rimane affidata alla discrezionalità del giudice, si esclude che vi siano conseguenze derivanti dalla mancata pronuncia del decreto sul piano della validità e regolarità degli atti successivi.

Lo sforzo di individuare prima possibile le questioni rilevabili d’ufficio, e di indicarle nel decreto ex art. 171-bis, è collegato al fatto che solo così si evita un processo che, come nel gioco dell’oca, debba ripartire da capo, demandando alle memorie aggiuntive dell’art. 101, anziché alle memorie dell’art. 171-ter, il compiuto svolgimento delle difese delle parti.

Che nonostante l’assenza di conseguenze per la mancata indicazione delle questioni, il precetto dell’art. 171-bis non possa essere sottovalutato discende proprio, del resto, dall’inserimento della prima parte del secondo comma dell’art. 101 c.p.c.: infatti, non può essere proprio il giudice, che non utilizza opportunamente la prescrizione dell’art. 171-bis e, anche per la difficoltà di studiare il fascicolo nei quindici giorni dalla costituzione del convenuto, sceglie sistematicamente di rinviare all’udienza l’eventuale rilievo d’ufficio delle questioni, a creare un ostacolo all’ordinato fluire dell’attività difensiva e a dover poi dare i provvedimenti opportuni per ripristinare i termini dello scambio. In altre parole, la concessione di memorie per osservazioni in un termine compreso tra venti e quaranta giorni dev’essere intesa, ancor più di prima, come una extrema ratio, mentre la scelta fisiologica dev’essere quella delle verifiche preliminari, che divengono l’unico presidio per garantire che in un processo in cui purtroppo l’intervento del giudice è stato collocato, dalla legge delega, solo dopo lo scambio di memorie tra i difensori, le attività delle parti non si svolgano comunque in un confronto tardivo col giudicante, a evitare gli errori del processo societario dei quali tutti si erano lamentati.

Detto questo, però, non si è ancora detto tutto.

La scelta di prevedere una udienza ex art. 175 c.p.c., sempre da salutare con favore, e immaginata dalla Corte costituzionale con riferimento alle questioni di regolarità del contraddittorio, è ancora più opportuna se si ha riguardo alla possibilità che ricorrano questioni rilevabili d’ufficio, pur se per esse è previsto lo sfogo nelle memorie integrative. Il contraddittorio anticipato, in questo caso, non serve soltanto a discutere delle questioni, come nel caso delle verifiche del secondo comma, ma anche per farle emergere.

In questi casi, ancor di più che con riferimento alle questioni di regolarità del contraddittorio, il confronto solitario del giudice col fascicolo non aiuta, nemmeno se si fa leva sull’ausilio degli addetti all’ufficio del processo, ai quali l’art. 5 d.lgs. n. 151 del 2022 attribuisce il compito proprio dello «studio del fascicolo» e del «supporto al magistrato nello svolgimento delle verifiche preliminari previste dall’art. 171-bis».

L’emersione delle questioni rilevabili d’ufficio richiederebbe, infatti, piuttosto un interrogatorio libero ben condotto, che tuttavia, seppure apparentemente potenziato per il fatto che la riforma ha previsto la presenza personale delle parti, è rimasto agganciato alla prima udienza, ovvero a un momento in cui le memorie integrative sono già state scambiate e l’unica strada rimasta aperta è, di nuovo, quella del secondo comma dell’art. 101, delle memorie aggiuntive.

Com’è noto, l’interrogatorio libero ha almeno tre funzioni: i) far prendere posizione a ciascuna delle parti sui fatti affermati dalla controparte ai fini di cui all’art. 115 c.p.c., ii) far emergere fatti che sono a fondamento di eccezioni rilevabili d’ufficio, iii) e, più generalmente, indicare le questioni rilevabili d’ufficio.

E se la prima funzione mantiene comunque una utilità anche se l’interrogatorio libero avviene all’udienza ex art. 183, perché il giudice, che sta per decidere sull’ammissione delle prove richieste dalle parti, potrà così chiarirsi definitivamente su quali siano i fatti non bisognosi di prova (fermo che non sarà più possibile che si trasformi la non contestazione in contestazione perché non vi sarebbe più lo spazio, se non per via di rimessione in termini, per la richiesta di prova diretta sul fatto in precedenza non contestato), con riferimento alle altre due funzioni l’emersione, all’udienza, dei fatti e delle questioni costringerà alla riapertura del contraddittorio dopo che le parti già hanno svolto le proprie difese scritte, con un possibile rallentamento (peraltro necessario) dell’andamento del processo.

Ciò dovrebbe indurre a ritenere, una volta immaginato che il codice comunque consenta, in applicazione dell’art. 175 c.p.c., che prima delle memorie integrative venga in ogni caso fissata una udienza «intermedia», che in quella sede debba, preferibilmente, essere collocato anche un interrogatorio libero anticipato, eventualmente anche soltanto coi difensori e non necessariamente con le parti.

9.- Vediamo allora, in conclusione, come dovrebbe essere organizzato il lavoro del giudice, tenuto conto della possibilità dell’udienza anticipata e della riformulazione dell’art. 171-bis a opera del decreto correttivo.

Indubbiamente, l’individuazione delle questioni rilevabili d’ufficio in sede di verifiche preliminari non è solo complicata dalla mancanza del confronto in udienza con le parti, ma è anche poco compatibile con un termine stretto come quello dei 15 giorni dalla costituzione del convenuto.

Se non si vuole ripristinare in via interpretativa l’art. 168-bis ultimo comma (che consente il differimento dell’udienza già al momento della presentazione al giudice del fascicolo, per consentirgli di programmare i controlli e anticipare la preparazione dei temi che già emergono dalla citazione, in modo da rispettare successivamente il termine dei 15 giorni dalla costituzione del convenuto per l’emissione del decreto e l’eventuale fissazione dell’udienza anticipata: soluzione, questa, che presuppone un giudice in grado, fin dall’inizio, di prendere in mano il fascicolo più volte), si può più semplicemente immaginare, restando nella logica dell’art. 171-bis, che venga pronunciato subito, già all’atto della costituzione del convenuto, senza aspettare i quindici giorni consentiti dal codice, il decreto di (conferma o, meglio) differimento dell’udienza, riservando ad un momento immediatamente successivo, con appena maggior tempo, la pronuncia di un secondo decreto, oppure, meglio, l’udienza ex art. 175 c.p.c. nella quale chiedere chiarimenti ai difensori (se non addirittura svolgere l’interrogatorio libero) e individuare le questioni rilevabili d’ufficio.

10.- Quanto al procedimento semplificato[14], si è già detto della modifica dell’art. 171-bis e della soppressione dell’art. 183-bis.

Gli ulteriori interventi riguardano:

i) sia l’art. 281-decies, prevedendo che, quando la causa è di competenza del giudice monocratico, può sempre essere introdotta nelle forme del rito semplificato, anche se non è di pronta soluzione e stabilendo che col rito semplificato si possono introdurre anche le opposizioni a decreto ingiuntivo, all’esecuzione e agli atti esecutivi. Il solo art. 645 è modificato di conseguenza;

ii) sia l’art. 281-undecies, inserendo gli avvertimenti dell’art. 163 in origine mancanti;

iii) sia l’art. 281-duodecies, correggendo il mancato richiamo allo ius variandi rappresentato dalla domanda conseguenza delle domande riconvenzionali ed eccezioni proposte dalle altre parti e sostituendo il giustificato motivo, quale fondamento della possibile concessione, all’udienza, dei termini per memorie integrative in cui precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, indicare i mezzi di prova e produrre documenti, nonché per la replica e la deduzione di prova contraria, con la previsione per cui “quando l’esigenza sorge dalle difese della controparte, il giudice concede [il termine], se richiesto”.

La facoltatività del rito semplificato, quando la causa è di competenza del giudice monocratico, non significa che alla prima udienza il giudice, se valuta che, per la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, la causa debba essere trattata con il rito ordinario, non possa disporre il mutamento di rito, disponendo il passaggio da semplificato a ordinario, indipendentemente dalla competenza collegiale o monocratica. E ciò per la necessità di tutelare il diritto di difesa del convenuto che altrimenti subirebbe la scelta dell’attore.

Quanto alla previsione per cui, se il processo rimane sui binari del rito semplificato, il termine per memorie integrative nell’art. 281-duodecies è concesso (e non “può essere concesso”, come nella versione originaria della norma) quando l’esigenza sorge dalle difese del convenuto, e non più quando ricorra un giustificato motivo, essa vorrebbe, secondo la Relazione illustrativa, venire incontro alle richieste, manifestate da più parti, dell’eliminazione delle possibili situazioni di incertezza, salvando, al tempo stesso, la necessità che gli atti introduttivi siano il più completi possibile, a garanzia della celerità, in quanto i termini per le memorie integrative non verranno concessi – prosegue la Relazione – quando il convenuto sia contumace o si limiti a contestazioni di diritto. In questo modo il legislatore restringe, e non allarga, gli spazi per la concessione del termine, andando in senso contrario alle istanze di coloro che non volevano solo eliminare l’incertezza ma anche allargare le maglie della disposizione.

Certo è che, allora, l’esigenza che sorga dalle difese del convenuto andrà valutata nel modo più ampio possibile, per evitare compressioni del diritto di difesa.

Ciò anche perché il quadro delle preclusioni nella fase introduttiva del rito semplificato che emerge dalle diverse disposizioni è tutt’altro che chiaro.

Non solo nell’art. 281-duodecies non si dice niente della possibilità di una correzione di tiro alla prima udienza, con riferimento alla quale si disciplina espressamente soltanto lo ius variandi. Ma, inoltre, la differente formulazione dell’art. 171-bis, ultimo comma, e dell’art. 281-duodecies, quarto comma (l’uno, che anticipa rispetto all’udienza la messa a punto delle allegazioni e delle prove – addirittura solo documentali -, l’altro, che fino all’udienza non prevede decadenze, almeno espresse, salvo poi limitare dopo l’udienza lo ius poenitendi alle esigenze originate dalle difese del convenuto) sembra adombrare la necessità di una completezza degli atti introduttivi che non faciliterà il ricorso al rito semplificato. A questo proposito si debbono salutare con favore quelle interpretazioni[15] che, con riferimento al rito semplificato “originario” e non frutto di conversione,[16] cercano di escludere paragoni troppo rigidi col rito del lavoro e immaginano, come attività da compiere in udienza a pena di decadenza (senza il condizionamento di provvedimenti autorizzatori del giudice), le sole difese riconvenzionali conseguenti alle difese della controparte mentre, in difetto di una previsione escludente, ammettono nella stessa udienza anche la facoltà di precisazione del thema decidendum e di formulazione di nuove istanze istruttorie, in quanto possibili anche dopo l’udienza in caso di concessione dei termini.[17]

11.- Un’altra importante modifica, contenuta nel decreto correttivo, è riferita al giudizio di appello.

Si tratta della modifica apportata agli artt. 342 e 434 c.p.c., per introdurvi i principi di chiarezza e sinteticità: le due disposizioni sono state fatte oggetto di intervento dapprima a opera del D. Lgs. n. 149/2022 e, subito a ruota, da parte del decreto correttivo, a chiarimento della formulazione introdotta appena un anno prima.

Nella legge delega l’enunciazione dei principi di chiarezza e sinteticità, postulati come criteri generali nell’art. 121 c.p.c., era stata accompagnata, nel secondo grado del giudizio, a una previsione di “specificità”, che mentre nel primo grado era inedita, e pensata per il miglior funzionamento del principio di non contestazione, con riferimento all’appello non aggiungeva alcunché alla previsione dei motivi specifici di appello, la cui violazione comportava e comporta tutt’ora inammissibilità dell’impugnazione. L’art. 1, comma 8, lett. c), della legge delega così disponeva: “Prevedere che, negli atti introduttivi dell’appello disciplinati dagli articoli 342 e 434 del codice di procedura civile, le indicazioni previste a pena di inammissibilità siano esposte in modo chiaro, sintetico e specifico”.

Nel declinare quel principio, il tavolo istituito per l’attuazione della legge delega aveva immaginato di riprendere la riscrittura degli artt. 342 e 434 formulata dal gruppo di lavoro per la chiarezza e sinteticità degli atti operante presso il Ministero della Giustizia negli anni 2016-2018 e ipotizzato perciò di sostituire il secondo comma dell’art. 342 (e di conserva l’art. 434) con una previsione del seguente tenore:

L’appello deve essere motivato in modo chiaro e sintetico e indicare specificamente, a pena di inammissibilità:

1) le censure alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado e la loro rilevanza;

2) le violazioni di legge e la loro rilevanza.

Il riferimento al capo (termine che il D.Lgs. n. 149/2022 ha sostituito a quello di parte per le ragioni di cui ora diremo) era contemplato prima di quello all’inammissibilità: “L’appello deve contenere le indicazioni prescritte dall’articolo 163 e individuare i capi della decisione di primo grado che vengono impugnati”.

La formulazione degli artt. 342 e 434 era stata pensata tenendo conto del fatto che la delega, alla lettera c) del comma 8, laddove prevede che “le indicazioni previste a pena di inammissibilità siano esposte in modo chiaro, sintetico e specifico”, ben potesse essere intesa nel senso che a pena di inammissibilità fosse il contenuto che gli artt. 342 e 434 richiedono sia indicato in modo specifico (ovvero, le censure alla ricostruzione del fatto e la denuncia di violazioni di legge) e non già il modo dell’esposizione (ciò sul rilievo, che appariva ovvio, che il tema “chiarezza e sinteticità” sia più tema culturale che non di norme e precetti).

Per evitare ogni rischio di fraintendimenti, si era perciò anticipato il riferimento alla chiarezza e alla sinteticità rispetto a quello alla inammissibilità.

Visto il tenore della legge delega, tuttavia, il D. Lgs. n. 149/2022, per non correre il rischio di contraddirla, aveva preferito una diversa formulazione più aderente al tenore letterale della previsione: scrivendo perciò che l’appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare, a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico, 1) il capo della decisione, 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado, 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Sebbene il contrasto con il principio della libertà delle forme fosse più apparente che reale, e per superarlo fosse sufficiente uno sforzo di interpretazione, il decreto correttivo ha ritenuto opportuno riformulare la previsione, intervenendo a precisare una volta per tutte che i canoni di chiarezza e sintesi non sono requisiti di ammissibilità dell’appello (mentre il richiamo alla specificità non aggiunge niente a quanto già si doveva ritenere in precedenza) e a puntualizzare che ciascun motivo di appello dev’essere sì relativo a uno specifico capo della decisione, ma l’individuazione – non già l’“indicazione”, ad evitare il rischio della inutile trascrizione nel corpo dell’atto – del capo non fa parte dell’illustrazione delle ragioni per cui si chiede la riforma della sentenza.

Nel decreto correttivo si legge perciò che l’appello “deve essere motivato in modo chiaro, sintetico e specifico. Per ciascuno dei motivi, a pena di inammissibilità, l’appello deve individuare lo specifico capo della decisione impugnato e, in relazione a questo deve indicare: 1) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado, 2) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

La formulazione contempera così le equivoche indicazioni della legge delega col significato corretto dei principi di chiarezza e sinteticità, che non possono essere mai motivo di inammissibilità (pena il contrasto con l’esclusione della sanzione dell’invalidità che si legge nell’art. 46 disp. att. c.p.c. e nell’art. 121).

Rimane il fatto che, a stretto rigore, la mancata individuazione del capo non è motivo di inammissibilità del motivo ma di passaggio in giudicato del capo non impugnato, ma il senso della formulazione è comunque chiaro: le censure devono essere riferite puntualmente a distinte parti dispositive della pronuncia e devono replicare in modo specifico, chiaro e sintetico ai singoli passaggi argomentativi della motivazione, indicando gli errori in fatto e in diritto commessi dal giudice di primo grado con riferimento a ciascun capo.

La sostituzione del riferimento alle “parti” con quello ai “capi” di sentenza non è stata suggerita dal desiderio del legislatore di prendere posizione sul dibattito circa il significato di “parte” o “capo” di sentenza (anche perché il termine “parte” rimane negli artt. 329 e 336 c.p.c.), ma, piuttosto, dall’esigenza di evitare, per quanto possibile, che, complice il fatto che “parte” di sentenza è anche termine del linguaggio comune, si affermasse l’idea, emersa in alcune pronunce della Cassazione anche dopo l’intervento del 2017,[18] della necessità di una trascrizione, nell’atto di appello, dei brani della motivazione del provvedimento, con un inutile appesantimento della citazione e del ricorso.

La possibilità di una confusione su quel che è richiesto all’impugnante, del resto, si tocca con mano leggendo l’art. 7, comma 3, del DM n. 110/2023 in tema di criteri di redazione e limiti dimensionali degli atti del processo che, mentre all’art. 2, comma 1, lett. e), aveva avuto cura di utilizzare il termine “individuare”, con riferimento ai capi della decisione impugnati, proprio per evitare ogni pericolo di trascrizione di interi brani della pronuncia, ha poi erroneamente menzionato, su insistenza dell’Avvocatura, in luogo di “paragrafi”, i “capi” del provvedimento, richiedendo che i provvedimenti del giudice siano redatti “con l’indicazione di capi separati e numerati”, allo scopo – almeno stando a quanto si legge nei comunicati stampa del CNF che hanno accompagnato la modifica al DM – di permettere all’impugnante, che altrimenti “dovrebbe trascrivere intere parti della pronuncia”, di redigere con maggiore facilità l’atto di appello riferendosi ai numeri dei ‘capi’.

Non resta che auspicare che, nonostante tutto, la giurisprudenza colga lo spirito del decreto correttivo, volto a chiarire il precedente intervento riformatore. Che è stato pienamente compreso, per esempio, dalla Sezione Lavoro della Corte d’appello di Milano, che ha rilevato come oggi, alla luce della riforma, “ogni censura deve essere espressamente orientata verso un determinato “capo” della decisione impugnata, non essendo più necessario, quindi, riprodurre integralmente ‘le parti del provvedimento’ censurate (così com’era richiesto dalla previgente formulazione del requisito n. 1 dell’art. 342 c.p.c.)”.[19]

12.- Quanto alle tecniche redazionali dei provvedimenti del giudice, è appena il caso di fare un cenno alla modifica dell’art. 46 disp. att. c.p.c., che all’ultimo comma vede aggiunto un riferimento al fatto che anche il giudice redige gli atti e i provvedimenti nel rispetto non solo dei criteri, ma anche “dei limiti” di cui al presente articolo. Manca infatti, allo stato, una estensione dei limiti dimensionali, attualmente riferiti dal DM 110/2023 ai soli atti di parte, agli atti e ai provvedimenti del giudice.

13.- Una rilevante modifica è quella apportata all’art. 380-bis, anche se non è chiaro a quali procedimenti si applichi. La soppressione della necessità della nuova procura speciale, nel caso in cui venga formulata, dal presidente della sezione o da un consigliere da questo delegato, una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisi la inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, opera, infatti, per effetto dell’art. 7 del D. Lgs. 164/2024, per i procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023,[20] ovvero per quelli iniziati a tale data in primo grado. Viceversa, la norma modificata si applicava anche ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023, per i quali non fosse stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio. Di conseguenza, e in difetto di una previsione specifica nell’art. 7 (dato che le uniche disposizioni che si applicano ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione alla data del 1° gennaio 2023 sono quelle di cui all’art. 13 comma 1-quater, del DPR 30 maggio 2002, n. 115), non sembra di poter dire che la modifica dell’art. 380-bis possa operare con riguardo ai giudizi pendenti in cassazione.[21]

14.- Un cenno, in conclusione, vorrei farlo all’‘oralità telematica’, di cui il legislatore della riforma, anche nel decreto correttivo, non ha saputo cogliere fino in fondo le potenzialità.

Diversamente dall’udienza a trattazione scritta, che nell’art. 127-ter può essere chiesta dalle parti congiuntamente, la scelta per l’udienza in videocollegamento è rimasta appannaggio del giudice, non essendo stato modificato, dal decreto correttivo, l’art. 127-bis. Alla parte costituita è rimasta perciò l’attribuzione della sola facoltà di chiedere che l’udienza si svolga in presenza.

Vi è tuttavia, sia pure con riferimento a una ipotesi diversa (quella in cui il giudice abbia disposto la trattazione scritta e, su opposizione della parte, abbia revocato il provvedimento, “disponendo in conformità”), un passaggio della Relazione illustrativa al decreto correttivo, in cui il legislatore dà comunque una indicazione di favore per le udienze in videocollegamento, che non solo deve indurre a ritenere possibile l’istanza, ma che può anche essere riportata a una logica di flessibilità ancora più ampia rispetto a quella espressamente menzionata nella relazione.

Nella Relazione, con riferimento all’opposizione alla trattazione scritta si spiega che non è stato ritenuto necessario apportare una correzione all’art. 127-ter, secondo comma, volta a prevedere che, in caso di revoca del provvedimento, il giudice possa anche disporre che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi, anziché necessariamente in presenza, sul presupposto che questa possibilità sia già contemplata dalla previsione attuale, che «non pone un’alternativa secca tra il rigetto dell’opposizione e la celebrazione dell’udienza in presenza, ma consente anche la soluzione intermedia rappresentata dall’udienza “da remoto”». L’indicazione più radicale che si può dare nella prospettiva della flessibilità – ma che non è esclusa dalla norma – è consentire, quando solo una parte chiede la trattazione in presenza, all’altra parte di partecipare in videocollegamento, immaginando allora un trivio, e non soltanto un bivio, nelle previsioni degli artt. 127-bis e 127-ter.

Questa possibilità dev’essere apprezzata nella logica dell’importanza del contributo che l’oralità telematica dà all’effettività della tutela: se così non fosse, la richiesta della trattazione in presenza potrebbe diventare un’arma per il difensore che non ha impedimenti alla partecipazione personale (magari perché più libero, o più vicino del difensore avversario all’ufficio giudiziario in cui si svolge il processo) per mettere in difficoltà la controparte che vuole discutere oralmente la causa e costringerla a far ricorso a un sostituto che più facilmente si riporterà agli atti.

Rimane purtroppo, anche dopo l’intervento del decreto correttivo, la difficoltà di gestire la partecipazione in videocollegamento della parte, che può collegarsi da una postazione diversa da quella del difensore ma solo in presenza di gravi motivi, quando invece è sufficiente, a giustificare il distinto collegamento, il fatto che cliente e difensore si trovino a notevole distanza l’uno dall’altro. Sarebbe opportuno che i Protocolli declinassero la nozione di “gravi motivi” allargandoli rispetto alle ipotesi di veri e propri impedimenti.

Come si è detto, il decreto correttivo è intervenuto sulla trattazione cartolare delle udienze: sia consentendo che questa avvenga anche quando l’udienza è pubblica (art. 128), ma escludendo tale possibilità quando una delle parti vi si opponga (al giudice, in questo caso, non è concessa alcuna discrezionalità nel valutare l’opposizione della parte, diversamente da quanto avviene nelle altre ipotesi di opposizione), sia impedendo la sostituzione con le note quando la presenza personale delle parti è prescritta dalla legge o disposta dal giudice (così l’art. 127-ter, primo comma), così non permettendola nel caso della prima udienza.

Si chiarisce anche che, poiché il giorno di scadenza del termine assegnato per il deposito delle note è considerato data di udienza a tutti gli effetti, il provvedimento può essere depositato entro il giorno successivo alla scadenza del termine ed essere considerato come letto in udienza.

Il minor favore per la trattazione cartolare è comprensibile, dal momento che il processo civile è già affidato, per la sua gran parte, a memorie che, se possono essere utili a preparare l’udienza di discussione (com’è per le note difensive del processo del lavoro), non possono rappresentare l’unico modo del confronto tra le parti e il giudice, che rischia altrimenti di trasformarsi in un burocrate che amministra un procedimento, anziché essere un cosciente decisore.

[1] In Giur. it., 2024, 2092, con nota di Romano, L’interpretazione adeguatrice dell’art. 171-bis c.p.c. secondo la Corte Costituzionale, De Cristofaro, La Consulta ed il 171 bis c.p.c.: il contraddittorio “è” solo se è preventivo, e di Consolo, Postilla (in vista del correttivo). In tema, v. anche Bove, La trattazione nel processo ordinario di primo grado tra riforma Cartabia, intervento della Corte costituzionale e annunciato “correttivo”, in Judicium, 13 giugno 2024.

[2] In tema, v. le prime osservazioni di Salvaneschi, Luci e ombre nello Schema di decreto legislativo correttivo e integrativo delle disposizioni processuali introdotte con la riforma Cartabia, in Judicium, 4 aprile 2024.

[3] Che rimane invece il punto di riferimento per l’eccezione prevista dall’art. 40: il che forse si può giustificare per la maggiore complessità dell’eccezione in questione.

[4] In questo senso anche Menchini-Merlin, Le nuove norme sul processo ordinario di primo grado davanti al tribunale, in Riv. dir. proc., 2023, pp. 592-593 e 598.

[5] V., sul punto, Luiso, Riforma Cartabia: sui passaggi di rito luci e ombre del “Correttivo civile”, in plusdiritto.ilsole24ore.com, 20 novembre 2024.

[6] Così, Cass., sez. un., 30 settembre 2009, n. 20935, e pressoché tutta la giurisprudenza successiva: v., da ultimo, Cass., 29 novembre 2023, n. 33179, Cass., 22 novembre 2021, n. 35974, Cass., sez. un., 27 novembre 2018, 30716.

[7] Luiso, Il nuovo processo civile. Commentario breve agli articoli riformati del codice di procedura civile, Milano, 2023, p. 23.

[8] V. Cass. civ., sez. I, 4 maggio 2016, n. 8795. La Corte ha ritenuto che l’art. 101 c.p.c. esiga la   specifica trattazione, sollecitata dal giudice, solo delle questioni che non facciano già parte naturale ed integrante della fattispecie dedotta in giudizio, essendo invece ricollegabili a fatti processuali emersi accidentalmente, o non valorizzati dalle parti nella loro attività di allegazione.

[9] In Saggi di diritto processuale civile, II, Roma, 1931, p. 125.

[10] Andrioli, Commento al Codice di procedura civile, II, Napoli, 1956, 81.

[11] Denti, Questioni rilevabili d’ufficio e contraddittorio, in Riv. dir. proc., 1968, pp. 217 ss.

[12] Così, già, Cass., 10 agosto 1953, n. 2604, in Giust. civ, 1953, I, 3507.

[13] In Giust. civ., 2002, p. 1611, con nota adesiva di Luiso, Questione rilevata di ufficio e contraddittorio: una sentenza «rivoluzionaria»?

[14] V., in tema, Tiscini, Le novità del decreto correttivo alla riforma Cartabia sul procedimento semplificato di cognizione, in Judicium, 11 giugno 2024.

[15] V. Trib. Verona, 3 dicembre 2024.

[16] Per il quale la perentorietà del termine assegnato ai sensi dell’art. 171-bis, comma 3, per l’integrazione delle difese secondo un modello analogo a quello dell’art. 426 c.p.c., esclude che nella fase successiva del procedimento semplificato le parti possano compiere ulteriori attività integrative. La differenza tra le due ipotesi è giustificata, dal Tribunale di Verona citato alla nota che precede, con la considerazione che nel procedimento semplificato derivante da conversione le parti si trovano a compiere prima dell’udienza le stesse attività che, nel procedimento semplificato ab origine, possono compiere in udienza o dopo l’udienza.

[17] Ciò sul presupposto che la nuova formulazione dell’art. 281-duodecies condiziona alla dipendenza dalle difese della controparte la concessione del termine e non le attività di precisazione e integrazione che le parti possono compiere.

[18] Cass. civ., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199.

[19] App. Milano, 26 ottobre 2023, n. 883 e 9 novembre 2023, n. 964.

[20] Sul regime transitorio del D. Lgs. 164/2024, v. Capponi, Notarella sulla disciplina transitoria del decreto legislativo 31 ottobre 2024, n. 164 (g.u. n. 264 dell’11 novembre 2024), in Judicium, 18 novembre 2024.

[21] Le conseguenze che discendono dall’interpretazione che si è data del regime transitorio sono tali (il fatto, cioè, che la modifica risulterebbe concretamente operativa solo a distanza di molti anni, in contrasto con la finalità dell’intervento) che si deve probabilmente concludere che la mancata inclusione dell’art. 380-bis tra le disposizioni che si applicano ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione alla data del 1° gennaio 2023 sia frutto di un errore, a correggere il quale sembra tuttavia complicato ritenere, come pure è stato ventilato, che l’inciso “ove non diversamente previsto” contenuto nell’art. 7 del decreto correttivo si riferisca anche al sesto comma dell’art. 35 del D. Lgs. n. 149/2022, da intendersi allora come legge speciale rispetto alla regola generale contenuta nell’art. 7 del D. Lgs. n. 164/2024.