Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana

Di Giovanni Bonato -

Sommario: 1. Il contenuto del D.L. 36/25. – 2. Lo stato di cittadino italiano: natura giuridica. – 3. L’attribuzione e l’acquisto della cittadinanza in generale. – 4. L’autonomia degli Stati nel determinare i criteri di acquisto della cittadinanza e i suoi limiti. – 5. La trasmissione dello stato di cittadino italiano per discendenza. – 6. Sulla perdita della cittadinanza italiana ed europea. – 7. Ancora sul decreto Tajani: analisi del suo ambito di applicazione. – 8. Incoerenza e irragionevolezza del decreto Tajani. – 9. La categoria di coloro che sono considerati non aver acquistato la cittadinanza italiana: i nuovi nati. – 10. La categoria di coloro che perdono la cittadinanza italiana in quanto nati all’estero prima del 28 marzo 2025. – 11. Considerazioni conclusive.

1. Il contenuto del D.L. 36/25

Durante la mattinata del venerdì 28 marzo 2025, il Governo italiano ha annunciato l’introduzione di una profonda e dettagliata riforma della cittadinanza per discendenza, il c.d. ius sanguinis. Dopo la conferenza stampa, è avvenuta in serata la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025 (recante “Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza”), subito denominato “decreto Tajani”, prendendo il nome del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il quale è stato il principale promotore dell’iniziativa governativa. Ai sensi dell’art. 2 del citato decreto, la sua entrata in vigore viene prevista al 29 marzo 2025.

Come verrà in seguito illustrato, la normativa italiana in materia di cittadinanza per discendenza (vigente fino all’entrata in vigore del decreto in esame) prevedeva la trasmissione dello status in base al rapporto di parentela in linea retta, senza imporre limiti generazionali e senza dare rilievo giuridico al luogo di nascita, essendo indifferente che quest’ultima sia avvenuta in Italia o all’estero.

Andando, invece, in direzione opposta alla secolare tradizione giuridica italiana, il decreto Tajani introduce ora delle regole stringenti, di immediata e retroattiva applicazione, all’interno di un nuovo art. 3-bis (inserito nella Legge n. 91 del 1992), secondo cui: “In deroga agli articoli 1, 2, 3, 14 e 20 della presente legge, all’articolo 5 della legge 21 aprile 1983, n. 123, agli articoli 1, 2, 7, 10, 12 e 19 della legge 13 giugno 1912, n. 555, nonché agli articoli 4, 5, 7, 8 e 9 del codice civile approvato con regio decreto 25 giugno 1865, n. 2358, è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza, salvo che ricorra una delle seguenti condizioni”, specificate nelle lettere a), b), c), d), e).

In sostanza, il Governo decide che – in via immediata – non saranno più considerati cittadini italiani tutti coloro che sono nati all’estero, in ragione dell’introduzione di un nuovo requisito (la nascita in Italia), configurato, ora per allora, come condizione retroattiva per l’esistenza (o, meglio, per la sopravvivenza) dello status civitatis acquisito per discendenza, salve comunque alcune ipotesi di salvezza, di cui all’art. 3-bis.

L’effetto pratico e immediatamente tangibile del decreto è quello di privare della cittadinanza un’intera categoria di individui, che divengono – nel corso della loro vita – ex-cittadini, per il fatto di essere nati all’estero. Vengono, comunque, fatte salve alcune situazioni, tra cui ricordiamo: quella di coloro che hanno presentato un’istanza in sede amministrativa o una domanda in sede giurisdizionale entro la mezzanotte del 27 marzo 2025, ai quali verrà applicata la disciplina normativa previgente; quella di coloro che hanno un genitore (o adottante) o un nonno/a nati in Italia; quella di chi ha un genitore (o adottante) che è stato residente in Italia per almeno due anni continuativi prima della nascita o della adozione del figlio.

Il risultato pratico del decreto in discorso consiste nella creazione di limiti alla trasmissione della cittadinanza italiana per discendenza (attraverso l’introduzione dell’elemento della nascita nel territorio della Repubblica dell’interessato, dei suoi genitori o dei suoi nonni, o di un collegamento territoriale biennale dei genitori con l’Italia), giungendo nei fatti ad una peculiare commistione tra ius sanguinis e ius soli, quest’ultimo criterio andando a mitigare la portata della trasmissione per discendenza. Da sottolineare che il decreto Tajani non affronta minimamente l’attuale e sentita questione di un eventuale allargamento del criterio dello ius soli, né prende posizione sullo ius scholae o sullo ius culturae. Infatti, l’unica finalità del provvedimento in esame è quella di ridurre l’ambito di applicazione dello ius sanguinis, creando retroattivamente nuovi requisiti ai fini dell’acquisto e, sostanzialmente, privando della cittadinanza migliaia di persone.

Ciò premesso, il decreto n. 36/25 presenta innumerevoli profili di illegittimità costituzionale e di incompatibilità con il diritto europeo, tra cui: l’evidente mancanza dei presupposti della decretazione d’urgenza, visto che tale strumento viene utilizzato al solo fine di bloccare immediatamente (prima dell’approvazione di una riforma organica) le domande di tutela di un diritto costituzionale, qual è quello alla cittadinanza[2]; la violazione del principio di irretroattività[3] e del legittimo affidamento[4]; la rottura del principio dell’unità della cittadinanza all’interno della stessa famiglia, nella parte in cui si esclude la trasmissione della cittadinanza tra genitore già riconosciuto e figlio, in caso di nascita all’estero; la totale mancanza di un regime transitorio, con necessaria previsione di un termine congruo per richiedere la conservazione del diritto sulla base alla disciplina previgente. Non potendo, in questa sede, approfondire compiutamente tutti i vizi di cui è affetto il decreto in esame, mi limiterò ad illustrare quello relativo all’instaurazione del meccanismo più perverso e ingiusto, consistente nella applicazione – immediata, retroattiva e inaspettata – del provvedimento, anche nei confronti di coloro che sono nati prima della sua entrata in vigore, ossia prima del 28 marzo 2025.

A tal proposito, i più attenti commentatori hanno già fatto notare che il decreto Tajani produce “un effetto tagliola”, nella misura in cui “si è evitato di preannunciare ‘una diseredazione’ di massa, circostanza che avrebbe spinto tutti gli aventi diritto a precipitarsi per fare domanda. Si è, dunque, scelto di introdurre veri e propri nuovi requisiti, in grado di operare retroattivamente, anche sui diritti già sorti”[5]. In pratica, il Governo italiano ha deliberatamente creato un “effetto sorpresa”, introducendo un’inaspettata ed immediata ipotesi di perdita collettiva della cittadinanza (una “denazionalizzazione di massa”), stabilendo che l’effetto ablatorio dello status retroagisca nel tempo anche rispetto ai soggetti già nati e, quindi, già cittadini.

Infatti, come cercheremo di dimostrare con il presente contributo, dietro una formula lessicale apparentemente innocua (“è considerato non aver mai acquistato la cittadinanza italiana …”), si cela, in realtà, l’introduzione di un fenomeno estremamente ingiusto, che potremmo denominare come la “Grande Perdita” della cittadinanza. Tale fenomeno provoca l’estinzione collettiva dello status civitatis (in via astratta, generalizzata, coercitiva e retroattiva), all’insaputa di tutta una categoria indeterminata di persone (coloro che sono nati all’estero), senza che la posizione di ciascuna di esse sia stata mai effettivamente valutata nel caso concreto. Per tale motivo, siamo dinanzi ad un fenomeno che è stato già definito dai primi commentatori, come: una “diseredazione di massa”[6]; una “denaturalizzazione di massa”[7]; una “preclusione tombale” che cancella diritti[8]; “una privazione ex tunc di uno status giuridico”[9]; “una revoca con riqualificazione retroattiva”[10]; uno strumento che segue la “logica del ‘meno siamo, meglio stiamo’, e del ‘chi se n’è andato, se n’è andato’”[11]. Nella stessa direzione, il decreto in questione è stato definito “un pastrocchio a rischio di incostituzionalità, che si fonda su criteri discriminatori, retroattivi e ingiusti che colpiranno generazioni di discendenti di italiani”[12].

È importante sottolineare che il meccanismo in discorso si basa su un “effetto sorpresa” e viene concepito come una “ghigliottina”, essendo introdotto proprio per cogliere alla sprovvista la categoria degli individui potenzialmente interessati (gli italiani nati all’estero) ed impedire loro di adoperarsi, al fine di conservare il proprio diritto, attraverso la presentazione di un’istanza amministrativa, di una domanda giudiziale o qualsiasi altro tipo di comportamento idoneo a manifestare la propria volontà diretta al mantenimento dello status. Proprio dall’esigenza di creare il descritto “effetto sorpresa”, il Governo fa dipendere la sussistenza dei requisiti della necessità e dell’urgenza che giustificano (o che almeno dovrebbero giustificare) l’emanazione delle nuove disposizioni in materia di cittadinanza attraverso un decreto-legge, anziché con una legge ordinaria del Parlamento. La “ghigliottina” retroattiva ha, pertanto, lo scopo di impedire l’esercizio del diritto di difesa, come viene esplicitato (nel preambolo del decreto in esame) dallo stesso Governo, preoccupato dal sorgere di “un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari”[13].

Come vedremo, l’introduzione di un siffatto meccanismo di perdita – automatica, retroattiva e improvvisa – viola non solo i principi costituzionali italiani in materia (come definiti dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità), ma si pone in rotta di collisione con il diritto europeo. Al fine di comprendere la reale (e malcelata) portata ablatoria del decreto Tajani, è necessario ricordare alcune nozioni essenziali in materia di status civitatis, per poi tratteggiare le regole italiane ed europee sulla perdita di tale situazione giuridica e, in seguito, riprendere la nostra analisi del provvedimento governativo in questione.

2. Lo stato di cittadino italiano: natura giuridica

Innanzitutto, quanto alla natura della situazione giuridica in esame, giova rilevare che, pur non essendo oggetto di una disciplina costituzionale espressa[14], non ci sono dubbi che la cittadinanza possa essere qualificata come uno status (di diritto pubblico) con rilevanza costituzionale[15], trattandosi di “una condizione personale che rende una persona membro del popolo di un certo paese”, e da cui “sorgono diritti e doveri non solo nei confronti dello Stato ma anche nei rapporti del cittadino con la società e le altre persone che ad essa appartengono (art. 4 Cost., commi 1 e 2)”[16]. Tale status viene preso in considerazione a livello internazionale e, in particolare, dall’articolo 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 10 dicembre 1948, secondo cui “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza”. Non solo, la cittadinanza italiana – al pari di tutte le cittadinanze nazionali di uno Stato membro dell’UE – ha una rilevanza fondamentale anche dal punto di vista del diritto europeo, nella misura in cui: “È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro” (art. 20 TFUE)[17].

Come noto, alla cittadinanza è legata la titolarità di una molteplicità di diritti a copertura costituzionale, sia a livello nazionale che europeo, tra cui ricordiamo a titolo esemplificativo: il diritto di elettorato attivo e passivo (art. 48 Cost.; artt. 20 e 22 TFUE); il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la possibilità di condurre una vita personale e familiare in Italia e nel territorio dell’Unione (art. 16 Cost.; artt. 20 e 21 TFUE); il diritto di accettare offerte di lavoro e svolgere attività lavorativa in Italia e nel territorio UE, senza la necessità di richiedere ed aspettare l’eventuale concessione di permessi di soggiorno (artt. 4 e 35 ss. Cost.; art. 45 TFUE); l’effettività del diritto allo studio, potendo ottenere borse di studio o spese di iscrizione universitarie più contenute, grazie allo status di cittadini europei (art. 33 Cost.); il diritto di riunione e di associazione, insieme a tutte le altre libertà fondamentali concesse al cittadino (artt. 17 e ss. Cost).

In materia, giova ricordare che – in base all’orientamento della giurisprudenza italiana formatasi nel corso degli ultimi decenni – lo “stato di cittadino è permanente ed ha effetti perduranti nel tempo” e “costituisce una qualità essenziale della persona, con caratteri d’assolutezza, originarietà, indisponibilità ed imprescrittibilità, che lo rendono giustiziabile in ogni tempo e di regola non definibile come esaurito o chiuso”[18]. Riassuntivamente, lo status di cittadino costituisce un diritto inviolabile che ciascuno “vanta nei confronti del proprio Stato di appartenenza”[19]. Essendo uno status imprescrittibile e permanente, l’individuo non ha l’obbligo giuridico di rivendicare, nel corso della propria vita, la conservazione della propria cittadinanza italiana, perdendo tale status solo in ipotesi tassative e predeterminate.

Giova ricordare che, trattandosi di uno status che, permanentemente, accompagna la vita delle persone, la cittadinanza segue le varie vicende riguardanti l’esistenza stessa degli individui. Tale status si acquista (con la nascita o nel corso della vita), si può perdere ed anche riacquistare. La scomposizione della fattispecie astratta in questione pare, quindi, abbastanza agevole: l’acquisto della cittadinanza (per discendenza, nascita nel territorio, naturalizzazione) è fatto costitutivo dello status; mentre la sua perdita (evento necessariamente e logicamente successivo al suo acquisto) è fatto estintivo di tale status; infine, il riacquisto è fatto costitutivo successivo, che può verificarsi solo dopo l’accadimento di un primo fatto costitutivo (l’acquisto originario) e di un fatto estintivo della perdita.

3. L’attribuzione e l’acquisto della cittadinanza in generale

La cittadinanza viene attribuita fin dalla nascita oppure può essere acquisita nel corso della vita di un individuo. A questo proposito, è opportuno differenziare i due descritti fenomeni, ossia: quello dell’attribuzione della cittadinanza fin dalla nascita (anche chiamata cittadinanza di origine o originaria), conferita in base al criterio dello ius sanguinis, oppure a quello dello ius soli; quello dell’acquisto della cittadinanza realizzato durante la vita di una persona (anche chiamata cittadinanza successiva o derivata). Nella dottrina straniera si è soliti riferirsi anche alla distinzione terminologica tra: cittadinanza primaria, risultando dal fatto naturale della nascita; cittadinanza secondaria (chiamata anche cittadinanza acquisita), risultando, generalmente, essa da un fatto volontario, successivo alla nascita[20]. La distinzione è importante nella misura in cui la cittadinanza di origine viene attribuita senza il concorso della volontà dell’interessato e produce effetti giuridici a partire dalla nascita; mentre la cittadinanza derivata produce effetti dal “momento successivo in cui si verificano le condizioni richieste per far sorgere lo status civitatis[21] e si acquisisce, almeno nella maggior parte degli ordinamenti moderni, solo in base alla volontà dell’interessato[22].

Dal momento in cui l’acquisto della cittadinanza per discendenza ha natura originaria e si perfeziona con il fatto della nascita – qualora sussistano tutti i presupposti normativamente previsti al giorno del verificarsi di tale fatto costitutivo – risulta evidente che tali requisiti sono dettati solo dalla legge vigente al momento della nascita. In questa direzione, si veda l’art. 20 della Legge n. 91/92, secondo cui: “Salvo che sia espressamente previsto, lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica se non per fatti posteriori alla data di entrata in vigore della stessa”. Lo stesso principio è presente in altri ordinamenti, come la Francia, ove l’art. 17-2 del Code Civil, prevede: “L’acquisition et la perte de la nationalité française sont régies par la loi en vigueur au temps de l’acte ou du fait auquel la loi attache ces effets”.

Quanto all’attribuzione della cittadinanza originaria fin dalla nascita, due sono i criteri essenzialmente utilizzati dai legislatori in materia, ossia: il criterio dello ius sanguinis, in base al quale “è considerato cittadino dello Stato colui che nasce, anche in territorio diverso, da padre o da madre cittadini di quello Stato”; il criterio dello ius soli, “sulla base del quale la cittadinanza viene attribuita a colui che nasce nel territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori”[23]. Tipico esempio di paese ius sanguinis è l’Italia, mentre un esempio classico di paese ius soli è il Brasile, fin dalla Costituzione del 1824[24].

4. L’autonomia degli Stati nel determinare i criteri di acquisto della cittadinanza e i suoi limiti

È principio, noto e tradizionale in diritto internazionale, quello secondo cui gli Stati hanno competenza esclusiva per determinare e scegliere i criteri di attribuzione-acquisto della cittadinanza, come tra l’altro indicato dall’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 12/04/1930 relativa al conflitto di leggi sulla cittadinanza, secondo cui: “Il appartient à chaque Etat de déterminer par sa législation quels sont ses nationaux[25]. Tale autonomia veniva anche sottolineata dall’art. 3, comma 3, del codice civile francese del 1804, secondo cui: “Les lois concernant l’état et la capacité des personnes régissent les Français, meme résidant en pays étranger”. Nella stessa direzione, in Italia, il principio di autonomia venne accolto anche dal codice civile del 1865, il cui articolo 6 delle disposizioni preliminari disponeva: “Lo stato e la capacità delle persone ed i rapporti di famiglia sono regolati dalle leggi della nazione a cui appartengono”. Tale disposizione venne, in seguito, riprodotta nell’art. 17 delle preleggi al codice civile del 1942. Ricordiamo che il citato art. 17 è stato, in seguito, abrogato dalla legge di riforma di diritto internazionale (legge n. 218 del 1995), la quale ha ribadito che: “La capacità giuridica delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale” (art. 20). Ed è proprio in ragione della descritta autonomia internazionale degli Stati nel disciplinare le proprie leggi in materia di cittadinanza che si verifica il fenomeno della doppia cittadinanza[26].                Pur essendo gli Stati liberi nel determinare le proprie leggi in materia di cittadinanza, sussistono comunque alcuni limiti internazionali al riguardo[27], nonché limiti di diritto europeo applicabili agli Stati membri dell’Unione[28], come vedremo nel paragrafo relativo alla perdita della cittadinanza. Ad ogni modo, possiamo dire, fin d’ora, che la Corte di Giustizia ha sempre sottolineato l’autonomia degli Stati membri nel determinare la sfera dei propri cittadini, ma con alcuni limiti e, infatti, nella sua giurisprudenza è costante la seguente affermazione: “se è vero che la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra, in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro, il fatto che una materia rientri nella competenza degli Stati membri non impedisce che, in situazioni ricadenti nell’ambito del diritto dell’Unione, le norme nazionali di cui trattasi debbano rispettare quest’ultimo”[29]. Essendo chiaro che “nell’esercizio della loro competenza in materia di cittadinanza, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, il principio di proporzionalità”[30]. Tali limiti sono particolarmente stringenti in materia di perdita e revoca della cittadinanza già posseduta, che poi è il tema centrale del presente contributo.

5. La trasmissione dello stato di cittadino italiano per discendenza

Come noto, tutte le varie normative italiane sulla cittadinanza (dapprima il codice civile del 1865, poi la legge n. 555 del 1912 e, infine, la legge n. 91 del 1992) hanno sempre dato preminenza e centralità al criterio dello ius sanguinis (anche chiamato criterio della discendenza o della filiazione), disponendo che sono italiani tutti i discendenti di cittadini, purché non sussistano cause interruttive nella trasmissione dello status civitatis (come, ad esempio, la perdita della cittadinanza italiana di uno degli ascendenti, prima della nascita della successiva generazione). La scelta di dare assoluta prevalenza al criterio della attribuzione della cittadinanza per discendenza è risalente nel tempo e si ritrova nella legislazione francese del XIX° secolo, ove l’art. 10 del Code Civil del 1804 disponeva, nella sua versione originaria, che: “Tout enfant né d’un Français en pays étranger, est Français[31]. Sulla scia delle scelte del legislatore francese di inizio secolo XIX°, la supremazia del criterio della trasmissione basato sullo ius sanguinis venne adottata dai codici preunitari e, successivamente, anche dal primo codice civile del Regno d’Italia, appartenendo alla stessa tradizione giuridica italiana[32]. In tale direzione, si ponevano tutte le varie leggi, che si sono succedute e sovrapposte in materia, tra cui inizialmente, l’art. 4 del codice civile del 1865, secondo cui: “È cittadino il figlio di padre cittadino”. Allo stesso modo, disponeva l’art. 1 della legge n. 555/1912, ai sensi del quale: “È cittadino per nascita: 1. il figlio di padre cittadino”. Infine, il criterio della trasmissione per discendenza è stato confermato anche dalla legge n. 91/1992, il cui art. 1, comma 1, stabilisce che: “È cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini”[33]. In sostanza, sia nelle discipline previgenti che in quella attuale, lo ius sanguinis resta il criterio privilegiato e principale nella attribuzione della cittadinanza italiana, nettamente prevalente rispetto al criterio dello ius soli[34], di applicazione residuale e limitata nel nostro sistema[35], come accade anche nella maggior parte dei paesi europei[36].

Ad ogni modo, “l’acquisto fondamentale è a titolo originario per nascita”, come riconosciuto dalla giurisprudenza unanime delle Sezioni Unite della Corte di cassazione[37]. Tale indiscussa ricostruzione teorica comporta che mentre la titolarità sostanziale dello stato di cittadino spetta a tutti coloro che sono discendenti da padre o madre italiano/a e attribuisce sempre i medesimi ed uguali diritti, indipendentemente dal luogo di nascita (in Italia o all’estero), ciò che può variare è l’aspetto della sua titolarità formale, ossia la posizione formalmente e pubblicamente posseduta dello stato in questione. In altre parole, per tutti i discendenti di individuo/a italiano/a la titolarità sostanziale dello stato di cittadino sorge per il solo fatto della nascita, mentre la titolarità formale di tale stato può essere successivamente accertata in giudizio o in via amministrativa, qualora ciò non risulti ancora dai registri di stato civile[38]. La posizione del cittadino italiano non ancora formalmente riconosciuto dallo Stato italiano ci pare essere del tutto analoga a quella del figlio nato fuori dal matrimonio (chiamato, prima della riforma della Legge n. 219/2012, “figlio naturale”), non riconosciuto volontariamente dal proprio genitore. Così come il figlio nato fuori matrimonio può chiedere di essere riconosciuto giudizialmente (ai sensi degli artt. 269 e ss. codice civile), anche il cittadino italiano può chiedere che il suo stato venga formalmente accertato. Tuttavia, è evidente che il figlio nato fuori dal matrimonio e il cittadino (ancora non riconosciuti) possiedono il loro status anche prima dell’accertamento, il cui effetto è solo quello di riconoscere la titolarità formale dello stato in questione e permettere, in tal modo, l’esercizio di tutti i diritti ad esso correlati[39]. La medesima impostazione è presente nell’ordinamento francese, ove il vigente art. 18 del codice civile dispone: “Est français l’enfant dont l’un des parents au moins est français”. A questi fini, nella legislazione d’oltralpe si aggiunge che: “Toutefois, si un seul des parents est français, l’enfant qui n’est pas né en France a la faculté de répudier la qualité de Français dans les six mois précédant sa majorité et dans les douze mois la suivant. Cette faculté se perd si le parent étranger ou apatride acquiert la nationalité française durant la minorité de l’enfant[40]. Parimenti a quella italiana, anche la cittadinanza francese si acquista al momento della nascita per discendenza da cittadino francese.

Data la sua rilevanza ai fini del presente commento, è importante sottolineare che l’essenza del criterio dello ius sanguinis risiede nell’esistenza della famiglia, quale manifestazione sociale primaria, nucleo al cui interno viene tramandato lo status proprio in ragione dei legami di parentela intercorrenti tra l’ascendente trasmittente e il discendente, che riceve lo status in ragione della filiazione, essendo giuridicamente irrilevante il luogo in cui avviene la nascita, potendo questa realizzarsi in Italia o all’estero.

La richiamata concezione familistica sulla quale si basa il criterio dello ius sanguinis ha solide fondamenta storiche e comparatistiche e, come già indicato, affonda le sue radici nel diritto francese degli inizi del secolo XIX, quando il Code Civil francese del 1804 fece la scelta politica di dare assoluta preminenza alla trasmissione della cittadinanza per discendenza, rendendo del tutto ininfluente il luogo di nascita del figlio di cittadino francese, se in Francia oppure all’estero[41]. Allo stesso modo di quanto previsto dall’art. 10 del codice francese (nella versione originaria del 1804), l’irrilevanza del legame con il territorio nazionale venne ribadita anche dal codice civile italiano del 1865, il cui art. 6 prevedeva l’acquisto della cittadinanza italiana anche per i discendenti nati all’estero, come viene dedotto costantemente grazie ad un’interpretazione, a contrario, della richiamata disposizione[42]. Inoltre, il codice civile del 1865 non escludeva dal possesso della cittadinanza italiana i soggetti emigrati prima della costituzione del Regno d’Italia, purché deceduti dopo l’Unità[43].

In questa direzione, la nostra dottrina ha, infatti, sottolineato più volte che l’Italia ha adottato un “modello familistico di cittadinanza”, prevedendo che la cittadinanza venga sempre trasmessa sulla base di motivi “legati alla creazione del nucleo familiare”, aggiungendo che la “normativa italiana ammette la possibilità di tramandare la cittadinanza iure sanguinis senza limiti di generazioni[44], nella misura in cui lo “ius sanguinis definisce un’appartenenza del cittadino allo Stato fondata sui legami etnici o familiari e configura il popolo quale entità etno-culturale, naturale e pre-politica (…)”[45].

La cittadinanza italiana è, quindi, una questione di sangue che non dipende dal luogo della nascita, ma unicamente dai genitori che determinano geneticamente lo status civitatis dei figli[46]. Che la volontà del legislatore sia stata quella di creare una comunità di cittadini fondata su legami etnici e familiari si può desumere anche dal principio di unità della cittadinanza all’interno della famiglia[47]. Sia il codice civile del 1865 che la legge n. 555 del 1912 hanno sempre cercato di tutelare il principio “dell’unità familiare”, ossia della “unicità della cittadinanza in seno alla famiglia”, al fine di “conservare un buon numero di cittadini all’Italia, paese di emigrazione”[48]. Tale concezione familistica della cittadinanza italiana veniva ricordata da un autorevole studioso di fine ’800, il quale scriveva: “La moglie e i figli minori hanno (…) una cittadinanza necessaria: esiste, in altri termini, una nazionalità della famiglia, le cui sorti dipendono dalle vicende di quella del suo capo, in guisa che ogni modificazione dell’una reagisce, date certe condizioni, sull’altra”; ciò in base a “quel principio supremo di unità che informa tutto l’ordinamento e interessa tutta l’esistenza dell’associazione domestica”[49]. La stessa giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, nella nota sentenza n. 4466 del 2009, ha ribadito che il criterio di collegamento della cittadinanza iure sanguinis si individua “attraverso il rapporto di filiazione che collega una persona alla formazione sociale intermedia costituita dalla famiglia ‘società naturale’ (art. 2 e 29 Cost.)”[50].

Inoltre, giova ricordare che la scelta di dare preponderanza al criterio dello ius sanguinis era fondata sulla volontà politica di “non perdere gli uomini migliori”, quelli “più validi di età e più ricchi di iniziativa”[51], in un periodo storico in cui l’Italia era paese di emigrazione. Anche nella Francia dell’inizio del secolo XIX°, nella quale il Code Civil del 1804 dava preminenza assoluta al criterio dello ius sanguinis, tale scelta nasceva proprio dal fatto di voler permettere ai francesi, che si trovavano all’estero, di trasmettere la cittadinanza ai propri figli[52].

La scelta del legislatore italiano di permettere la trasmissione della cittadinanza attraverso una catena senza limiti generazionali fu intenzionale e venne dettata da ragioni politiche, al fine di mantenere il legame tra gli emigranti (e i loro discendenti) e la madre patria. Non è un caso che quei paesi che hanno voluto limitare tale trasmissione, in ragione della c.d. “desuetudine” di una cittadinanza tramandata di generazione in generazione ai discendenti di immigrati, hanno introdotto dei limiti normativi chiari ed espressi[53]. Anzi, la legge italiana ha sempre rigettato la soluzione di prevedere la perdita della cittadinanza in caso di trasferimento all’estero del proprio domicilio con l’intenzione di non tornare più in patria[54]. Nel secolo XIX° l’emigrazione italiana veniva incentivata e considerata una risorsa e non dava luogo a nessun tipo di sanzione, come poteva essere la perdita della cittadinanza. Era, all’opposto, incentivato il legame con la madre patria. Non è un caso che il nostro legislatore ha sempre cercato di tutelare ed incentivare l’emigrazione. In linea di continuità, la stessa Costituzione Repubblicana ha disposto: “Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge” (art. 16); la Repubblica “Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero” (art. 35, comma 4).

Da sottolineare, pertanto, che mentre in base al criterio dello ius sanguinis prevale l’aspetto familistico, nel criterio dello ius soli l’elemento preponderante è quello del collegamento con il territorio[55]. Ed è anche noto come la scelta dell’uno o dell’altro criterio appartiene a ragioni essenzialmente politiche: lo ius sanguinis è scelto dai paesi di grande emigrazione, con la finalità di mantenere il collegamento e il legame tra la madre patria e i figli degli emigranti; mentre lo ius soli è scelto dai paesi a forte immigrazione, per aumentare la platea dei propri cittadini[56].

Quindi, prima dello stravolgimento creato dal recente decreto-legge n. 36/25, la trasmissione della nostra cittadinanza iure sanguinis prescindeva da un collegamento con il territorio italiano, fondandosi sul legame di parentela e sul vincolo familiare. Non è dato parlare, ora per allora, di un principio di effettività in senso territoriale in riferimento alla cittadinanza italiana, nella misura in cui l’effettività del nostro status civitatis è sempre stata valutata sulla base della presenza del vincolo familiare e della discendenza da cittadino italiano, non in base alla nascita, alla residenza o altro tipo di collegamento con il territorio della Repubblica italiana[57].

6. Sulla perdita della cittadinanza italiana ed europea

Abbiamo già sottolineato precedentemente che, secondo il fermissimo orientamento della giurisprudenza formatasi nel corso degli ultimi decenni, lo “stato di cittadino è permanente ed ha effetti perduranti nel tempo” e “costituisce una qualità essenziale della persona, con caratteri d’assolutezza, originarietà, indisponibilità ed imprescrittibilità, che lo rendono giustiziabile in ogni tempo e di regola non definibile come esaurito o chiuso”[58]. Ricordiamo, nuovamente, che la cittadinanza si acquista con la nascita ed in base alla discendenza da cittadino italiano. Se la titolarità sostanziale si acquista al momento della nascita al ricorrere dei presupposti indicati dalla legge, la titolarità formale può essere accertata in un periodo successivo alla nascita, così come accade per qualsiasi altro status, compreso quello di figlio. È importante ribadire, ancora una volta, tale premessa teorica, per poter analizzare l’istituto della perdita della cittadinanza, che consiste in un’estinzione di tale status.

A questo riguardo, giova rilevare – in via preliminare – che, mentre in relazione alla determinazione dei casi di acquisto della cittadinanza gli Stati godono di ampia autonomia, per le fattispecie di privazione dello status devono essere rispettati degli stringenti e precisi limiti, al fine di salvaguardare le situazioni giuridiche soggettive acquisite e già sorte. Difatti, è proprio nell’ambito della perdita della cittadinanza che si può configurare “il massimo pregiudizio individuale in caso di scelte arbitrarie o veri e propri abusi ad opera dell’autorità”[59]. Proprio per tutelare situazioni giuridiche acquisite e di rilevanza costituzionale, sussiste un autentico diritto fondamentale alla stabilità e salvaguardia della cittadinanza già posseduta[60].

In generale, è necessario distinguere i casi di perdita individuale (basati su determinati comportamenti dei singoli individui) dalle ipotesi di perdita collettiva, che si verifica nei confronti di un gruppo di persone. Parimenti, si può differenziare la “perdita della cittadinanza su iniziativa dell’individuo” (volontaria) dalla “perdita della cittadinanza per effetto di provvedimento non sollecitato dall’interessato” (involontaria)[61]. Ancora più analiticamente, nel panorama comparatistico, si rinvengono le seguenti categorie: a) rinuncia su richiesta dell’interessato; b) perdita per soggiorno prolungato all’estero; c) perdita per svolgimento di funzioni pubbliche o prestazione di servizio militare all’estero; d) denaturalizzazione; e) snazionalizzazione a titolo di pena; f) perdita della cittadinanza in conseguenza di matrimonio; g) perdita della cittadinanza dei figli minori, per cambiamento di status dei loro genitori; h) perdita della cittadinanza in conseguenza di cessioni territoriali[62].

Il tema della perdita individuale è stato da noi affrontato in precedenti saggi[63]. Ci limitiamo, quindi, a ricordare solo l’evoluzione del diritto italiano, il quale ha limitato nel corso del tempo i casi di perdita, ammettendo solo abdicazioni spontanee dello status civitatis e ha – correlativamente – valorizzato e aumentato i casi di doppia cittadinanza, sia originaria che derivata. Mentre l’art. 11 del codice civile del 1865 prevedeva la perdita della cittadinanza italiana in caso di naturalizzazione spontanea (ottenimento di una cittadinanza straniera, da cui derivava la perdita di quella di origine)[64], parimenti a quanto disponeva il successivo art. 8 della legge n. 555/1912[65], l’attuale art. 11 della legge n. 91/1992 ha fatto cadere ogni ostacolo al possesso della doppia cittadinanza, nella misura in cui: “Il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all’estero”. Anteriormente al decreto n. 36/25, la perdita della cittadinanza italiana si verifica solo qualora l’interessato vi rinunci espressamente, abbia un’altra cittadinanza e risieda all’estero, salva l’ipotesi eccezionale della “privazione sanzionatoria della cittadinanza”, di cui all’art. 10-bis della legge n. 91/92[66].

Quanto alla perdita collettiva, questa comporta la “automatica cessazione della cittadinanza, che opera ex lege al ricorrere di determinate condizioni”[67]. Generalmente – come dimostreranno gli esempi storici a seguire – si tratta di privazioni di cittadinanza realizzate con atti a portata generale, “con connotazione discriminatoria”, che conducono a denazionalizzazioni di massa nei confronti di determinati individui[68].

Nella storia mondiale – soprattutto nelle esperienze dei paesi dittatoriali e totalitari – sono rinvenibili alcuni casi di privazione collettiva della cittadinanza, riguardanti intere categorie o gruppi di individui, attraverso modifiche retroattive alla disciplina normativa dello status civitatis. Tali esempi storici di “perdita della cittadinanza in conseguenza di atti a portata generale con connotazione discriminatoria” sono state definite “snazionalizzazione massive” o “collective denationalization[69], le quali “sono state considerate sempre con disfavore dalla Comunità internazionale”[70]. Tra i casi di collective denationalization possiamo ricordare, senza pretesa di esaustività: la legge di dénaturalitation della Francia, la quale (per evidenti ragioni militari) con legge del 7 aprile 1915 revocò la naturalizzazione di tutti coloro che erano originari di uno Stato nemico[71]; le leggi dell’Unione Sovietica del 15 dicembre 1921 e del 13 novembre 1925, con cui vennero denazionalizzati i nemici del bolscevismo, ossia coloro che avevano servito la c.d. armata bianca e avevano partecipato ai movimenti antirivoluzionari[72]; la legge italiana del 25 novembre 1926, n. 2008, che – sotto il fascismo – prevedeva la perdita della cittadinanza per coloro i quali si trovavano fuori dal territorio dello Stato e rappresentavano una minaccia per l’ordine pubblico[73]; le leggi naziste di Norimberga del 1935, con cui venne stabilito che erano cittadini del Reich solo coloro che avevano sangue tedesco, a cui fece seguito l’odiosa e disumana ordinanza del 25 novembre 1941, che privò gli ebrei residenti all’estero della cittadinanza tedesca[74]; il decreto n. 33 del 2 agosto 1945 con il quale in Cecoslovacchia venne “revocata la cittadinanza a tutti i cittadini cecoslovacchi di nazionalità tedesca o magiara”, fatta eccezione per coloro che erano in grado di dimostrare la loro lealtà alla Repubblica cecoslovacca[75]; le decisioni del 1980, con le quali il regime di Saddam Hussein revocò la cittadinanza irachena ai Faili curdi[76]; la sentenza di carattere para-normativo con cui la Corte costituzionale della Repubblica Dominicana ha, di fatto, privato della cittadinanza più di 200.000 discendenti haitiani nati nel territorio dominicano, attraverso una innovativa e retroattiva soluzione interpretativa in merito alla categoria degli stranieri in transito, al fine di escludere nei loro confronti l’applicabilità del criterio dello ius soli[77].

Dopo questa breve digressione storica, possiamo tornare di nuovo all’Italia, ove la nostra giurisprudenza ha sempre ritenuto che in materia di estinzione dello status civitatis: i) sono costituzionalmente illegittime le ipotesi normative di perdita automatica della cittadinanza[78], potendo tale perdita derivare solo da atto consapevole e volontario[79]; ii) “la perdita della cittadinanza costituisce un rapporto perdurante nel tempo”[80], di cui è necessario dare una interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce della Costituzione vigente; iii) nessuna legge straniera può comportare, di per sé, la perdita della cittadinanza italiana[81]. In particolare, fin dagli anni ’70, la giurisprudenza italiana ha considerato costituzionalmente illegittime le ipotesi di perdita automatica della cittadinanza e ricordiamo, in proposito, la sentenza n. 87 del 1975 della Corte costituzionale, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna. In questo modo, il sistema costituzionale italiano è perfettamente allineato rispetto a quanto già faceva notare la dottrina più risalente: i casi di perdite automatiche dello status civitatis, così come quelli di imposizione forzata di una nuova cittadinanza, devono sempre essere considerati “in contraddizione aperta col diritto già riconosciuto all’individuo di affermare la propria volontà di mutare o meno la nazionalità originaria”[82].

In sintesi, in base ai vigenti principi costituzionali italiani così come elaborati dalle Corti Superiori, la disciplina della perdita della cittadinanza non ammette nessun tipo di automatismo, nella misura in cui la decadenza dallo status non può provenire da “una circostanza estranea” alla volontà del soggetto interessato[83]. A questo riguardo, non possiamo dimenticare che l’art. 22 della nostra Costituzione dispone: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Allo stesso modo, altri ordinamenti europei, come la Spagna, condividono tale impostazione, nella misura in cui l’art. 11 Cost. stabilisce: “Ningún español de origen podrá ser privado de su nacionalidad”.

L’istituto della perdita della cittadinanza è stato oggetto anche di importanti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha avuto modo di sottolineare che: “La perdita ipso iure della cittadinanza di uno Stato membro sarebbe incompatibile con il principio di proporzionalità se le norme nazionali pertinenti non consentissero, in nessun momento, un esame individuale delle conseguenze determinate da tale perdita, per gli interessati, sotto il profilo del diritto dell’Unione” [84]. A questi fini è importante ricordare quanto deciso dalla Corte di Giustizia dell’UE, nella sentenza del 5 settembre 2023, causa C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, con la quale è stata analizzata la legge danese sulla perdita della cittadinanza. In particolare, con citata sentenza, in conformità alla sua giurisprudenza anteriore, la Corte ha chiaramente stabilito che, in riferimento alle ipotesi di perdita della cittadinanza, lo Stato deve garantire la possibilità di presentare una richiesta di conservazione o recupero ex tunc della cittadinanza entro termini ragionevoli, che possono iniziare a decorrere solo dopo che ogni individuo – destinatario di una possibile decadenza – è stato specificamente avvertito dell’imminenza di tale evento, concedendogli la possibilità di formulare una richiesta diretta ad impedire il verificarsi dell’evento estintivo. Tale avvertimento risulta fondamentale al fine di permettere il necessario esame dettagliato delle circostanze individuali di ogni cittadino, passibile di un eventuale provvedimento di estinzione del proprio status. In materia di perdita della cittadinanza, infatti, deve sempre essere effettuata la verifica della proporzionalità della misura, in ossequio all’art. 20 TFUE e agli artt. 7 e 24.2 della Carta europea dei diritti fondamentali, riguardanti l’unità familiare e gli interessi del minore. Dunque, le modalità e i termini di tale esame individuale devono essere specificamente individuati e, ai fini del rispetto del principio europeo di effettività, gli Stati membri devono prevedere la concessione di termini certi e ragionevoli per la presentazione della propria difesa[85].

Infine, ricordiamo la tendenza in ambito internazionale a riconoscere l’esistenza di una norma consuetudinaria che vieta la privazione della cittadinanza per motivi arbitrari o discriminatori. La perdita dello status è di tipo arbitrario quando viene decretata con una misura statale che non è “giustificata da un fine legittimo”, che non è “posta in essere sulla base della legislazione vigente” e che non rispetta “specifici standard procedurali e/o sostanziali”[86]. Nella stessa direzione, si pone la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale – nella parte motivazionale della sentenza Rottmann del 2010 – afferma l’esistenza di un “principio di diritto internazionale generale secondo cui nessuno può essere arbitrariamente privato della propria cittadinanza, il quale viene ripreso all’art. 15, n. 2, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e all’art. 4, lett. c), della Convenzione europea sulla cittadinanza”[87]. Infine, segnaliamo che anche la Corte di Strasburgo (nelle sentenze Ramadan c. Malta e K2 c. Regno Unito) ha sottolineato come la perdita di una cittadinanza già acquisita possa comportare la lesione del diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo[88].

Alla luce delle considerazioni precedentemente svolte, risulta evidente che tutti i legislatori nazionali devono agire con estrema cautela quando inseriscono nel proprio ordinamento nuove fattispecie di perdita della cittadinanza e devono necessariamente tenere conto del richiamato diritto fondamentale alla stabilità della cittadinanza già posseduta. Ogni disposizione normativa che – direttamente o indirettamente – introduce un criterio estintivo e ablativo dello status di cittadino italiano deve sempre seguire rigorosamente i principi europei di proporzionalità ed effettività, oltre a dover rispettare l’assoluto divieto costituzionale quanto all’introduzione di forme di decadenza automatica e retroattiva dallo status, con conseguente illegittimità di qualsiasi tipo di “denazionalizzazione di massa” nei confronti di categorie indeterminate di individui.

7. Ancora sul decreto Tajani: analisi del suo ambito di applicazione

Terminata l’esposizione dei concetti essenziali in materia di status civitatis, possiamo finalmente tornare al recente decreto n. 36/25.

In prima battuta, è necessario effettuare un’analisi dettagliata di tutte le categorie di persone prese in considerazione (direttamente o indirettamente) dal decreto in discorso, al fine di comprenderne la portata e individuare tutte le conseguenze giuridiche da esso prodotte.

A questo riguardo, notiamo che l’ambito di applicazione dell’art. 3-bis viene soggettivamente circoscritto ai soli individui nati all’estero (criterio del luogo di nascita) e che sono “in possesso di altra cittadinanza” (criterio della bipolidia). Questi due criteri (nascita all’estero e bipolidia) sono cumulativi ai fini dell’applicazione dell’art. 3-bis. La categoria “presa di mira” è, quindi, quella dei soggetti che sono bipolidi (per i nati) o che potrebbero esserlo stati (per chi nascerà)[89], i quali, essendo nati all’estero, non sono più o non saranno mai “considerati” italiani. Correlativamente, vengono escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 3-bis due categorie di persone: chi nasce in Italia; chi è in possesso della sola cittadinanza italiana.

Ciò detto, a seguito dell’introduzione del decreto n. 36/25, la normativa complessiva sulla cittadinanza si presenta attualmente alquanto variegata e necessita di distinzioni analitiche. Inserendo l’art. 3-bis all’interno del sistema complessivo delineato dalla Legge n. 91/1992, si deduce che, in merito alla cittadinanza, l’ordinamento italiano prevede oggi sette differenti categorie di persone, che sono le seguenti:

-Conservano (o acquisteranno) la cittadinanza italiana coloro che sono nati in Italia (o ivi vi nasceranno) e per i quali, in principio, continua ad applicarsi il criterio dello ius sanguinis, di cui all’art. 1; tale categoria, pur se non presa in considerazione direttamente dal decreto n. 36/25, potrebbe comunque soffrire delle limitazioni quando nella loro parentela in linea retta solo il trisavolo è nato in Italia, come si comprenderà meglio nell’esempio appresso;

-Conservano (o acquisteranno) la cittadinanza italiana coloro sono nati all’estero o che nasceranno, ma non sono in possesso di altra cittadinanza straniera; tale categoria non viene intaccata in nulla dal decreto n. 36/25, difettando il presupposto del possesso di “altra cittadinanza”; in tal caso il mantenimento della cittadinanza italiana è finalizzato ad evitare casi di apolidia;

-Conservano la cittadinanza italiana, anche se nati all’estero e in possesso di altra cittadinanza, coloro che hanno già ottenuto il riconoscimento formale (in via amministrativa o giurisdizionale) del proprio stato di cittadino italiano, come disposto dalle due prime clausole di “salvezza”, di cui alle lett. a), b) dell’art. 3-bis;

-Conservano la cittadinanza italiana, anche se nati all’estero e in possesso di altra cittadinanza, coloro che hanno proposto istanza presso le autorità amministrative competenti o hanno formulato una domanda giudiziale per riconoscere formalmente il proprio status, entro le ore 23:59 del 27 marzo 2025; a tali soggetti si applicherà la disciplina previgente, come disposto dalle due prime clausole di salvezza di cui alle lett. a), b) dell’art. 3-bis;

-Conservano la cittadinanza italiana e ne potranno richiedere l’accertamento, anche se nati all’estero e in possesso di altra cittadinanza, coloro che rientrano in una delle altre tre clausole di salvezza, previste alle lett. c), d), e) dell’art. 3-bis, in quanto possiedono nella loro linea di discendenza un genitore o adottante cittadino nato in Italia, oppure un/a nonno/a nato in Italia, oppure un adottante il cui genitore è nato in Italia, o ancora un genitore o adottante (anche nato all’estero) che ha vissuto in Italia per almeno due anni continuativi prima della nascita o dell’adozione del figlio;

-Non acquistano la cittadinanza italiana coloro che sono nati all’estero dal 28 marzo 2025 in poi e che hanno un’altra cittadinanza; tali soggetti non diventeranno mai cittadini italiani, non ricorrendo una delle condizioni, di cui alle lett. c), d), e) dell’art. 3-bis, salvo quanto diremo in seguito;

– Perdono retroattivamente la cittadinanza italiana coloro che sono nati all’estero prima del 28 marzo 2025 e possiedono un’altra cittadinanza straniera, e non hanno proposto istanza presso le autorità amministrative o formulato una domanda giudiziale per riconoscere il proprio status entro le ore 23:59 del 27 marzo 2025; costoro non verranno più “considerati” cittadini, poiché sono privati automaticamente e retroattivamente della propria cittadinanza italiana, a meno che la loro posizione non rientri in una delle clausole di “salvezza”, di cui alle lett. c), d), e) dell’art. 3-bis.

L’attuale assetto normativo della cittadinanza italiana – come risultante dal decreto Tajani – si presenta oggi estremamente variegato, oltre ad essere inutilmente complesso, ma soprattutto ci pare affetto da gravi vizi di irragionevolezza e incoerenze, nonché da profonde contraddizioni che sono destinate a comprometterne seriamente la tenuta, sia a livello costituzionale che a livello europeo, per i motivi che vedremo.

8. Incoerenza e irragionevolezza del decreto Tajani

A proposito delle incoerenze del testo normativo in commento, pare che gli appartenenti alla prima categoria (i nati in Italia) riescono ad ottenere un netto vantaggio – derivante da un elemento di ius soli – rispetto a coloro che nascono all’estero. Infatti, il discendente bisnipote nato in Italia ottiene la cittadinanza – ai sensi dell’art. 1 Legge n. 91/92 – se presenta nella linea retta di parentela un bisnonno nato in Italia, poiché quest’ultimo trasmette la cittadinanza al proprio nipote anche se nato all’estero – in base alla lett. e) dell’art. 3-bis – e quest’ultimo, a sua volta, la trasmette al proprio figlio nato in Italia, il quale la potrà tramandare per almeno altre due generazioni di nati all’estero. Al contrario, il bisnipote nato all’estero non ottiene la cittadinanza, in ragione della preclusione all’acquisto creata dall’art. 3-bis, se il genitore o il nonno/a sono nati all’estero. Tale innesto di elementi di ius soli (la nascita in Italia) nella cittadinanza per discendenza potrebbe condurre all’espediente di viaggi lampo in Italia, realizzati al solo scopo di far nascere il proprio figlio in Italia e, quindi, sfuggire all’impedimento creato dall’art. 3-bis per i nati all’estero. Tale circostanza solleva dubbi di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, in ragione della discriminazione creata sulla base di una condizione personale e sociale, poiché unicamente coloro che hanno le possibilità economiche di far nascere il proprio figlio in Italia – anche solo attraverso un brevissimo viaggio – riescono a sfuggire al limite della seconda generazione, di cui all’art. 3-bis, lett. e), e ottenere così la trasmissione della cittadinanza da bisnonno. Per tale motivo, il Parlamento dovrebbe riflettere se, in sede di conversione, non sia opportuno estendere la trasmissibilità, inglobando i bisnonni nati in Italia tra i soggetti trasmissori ai bisnipoti nati all’estero, inserendo nell’art. 3-bis, lett. e), le parole: “ascendente cittadino di secondo grado dei genitori o degli adottanti è nato in Italia”; anziché “ascendente cittadino di primo grado” (come previsto dal testo attuale).

Altro grave vizio di incostituzionalità potrebbe riguardare la c.d. discendenza con filiazione diretta e si rinviene nell’impossibilità di trasmettere la cittadinanza da genitore (già riconosciuto italiano) a figlio, soprattutto se minore, quando si tratta di nati all’estero e non si applicano le clausole di salvezza previste alle lett. c), d), e) dell’art. 3-bis. È vero che il genitore – nato all’estero e già riconosciuto formalmente cittadino italiano – potrebbe anche solo far nascere il proprio figlio in Italia, per sfuggire alle limitazioni dell’art. 3-bis. Ma si tratta di un metodo ingiusto e irragionevole, poiché subordina l’acquisto della cittadinanza ad un parto avvenuto in Italia, creando un criterio ibrido tra ius soli (la nascita in Italia) e ius sanguinis (la trasmissione per discendenza), di dubbia legittimità costituzionale, alla luce dell’art. 3, comma 1, Cost., per le ragioni appena richiamate. Inoltre, l’intrasmissibilità da genitore già riconosciuto a figlio (se nati all’estero) rischia di rompere il principio di unitarietà della cittadinanza all’interno della stessa famiglia, contravvenendo all’essenza stessa del criterio dello ius sanguinis, precedentemente ricordato. Per tali motivi, ci pare utile – ai fini di un’eventuale conversione del decreto in discorso – l’inserimento nel sistema italiano di una disposizione normativa simile a quella contenuta nell’art. 8, del Code de la nationalité belge del 1984, secondo cui “Sont Belges (…) 2° l’enfant né à l’étranger: (…) b) d’un auteur belge ayant fait dans un délai de cinq ans à dater de la naissance une déclaration réclamant, pour son enfant, l’attribution de la nationalité belge”. In modo simile, tutti i cittadini riconosciuti italiani avrebbero cinque anni per la registrazione dei propri figli a partire dall’entrata in vigore del decreto n. 35/25, oppure a partire dalla data di nascita del figlio.

9. La categoria di coloro che sono considerati non aver acquistato la cittadinanza italiana: i nuovi nati

Oltre alle osservazioni elaborate nelle pagine precedenti, i dubbi di costituzionalità più seri riguardano coloro che non sono “considerati” italiani, in ragione della sussistenza di due elementi ostativi all’acquisto della nostra cittadinanza: la nascita all’estero e il possesso di “altra cittadinanza”.

A questo proposito è importante ricordare nuovamente la formula lessicale introdotta dal Decreto Tajani, secondo cui: “è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza”, salva l’applicazione delle clausole di salvezza, più volte ricordate.

Dal punto di vista teorico, nella relazione governativa al decreto, l’impedimento all’essere “considerati” italiani viene spiegato nella maniera seguente. A detta del Governo, il fatto della nascita all’estero dell’individuo (pur se discendente da cittadino italiano), se applicato a chi è possesso di “altra cittadinanza”, integra “una preclusione, operante ex tunc, all’acquisto automatico della cittadinanza”, la quale è applicabile retroattivamente a chi è già nato, nella misura in cui “si tratta di un’ipotesi di mancato acquisto ex tunc della cittadinanza e non di perdita della stessa: la persona nata all’estero sia prima che dopo l’entrata in vigore del nuovo articolo 3-bis della legge n. 91/1992 sarà considerata non aver mai acquistato la cittadinanza, nel caso in cui si trovi nelle condizioni previste dalla medesima previsione normativa”[90]. Sempre nella relazione si legge che tale ricostruzione dogmatica giustificherebbe anche la collocazione topografica delle nuove disposizioni limitative dello ius sanguinis, essendo state inserite nel neonato art. 3-bis della Legge n. 91/92, anziché all’interno dell’art. 13 relativo ai casi di perdita.

Tale ricostruzione teorica non convince e si rileva fallace dal punto di vista dogmatico, oltre a creare difficili questioni interpretative rispetto alla categoria di coloro che non acquistano la cittadinanza italiana in quanto nati all’estero dal 28 marzo 2025 in poi. Ma, soprattutto, la richiamata impostazione solleva serissimi dubbi di legittimità costituzionale e di compatibilità con il diritto europeo, rispetto a coloro che perdono la cittadinanza italiana in quanto nati all’estero prima del 28 marzo 2025.

Per le situazioni giuridiche sorte dal 28 marzo 2025 in poi (i c.d. “nuovi nati”), attraverso il procedimento di semplificazione analitica della fattispecie astratta[91], possiamo affermare che il diritto alla cittadinanza – risultante dall’innesto dell’art. 3-bis nella legge n. 91/92 – sorge quando: è presente il fatto costitutivo della discendenza da cittadino italiano; è mancante il fatto impeditivo di primo grado della nascita all’estero dell’interessato, che osta all’acquisto originario dello status italiano[92]; è mancante l’altro fatto impeditivo di primo grado del “possesso di altra cittadinanza”, che osta all’acquisto originario dello status italiano; ricorre una di quelle clausole di salvezza applicabili ai nuovi nati – contenute nelle lettere c), d), e) – che sono fatti impeditivi di secondo grado, in quanto rendono inefficaci i due fatti impeditivi di primo grado (la nascita all’estero e il possesso di altra cittadinanza) e permettono, quindi, al fatto costitutivo della discendenza di spiegare i suoi effetti.

La descritta struttura della fattispecie, che si presenta già alquanto complessa, solleva alcuni dubbi interpretativi, in ragione dell’elemento impeditivo all’acquisto, dato dalla condizione soggettiva di non essere “in possesso di altra cittadinanza”.

Infatti, come abbiamo precedentemente ricordato, in ragione dell’applicazione cumulativa dei due criteri originari che si acquistano fin dalla nascita (ius sanguinis e ius soli), il figlio di discendenti di italiani che nasce in un paese a ius soli, di regola, acquisisce due cittadinanze simultaneamente per il solo fatto della nascita. Si tratta di un caso di doppia cittadinanza originaria per nascita, la quale non ha mai costituito una vera e propria difficoltà teorica, né in giurisprudenza né in dottrina ed è stata in seguito disciplinata da alcuni legislatori, come quello italiano con l’art. 7 della Legge n. 555 del 1912[93] e, successivamente, con l’art. 11 della Legge n. 91/92, che ammette senza limiti la doppia cittadinanza, sia originaria che derivata[94]. Tuttavia, in tale ipotesi di applicazione concomitante del criterio dello ius soli all’estero e dello ius sanguinis in Italia, il decreto Tajani pare imporre al “nuovo nato” l’acquisto della sola cittadinanza straniera, quest’ultima evidentemente considerata dal nostro legislatore come “superiore” e più importante di quella italiana. Purtroppo, nel voler escludere la bipolidia del soggetto nato all’estero dopo il 28 marzo 2025, il decreto in discorso ci riporta all’epoca del XIX° secolo, in cui era dominante il principio dell’unitarietà della cittadinanza. Anzi il decreto n. 36/25 pare ancora più restrittivo dell’impostazione seguita dal codice civile del 1865, che ammetteva la doppia cittadinanza di fatto, in seguito disciplinata espressamente dall’art. 7 della legge n. 555 del 1912[95].

Tale impostazione, oltre a lasciarci del tutto perplessi in relazione ai figli di cittadini italiani già riconosciuti (per i quali pare prevalere la cittadinanza straniera), si pone anche in rotta di collisione con il principio di diritto internazionale (tradizionale e molto conosciuto) in base al quale “quando uno Stato considera un dato individuo suo cittadino (…) è per esso irrilevante che altri Stati gli attribuiscano la loro cittadinanza”, nella misura in cui “uno Stato può trascurare la circostanza che un individuo cui attribuisce la qualifica di cittadino sia considerato altresì cittadino di altri Stati”[96]. È, infatti, lo stesso art. 3 della citata Convenzione dell’Aja del 1930 sui conflitti di nazionalità a disporre che: “Sous réserve des dispositions de la présente Convention, un individu possédant deux ou plusieurs nationalités pourra être considéré, par chacun des États dont il a la nationalité, comme son ressortissant[97]. Dal punto di vista dell’opportunità, il decreto n. 36/25, anziché “approfittare” dell’esistenza di un’altra cittadinanza in capo ad un “nuovo nato” per escludere la trasmissione di quella italiana, avrebbe dovuto valorizzare la bipolidia e prevedere l’acquisto dello status italiano, almeno in caso di discendenza diretta da parte di cittadino già riconosciuto.

Problemi ancor più delicati per i “nuovi nati” sorgono in relazione alla bipolidia derivante dal c.d. doppio ius sanguinis, ossia dalla simultanea applicazione di tale criterio per entrambi i genitori, di cui uno italiano e l’altro straniero. Facciamo l’esempio del bambino che nasce in Belgio da padre italiano e da madre francese: se non ricorrono le clausole di salvezza dell’art. 3-bis, il bambino acquista solo la cittadinanza francese per discendenza, il cui possesso impedisce di acquisire quella italiana. Potrebbero, invece, i genitori scegliere di trasmettere la cittadinanza italiana per discendenza ed evitare la trasmissione di quella francese, visto che il Belgio non riconosce lo ius soli automatico? Da una prima lettura dell’art. 3-bis pare che ai genitori non venga permessa tale scelta e che l’altra cittadinanza straniera (nell’esempio quella francese) debba considerarsi prevalente su quella italiana.

La soluzione della prevalenza dello status straniero – imposta dal decreto Tajani – solleva più di un dubbio di costituzionalità, in quanto nell’impedire la bipolidia del nuovo nato e nel dare superiorità alla cittadinanza straniera, ci pare comportare un arretramento rispetto al passato, ossia ai tempi in cui la doppia cittadinanza era considerata con sfavore e sospetto. Tra l’altro, il citato art. 3-bis del decreto Tajani potrebbe far sorgere i medesimi problemi interpretativi creati dall’art. 5 della legge n. 123/83; disposizione che, non a caso, venne sospesa e poi definitivamente abrogata[98].

È per tale motivo che, almeno in relazione agli italiani già formalmente riconosciuti e sebbene la nascita del figlio avvenga all’estero, ci pare doveroso permettere sempre la trasmissibilità della cittadinanza italiana da genitore a figlio, proprio al fine di evitare la spiacevole situazione di considerare sempre prevalente la cittadinanza straniera. Naturalmente, spetta al Parlamento – in sede di conversione del decreto n. 36/25 – valutare l’introduzione di una nuova clausola di salvezza in merito ai c.d. “figli diretti” di cittadini italiani già riconosciuti, all’interno dell’art. 3-bis.

 

10. La categoria di coloro che perdono la cittadinanza italiana in quanto nati all’estero prima del 28 marzo 2025

Ma la situazione più grave – e che suscita serissimi dubbi di legittimità costituzionale e di compatibilità con il diritto europeo – riguarda coloro che non sono più “considerati” italiani dall’art. 3-bis. Ricordiamo, nuovamente, che tale categoria è costituita da coloro che hanno un’altra cittadinanza straniera e sono nati all’estero prima del 28 marzo 2025 e per i quali non ricorre nessuna delle clausole di salvezza, previste dal decreto. Si tratta, comunque, di soggetti che sono sempre stati cittadini italiani dalla nascita e in possesso della titolarità sostanziale dello status, ma che ancora non avevano chiesto il riconoscimento della titolarità formale. È rispetto a tale categoria che il decreto Tajani introduce il meccanismo della “ghigliottina” o della “tagliola”, ossia la privazione – immediata, retroattiva e improvvisa – della cittadinanza italiana. È proprio in ragione di tale meccanismo che il decreto suscita le perplessità più forti.

Anche rispetto alla categoria dei già nati, nella citata relazione governativa si afferma che il fatto della nascita all’estero dell’individuo (discendente da cittadino italiano) integra “una preclusione, operante ex tunc, all’acquisto automatico della cittadinanza”, ossia “un’ipotesi di mancato acquisto ex tunc della cittadinanza e non di perdita della stessa: la persona nata all’estero sia prima che dopo l’entrata in vigore del nuovo articolo 3-bis della legge n. 91/1992 sarà considerata non aver mai acquistato la cittadinanza, nel caso in cui si trovi nelle condizioni previste dalla medesima previsione normativa”[99].

Tuttavia, come già osservato, nonostante l’utilizzo della formula lessicale “è considerato non avere mai acquistato (…)”, siamo chiaramente dinanzi ad un caso di perdita della cittadinanza, legislativamente imposta ad una categoria indeterminata di persone. Per tale motivo, ci pare condivisibile qualificare l’evento della nascita all’estero e il possesso di un’altra cittadinanza come un fatto impeditivo (una “preclusione” all’acquisto) unicamente in riferimento ai nuovi nati (dal 28 marzo 2025 in poi), poiché in tal caso il loro status civitatis italiano non è mai sorto. Al contrario, rispetto a coloro che sono già nati, la nascita all’estero e il possesso di altra cittadinanza difficilmente possono essere configurati come fatti impeditivi o preclusivi all’acquisto, dovendo piuttosto parlarsi di fatti estintivi di un diritto già esistente e perfezionato.

Giova ricordare, ancora una volta, che prima dell’entrata in vigore del decreto Tajani, lo status di cittadino italiano si acquistava originariamente con la nascita in ragione della discendenza da padre o madre cittadini (art. 4 c.c. 1865; art. 1 legge n. 555/1912; art. 1 legge n. 91/92). Ciò vuol dire che coloro che sono nati prima dell’entrata in vigore del decreto Tajani sono (rectius erano) cittadini italiani a tutti gli effetti, anche se nati all’estero e anche se non avevano esercitato i diritti derivanti dal possesso dello status di cittadino. Alcuni nati all’estero avevano solo la titolarità sostanziale e dovevano ancora far accertare la titolarità formale, ma si trattava a tutti gli effetti di cittadini italiani, nonostante la mancanza di un documento che formalmente dimostrasse il possesso di tale status.

Ciò ricordato, pare evidente che l’inserimento di un nuovo elemento ostativo alla conservazione di uno status – già sorto e perfezionato – ne provoca, di fatto, l’estinzione. In proposito, per coloro che sono già titolari dello status di cittadino italiano, non è plausibile considerare il fatto della nascita all’estero come una “preclusione, operante ex tunc, all’acquisto automatico della cittadinanza” (come sostenuto nella citata relazione governativa), poiché in realtà il decreto Tajani conferisce (ora per allora) rilevanza giuridica ad un fatto che – seppur già storicamente accaduto in passato – costituisce un elemento di novità all’interno della fattispecie astratta originaria, che è quella vigente alla data del sorgere dello status stesso.  È, infatti, evidente che debba essere qualificato come estintivo quel fatto che – seppur storicamente concomitante ad un elemento costitutivo – assume rilievo giuridico solo con una legge successiva nel tempo, rispetto al giorno in cui è sorto lo status. Ed è proprio quanto accade in relazione all’ipotesi descritta nel combinato disposto dell’art. 1 e del nuovo art. 3-bis della legge n. 91/1992, ove abbiamo la seguente ipotesi normativa: un primo elemento costitutivo (la nascita con discendenza da cittadino italiano) che determina la titolarità della cittadinanza; un secondo elemento estintivo (la nascita all’estero) che è – logicamente – successivo, in quanto diviene giuridicamente rilevante solo posteriormente al sorgere dello status. In questa successione temporale di eventi, ad esempio, appare chiaro che la cittadinanza attribuita ad un individuo nato all’estero nell’anno 1980 – in base al fatto costitutivo della discendenza da cittadino italiano – viene posteriormente persa in data 28/03/2025, in ragione del rilievo giuridico che viene attribuito al fatto estintivo della nascita all’estero, ad opera del decreto n. 36/25, salva sempre la sussistenza delle menzionate condizioni di salvezza, di cui alle lettere a), b), c), d), e). È, difatti, innegabile che è estintivo quel fatto che assume rilevanza giuridica solo in un momento successivo al sorgere dello status.

Giova rilevare che, difficilmente, il decreto in discorso potrebbe essere qualificato come una legge interpretativa[100], che va a dirimere un dubbio precedente, poiché anteriormente alla data del 28/03/2025, l’elemento della nascita all’estero (ora considerato ostativo all’acquisto dello status) non è mai stato considerato come fatto impediente all’applicazione del criterio dello ius sanguinis, la cui essenza si fonda proprio sull’irrilevanza del luogo di nascita (vedi supra).

Tra l’altro, la circostanza che il decreto Tajani crei un’ipotesi di perdita della cittadinanza nei confronti di coloro che sono già nati (all’estero) si deduce anche attraverso la lettura dei considerando al provvedimento, ove si afferma che: “Considerato che, in applicazione del principio di proporzionalità, è opportuno prevedere il mantenimento della cittadinanza italiana e, conseguentemente, europea in capo alle persone nate e residenti all’estero alle quali lo stato di cittadini è già stato validamente riconosciuto”. Detto in altri termini, se il legislatore stabilisce che deve essere “considerato” come non cittadino chi è “nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore” del decreto e se, al tempo stesso, il discendente di cittadino italiano è egli stesso italiano fin dalla nascita, è giocoforza ritenere che il citato decreto determina, in sostanza, la perdita collettiva retroattiva dello status civitatis per una determinata categoria di individui: i nati all’estero rispetto ai quali avviene una denazionalizzazione di massa.

Nella misura in cui il decreto Tajani crea un meccanismo di perdita della cittadinanza – automatico, retroattivo e improvviso – ci pare molto dubbia la sua legittimità costituzionale e anche la sua compatibilità con il diritto europeo, come vedremo nel prossimo paragrafo.

 

11. Considerazioni conclusive

Terminata la nostra analisi del decreto Tajani, è giocoforza giungere alla conclusione che l’effetto pratico di tale provvedimento è, senza dubbio, quello di privare una vasta platea di individui della loro cittadinanza italiana. Si tratta, come spesso ripetuto, di un decreto ad effetto abdicativo, che provoca la perdita coattiva e generalizzata della cittadinanza per la categoria dei nati all’estero, rispetto ai quali si verifica una vera e propria denazionalizzazione.

Questa perdita della cittadinanza è di tipo generale e astratto, poiché viene decretata nei confronti di una categoria indeterminata di soggetti, individuata in base al fatto comune della nascita all’estero, non prevedendosi nessun tipo di esame individuale della situazione concreta del soggetto colpito dalla misura della dismissione dello status.

L’effetto ablatorio è automatico perché si tratta di una fattispecie di perdita che non è legata a nessun tipo di comportamento volontario del soggetto (né di tipo attivo né di tipo omissivo), essendo l’estinzione dello status provocata ipso iure attraverso un provvedimento governativo.

L’effetto ablatorio è anche retroattivo, poiché coloro che sono nati all’estero vengono ora per allora “considerati” come non italiani fin dalla nascita, a mezzo della fictio dell’impedimento ex tunc all’acquisto, ma che è invece una perdita ab origine dello status. Per pervenire al risultato della denazionalizzazione, viene sovvertito il basilare principio di civiltà giuridica sulla irretroattività delle leggi (tempus regit actum), che detta le regole sull’applicazione temporale delle modificazioni normative anche in materia di cittadinanza. Tale principio lo ritroviamo nell’art. 20 della legge n. 91/92 (“1. Salvo che sia espressamente previsto, lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica se non per fatti posteriori alla data di entrata in vigore della stessa”), nonché nell’art. 19 della legge n. 555/1912 (“Lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica, se non pei fatti posteriori all’entrata in vigore di questa”). Lo stesso principio è presente in altri ordinamenti, come la Francia, ove l’art. 17-2 del Code Civil, prevede: “L’acquisition et la perte de la nationalité française sont régies par la loi en vigueur au temps de l’acte ou du fait auquel la loi attache ces effets”. A questo proposito, più di un secolo fa, un illustre studioso della materia faceva già notare che: “solo i fatti posteriori all’entrata in vigore della presente legge possono avere virtù di far mutare lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente”[101].

L’effetto è coercitivo perché la perdita è imposta ed obbligatoria, senza che sia concessa all’interessato la possibilità di manifestare la sua volontà in senso contrario all’estinzione del proprio diritto. In questa direzione, il decreto Tajani appare addirittura ancora più ingiusto della famosa “Grande Naturalizzazione” brasiliana del 1889, che voleva imporre a tutti gli stranieri di divenire cittadini brasiliani, salva la possibilità per l’interessato di rifiutare la cittadinanza entro un termine di sei mesi[102]. Il decreto Tajani instaura, quindi, un meccanismo ancora più perverso rispetto a quello previsto nei casi di naturalizzazioni forzate del secolo XIX°, poiché nemmeno concede un termine congruo per poter opporsi alla denazionalizzazione, manifestando il proprio interesse alla conservazione dello stato di cittadino italiano.

Così ricostruito, è chiaro il vizio di fondo di cui è affetto il decreto Tajani, che si pone in netto contrasto con i principi italiani ed europei in tema di perdita della cittadinanza.

Come precedentemente ricordato, infatti, nell’ordinamento italiano i casi di perdita della cittadinanza presuppongo l’esistenza di una rinuncia libera e consapevole alla cittadinanza e sono state dichiarate illegittime le fattispecie coercitive di dismissione dello status civitatis. Ricordiamo nuovamente la sentenza n. 87 del 1975 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 10 della Legge n. 555/1912, nella parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza, indipendentemente dalla volontà dell’interessata, per la donna italiana che acquistava la naturalità straniera del coniuge per effetto di matrimonio.

Evidente è anche il contrasto con l’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), letto alla luce dell’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per violazione del principio di proporzionalità e di effettività, non avendo il decreto Tajani previsto in alcun modo per le persone interessate “la possibilità di presentare, entro un termine ragionevole, una domanda di mantenimento o di riacquisto della cittadinanza, che consenta alle autorità competenti di esaminare la proporzionalità delle conseguenze della perdita di tale cittadinanza sotto il profilo del diritto dell’Unione (…)”, volendo riutilizzare le parole della Corte di Giustizia, espresse nella sentenza Udlændinge- og Integrationsministeriet del 5 settembre 2023, precedentemente citata.

In questa direzione, è gravissimo il vizio del decreto nella parte in cui non prevede nessun tipo di termine congruo, concesso agli interessati ai fini del mantenimento del diritto alla cittadinanza. Anzi, l’effetto ablatorio del decreto sembra essere stato volutamente creato all’insaputa degli interessati, attraverso un effetto “sorpresa” e “tagliola”, al fine di impedire loro di manifestare la propria volontà di conservare il diritto. Lo strumento della “ghigliottina temporale”, dato dalla presentazione delle domande amministrative e giudiziali entro una certa data (27 marzo ore 23:59), viene stabilito retroattivamente all’insaputa degli interessati, con un decreto pubblicato il 28 marzo 2025 e entrato in vigore il 29 marzo. In pratica, l’avvertimento della necessità di proporre domanda amministrativa o giudiziale, ai fini del mantenimento della cittadinanza italiana per i nati all’estero, veniva comunicato in data 28 marzo 2025 dal Governo a termine già scaduto (27 marzo 2025), proprio per cogliere di sorpresa gli interessati e impedire loro di mantenere il diritto.

Per tutti i motivi suesposti, perveniamo alla conclusione che siamo dinanzi ad un provvedimento di “Grande Perdita” della cittadinanza italiana. Il Governo italiano – che nei secoli scorsi aveva strenuamente combattutto i casi di naturalizzazione straniera forzata dei propri cittadini emigrati all’estero – attualmente preferisce togliere la cittadinanza a chi già la possiede, creando una fattispecie di perdita automatica e retroattiva per i nati all’estero (discendenti degli emigranti, un tempo protetti), in contrasto anche con l’art. 22 Cost., secondo cui: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Inoltre, il decreto Tajani costituisce un precedente pericolosissimo per tutti i cittadini italiani (non solo per quelli nati all’estero), poiché va a eliminare qualsiasi tipo di certezza giuridica in una materia così fondamentale per lo Stato, qual è la cittadinanza. Se accettassimo giuridicamente la possibilità di introdurre casi di perdite collettive e retroattive per determinate categorie di italiani, il Governo potrebbe voler utilizzare nuovamente in futuro questo tipo di meccanismo, per creare ulteriori ipotesi di decadenza retroattive dello status e stabilire, ad esempio, che: “è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana, chi ha fissato la propria residenza all’estero da oltre 10 anni, anche prima della data di entrata in vigore del presente decreto”. In altri termini, il precedente del decreto Tajani potrebbe servire da apripista per permettere al Governo di introdurre un domani nuove ipotesi retroattive e improvvise di denazionalizzazione collettiva della cittadinanza, riducendo a suo piacimento la platea dei cittadini italiani. Tra l’altro, lo strumento concettuale della “preclusione ex tunc all’acquisto” potrebbe essere utilizzato anche in riferimento ad altri diritti soggettivi esistenti, per “considerarli” retroattivamente mai esistiti ab origine (rectius estinti). Ciò significherebbe permettere che il legislatore ordinario possa inserire, retroattivamente, nuovi fatti estintivi (già verificatisi in passato) in una fattispecie astratta, giungendo così ad attribuirgli il potere di decidere retroattivamente sull’esistenza o meno di diritti soggettivi già acquisiti e, in tal modo, sovvertire il principio della certezza del diritto, che è principio cardine del nostro ordinamento.

In conclusione, auspichiamo che il Parlamento – in sede di conversione – compia un’analisi particolarmente dettagliata del decreto n. 36/25, depurandolo di tutti i suoi vizi di incostituzionalità e di incompatibilità con il diritto europeo precedentemente descritti, rispettando il principio di irretroattività e di tutela dei diritti acquisiti, proprio per evitare l’infausto evento della “Grande Perdita” della cittadinanza italiana, che rischia di colpire molti dei nostri connazionali nati all’estero.

[1] Il presente contributo è il frutto di prime riflessioni sulla parte sostanziale del decreto n. 36/25, elaborate insieme a Riccardo De Simone. Seguirà la pubblicazione di un secondo contributo di G. Bonato e R. De Simone sugli aspetti di diritto amministrativo e di diritto processuale relativi alla riforma della cittadinanza.

[2] Per la critica all’uso del decreto-legge nella materia della cittadinanza, si vedano le considerazioni di R. Calvano, nel corso dell’audizione dinanzi alla I Commissione Affari costituzionali Senato della Repubblica, 8 aprile 2025, in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/documenti/57165_documenti.htm

Sull’abuso della decretazione di urgenza in generale si rinvia a A. Celotto, L’abuso del decreto-legge, Padova, 1997, passim.

[3] L’applicazione del decreto n. 36/25 a persone già nate si pone in contrasto con il principio di non retroattività fissato dalle disposizioni preliminari al codice civile, il cui art. 11 recita: “la legge non dispone che per l’avvenire”. Sebbene circoscritto all’ambito penale, il principio di irretroattività è espressamente tutelato dalla nostra Costituzione, all’art. 25, comma 2.

[4] N. Brutti, Il Decreto legge e la questione della cittadinanza iure sanguinis, in https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/il-decreto-legge-e-questione-cittadinanza-iure-sanguinis-AGGtuYtD, il quale ritiene giustamente che sussista una “potenziale lesione del principio del legittimo affidamento di tutti quei discendenti che siano già ‘nati italiani’”.

[5] N. Brutti, Il Decreto legge e la questione della cittadinanza iure sanguinis, op. cit.

[6] Così ancora N. Brutti, Il Decreto legge e la questione della cittadinanza iure sanguinis, op. cit.

[7] Così le parole dell’Onorevole Luis Roberto di San Martino Lorenzato di Ivrea.

[8] Così R. Calvano, nel corso dell’audizione dinanzi alla I Commissione Affari costituzionali Senato della Repubblica, 8 aprile 2025, in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/documenti/57165_documenti.htm

[9] In questo senso S. Laganà, nel corso dell’audizione dinanzi alla I Commissione Affari costituzionali Senato della Repubblica, 8 aprile 2025, in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/documenti/57165_documenti.htm

[10] Così C. Panzera, nel corso dell’audizione dinanzi alla I Commissione Affari costituzionali Senato della Repubblica, 9 aprile 2025.

[11] In questa direzione, si veda V. Zeno-Zencovich, Il Dl Cittadinanza che discrimina pure gli italiani del Sudamerica, in Il Dubbio, 2 aprile 2025, p. 7, il quale esprime forti perplessità sul decreto Tajani.

[12] Così T. Ricciardi, La riforma della cittadinanza: se il governo vuole distinguere i “veri italiani” dai “falsi”, in https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/cittadinanza-riforma-governo-vuole-distinguere-veri-italiani-da-quelli-falsi-ub6te24p, 4 aprile 2025, p. 11.

[13] Nel preambolo al decreto, infatti, lo stesso Governo afferma quanto segue: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure per evitare, nelle more dell’approvazione di una riforma organica delle disposizioni in materia di cittadinanza, un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari”.

[14] Come noto, in materia di cittadinanza, la Costituzione si limita a disporre espressamente che: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome” (art. 22). Sull’art. 22 Cost., si veda U. De Servio, Art. 22, in Commentario della Costituzione, a cura di Scialoja e Branca, Rapporti civili, Roma, 1978, p. 17.

[15] Parla di status di diritto pubblico, S. Bariatti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, vol. II, Milano, 1996, p. 3. Definisce la cittadinanza come uno status anche C. Romanelli Grimaldi, Cittadinanza, in Enc. Giur. Treccani, vol. VII, Roma, 1988, §§ 1.1.2 ss. Altra parte della dottrina definisce la cittadinanza come un rapporto giuridico e per questa tesi di rinvia a L. Panella, La cittadinanza e le cittadinanze nel diritto internazionale, Napoli, 2009, p. 27 ss. Ad ogni modo, si fa notare che la nozione di cittadinanza ha “un duplice carattere: da un lato si riferisce ai requisiti che l’individuo deve possedere per poter essere definito cittadino; dall’altro fa riferimento al quadro dei diritti e doveri che l’essere cittadino comporta” (E. Belvisi, Cittadinanza, in A. Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, 1998, p. 117).

[16] Così Cass. civ., sez. un., 25 febbraio 2009, n. 4466.

[17] Come noto, la cittadinanza europea è uno status derivato e che si aggiunge alla cittadinanza di uno degli Stati membri. Si rinvia, tra i tanti, a C. Morviducci, I diritti dei cittadini europei, 3° ed., Torino, 2017, p. 3 ss.

[18] Così ancora Cass. civ., sez. un., 25 febbraio 2009, n. 4466, seguita più recentemente da Cass. civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317 e 25318, in Giur. It., 2023, p. 2358 ss., con nota di G. Bonato.

[19] P. M. Stabile, La cittadinanza nei piccoli stati europei. Profili di diritto comparato e internazionale, in Studi urbinati, v. 56, n. 4, 2005, p. 616 e in https://journals.uniurb.it/index.php/studi-A/article/view/317.

[20] Come fa notare S. Bariatti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, cit., p. 15, nota 21, la distinzione tra attribuzione della cittadinanza (dalla nascita) e acquisto della cittadinanza (durante il corso della vita) appare più netta in altri sistemi giuridici e non sempre viene accolta dalla dottrina italiana. Si veda anche M. Mellone, L’accertamento giudiziario della cittadinanza italiana iure sanguinis, Torino, 2022, p. 13 ss., il quale distingue tra i modi di attribuzione della cittadinanza a titolo originario e quelli a titolo derivativo.

[21] P. M. Stabile, La cittadinanza nei piccoli stati europei. Profili di diritto comparato e internazionale, cit., 618.

[22] Cosi, tra gli altri: P. Louis-Lucas, Les conflits de nationalités, in Recueil des cours. Académie de droit international de la Haye, vol. 64, 1938, p. 8 e ss., il quale parla di “nationalité originaire” e “nationalité secondaire”; J.A. Da Silva, Curso de direito constitucional positivo, 19° ed., San Paolo, 2001, p. 325; I.W. Sarlet, L.G. Marinoni, D. Mitidiero, Curso de direito constitucional, 3° ed., San Paolo, 2014, p. 636; A. Ramos Tavares, Curso de direito constitucional, 7° ed., San Paolo, 2009, p. 755. In Spagna si distingue tra “atribución o adquisición automática” e “adquisición no automática o derivativa”, come ci ricorda R. Vinas Farré, Evolutión del derecho de nacionalidade em España: continuidade y câmbios mas importantes, in https://www.ehu.eus/documents/10067636/10761851/2009-Ramon-Vinas-Farre.pdf/4895d2d7-7660-6e09-673f-00fc1c81fe2b?t=1539706417000, 2009, p. 290.

[23] Così C. Romanelli Grimaldi, Cittadinanza, cit., §§ 1.2.2 ss., la quale ricorda che altri criteri operano automaticamente nell’attribuzione della cittadinanza, quali quello dello iuris communicatio (“consistente nella comunicabilità della cittadinanza da parte di un membro della famiglia all’altro”) e il criterio del beneficio di legge, in base al quale è “la stessa legge a prevedere il concorso di più elementi o condizioni al verificarsi dei quali viene attribuita automaticamente la cittadinanza senza la necessità, da parte dello Stato, di un atto ad hoc”.

[24] Sul criterio dello ius soli quale regola tradizionale per l’attribuzione della cittadinanza brasiliana, si vedano, tra i tanti, H. Valladão, Direito internacional privado, vol. I, Rio de Janeiro, 1968, p. 324.

[25] Come ricorda R. Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, 1993, p. 183, anche in nota; Id., Cittadinanza, in Digesto discipline pubblicistiche, vol. III, Torino, 1989, p. 141, secondo cui la giurisprudenza italiana ha sempre affermato che gli Stati hanno competenza esclusiva in materia di cittadinanza. Nella dottrina straniera si vedano, tra gli altri: H. Valladão, Direito internacional privado, vol. I, cit., p. 286: “A competência internacional, para fixação da nacionalidade, cabe assim, em principio, ao Estado cuja nacionalidade se trata”.

[26] E. Lapenna, Cittadinanza (dir. int. priv. proc.), in Enc. Giur. Treccani, Roma, vol. VII, 1988, §§ 2 e 4, secondo cui “la cittadinanza di uno Stato si determina esclusivamente sulla base delle norme in materia dello Stato della cui cittadinanza si tratti”, ciò che conduce “alla conseguenza, in pratica non rara, che ad un medesimo soggetto possono risultare attribuite più cittadinanze straniere”.

[27] Su questi limiti, si rinvia a L. Panella, La cittadinanza e le cittadinanze nel diritto internazionale, cit., passim.

[28] La Corte di Giustizia UE, pur riconoscendo in generale l’autonomia degli Stati membri nel determinare la cerchia dei propri cittadini, ha anche stabilito che tale autonomia deve essere “esercitata nel rispetto del diritto comunitario”, perché incide sulla portata del contenuto dei diritti di cittadinanza dell’UE. Si vedano a riguardo i casi: Micheletti, 7 luglio 1992, Causa C- 369/90; Janko Rottman, 2 marzo 2010, Causa C-135/08; caso Tjebbes, 12/03/2019, Causa C-221/17. Sul punto si rinvia a: A. M. Russo, La cittadinanza “sostanziale” dell’UE alla luce della proposta del gruppo di Heidelberg: verso una “reverse Solange”, in www.federalismi.it n. 1/2014; L. Tria, Ius soli, jus sanguinis. L’acquisto della cittadinanza in Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Svizzera, Irlanda, in www.exeo.it, 2014, p. 26-27.

[29] Così sentenza del 5 settembre 2023, C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, punto 28.

[30] Così sentenza del 5 settembre 2023, C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, punto 30. Nello stesso senso, si vedano: sentenza del 2 marzo 2010, Rottmann, C‑135/08; sentenza del 12 marzo 2019, Tjebbes e a., C‑221/17; sentenza del18 gennaio 2022, Wiener Landesregierung, C‑118/20.

[31] B. Audit, Le code civil et la nationalite française, in 1804-2004 Le code civil: un passé un présent un avenir, in Y. Lequette e L. Leveneur (a cura di), Parigi, 2004, spec. p. 739 ss.

[32] Purtroppo, dati i limiti del presente contributo, non è possibile effettuare una ricostruzione storica sullo status civitatis. Sulla disciplina della cittadinanza nei codici preunitari, si rinvia a G. Bascherini, Brevi considerazioni storico-comparative su cittadinanza, ius sanguinis e ius soli nella vicenda italiana, in Diritti umani e diritto internazionale, 2019, p. 53 ss.

[33] Sulla disciplina della cittadinanza la bibliografia è sterminata, si rinvia, tra le tante opere pubblicate dopo l’entrata in vigore della Legge n. 91 del 1992, a: G. Kojanec, Norme sulla cittadinanza italiana. Riflessi interni ed internazionali, Roma, 1995, p. 17, il quale ricorda che la legge vigente “riconferma il principio della perpetuazione della cittadinanza nei discendenti diretti del cittadino, al quale già s’ispirava la precedente disciplina”; R. Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, cit.; S. Bariatti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, cit.; E. Grosso, Le vie della cittadinanza. Le grandi radici. I modelli storici di riferimento, Padova, 1997; M. Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella Costituzione italiana, Padova, 1997; L. Bussotti, La cittadinanza degli italiani, Milano, 2002; P. Costa, Cittadinanza, Roma-Bari, 2005; R. D’Alessandro, Breve storia della cittadinanza, Roma, 2006; D. Porena, Il problema della cittadinanza. Diritti, sovranità e democrazia, Torino, 2011, p. 188 ss.; V. C. Fioravanti, La disciplina giuridica della cittadinanza italiana: fra regime vigente e prospettive di riforma, in L. Zagato (a cura di), Introduzione ai diritti di cittadinanza, Venezia, 2011, p. 49 ss.; M.C. Locchi, Lo ius soli nel dibattito pubblico italiano, in Quaderni costituzionali, n. 2/2014, p. 482 ss.; V. Volpi, Italia, in M. Savino (a cura di), Oltre lo ius soli la cittadinanza italiana in prospettiva comparata, Napoli, 2014; E. Grosso, Cittadinanza e territorio. Lo ius soli nel diritto comparato, Napoli, 2015; R. Calvigioni – T. Piola, La cittadinanza italiana, Bologna, 2019; B. Barel, La cittadinanza, in P. Mozorro della Rocca (a cura di), Manuale breve di diritto dell’immigrazione, 5° ed., Santarcangelo di Romagna, 2021, p. 379 ss.; M. Mellone, L’accertamento giudiziario della cittadinanza italiana iure sanguinis, Torino, 2022, passim.

[34] Non è dato in questa sede procedere alla disamina dei criteri di attribuzione della cittadinanza in base allo ius soli e alla communicatio iuris, si rinvia a C. Romanelli Grimaldi, Cittadinanza, cit., §§ 1.2.2 ss.

[35] Per questa constatazione, si vedano, tra i tanti: A. Pitino, Gli stranieri nel diritto pubblico italiano, Torino, 2018, p. 42; L. Bussotti, La cittadinanza degli italiani, cit., p. 11; L. Tria, Ius soli, jus sanguinis. L’acquisto della cittadinanza in Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Svizzera, Irlanda, cit., p. 30.

[36] Nell’impossibilità di effettuare una ricostruzione completa delle leggi sulla cittadinanza degli Stati europei, dati gli evidenti limiti del presente contributo, rinviamo a L. Tria, Ius soli, jus sanguinis. L’acquisto della cittadinanza in Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Svizzera, Irlanda, cit., p. 21, la quale ricorda che “in Europa la principale modalità di acquisto della cittadinanza è quella per jus sanguinis”. Nella stessa direzione si veda lo studio realizzato da EUDO CITIZENSHIP, intitolato ACIT-Access to Citizenship and its Impact on Immigrant Integration, in https://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/29828/AccesstoCitizenshipanditsImpactonImmigrantIntegration.pdf?sequence=1, ove si sottolinea che “Ius sanguinis citizenship (by descent from a citizen parent) is available in fairly inclusive ways in each of the countries in our sample and remains the primary channel for the acquisition of citizenship in Europe. Compared to other CITLAW indicators, there is less variation across countries when it comes to ius sanguinis provisions”.

[37] Si veda, tra le tante, Cass., civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317, cit.

[38] Tale distinzione concettuale tra titolarità formale e sostanziale si rinviene anche nella copiosa e approfondita giurisprudenza del Tribunale di Salerno, tra le tante si veda l’ordinanza del 26 maggio 2023, RG 6703/2022, § 1.4.

[39] Per la distinzione tra titolarità formale e titolarità sostanziale nello stato di figlio, si veda: C.M. Bianca, Diritto civile, vol. 2.1, 6° ed., Milano, 2017.

[40] In ragione degli artt. 18 e 18-1 del codice civile francese, i figli di due genitori francesi sono anch’essi francesi a titolo definitivo, mentre i figli di un solo genitore francese possono rinunciare alla cittadinanza francese in un periodo che va dai sei mesi prima del compimento dei diciotto anni e fino al compimento del diciannovesimo anno di età. In materia di vedano: F. Jault-Seseke, S. Corneloup e S. Barbou des Places, Droit de la nationalité et des étrangers, Parigi, 2015,  p. 120.

[41] Sul punto si veda J. Lepoutre, Nationalité et souveraineté, Parigi, 2020, p. 217, secondo cui: “La préponderance du droit du sang s’établit dans le code civil de 1804, elle supplante à cette époque le droit du sol dont la Révolution avait réceptionné le principe à la suite de l’Ancien Droit”.

In particolare, la dottrina francese dell’epoca affermava: “C’est donc aujourd’hui l’origine, c’est le sang, et non point le territoire natal, qui fait seul, le Français de naissance”; “Ainsi, dans le système du code civil, l’enfant n’a pas en principe d’autre patrie d’origine que celle de ses auteurs”. La prima citazione è del giurista Demolombe e la seconda citazione è del giurista Weiss, le quali sono contenute nella monumentale monografia sulla storia della cittadinanza francese di G. Légier, Histoire du droit de la nationalité française. Des origines à la veille de la réforme de 1889, vol. I, Aix-Marsiglia, 2014, p. 93-94.

[42] In questo senso si veda Tribunale di Roma, ordinanza 13/04/2021, RG 37067/2018.

[43] Sul punto, la giurisprudenza di merito è costante e unanime, si vedano, tra le tante, ordinanza del 23/02/2021 (RG 34132/2019) del Tribunale di Roma, secondo cui “Per l’effetto, coloro che erano nati prima dell’unificazione d’Italia, furono considerati cittadini italiani, anche se emigrati, a condizione che, al momento in cui lo Stato preunitario di provenienza era entrato a far parte del Regno d’Italia, non avessero acquisito la cittadinanza straniera”.

[44] V. Volpi, Italia, in M. Savino (a cura di), Oltre lo ius soli la cittadinanza italiana in prospettiva comparata, cit., passim.

[45] G. Bascherini, Brevi considerazioni storico-comparative su cittadinanza, ius sanguinis e ius soli nella vicenda italiana, cit., p. 53.

[46] L. Bussotti, La cittadinanza degli italiani, cit., p. 25.

[47] L. Bussotti, La cittadinanza degli italiani, p. 39. Si veda anche Tribunale di Roma, ordinanza del 23/02/2021, RG 34132/2019, secondo cui: “La disciplina codicistica era basata, da un lato, sulla trasmissibilità iure sanguinis dello status civitatis ma, dall’altro, sull’unicità della cittadinanza per l’intero nucleo familiare, la cui situazione era legata a quella del marito/padre”.

[48] In questo senso R. Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 27-28, nonché p. 32, nota 80.

[49] A. Ricci, Il principio dell’unità di famiglia nell’acquisto e nella perdita della cittadinanza, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, vol. XII, fasc. 1, 1891, p. 35 ss., spec. p. 41 (per la prima citazione) e p. 47 (per la seconda citazione).

[50] Così ancora Cass. civ., sez. un., 25 febbraio 2009, n. 4466, e nello stesso senso Cass., Sez. Un., 24 agosto 2022, n. 25317, cit.,

[51] Come ci ricorda D. Luzzatto, Il problema della doppia cittadinanza, in Riv. dir. pubb., 1933, p. 542 ss.

[52] Lo ricorda J. Lepoutre, Nationalité et souveraineté, cit., p. 217.

[53] Per una breve analisi dei paesi che hanno considerato l’allontanamento dal territorio come causa di perdita della cittadinanza, si veda S. Bariatti, Cittadinanza (dir. comp. e stran.), in Enc. Giur. Treccani, vol. VI, Roma, 1988, § 2.2.1.

[54] C. Bisocchi, Acquisto e perdita della nazionalità nella legislazione comparata e nel diritto internazionale, Milano, 1907, p. 361.

[55] Per queste considerazioni, si veda A. Dardeau de Carvalho, Nacionalidade e cidadania, Rio de Janeiro, 1956, p. 14-15.

[56] Ancora A. Dardeau de Carvalho, Nacionalidade e cidadania, cit., p. 14.

[57] Ad ogni modo, R. Clerici, La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 184, ricorda che: “Riguardo al criterio del collegamento effettivo, i modi di acquisto (e di riacquisto) della cittadinanza italiana sembrano manifestare un sufficiente ‘attacco’ con la realtà sociale dello Stato italiano. Sia taluni status familiari sia la residenza sia infine la prestazione di alcune attività a favore dello Stato medesimo sono considerati infatti criteri sufficienti ai fini indicati”.

[58] Così ancora Cass. civ., sez. un., 25 febbraio 2009, n. 4466, nonché Cass., civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317 e 25318.

[59] Come ci ricorda C. Panzera, La cittadinanza come diritto e come problema nello Stato costituzionale, in Rivista AIC, 2024, n. 3, § 5, in file:///Users/mac/Downloads/La_cittadinanza_come_diritto_e_come_prob.pdf

[60] Così nuovamente C. Panzera, La cittadinanza come diritto e come problema nello Stato costituzionale, cit., § 5.

[61] In questo senso, A. F. Panzera, Limiti internazionali in materia di cittadinanza, Napoli, 1984, p. 191 ss.

[62] Nuovamente, si veda A. F. Panzera, Limiti internazionali in materia di cittadinanza, p. 191-192, anche in nota, il quale riporta le classificazioni proposte da J.P.A. François, Les problèmes des apatrides, in The Hague Academy Collected Courses Online / Recueil des cours de l’Académie de La Haye, 1935, p. 293 ss.

[63] Sia permesso di rinviare a: G. Bonato, Grande naturalizzazione brasiliana e cittadinanza italiana (osservazioni su una recente pronuncia della App. Roma), in https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2021/09/Giovanni-Bonato.pdf; G. Bonato-R. De Simone, Analisi della doppia cittadinanza e della rinuncia espressa alla luce delle ultime sentenze della App. Roma, in https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2022/07/Bonato-De-Simone-1.pdf; G. Bonato, La Grande Naturalizzazione brasiliana non causò la perdita della cittadinanza italiana, in Giur. It., 2023, p. 2358 ss.

[64] La disciplina della perdita della cittadinanza era contenuta nel già citato art. 11 del codice civile del 1865, secondo cui: “La cittadinanza si perde: 1°. Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l’uffiziale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza; 2°. Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero; 3°. Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera”.

[65] A seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 555 del 1912, la perdita volontaria dello status civitatis veniva disciplinata negli artt. 7 e 8. L’art. 7 della richiamata Legge del 1912 disciplinava il caso di coloro che possedevano una doppia cittadinanza fin dalla nascita, ossia quella italiana in base all’applicazione del criterio dello ius sanguinis e una seconda in ragione dell’applicazione del criterio dello ius soli; mentre l’art. 8 regolava l’ipotesi dei cittadini italiani che acquisivano una cittadinanza straniera nel corso della vita. In particolare, l’art. 7 disponeva che: “Salve speciali disposizioni da stipulare con trattati internazionali, il cittadino italiano nato e residente in uno Stato estero, dal quale sia ritenuto proprio cittadino per nascita, conserva la cittadinanza italiana, ma, divenuto maggiorenne o emancipato, può rinunziarvi”. Sul punto, il legislatore del 1912 si limitava a recepire e formalizzare quanto già applicato dalla giurisprudenza dell’epoca sui casi di doppia cittadinanza dei figli degli emigranti italiani, nati in Paesi dove vigeva lo ius soli. In questi casi, l’art. 7 della Legge del 1912 chiariva anche che tali individui, doppi cittadini fin dalla nascita, potevano rinunciare, in maniera espressa, alla cittadinanza italiana al raggiungimento della maggiore età, se risiedevano nel paese di cui avevano la seconda cittadinanza. Quanto all’art. 8, questo prescriveva espressamente: “Perde la cittadinanza: 1. Chi spontaneamente acquista una cittadinanza straniera e stabilisce o ha stabilito all’estero la propria residenza; 2. chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana e stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza”.

[66] L’art. 10-bis dispone che: “1. La cittadinanza italiana acquisita ai sensi degli articoli 4, comma 2, 5 e 9, è revocata in caso di condanna definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), n. 4), del codice di procedura penale, nonché per i reati di cui agli articoli 270-ter e 270-quinquies.2, del codice penale. La revoca della cittadinanza è adottata, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati di cui al primo periodo, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno”. Su cui si veda B. Barel, op. cit., p. 407 ss.

[67] In questa direzione, si veda S. Marinai, Perdita della cittadinanza e diritti fondamentali, Milano, 2017, p. 61.

[68] Così ancora S. Marinai, Perdita della cittadinanza e diritti fondamentali, cit., p. 61.

[69] In materia si veda S. Marinai, Perdita della cittadinanza e diritti fondamentali, cit. p. 61 e ss.

[70] Così A. F. Panzera, Limiti internazionali in materia di cittadinanza, p. 188, nota 103.

[71] Su tale provvedimento si veda: G. Légier, La législation relative à la nationalité française durant la Première Guerre mondiale, in https://droit.cairn.info/revue-critique-de-droit-international-prive-2014-4-page-751?lang=fr

[72] Sulle leggi sovietiche del 1921 e del 1925 si rinvia a Marianai, op. cit., p. 62; nonché a E. Lapenna, La cittadinanza nel diritto internazionale generale, Milano, 1966, p. 132.

[73] L’art. 5 della legge n. 2008/1926 disponeva, in particolare, che: “Il cittadino che, fuori del territorio dello Stato, diffonde o comunica, sotto qualsiasi forma, voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato, per modo da menomare il credito o il prestigio dello Stato all’estero, o svolge comunque una attività tale da recar nocumento agli interessi nazionali, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni, e con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nella ipotesi preveduta dal presente articolo, la condanna pronunciata in contumacia importa, di diritto, la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni. Il giudice può sostituire alla confisca il sequestro; in tal caso esso ne determina la durata e stabilisce la destinazione delle rendite dei beni”.

[74] Su cui si veda A. Lotto, Le “Leggi di Norimberga”, in Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n5-6/15_Lotto_Norimberga-a.pdf, ove si rinviene la traduzione della Legge sulla Cittadinanza, annunciata nel corso del Congresso del Partito a Norimberga il 15 settembre 1935, secondo cui: “L’appartenenza allo Stato si acquista secondo le disposizioni della Legge di appartenenza al Reich e allo Stato” (par. 1, 2). “È cittadino del Reich solo l’appartenente allo Stato di sangue tedesco o affine, il quale dimostri con la sua condotta la volontà e la capacità di servire fedelmente il Popolo tedesco e il Reich” (par. 2, 1); 3. “Solo il cittadino del Reich è detentore dei pieni diritti politici in conformità con le leggi” (par. 2, 3). Si veda anche https://www.assemblea.emr.it/cittadinanza/per-approfondire/formazione-pdc/viaggio-visivo/lideologia-nazista-e-il-razzismo-fascista/la-discriminazione-degli-ebrei-tedeschi/le-leggi-di-norimberga/approfondimenti/le-leggi-di-norimberga

[75] Si veda il “Parere giuridico relativo ai decreti Beneö e all’adesione della Repubblica ceca all’Unione europea”, a cura di Prof. Dott. Dres. h.c. Jochen A. Frowein Prof. Dott. Ulf Bernitz Rt. Hon. Lord Kingsland Q.C., in https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/etudes/join/2002/323934/DG-4-AFET_ET(2002)323934_IT.pdf, p. 21, ove si legge che “Sulla base del decreto sulla cittadinanza (n. 33/1945), molti ex cecoslovacchi considerati di etnia tedesca o ungherese persero la cittadinanza cecoslovacca. Per coloro che avevano acquisito la cittadinanza tedesca o ungherese sulla base di diversi trattati o regolamenti, questa privazione fu retroattiva”.

[76] Su cui si veda F. Marinai, Perdita della cittadinanza e diritti fondamentali, cit., p. 65, il quale riferisce della decisione adottata durante il regime di Saddam Hussein con cui vennero privati della cittadinanza gli iracheni di discendenza straniera (compresi i Faili curdi), “che non fossero in grado di provare la loro lealtà alla nazione”. Si rinvia all’A., anche per l’analisi di altri casi, tra cui: quello della Mauritania, ove nel 1989 sono stati privati della cittadinanza gli appartenenti alla minoranza non araba dei Black Mauritanian; quello della privazione della cittadinanza etiope ai danni dei cittadini di origine eritrea, avvenuto durante la guerra tra Etiopia e Eritrei tra il 1998 e il 2000, al fine di espellere tale categoria di persone dalla Etiopia; quello della Libia, ove fino al 2010, era consentita “la privazione della cittadinanza per chiunque fosse considerato sionista o avesse visitato lo Stato di Israele”. Per un panorama sulle denazionalizzazioni di massa, si rinvia anche al Yearbook of the international law commision, 1952, vol. 2, p. 10 ss., in cui si menzionano i casi di “mass denationalization”.

[77] Si tratta di Tribunal Constitucional, sentencia TC/0168/13, 23 settembre 2013, Expediente n. TC-05-2012-0077, in https://www.refworld.org/jurisprudence/caselaw/drcc/2013/en/98039, di cui ci riferisce F. Marinai, Perdita della cittadinanza e diritti fondamentali, cit., p. 68. Nella citata sentenza si afferma che: “El consenso ha determinado que la señora Juliana Dequis (o Deguis) Pierre, si bien nació en el territorio nacional, es hija de ciudadanos extranjeros en tránsito, lo cual la priva del derecho al otorgamiento de la nacionalidad dominicana, de acuerdo con la norma prescrita por el artículo 11.1 de la Constitución de la República promulgada el veintinueve (29) de noviembre de mil novecientos sesenta y seis (1966), vigente a la fecha de su nacimiento, por lo que se ha agravado su situación, al despojarla de la nacionalidad dominicana, dejarla en estado de apátrida y constreñirla a solicitar la nacionalidad haitiana. De ahí que en atención al efecto inter comunis que ha abrazado el consenso, miles de personas que nacieron en suelo dominicano y sus padres sean de origen haitiano, aun cuando hayan sido declarados en el registro civil, como lo fue Juliana Deguis, serán también desnacionalizados, máxime cuando las medidas que contiene la presente sentencia se retrotraen al veintiuno (21) de junio de mil novecientos veintinueve (1929)”.

[78] Sul punto C. Cost., 9 aprile 1975, n. 87.

[79] Così: Cass., 3 novembre 2016, n. 22271; Cass. civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317 e 25318.

[80] Così Cass. civ., sez. un., 25 febbraio 2009, n. 4466.

[81] Così: Corte di Cassazione di Napoli, 5 ottobre 1907; Cass. civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317 e 25318.

[82] Per questa constatazione già M. Vianello-Chiodo, La cittadinanza del nostro emigrato, Roma, 1910, p. 23, secondo cui l’imposizione forzata della cittadinanza era “in contraddizione aperta col diritto già riconosciuto all’individuo di affermare la propria volontà di mutare o meno la nazionalità originaria”. Per altri riferimenti dottrinali, sia permesso di rinviare a G. Bonato, Grande naturalizzazione brasiliana e cittadinanza italiana (osservazioni su una recente pronuncia della App. Roma), cit., § 4 e ss.

[83] C. Cost., n. 87 del 1975. Sul punto si veda anche R. Clerici, op. cit., p. 369.

[84] Cosi sentenza del 5 settembre 2023, causa C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, punto 39, ove di legge: “La perdita ipso iure della cittadinanza di uno Stato membro sarebbe incompatibile con il principio di proporzionalità se le norme nazionali pertinenti non consentissero, in nessun momento, un esame individuale delle conseguenze determinate da tale perdita, per gli interessati, sotto il profilo del diritto dell’Unione”; in senso conforme e in precedenza anche la sentenza del 12 marzo 2019, Tjebbes e a., C‑221/17, punto 41.

[85] Cosi sentenza del 5 settembre 2023, causa C-689/21, Udlændinge- og Integrationsministeriet, punto 41: “il diritto dell’Unione non impone alcun termine preciso per la presentazione di una domanda diretta a un siffatto esame. Spetta quindi all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, nella fattispecie dei diritti connessi alla cittadinanza dell’Unione, purché, in particolare, tali modalità rispettino il principio di effettività in quanto non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 16 dicembre 1976, Rewe-Zentralfinanz e Rewe-Zentral, 33/76, EU:C:1976:188, punto 5, nonché del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 46)”. Nella sentenza si legge anche che: “In tale contesto, la Corte ha riconosciuto la compatibilità con il diritto dell’Unione della fissazione di termini ragionevoli di ricorso a pena di decadenza nell’interesse della certezza del diritto. Infatti, siffatti termini non sono tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione [sentenze del 12 febbraio 2008, Kempter, C‑2/06, EU:C:2008:78, punto 58, nonché del 9 settembre 2020, Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (Rigetto di una domanda ulteriore – Termine di ricorso), C‑651/19, EU:C:2020:681, punto 53]. Ne consegue che gli Stati membri possono esigere, in nome del principio della certezza del diritto, che una domanda di mantenimento o di riacquisto della cittadinanza sia presentata alle autorità competenti entro un termine ragionevole” (punti 42 e 43).

[86] S. Marinai, op. cit., p. 207 ss., il quale aggiunge che è “indubbio, comunque, che (…) le ipotesi di privazione arbitraria o discriminatoria della cittadinanza, vengano oggi percepite come illegittime dalla comunità internazionale nel suo complesso”.

[87] CGUE, sentenza 2 marzo 2010, C-135/08, punto 53.

[88] Corte CEDU, sentenza del 21 giugno 2016, Ramadan c. Malta, n. 76136/12, § 85, in cui si afferma che: “Indeed, most of the cases concerning citizenship brought before the Court since the above-mentioned development in the case-law have concerned applicants claiming the right to acquire citizenship and the denial of recognition of such citizenship (see, for example, Karassev, cited above), as opposed to a loss of citizenship already acquired or born into. Nevertheless, the Court considers that the loss of citizenship already acquired or born into can have the same (and possibly a bigger) impact on a person’s private and family life. It follows that there is no reason to distinguish between the two situations and the same test should therefore apply. Thus, an arbitrary revocation of citizenship might in certain circumstances raise an issue under Article 8 of the Convention because of its impact on the private life of the individual. Therefore, in the present case it is necessary to examine whether the decisions of the Maltese authorities disclose such arbitrariness and have such consequences as might raise issues under Article 8 of the Convention”; Corte CEDU, decisione del 7 febbraio 2017, K2 c. Regno Unito, n. 42387/13, § 49, in cui si afferma che: “The Court has accepted that an arbitrary denial of citizenship might, in certain circumstances, raise an issue under Article 8 of the Convention because of its impact on the private life of the individual (see Karassev v. Finland (dec.), no. 31414/96, ECHR 1999-II; Slivenko v. Latvia (dec.) [GC], no. 48321/99, § 77, ECHR 2002-II; Savoia and Bounegru v. Italy (dec.), no. 8407/05, 11 July 2006; and Genovese v. Malta, no. 53124/09, § 30, 11 October 2011). Recently the Court has accepted that the same principles must apply to the revocation of citizenship already obtained, since this might lead to a similar – if not greater – interference with the individual’s right to respect for family and private life (see Ramadan v. Malta, no. 76136/12, § 85, ECHR 2016 (extracts)). In determining whether a revocation of citizenship is in breach of Article 8, the Court has addressed two separate issues: whether the revocation was arbitrary; and what the consequences of revocation were for the applicant”.

[89] Sulla doppia cittadinanza si vedano G. Bonato e R. De Simone, Analisi della doppia cittadinanza e della rinuncia espressa alla luce delle ultime sentenze della Corte d’Appello di Roma, cit.

[90] Si vedano le pagine 24 e 25 della Relazione governativa, pubblica in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/comm/59017_comm.htm

[91] Si tratta del procedimento che scompone la fattispecie astratta, al fine di individuare i fatti costitutivi e i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi. Su tale procedimento, si veda S. Patti, Le prove, 2° ed., Milano, 2021, p. 81 e ss., il quale ricorda che i fatti vanno suddivisi in quattro categorie: “costitutivi, dei quali occorre fornire la prova affinché possa considerarsi venuto ad esistenza il diritto che si fa valere; impeditivi, che vengono “eccepiti” e devono essere provati da colui che resiste alla domanda per dimostrare l’inefficacia di tali fatti”; estintivi, dei quali deve dare la prova colui che resiste alla domanda per dimostrare che il diritto, pur essendo sorto, è venuto meno; modificativi, dei quali deve dare la prova colui che resiste alla domanda per dimostrare che il contenuto del diritto non è più quello originario”.

[92] Sul fatto impeditivo si vedano anche: G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1935, p. 5; P. Senofonte, Il fatto impeditivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 1525 ss.

[93] L’art. 7 della legge n. 555/1912 disponeva che: “Salve speciali disposizioni da stipulare con trattati internazionali, il cittadino italiano nato e residente in uno Stato estero, dal quale sia ritenuto proprio cittadino per nascita, conserva la cittadinanza italiana, ma, divenuto maggiorenne o emancipato, può rinunziarvi”.

[94] L’art. 11 della legge n. 91/1992 dispone che: “Il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all’estero”.

[95] Per maggiori dettagli sull’evoluzione della doppia cittadinanza, si rinvia nuova nuovamente a G. Bonato – R. De Simone, Analisi della doppia cittadinanza e della rinuncia espressa, cit.

[96] G. Biscottini, Cittadinanza, Diritto vigente, in Enciclopedia  del  diritto,  vol.  VII,  Milano  1960,  p. 155, il quale aggiungeva che “l’orientamento della nostra legislazione”, al pari di altre normative nazionali, è quello “di negare ogni rilievo alla cittadinanza straniera acquistata e conservata in costanza di quella italiana. Essa, invero, pur evitando di prendere posizione sul problema, ignora la concorrente cittadinanza straniera”.

[97] Da rilevare che l’art. 5 della citata Convenzione sul conflitto di nazionalità dispone: “Dans un État tiers, l’individu possédant plusieurs nationalités devra être traité comme s’il n’en avait qu’une. Sans préjudice des règles de droit appliquées dans l’État tiers en matière de statut personnel et sous réserve des conventions en vigueur, cet État pourra, sur son territoire, reconnaître exclusivement, parmi les nationalités que possède un tel individu, soit la nationalité du pays dans lequel il a sa résidence habituelle et principale, soit la nationalité de celui auquel, d’après les circonstances, il apparaît comme se rattachant le plus en fait”.

[98] Il problema del c.d. doppio ius sanguinis venne affrontato dalla Legge del 21 aprile del 1983 n. 123 (successivamente abrogata dalla Legge n. 91 del 1992), il cui art. 5 prevedeva che: “È cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo, di padre cittadino o di madre cittadina. Nel caso di doppia cittadinanza, il figlio dovrà optare per una sola cittadinanza entro un anno dal raggiungimento della maggiore età”. La citata legge, al fine di tentare di ridurre i casi di bipolidia per nascita derivanti dall’applicazione del principio di uguaglianza rispetto alla trasmissione della cittadinanza per discendenza, aveva introdotto un meccanismo di opzione tra le due le cittadinanze possedute dal “bipolide per nascita ius sanguinis”, in quanto il figlio di cittadino/a italiano/a e di straniero/a, doveva scegliere uno dei due status, entro un anno dal raggiungimento della maggiore età (B. Barel, Legge 15 maggio 1986, n. 180, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1986, p. 1172). Tale “dovere di opzione” riguardava solo la doppia e plurima cittadinanza acquisita per filiazione, non riguardando il “concorso di cittadinanze venutosi a creare per il sovrapporsi del criterio dello ius sanguinis a quello dello ius soli”, essendo tale ipotesi già contemplata dall’art. 7 della Legge n. 555 del 1912 (R. Clerici, Cittadinanza, cit., p. 122). Ad ogni modo, l’art. 5 della legge n. 123 del 1983 poteva indurre a ritenere l’introduzione di un’opzione obbligatoria tra le due cittadinanze possedute, introducendo una sorta di “clausola di incompatibilità” nei confronti dei doppi cittadini ius sanguinis, lasciando pensare alla configurabilità della soluzione della perdita della cittadinanza italiana per il bipolide in caso di omissione della scelta entro il termine indicato. Tuttavia, la dottrina più attenta e sensibile – che aveva avuto modo di commentare la disposizione in esame – aveva fatto notare che la mancata scelta tra le due cittadinanze (ossia il non esercizio dell’opzione), di cui all’art. 5, comma 2, non avrebbe provocato la “privazione della cittadinanza italiana ed il disconoscimento” della cittadinanza straniera; né una eventuale opzione in favore della sola cittadinanza italiana avrebbe prodotto effetti automatici nell’ordinamento straniero, di cui l’individuo possedeva la cittadinanza (C. Romanelli Grimaldi, Cittadinanza, cit., § 2.2.1; B. Barel, Legge 15 maggio 1986, n. 180, cit., p. 1172, secondo cui la legge non impone quindi la cessazione della condizione di bipolidia). Proprio in ragione delle difficoltà interpretative, create dall’art. 5 della Legge n. 123 del 1983, della sua sostanziale ingiustizia nei confronti degli individui bipolidi per discendenza paterna e materna (bipolidi per duplice ius sanguinis) e visto il contrasto con l’art. 7 della Legge n. 555 del 1912 (bipolidi per ius sanguinis e ius soli), il Parlamento aveva approvato la legge n. 180 del 1986, con la quale veniva di fatto sospeso l’obbligo di opzione. In seguito, l’art. 5 della legge n. 123 del 1983, ostile nei confronti dei bipolidi per discendenza paterna e materna, verrà espressamente abrogato dall’art. 26, comma 2, della legge n. 91 del 1992, la quale ha messo la parola fine al richiamato “obbligo di opzione” tra due cittadinanze.

[99] Si vedano le pagine 24 e 25 della Relazione governativa, pubblicata in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/comm/59017_comm.htm

[100] Dello stesso avviso N. Brutti, op. cit., il quale in relazione al decreto Tajani scrive: “non si tratta di una legge di interpretazione autentica, caso nel quale un eventuale effetto retroattivo sarebbe teoricamente ammissibile, ma della previsione di limiti neanche lontanamente desumibili dal testo originario”.

[101] G.B.C. Moraglia, La cittadinanza italiana secondo la Legge 13 giugno 1912, 555, Forlì, p. 347, il quale aggiungeva che: “Nessun dubbio può elevarsi sulla giustezza della norma”, di cui all’art. 19 della legge n. 555/1912.

[102] Per riferimenti al fenomeno della “Grande Naturalizzazione” brasiliana sia permesso di rinviare nuovamente a G. Bonato, Grande naturalizzazione brasiliana e cittadinanza italiana (osservazioni su una recente pronuncia della App. Roma), cit.; Id., La Grande Naturalizzazione brasiliana non causò la perdita della cittadinanza italiana, cit., p. 2358 ss.