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Il difetto di giurisdizione dopo la riforma Cartabia del processo civile
Di Gabriella Tota -
Sommario: 1. Introduzione. Il nuovo testo dell’art. 37 c.p.c. quale “adeguamento” della disciplina del difetto di giurisdizione alla (discutibile) evoluzione giurisprudenziale che l’ha interessata. – 2. Il difetto di giurisdizione «nei confronti della pubblica amministrazione»… – 3. Segue: …e quello «nei confronti del giudice amministrativo e dei giudici speciali». – 4. La legittimazione a sollevare la questione di giurisdizione. – 5. L’abrogazione dell’ipotesi di rimessione al primo giudice per ragioni di giurisdizione. – 6. Rilievi conclusivi. Il superamento ex positivo iure della nozione di “giudicato implicito” sulla giurisdizione (e sugli altri presupposti processuali).
1.Introduzione. Il nuovo testo dell’art. 37 c.p.c. quale “adeguamento” della disciplina del difetto di giurisdizione alla (discutibile) evoluzione giurisprudenziale che l’ha interessata.
In attuazione del criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 22, lett. c), l. 26 novembre 2021, n. 206, mediante il quale si era richiesto al legislatore delegato di «prevedere che il difetto di giurisdizione: 1) sia rilevabile nel giudizio di primo grado anche d’ufficio e nei successivi gradi del processo solo quando è oggetto di specifico motivo di impugnazione; 2) non sia eccepibile nel giudizio di gravame da parte dell’attore che ha promosso il giudizio di primo grado»[1], il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 ha riformulato l’art. 37 c.p.c.[2], differenziando radicalmente il regime del difetto assoluto di giurisdizione («nei confronti della pubblica amministrazione») da quello del difetto relativo («nei confronti del giudice amministrativo e dei giudici speciali»).
Se per il primo nulla muta quanto alla rilevabilità, su iniziativa di parte o ex officio, «in qualunque stato e grado del processo», per il secondo si prevede ora innovativamente che il rilievo e la declaratoria «anche d’ufficio» siano possibili senza limiti esclusivamente nel corso del giudizio di primo grado, mentre nei gradi successivi la questione è suscettibile di riemergere soltanto in virtù di uno «specifico motivo» di impugnazione proposto avverso la sentenza che abbia statuito (anche implicitamente?) sulla giurisdizione. Con l’ulteriore precisazione che, in tale ultima evenienza, l’attore «non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito», essendo dunque abilitato a dolersi unicamente dell’erronea absolutio ab instantia pronunciata dal giudice di primo grado che si sia ritenuto sfornito di giurisdizione.
La riforma ha così tradotto in precetti normativi le conclusioni cui la giurisprudenza di legittimità, facendo leva sulla discussa nozione di “giudicato implicito”, era da tempo pervenuta in punto di rilevazione officiosa del difetto di giurisdizione (che il previgente art. 37 c.p.c. consentiva in ogni stato e grado del processo).
Come è noto, già a partire dagli anni sessanta del secolo scorso la Cassazione aveva ritenuto che la mancata impugnazione della statuizione esplicita sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di merito precludesse al giudice d’appello o di cassazione il rilievo ex officio del difetto di giurisdizione, attesa l’intervenuta formazione del giudicato interno (esplicito) sul punto[3]. Tuttavia, è soltanto con l’indirizzo inaugurato da Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883[4] che il processo di erosione del disposto di cui all’art. 37 c.p.c. è stato portato a compimento, tramite l’equiparazione – ai fini della formazione del giudicato interno – tra la pronuncia esplicita sulla giurisdizione e quella c.d. implicita, derivante cioè dall’avere il giudice deciso una qualunque questione che, in quanto logicamente successiva, trovi nell’esistenza della giurisdizione il proprio indefettibile presupposto.
Secondo la Corte, «stante l’obbligo del giudice [asseritamente desumibile dalla regola della decisione per gradi di cui all’art. 276, comma 2, c.p.c., n.d.r.] di accertare l’esistenza della propria giurisdizione prima di passare all’esame del merito o di altra questione ad essa successiva, può legittimamente presumersi che ogni statuizione al riguardo contenga implicitamente quella sull’antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull’esistenza della giurisdizione, in difetto della quale non avrebbe potuto essere adottata»[5]; talché, «se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano ma non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dall’art. 329, comma 2, e dall’art. 324 c.p.c.».
Da qui la sostanziale “sterilizzazione” del contenuto precettivo dell’art. 37 c.p.c., posto che il rilievo del difetto di giurisdizione, lungi dall’essere ammesso «in qualunque […] grado del processo», sarebbe stato possibile nei gradi di giudizio successivi al primo solamente a fronte di uno specifico motivo di impugnazione: e ciò anche quando, non avendo la sentenza impugnata preso in alcun modo posizione sul profilo attinente alla giurisdizione del giudice adìto, la statuizione quanto all’esistenza di siffatto presupposto processuale si risolvesse in una merafinzione.
Tale soluzione, prospettata come l’unica in grado di garantire la compatibilità dell’art. 37 c.p.c. con il canone della ragionevole durata del processo [la cui «piena ed efficace realizzazione… ben può (e deve) ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del giudice adito possa emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio»[6]], non era peraltro immune da censure.
All’indirizzo giurisprudenziale ora ricordato si opponeva anzitutto che la previsione dell’art. 276, comma 2, c.p.c. – per la quale il giudice «decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa» – non comporta affatto un «obbligo del giudice di accertare l’esistenza della propria giurisdizione prima di passare all’esame del merito», né tanto meno può essere intesa nel senso che «la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione» (e, deve ritenersi, sugli altri presupposti processuali) anche quando sul punto sia mancata qualunque statuizione espressa. Quel che la disposizione citata prevede è soltanto la necessità – dettata da ragioni di economia processuale – che, in sede di deliberazione della sentenza, la pronuncia sulla giurisdizione (e sulle altre questioni litis ingressum impedientes) preceda la decisione sul merito: ma ciò, beninteso, sul presupposto che il profilo relativo alla giurisdizione abbia avuto modo di emergere quale oggetto di discussione nel corso del giudizio, divenendo “questione” tramite l’eccezione di parte o il rilievo officioso (ché, altrimenti, nessun obbligo di pronuncia sarebbe configurabile in capo al giudice, né nella decisione di merito potrebbe ravvisarsi alcuna implicita conferma quanto alla sussistenza della giurisdizione)[7].
Per altro verso, la stessa applicabilità alla fattispecie in esame della previsione ex art. 329, comma 2, c.p.c. era posta in dubbio da chi osservava che la nozione di “parte” o “capo” di sentenza rilevante ai fini della c.d. acquiescenza presunta concerne esclusivamente pronunce idonee a passare in giudicato sostanziale e a divenire intangibili ove non impugnate, vale a dire statuizioni di merito. Laddove «con riguardo alla soluzione (esplicita ovvero implicita) di questioni pregiudiziali di rito non può parlarsi di passaggio in giudicato delle singole soluzioni poiché qui non vi è neppure alcun capo decisorio al cui riguardo possa davvero attagliarsi l’art. 329»[8].
In ogni caso, ove pure si fosse accolta una nozione lata di “capo” di sentenza, comprensiva anche delle pronunce sugli impedimenti processuali, avrebbe poi dovuto escludersi – si aggiungeva – che la mancata impugnazione della statuizione (esplicita o implicita) sulla giurisdizione determinasse la formazione del giudicato per acquiescenza sul punto, a tale risultato ostando proprio l’inequivoca previsione della rilevabilità d’ufficio della questione in qualsiasi stato e grado del processo[9].
Nonostante queste e altre condivisibili critiche, l’interpretatio abrogans dell’art. 37 c.p.c. propugnata dalla Cassazione è stata ribadita e ulteriormente precisata in numerose pronunce successive[10], finendo poi per essere recepita – con disposizioni di identico tenore – dapprima nel processo amministrativo e, quindi, in quello contabile[11].
Non deve dunque sorprendere che la soluzione della rilevabilità anche d’ufficio, ma solo in primo grado del difetto di giurisdizione sia stata infine accolta (sia pure soltanto nei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali) anche dai conditores della riforma del processo civile, che hanno così opportunamente adeguato la disposizione codicistica all’evoluzione giurisprudenziale sopra tratteggiata. Il tutto, peraltro, non senza ambiguità, che permangono principalmente – come si dirà a breve – quanto alla possibilità di configurare una statuizione (implicita) sulla giurisdizione ogni volta che, essendo sul punto mancata l’eccezione di parte, il giudice di primo grado abbia deciso il merito senza preliminarmente pronunciarsi sulla sussistenza della propria potestas iudicandi.
2.Il difetto di giurisdizione «nei confronti della pubblica amministrazione»…
Nel differenziare il regime del difetto assoluto di giurisdizione da quello del difetto relativo, il riformato art. 37 c.p.c. ha mantenuto per il primo il “vecchio” regime di rilevabilità, stabilendo che «il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo»[12].
Non dovrebbero pertanto più esservi dubbi sul fatto che, in tale ipotesi, la questione di giurisdizione sia conoscibile ex officio in qualunque momento della vicenda processuale, e persino per la prima volta in sede di legittimità, indipendentemente dalle scelte difensive compiute dalle parti e, quindi, anche quando queste ultime abbiano omesso di impugnare il capo della sentenza che ha esplicitamente (o implicitamente, secondo l’insegnamento della Cassazione) statuito sulla giurisdizione.
Con riguardo all’impedimento processuale in discorso, anzi, la stessa configurabilità di un autonomo “capo” di sentenza, suscettibile di passare in giudicato ove non impugnato, dovrebbe ormai ritenersi esclusa ex positivo iure[13]: sicché, se da un lato il giudice ad quem sarà abilitato a esaminare la questione anche in mancanza di una sua espressa (ri)proposizione con i mezzi di gravame, dall’altro lato la formulazione di uno specifico motivo di censura non risulterà necessaria neppure quando siano le parti a dedurre il difetto di giurisdizione[14]. A voler ritenere diversamente, e cioè che – anche dopo la riforma dell’art. 37 c.p.c. – la previsione della rilevazione d’ufficio «in qualunque grado» debba coordinarsi con il principio di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c.[15], verrebbe meno (a tacer d’altro) ogni apprezzabile differenza di disciplina tra il difetto assoluto e quello relativo[16], posto che nell’uno come nell’altro caso il rilievo della carenza di giurisdizione in fase di gravame resterebbe condizionato all’impugnazione di parte; laddove l’intento dei conditores era chiaramente quello di marcare la diversità tra le due tipologie di “vizio”, prevedendo per la più grave di esse un regime di rilevazione assai più rigoroso e perciò affrancato dall’osservanza delle regole che presiedono alla formazione del c.d. giudicato interno[17].
Ciò posto, è allora evidente che l’incontrovertibilità della questione di giurisdizione (sia stata essa esaminata o meno dal primo giudice), con la conseguente preclusione al rilievo officioso dell’impedimento nel prosieguo dell’iter processuale, potrebbe nella specie scaturire esclusivamente da un anteriore giudicato sostanziale e, segnatamente, dal passaggio in giudicato di una sentenza (non definitiva) di merito pronunciata nel corso del giudizio e non impugnata[18].
È noto che, in casi come questo, la giurisprudenza suole discorrere di “giudicato implicito”[19], e afferma costantemente che «il giudicato implicito si forma sulle questioni e sugli accertamenti che costituiscono il presupposto logico indispensabile di una questione o di un accertamento sul quale si sia formato un giudicato esplicito»[20], intendendo con ciò alludere all’indiscutibilità dei presupposti logico-giuridici (tra i quali è la giurisdizione) della decisione di merito che sia passata in giudicato.
A ben vedere, però, quello che nell’ipotesi appena descritta rende incontrovertibile la questione di giurisdizione non è tanto il (preteso) giudicato implicito sulla stessa formatosi, quanto piuttosto il giudicato intervenuto sulla statuizione di merito, il quale assorbe tutte le questioni relative alla regolare instaurazione del rapporto processuale, impedendo di (ri)valutare nel prosieguo del giudizio i presupposti processuali sulla cui sussistenza l’accertamento sostanziale si è fondato[21].
Trattasi, insomma, di un fenomeno che discende dalla piana applicazione dei principî in tema di effetti positivi del giudicato sostanziale[22], e rispetto al quale appare superfluo, se non proprio fuorviante, prospettare l’esistenza di un autonomo capo di sentenza sulla giurisdizione e di un conseguente “giudicato” su tale questione.
3.Segue: …e quello «nei confronti del giudice amministrativo e dei giudici speciali».
Ad altra conclusione deve invece pervenirsi – giusta la previsione dell’art. 37, secondo e terzo periodo, c.p.c. – allorché il difetto di giurisdizione del giudice ordinario si manifesti nei confronti del giudice amministrativo e degli altri giudici speciali.
In tale ipotesi, infatti, l’impedimento processuale può essere rilevato d’ufficio esclusivamente «nel giudizio di primo grado», e cioè – deve ritenersi – in qualunque momento di tale giudizio fino a quando la causa non sia rimessa in decisione. Mentre nelle fasi di impugnazione il rilievo è consentito a condizione che la pronuncia sulla giurisdizione contenuta nella sentenza impugnata abbia formato «oggetto di specifico motivo» di censura: il che esclude, tra l’altro, che il dibattito sulla questione pregiudiziale di rito possa riaprirsi in sede di legittimità quando, sollevata l’eccezione in primo grado, la statuizione resa sul punto dal primo giudice non sia stata successivamente appellata[23].
Se la riscrittura in parte qua dell’art. 37 c.p.c. appare senz’altro opportuna in chiave di contenimento dei tempi del processo[24], la scadente fattura tecnica della norma è nondimeno foriera di incertezze sul piano applicativo. E invero, anche a voler trascurare l’impropria – ma tutto sommato priva di conseguenze – distinzione tra il «giudice amministrativo» e i «giudici speciali», che compare anche nell’art. 362 c.p.c. e che non era invece presente nel testo della disposizione di delega, non è chiaro quale sia l’oggetto dell’impugnazione e, in particolare, se quest’ultima riguardi esclusivamente pronunce espresse sulla giurisdizione (con l’asserita conseguenza che, qualora il giudice di primo grado non si sia pronunciato sulla questione, e manchi dunque una statuizione impugnabile, la carenza di giurisdizione resterebbe deducibile in appello con una semplice eccezione proposta ai sensi dell’art. 346 c.p.c.[25]) o possa investire anche statuizioni implicite, come da tempo ritenuto dal giudice di legittimità.
Per quanto la prima soluzione appaia preferibile, in omaggio al risalente insegnamento per cui «una questione non esaminata è semplicemente una questione non risolta»[26], l’adesione al secondo capo dell’alternativa si impone – a parere di chi scrive – per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, in considerazione del tenore testuale della norma, che, nell’attribuire rilevanza all’impedimento processuale de quo «solo se oggetto di specifico motivo», non può che leggersi nel senso della necessità di un’apposita impugnazione della sentenza quanto al profilo attinente alla giurisdizione: e tanto, evidentemente, sul presupposto che anche il “silenzio” della sentenza che abbia pronunciato solo sul merito configuri – nell’ottica del legislatore – una statuizione suscettibile di impugnazione[27]. Poi, in virtù del coordinamento della disposizione in esame con le “omologhe” previsioni di cui ai citati artt. 9 cod. proc. amm. e 15 cod. giustizia contabile[28]: le quali, nel sancire l’impugnabilità del capo della sentenza che, anche «in modo implicito», ha statuito sulla giurisdizione, hanno ormai ratificato una soluzione che non può non valere – tanto più alla luce degli approdi giurisprudenziali di cui si è detto – anche nell’àmbito del processo civile.
Giova piuttosto osservare che, quante volte oggetto dell’appello sia una statuizione implicita, l’onere di specificità dei motivi di impugnazione non potrà essere compiutamente assolto dall’appellante, al quale risulterà in molti casi preclusa finanche l’indicazione (oggi prevista a pena di inammissibilità dal riformato art. 342, comma 1, n. 1 c.p.c.) del «capo della decisione di primo grado che viene impugnato». Come si è esattamente rilevato, dunque, «l’appello (principale o incidentale) si tradurrà in questi casi nella sostanziale formulazione di una eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito»[29]: con una soluzione che attenua, quanto meno sul piano operativo, la distanza tra l’opzione ricostruttiva qui preferita e quella ad essa alternativa sopra ricordata.
4.La legittimazione a sollevare la questione di giurisdizione.
Come anticipato, la deducibilità in sede di gravame della questione di giurisdizione risulta limitata anche sotto il profilo soggettivo, essendosi previsto che «l’attore non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito» (art. 37, terzo periodo, in fine)[30].
È noto che già la giurisprudenza di legittimità – a partire da Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260[31] – aveva escluso la legittimazione dell’attore, il quale avesse incardinato la causa dinanzi a un giudice e fosse poi risultato soccombente nel merito, a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto: e tanto sul rilievo che, avendo ottenuto una decisione di merito (ancorché di segno sfavorevole) sul proprio diritto, costui non potesse considerarsi soccombente rispetto al “capo” (esplicito o implicito) della sentenza relativo alla giurisdizione.
La disposizione in commento recepisce tale indirizzo, confermando così l’idea che, in un contesto segnato dalla «considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale»[32], non sia meritevole di tutela il ripensamento secundum eventum litis dell’attore che, rimasto soccombente nel merito in primo grado, contesti la giurisdizione del giudice adìto per (tentare di) diminuire la portata della propria soccombenza in appello, trasformandola in soccombenza di mero rito (non preclusiva della possibilità di ottenere, previa declinatoria di giurisdizione e successiva translatio iudicii, l’accoglimento della domanda da parte di un giudice appartenente a un diverso plesso giurisdizionale).
Come evidenziato anche dalla Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022, alla base di tale scelta legislativa è, dunque, il principio di autoresponsabilità (in virtù del quale l’attore, «dopo avere individuato la giurisdizione… davanti a cui radicare la causa, non può poi più andare in contrasto con la sua scelta»[33]); o, forse più correttamente, il principio di coerenza[34], che impone di neutralizzare (nella specie, mediante la sanzione dell’inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato con il gravame) gli effetti utili altrimenti ritraibili dal comportamento incoerente tenuto dalla parte nel corso del processo.
Ne consegue che, quante volte il giudizio di primo grado si sia concluso con una decisione di merito, solamente il convenuto sarà legittimato a impugnare (a seconda dei casi, con l’appello principale o con quello incidentale) la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione: sempre che, beninteso, egli non abbia aderito in primo grado alla scelta compiuta dall’attore, chiedendo a propria volta al giudice di dichiararsi munito di giurisdizione.
Analogo potere non spetta invece all’attore, il quale non potrebbe dedurre in appello la carenza di giurisdizione del giudice da lui scelto neppure quando tale ius poenitendi fosse stato già esercitato nel giudizio di primo grado mediante la sollecitazione del potere di rilievo officioso. Come si è rilevato, «l’attore […] non è titolare di alcuna situazione (processuale) protetta, che gli consenta di lamentarsi di vizi processuali a lui imputabili»[35]: egli può, dunque, certamente segnalare al giudice l’opportunità di una verifica d’ufficio quanto alla sussistenza della giurisdizione, ma non è legittimato a impugnare la sentenza qualora il giudice ignori la sua segnalazione o la disattenda, confermando la propria potestas iudicandi[36].
5.L’abrogazione dell’ipotesi di rimessione al primo giudice per ragioni di giurisdizione.
Nell’attuare il criterio di delega di cui all’art. 1, comma 8, lett. o), l. 206/2021, che aveva affidato al legislatore delegato il compito di «riformulare gli artt. 353 e 354 c.p.c., riducendo le fattispecie di rimessione della causa in primo grado ai casi di violazione del contraddittorio», il d.lgs. 149/2022 ha abrogato l’art. 353 c.p.c.[37], che regolava la fattispecie dell’erronea declaratoria del difetto di giurisdizione[38].
In conseguenza della modifica, il giudice d’appello che ritenga sussistente la giurisdizione negata dal primo giudice non potrà più rimettere la causa a quest’ultimo, ma dovrà pronunciare sostitutivamente nel merito[39], se del caso svolgendo le attività che non era stato possibile svolgere in primo grado. Ed è appunto a tal fine che il novellato comma 3 dell’art. 354 c.p.c. prevede che, in questo come in ogni altro caso in cui dichiari la nullità di atti compiuti in primo grado, il giudice «ammette le parti a compiere le attività che sarebbero precluse e ordina, in quanto possibile, la rinnovazione degli atti a norma dell’art. 356».
L’intervento riformatore, da tempo auspicato dalla dottrina[40], appare senz’altro opportuno: non soltanto in chiave di assicurazione della ragionevole durata del processo (quale principio di rango costituzionale destinato a prevalere sull’esigenza di tutelare il doppio grado di giudizio), ma anche perché idoneo a porre fine una volta per tutte all’assai poco giustificabile disparità di trattamento[41] in precedenza riscontrabile tra la fattispecie in esame e le innumerevoli altre ipotesi (carenza di una condizione dell’azione, esistenza di un precedente giudicato, incompetenza dichiarata dal giudice di pace, etc.) in cui, pur essendosi il giudizio di primo grado concluso con un’erronea pronuncia di absolutio ab instantia, il giudice d’appello che riformasse la sentenza non poteva rimettere gli atti al primo giudice, ma doveva egli stesso decidere la causa nel merito[42].
Quel che nondimeno lascia perplessi della nuova disciplina è la previsione del cennato comma 3 dell’art. 354 c.p.c., che, nel regolare le conseguenze dell’accoglimento del gravame, estende all’ipotesi dell’erronea declinatoria di giurisdizione il medesimo regime previsto per il caso in cui sia dichiarata la nullità di atti compiuti in primo grado, disponendo che in vista della pronuncia nel merito il giudice d’appello ammetta le parti a compiere le attività che sarebbero loro precluse.
Come si è osservato, non è agevole cogliere il senso di tale «generalizzata rimessione in termini»[43]: e invero, se nel caso della nullità non sanata di atti compiuti in primo grado «la restituzione delle parti nel potere di compiere tutte le attività processuali che sono state impedite dalla nullità rappresenta la naturale conseguenza del potere-dovere del giudice che dichiara la nullità di disporre, per quanto possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende (art. 162, comma 1°, c.p.c., di cui l’art. 354, ult. comma, costituisce un’applicazione)»[44], non altrettanto è a dirsi allorché il giudice d’appello abbia riconosciuto sussistente la giurisdizione negata dal primo giudice.
In tale ipotesi non vi è, a rigore, alcuna nullità di atti processuali la cui sanatoria imponga l’esercizio del potere-dovere di rinnovazione, sicché l’utilità della rimessione in termini potrebbe apprezzarsi unicamente nel caso in cui risulti che l’erronea chiusura in rito del processo ha concretamente impedito alle parti l’esercizio di una o più delle loro prerogative processuali. Una simile evenienza, tuttavia, difficilmente potrà darsi nel nuovo sistema delineato dalla riforma, nel quale le preclusioni assertive e probatorie maturano ormai (ai sensi dell’art. 171-ter c.p.c.) in epoca anteriore all’udienza di trattazione, e dunque ben prima che il giudice possa disporre la rimessione della causa in decisione (ex art. 187, comma 3, c.p.c.) per la pronuncia della sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione[45].
Se è così, la scelta legislativa di riaprire indiscriminatamente in appello le facoltà difensive delle parti, riportandole per così dire nella posizione originaria, non sembra avere altra finalità che quella di neutralizzare, seppur solo parzialmente, gli effetti dell’abrogazione dell’art. 353 c.p.c., consentendo innanzi al giudice di secondo grado quella stessa rinnovazione integrale del giudizio che, prima della riforma, era possibile in esito alla rimessione della causa al primo giudice. Soluzione che, se da un lato compensa entro certi limiti la perdita di un grado di giudizio subìta dalle parti in conseguenza dell’errore del giudice, dall’altro lato ripropone fatalmente anche nel nuovo contesto la già ricordata disparità di trattamento rispetto alle altre ipotesi di erronea chiusura in rito del processo di primo grado, nelle quali l’accoglimento del gravame non comporta invece alcuna rimessione in termini (come in precedenza non comportava la restituzione della causa al primo giudice)[46].
6.Rilievi conclusivi. Il superamento ex positivo iure della nozione di “giudicato implicito” sulla giurisdizione (e sugli altri presupposti processuali).
È tempo di svolgere qualche considerazione conclusiva sulla disciplina fin qui sinteticamente illustrata.
In primo luogo, sembra possibile osservare che il regime del difetto di giurisdizione delineato dagli artt. 37 e 354 c.p.c. si discosta sensibilmente da quello previsto dal codice del processo amministrativo. Significative differenze si riscontrano, in particolare, sia in punto di rilevazione del difetto assoluto di giurisdizione, che l’art. 9 cod. proc. amm. consente entro gli stessi limiti previsti per la deduzione del difetto relativo, escludendo dunque la rilevabilità officiosa in ogni stato e grado del processo; sia quanto alla legittimazione a impugnare la statuizione sulla giurisdizione, che il medesimo art. 9 conferisce indistintamente a tutte le parti; sia, infine, quanto alla riforma in appello dell’erronea declinatoria di giurisdizione, per la quale l’art. 105 cod. proc. amm.[47] conserva la necessità della rimessione della causa al giudice di primo grado.
Ne deriva che il medesimo “vizio” riceverà un trattamento assai diverso a seconda del giudice (ordinario o amministrativo) innanzi al quale esso sia emerso: il che potrebbe apparire non del tutto razionale, specie alla luce dell’attinta comunicabilità tra plessi giurisdizionali e della conseguente opportunità di garantire, per quanto possibile, l’uniformità dei diversi regimi di rilevabilità della carenza di giurisdizione.
La seconda osservazione è che, nel prevedere che l’impedimento processuale de quo sia rilevabile nei gradi di giudizio successivi al primo solamente se dedotto mediante «specifico motivo» (e tanto indipendentemente dalla circostanza che il giudice si sia o meno esplicitamente pronunciato sulla questione), l’art. 37 c.p.c. sancisce ormai apertis verbis non soltanto l’ammissibilità di statuizioni implicite sulla giurisdizione, ma anche l’attitudine delle stesse a formare oggetto di impugnazione e, così, a “stabilizzarsi” in difetto di gravame proposto dalla parte individuata come soccombente.
Quanto precede non significa, tuttavia, che la pronuncia sulla giurisdizione sia suscettibile di passare in giudicato ove non impugnata, né, tanto meno, che la riforma abbia “codificato” – come pure si è sostenuto – il controverso indirizzo di legittimità in tema di giudicato implicito sui presupposti processuali. A ben vedere, infatti, se il difetto di giurisdizione è assoluto, è la stessa previsione della rilevabilità officiosa in ogni stato e grado del processo a impedire che sulla questione possa formarsi un autonomo “capo” di sentenza, ai fini di quanto disposto dall’art. 329, comma 2, c.p.c.[48]. Mentre, se il difetto è relativo, l’impossibilità che la questione di giurisdizione sia (ri)esaminata ex officio dal giudice del gravame non discende in via diretta e immediata dalla mancata iniziativa impugnatoria di parte (e così dal giudicato interno, esplicito come implicito, asseritamente formatosi sul capo di sentenza che ha statuito sull’impedimento), ma dalla legge, che, nel riservare alle parti la deduzione del “vizio” nei gradi di giudizio successivi al primo, per ciò solo esclude ogni potere di rilievo officioso.
Ne esce in tal modo rafforzata l’idea – autorevolmente sostenuta già in relazione al previgente art. 37 c.p.c. – che «in tema di impedimenti processuali coperti dalla decisione di merito si può parlare di statuizioni, ma non di unità decisorie capaci di passare in giudicato in difetto di gravame»[49]; e che, dunque, il richiamo in subiecta materia al concetto di “capo” di sentenza in tanto può essere consentito, «in quanto si sia vigili nel non oltrepassare mai il confine tra il piano classificatorio e quello interpretativo, e si impieghi la nozione come puro schema mentale invece che come veicolo di applicazione di un regime giuridico»[50] (nella specie, quello della c.d. acquiescenza presunta).
L’intervento riformatore, indubbiamente apprezzabile per il suo contributo di chiarezza in una materia a lungo governata da incerte regole di matrice giurisprudenziale, individua una soluzione utilmente invocabile anche per le altre questioni pregiudiziali di rito soggette (come già la giurisdizione prima delle modifiche del 2022) al regime di rilevabilità officiosa in ogni stato e grado: nel senso che, esclusa la possibilità di un “consolidamento” ex art. 329 c.p.c. della statuizione resa sul punto dal giudice di primo grado, la limitazione del potere di rilievo officioso del giudice del gravame non potrà più farsi discendere dalla mancata impugnazione della sentenza in parte qua, ma dovrà necessariamente risultare da un’apposita previsione legislativa. Con buona pace della teoria del giudicato implicito.
[1] Sul criterio di delega richiamato nel testo v. per tutti P. Biavati, L’architettura della riforma del processo civile, Bologna, 2021, 15 s.; G.G. Poli, La nuova disciplina del difetto di giurisdizione: comma 22, lett. c), in AA.VV., La riforma della giustizia civile, a cura di G. Costantino, Bari, 2022, 220 ss.
[2] Che oggi così stabilisce: «il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo. Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei giudizi di impugnazione può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo, ma l’attore non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito». Per un primo commento alla norma si veda, senza pretesa di completezza, F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, 3 ss.; A. Carratta, Le riforme del processo civile, Torino, 2023, 13 ss.; G. Trisorio Liuzzi, Giurisdizione e competenza, in AA.VV., La riforma del processo civile. Gli speciali del Foro italiano, 4/2022, 5 ss.; M. Latini Vaccarella, Difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.), in AA.VV., La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. Tiscini, Pisa, 2023, 8 ss.; S. Conforti, Giurisdizione e competenza, in AA.VV., Il processo civile dopo la riforma Cartabia, a cura di A. Didone e F. De Santis, Milano, 2023, 64 ss. V. anche G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile6, I, Bari, 2023, 122 s., e G. Ruffini (a cura di), Diritto processuale civile, I, Bologna, 2023, 374 ss.
[3] In tal senso v. ad es. Cass., sez. un., 22 luglio 1960, n. 2084, in Foro it., 1961, I, 481 ss., e Cass., sez. un., 28 aprile 1976, n. 1506, ivi, 1976, I, 2674 ss., le quali ribaltarono l’indirizzo sino a quel momento prevalente che consentiva senza limitazioni il rilievo officioso del difetto di giurisdizione anche nei giudizi di impugnazione.
[4] In Giur. it., 2009, 406 ss., con nota di R. Vaccarella, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e translatio iudicii, e 1459 ss., con nota di A. Carratta, Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizionee uso improprio del “giudicato implicito”; in Foro it., 2009, I, 806 ss., con nota di G.G. Poli, Le sezioni unite e l’art. 37 c.p.c.; in Riv. dir. proc., 2009, 1071 ss., con note di E.F. Ricci, Le Sezioni Unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame, e V. Petrella, Osservazioni minime in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione e giusto processo; in Corr. giur., 2009, 372 ss., con note di R. Caponi, Quando un principio limita una regola (ragionevole durata del processo e rilevabilità del difetto di giurisdizione), e F. Cuomo Ulloa, Il principio di ragionevole durata e l’art. 37: rilettura costituzionalmente orientata o riscrittura della norma (e della teoria del giudicato implicito)?. Sulla pronuncia richiamata nel testo v. anche V. Colesanti, Giurisprudenza “creativa” in tema di difetto di giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2009, 1125 ss.; C. Consolo, Travagli “costituzionalmente orientati” delle sezioni unite sull’art. 37 c.p.c., ordine delle questioni, giudicato di rito implicito, ricorso incidentale condizionato (su questioni di rito o, diversamente operante, su questioni di merito), ibidem, 1141 ss.; G. Basilico, Il giudicato interno e la nuova lettura dell’art. 37 c.p.c., in Giusto proc. civ., 2009, 263 ss.; C. Delle Donne, L’art. 37 c.p.c. tra giudicato implicito ed «evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione»: a margine di recenti applicazioni della ragionevole durata del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2010, 735 ss.
[5] È evidente, nell’affermazione riportata nel testo, l’adesione della Suprema Corte alla teoria, elaborata dalla dottrina tedesca (W. J. Habscheid, L’oggetto del processo nel diritto processuale civile tedesco, in Riv. dir. proc., 1980, 454 ss.) e poi ripresa anche da quella italiana (v. per tutti C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, part. 174 ss.), del doppio oggetto del giudizio, in base alla quale «in ogni processo vanno individuati due distinti e non confondibili oggetti del giudizio, l’uno (processuale) concernente la sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della causa e l’altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no della domanda» (Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, richiamata nel testo, cui adde Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260, citata anche nel § 4, testo e nota 31), dei quali il primo è sempre contenuto, anche implicitamente, nella sentenza che decide il merito della causa.
[6] Così ancora Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883.
[7] In tal senso v. A. Carratta, Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, cit., 1469; C. Delle Donne, L’art. 37 c.p.c. tra giudicato implicito ed «evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione», cit., 741 s.; G.G. Poli, Le sezioni unite e l’art. 37 c.p.c., cit., 813 s. In posizione critica nei confronti dell’indirizzo giurisprudenziale richiamato nel testo v. anche G. Fanelli, L’ordine delle questioni di rito nel processo civile di primo grado, Pisa, 2020, 172 ss., alla quale si rinvia anche per ulteriori, ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza.
[8] Così C. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi3, Padova, 2012, 65 (ma v. già, in precedenza, Id., Il cumulo condizionale, cit., I, 231), il quale, muovendo dalla considerazione per cui «i due oggetti che si sottopongono all’accertamento giudiziale attraverso un’unica domanda – la ricognizione quanto al potere-dovere di decidere il merito della causa e l’accertamento del diritto controverso – risultano strettamente inscindibili», posto che «l’uno si pone e si spiega in funzione della possibilità dell’altro», perviene alla conclusione della non condivisibilità dell’orientamento giurisprudenziale che, «ai fini dell’applicazione degli artt. 329 cpv. e 336, co. 1, tende a riconoscere l’esistenza di tanti capi di sentenza quante sono le decisioni (esplicite o anche implicite) su ogni presupposto processuale». In senso conforme, E.F. Ricci, Le Sezioni Unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame, cit., 1087 (ma per analoghi rilievi v. già Id., L’esame d’ufficio degli impedimenti processuali nel giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc., 1978, 418 ss., spec. 422 ss.); A. Carratta, Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, cit., 1466 s.; nonché, più di recente, B. Zuffi, La fuorviante ma pervicace corrente giurisprudenziale sull’efficacia vincolante esterna dell’implicito riconoscimento della giurisdizione nelle sentenze di merito, in Giur. it., 2023, 1069 ss.
[9] In tal senso v. in particolare V. Colesanti, Giurisprudenza “creativa”, cit., 1132 ss., part. 1134, secondo il quale «se il rilievo ha da avvenire d’ufficio e in qualunque stato e grado del processo, ciò vuol significare che il giudice è tenuto a provvedervi, indipendentemente […] dall’attività di parte. L’ordinamento vuole che anche ex officio sia rilevato il difetto di giurisdizione in capo a chi abbia emesso la decisione comunque impugnata; sicché non è la mancata specifica doglianza con il conseguente asserito giudicato (per acquiescenza) a porre impedimento al rilievo del difetto di giurisdizione, ma al contrario è la doverosità di un tal rilievo in ogni momento della vicenda processuale a non consentire di parlar di giudicato» (il corsivo è dell’Autore).
[10] V. ad es. Cass., sez. un., 30 ottobre 2008, n. 26019, in Giur. it., 2009, 1460 ss., con la citata nota di A. Carratta; Cass., sez. un., 18 dicembre 2008, n. 29523, in Corr. giur., 2009, 379 ss., con le citate note di R. Caponi e F. Cuomo Ulloa, la quale ha chiarito che il giudicato implicito non può formarsi, con conseguente rilevabilità senza limiti del difetto di giurisdizione anche nel giudizio di impugnazione, allorché la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda, o quando dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito; Cass., sez. un., 29 ottobre 2014, n. 22975, che ha ammesso la possibilità di un rilievo officioso secundum eventum litis, ritenendo che il difetto di giurisdizione sia rilevabile per la prima volta in sede di legittimità ogni volta che l’interesse a far valere tale vizio sia sorto solamente a séguito del percorso decisionale compiuto dal giudice del gravame; Cass., sez. un., 5 gennaio 2016, n. 29, la quale ha precisato che ogni giudice, anche qualora dubiti della propria competenza, deve preliminarmente verificare, anche d’ufficio, l’esistenza della propria giurisdizione, sicché l’affermazione positiva circa la competenza contiene sempre l’implicita affermazione della sussistenza della giurisdizione; Cass., sez. un., 17 dicembre 2019, n. 33374; Cass., sez. un., 15 novembre 2022, n. 33606, in Giur. it., 2023, 1068 ss., con la citata nota di B. Zuffi, secondo cui il passaggio in cosa giudicata di una pronuncia del giudice ordinario ovvero del giudice amministrativo recante statuizioni sul merito di una pretesa attinente ad un determinato rapporto estende i suoi effetti al presupposto della sussistenza della giurisdizione del giudice adìto su tale rapporto, indipendentemente dal fatto che essa sia stata, o meno, oggetto di esplicita declaratoria; sicché osta a che la giurisdizione di quel giudice possa essere contestata in successive controversie fra le stesse parti riguardanti il medesimo titolo. Si deve peraltro notare che a tale orientamento non si è mai piegato – se non occasionalmente – il Consiglio di Stato, il quale ha continuato ad affermare il proprio potere di conoscere ex officio la questione di giurisdizione qualora su di essa il T.A.R. non si sia pronunciato espressamente: per tutte Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2008, n. 4.
[11] Tanto l’art. 9 cod. proc. amm. (approvato con d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), quanto l’art. 15 cod. giustizia contabile (approvato con d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174) prevedono che «il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio», mentre nei giudizi di impugnazione «è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione». Tale formulazione, certamente più precisa di quella del novellato art. 37 c.p.c., ha dunque comportato il riconoscimento in via legislativa dell’ammissibilità di decisioni implicite sulla giurisdizione (Cass., sez. un., 12 novembre 2021, n. 33846).
[12] Sotto tale profilo, il regime delineato dall’art. 37 c.p.c. si discosta dunque da quello di cui agli artt. 9 cod. proc. amm. e 15 cod. giustizia contabile, i quali non distinguono tra difetto assoluto e difetto relativo, prevedendo per entrambe le tipologie di vizio la rilevabilità officiosa limitata al primo grado di giudizio.
[13] E ciò per l’ovvia considerazione che «se una qualsiasi norma prevede che un certo impedimento processuale (si tratti del difetto di giurisdizione o di qualsiasi altro impedimento) può essere rilevato anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, se ne deve tener conto (per l’appunto) in qualsiasi stato e grado del processo. Ciò esclude che sull’impedimento possa formarsi un autonomo “capo” di sentenza, ai fini di quanto previsto dall’art. 329 c.p.c.; e per quanto concerne in particolare il giudizio di cassazione, ci si trova di fronte ad un’ipotesi, in cui la prospettazione del vizio mediante apposito motivo di ricorso non è necessaria»: così, già in relazione al testo previgente dell’art. 37 c.p.c., E.F. Ricci, Le Sezioni Unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame, cit., 1087, nonché, in precedenza, Id., L’esame d’ufficio degli impedimenti processuali, cit., 428.
[14] Con la conseguenza che la questione dovrebbe poter essere sollevata non soltanto con l’impugnazione principale o incidentale, ma anche in un momento successivo del giudizio d’appello (o di cassazione) mediante la proposizione di una semplice eccezione.
[15] In questo senso v. G. Ruffini, Diritto processuale civile, I, cit., 374, il quale, dopo aver affermato che la previsione dell’art. 37 c.p.c. «impone di ritenere che la pronuncia di una sentenza da parte del giudice di primo grado non precluda di per sé la possibilità di rilevare d’ufficio il difetto assoluto di giurisdizione nell’eventuale giudizio di appello, così come la pronuncia di una sentenza da parte del giudice di secondo (o di unico) grado non impedisce di per sé il rilievo d’ufficio della questione nell’eventuale giudizio di cassazione», aggiunge che tale regola deve coordinarsi tanto con le norme che disciplinano le impugnazioni (e segnatamente con l’art. 329 c.p.c.), quanto con il «principio di durata ragionevole del processo», i quali comportano che la questione di giurisdizione – abbia essa costituito o meno oggetto di dibattito e decisione nel giudizio di primo grado – possa essere riesaminata nel giudizio d’appello soltanto se riproposta come motivo di impugnazione. È chiaro però che, così intesa, la disposizione in commento – nella parte in cui fa riferimento alla rilevabilità officiosa del difetto assoluto di giurisdizione nei gradi di giudizio successivi al primo – resterebbe priva di qualunque portata precettiva, dal momento che il giudice di secondo grado non sarebbe mai nelle condizioni di esercitare il proprio potere-dovere di rilievo d’ufficio: né quando sulla giurisdizione si fosse statuito esplicitamente, dovendo in tal caso trovare applicazione le regole concernenti l’impugnazione parziale; né quando la decisione sulla questione risultasse implicita nella pronuncia di merito, rendendosi anche in tale ipotesi necessaria – alla luce dell’insegnamento delle sezioni unite – l’impugnazione del “capo” della sentenza che abbia implicitamente riconosciuto la sussistenza della giurisdizione.
[17] Regole che peraltro, per quanto si dirà infra, § 6, risultano ormai inapplicabili anche nel caso del difetto relativo.
[18] G. Balena, Istituzioni, cit., I, 122, testo e nota 43.
[19] Espressione che viene peraltro adoperata in un’accezione ben diversa da quella enunciata nel § 1, dal momento che la preclusione al rilievo officioso del difetto di giurisdizione deriva in questo caso (non dall’omessa doglianza contro un decisum di rito inespresso, e perciò “implicito”, bensì) dalla mancata impugnazione di una decisione di merito, rispetto alla quale la questione di giurisdizione costituisca – unitamente agli altri presupposti processuali – uno degli antecedenti logici.
[20] Così, ex multis, Cass. 29 aprile 2004, n. 8204; Cass. 27 maggio 2005, n. 11318; Cass. 29 aprile 2009, n. 10027.
[21] V. infatti C. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 65, il quale rileva che «la indiscutibilità della questione di rito – sia essa esaminata o no – certo si genera allorché passi in giudicato una qualunque decisione di merito: tale decisione, infatti, non solo accerta la piena ammissibilità della domanda, ma, soprattutto, attribuisce saldamente un bene della vita che non è scalfibile con alcuna considerazione sul già dedotto o sul deducibile e/o sul rilevabile in ordine alla regolare instaurazione del rapporto processuale». In senso conforme A. Carratta, Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, cit., 1467 s., e A.A. Romano, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, in Giur. it., 2001, 1292 ss., part. 1299.
[23] A. Carratta, Le riforme del processo civile, cit., 14.
[24] Si tenga peraltro presente che l’esclusione del potere di rilievo officioso del difetto di giurisdizione nei gradi di giudizio successivi al primo potrebbe comportare qualche inconveniente nella (per vero poco frequente) ipotesi in cui innanzi all’a.g.o. sia erroneamente proposta una domanda di annullamento di provvedimenti amministrativi. In tal caso, infatti, ove il difetto di giurisdizione non sia tempestivamente rilevato e il giudizio prosegua in sede di impugnazione, il giudice ordinario «non potrebbe né più declinare la giurisdizione né – per i noti limiti ai suoi poteri, questi risalenti al 1865 ma ancor oggi tutt’altro che anacronistici – accoglierla ove fondata, ma si troverebbe a doverla comunque respingere nel merito, per assenza del potere caducatorio in capo al giudice adito, con notevole penalizzazione dell’attore rispetto all’ipotesi – dunque qui assolutamente preferibile – di declinatoria in rito (con ormai possibile translatio)» (così C. Consolo, Travagli “costituzionalmente orientati”, cit., 1144).
[25] Come ritenuto da F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, cit., 5. (ma v. anche, in precedenza, Id., Contro il giudicato implicito, in Judicium, 2019, 181 ss.). Nel senso che l’impugnazione sia consentita esclusivamente nei confronti di statuizioni esplicite sulla giurisdizione sembra esprimersi anche A. Carratta, op. loc. ult. cit., che peraltro non chiarisce quale sia il regime applicabile in fase di gravame allorché il giudice di primo grado abbia deciso il merito senza pronunciarsi espressamente sulla propria giurisdizione.
[26] Così Cass., sez. un., 28 aprile 1976, n. 1506, in Foro it., 1976, I, 2674. V. anche D. Turroni, La sentenza civile sul processo. Profili sistematici, Torino, 2006, 129.
[27] Salvo ritenere che, quante volte l’eccezione non sia stata sollevata in primo grado, e la successiva sentenza non rechi dunque alcuna statuizione espressa sulla giurisdizione, l’impugnazione prevista dall’art. 37 c.p.c. non sia proponibile: sicché, in definitiva, il difetto relativo di giurisdizione sarebbe deducibile con il gravame unicamente nel caso in cui la questione sia stata sollevata e discussa già nel corso del giudizio di primo grado (con una soluzione per certi versi analoga a quella accolta dagli artt. 817, comma 2, e 829, comma 1, n. 1, c.p.c. per il caso del difetto di potestas iudicandi degli arbitri). È tuttavia assai dubbio che la norma in esame possa essere letta nel senso ora prospettato.
[29] Così G.G. Poli, La nuova disciplina del difetto di giurisdizione, cit., 223. Nel medesimo senso, G. Trisorio Liuzzi, Giurisdizione e competenza, cit., 7, secondo il quale «in caso di pronuncia implicita sulla giurisdizione, l’appello non potrà essere considerato inammissibile se non viene indicato “il capo della decisione di primo grado che viene impugnato” (art. 342 c.p.c.) o non viene formulata una vera e propria censura».
[30] Si noti che tale limitazione non è prevista nell’àmbito del processo amministrativo e di quello contabile, nei quali la deduzione in sede di gravame del difetto di giurisdizione è dunque consentita anche all’attore.
[31] Pubblicata tra l’altro in Foro it., 2017, I, 966 ss., con note di G.G. Poli, Ancora limiti al difetto di giurisdizione: le sezioni unite dall’abuso del processo al difetto di interesse ad appellare dell’attore soccombente nel merito, di A. Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, e di F. Auletta, La Corte di cassazione afferma il principio di coerenza nella difesa della parte: non si può più contestare il potere del giudice dal quale si è già preteso (invano) di ottenere ragione; in Riv. dir. proc., 2017, 793 ss., con nota di G. Ruffini, Interesse ad impugnare, soccombenza ed acquiescenza; in Corr. giur., 2017, 257 ss., con note di C. Asprella, Abuso del processo, cumulo di diritti connessi e impugnazione di rito del soccombente di merito, e di C. Consolo, Osservazione sistematica sulla n. 21260. Il “vecchio” rapporto giuridico processuale ed i suoi (chiari e non tutti antichi) corollari: inter multos l’inammissibilità per carenza di legittimazione ad impugnare e la inanità dell’inerziale richiamo della figura dell’abuso del processo.
[32] Così la citata Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260.
[33] Così P. Biavati, L’architettura della riforma del processo civile, cit., 16. In senso conforme F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, cit., 5.
[34] Per il quale v. soprattutto F. Auletta, La Corte di cassazione afferma il principio di coerenza, cit., 986 ss., e Id., Il principio generale di coerenza nella difesa della parte: nuovi approdi dell’analisi economica del diritto processuale civile, in Giusto proc. civ., 2015, 959 ss.
[35] F.P. Luiso, op. loc. ult. cit., nonché Diritto processuale civile9, I, Milano, 2017, 81.
[36] Secondo G. Ruffini, Diritto processuale civile, I, cit., 376 (il quale ripropone così l’opinione già espressa in Interesse ad impugnare, soccombenza ed acquiescenza, cit., part. 802), «letteralmente intesa […], la norma crea una inaccettabile disparità di trattamento tra l’attore e il convenuto, laddove entrambi abbiano chiesto al giudice adito una pronuncia nel merito del rapporto giuridico controverso. Davvero non si comprende, infatti, perché al convenuto che in via principale abbia chiesto al giudice adito di pronunciare sulla domanda avversaria, rigettandola nel merito, debba essere consentito di impugnare per difetto di giurisdizione la sentenza che accolga nel merito la domanda stessa; quando invece all’attore che nel corso del giudizio di primo grado abbia contestato la giurisdizione del giudice adito non è invece consentito impugnare per difetto di giurisdizione la sentenza che abbia rigettato nel merito la domanda dallo stesso proposta». A tale opinione può anzitutto opporsi che, nell’ottica del legislatore, quello che impedisce la deduzione dell’impedimento processuale in sede di impugnazione è unicamente l’affermazione espressa della giurisdizione, quale può derivare tanto dalla condotta dell’attore che abbia incardinato la causa dinanzi a un determinato giudice, quanto da quella del convenuto, che a quello stesso giudice abbia chiesto di dichiararsi fornito di giurisdizione; mentre non è rilevante l’accettazione della giurisdizione implicita nella scelta del convenuto di difendersi esclusivamente nel merito, rinunciando a eccepire la carenza di giurisdizione del giudice adìto dalla controparte. In secondo luogo, non pare condivisibile l’idea che l’attore possa contestare – con una sorta di “autoeccezione” – nel corso del giudizio di primo grado la giurisdizione del giudice da lui stesso adìto. Per quanto si è rilevato nel testo, tale facoltà deve ritenersi senz’altro preclusa all’attore in nome di quello stesso principio di autoresponsabilità che gli impedisce di impugnare la statuizione sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di merito; ed è verosimilmente questa la ragione per cui, nel riformulare l’art. 37 c.p.c., non è parso necessario specificare quanto poteva già desumersi dai principî (nel senso che l’ultima parte del terzo periodo dell’art. 37 c.p.c., laddove si limita a escludere il potere di impugnativa dell’attore senza parimenti impedirgli di contestare la giurisdizione nel corso del giudizio di primo grado, sia «frutto di sciatteria legislativa», v. invece G. Ruffini, Diritto processuale civile, cit., I, 376).
[37] Al medesimo fine è stato riformulato l’art. 354 c.p.c., eliminando la fattispecie – in precedenza prevista al comma 2 – dell’erronea declaratoria dell’estinzione del processo di primo grado.
[38] Per un primo commento alla modifica in esame v. F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, cit., 183 ss.; S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni in generale e sul giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2023, 643 ss., part. 661 ss.; A. Tedoldi, Impugnazioni in generale e appello, in AA.VV., Il processo civile dopo la riforma Cartabia, cit., 302 ss.; A. Ronco, Il giudizio di appello (e le disposizioni sulle impugnazioni in generale), in Giur. it., 2023, 718 ss., part. 724 ss.; G.B. Deluca, Il giudizio di appello, in AA.VV., La riforma del processo civile. Gli speciali del Foro italiano, cit., 215 s.; V. Violante, Appello rescindente (art. 354 c.p.c.), in AA.VV., La riforma Cartabia del processo civile, cit., 506 ss. Sul criterio di delega di cui all’art. 1, comma 8, lett. o), l. 206/2021 v. già M. Stella, La blanda riforma del giudizio di appello tra restatement e ritorni al passato, in Dir. proc. civ. italiano e comparato, 2022, 222 ss., part. 241 ss.
[39] Secondo M. Stella, op. cit., 242, ciò comporterà che, «nel caso di proposizione di appello (non rescindente) contro la declinatoria di giurisdizione e di riassunzione del processo avanti al giudice speciale ad quem additato come competente dal giudice civile di primo grado spogliatosi della giurisdizione, i due rami del processo potranno proseguire parallelamente finché in uno dei due si formi il giudicato sulla giurisdizione»; sicché «la abrogazione della ipotesi di appello rescindente in esame potrebbe dirsi idonea ad abbreviare il momento della formazione del giudicato sulla giurisdizione in seno al processo civile».
[40] Sulla necessità di limitare le ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, riguardate quale autentico attentato alla ragionevole durata del processo, v. per tutti G. Olivieri, La “ragionevole durata” del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° comma, Cost.), in Foro it., 2000, V, 264 ss. (e, in precedenza, La rimessione al primo giudice nell’appello civile, Napoli, 1999, part. 325 ss.); nonché G. Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, part. 302 ss. V. anche Cass., sez. un., 29 aprile 2009, n. 9946, in Riv. dir. proc., 2010, 958 ss., con nota di M. Gradi, La «ragionevole durata del processo» e i «risultati di semplificazione»: la pretesa inapplicabilità dell’art. 353 c.p.c. al giudizio di cassazione, la quale ha affermato che, nel dichiarare l’esistenza della giurisdizione negata dai giudici di primo grado e d’appello, il giudice di legittimità può decidere la causa nel merito ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., tenuto conto che «la Corte di cassazione […] non è direttamente destinataria della disposizione di cui all’art. 353 c.p.c., applicabile nel solo caso di rinvio al giudice del merito, mentre il principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) offre idoneo sostegno al risultato di semplificazione cui la soluzione accolta consente di pervenire».
[41] Stigmatizzata da F.P. Luiso, Diritto processuale civile, cit., II, 419, che proprio dall’impossibilità di identificare la ratio sottostante alla disciplina speciale di cui agli artt. 353 e 354, comma 2, c.p.c. desumeva la tassatività delle ipotesi di rimessione al primo giudice ivi previste.
[42] A. Ronco, Il giudizio di appello, cit., 724 s.
[44] Così S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni, cit., 664.
[45] Nel medesimo senso S. Boccagna, op. cit., 666, e A. Ronco, op. loc. ult. cit. Salvo ritenere – ma la soluzione non pare percorribile, in quanto contraria al principio del contraddittorio – che il giudice possa rimettere la causa in decisione ai sensi dell’art. 187, comma 3, c.p.c. anche in epoca anteriore allo scambio delle memorie integrative di cui all’art. 171-ter c.p.c. (ad es. con il decreto ex art. 171-bis c.p.c.).
[46] A. Ronco, op. loc. ult. cit. V. anche F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, cit., 185.
[47] Il cui comma 1 stabilisce che «il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio».