Il potere cautelare degli arbitri, introdotto dalla riforma del rito civile, e la inevitabile interferenza del giudice (“evviva il cautelare arbitrale!”, ma le cose non sono poi così semplici)

Di Antonio Briguglio -

SOMMARIO: 1. La poco utile ultima riforma della giustizia civile e le (invece) non disprezzabili modifiche alla disciplina dell’arbitrato, con il fiore all’occhiello rappresentato dalla introduzione della potestà cautelare arbitrale ed il definitivo superamento di un risalente dogma. – 2. L’attribuzione di poteri cautelari agli arbitri mediata dalla volontà delle parti. – 3. Il carattere tendenzialmente esclusivo della competenza cautelare arbitrale (ove attribuita): la ragione della scelta e le parzialmente superabili controindicazioni. – 4. Segue: due precisazioni sistematiche in ordine alla esclusività della competenza cautelare arbitrale: a) la inevitabile interferenza del giudice dello Stato (e le conseguenti complicazioni che una novellazione più accorta avrebbe potuto almeno in parte evitare); b) esclusività sincronica e concorrenza diacronica (la linea di confine data dalla accettazione degli arbitri). – 5. Le verifiche in ordine alla competenza cautelare in caso di convenzione attributiva di poteri cautelari agli arbitri. – 6. Riproposizione della istanza cautelare. – 7. In parentesi e salvi doverosi approfondimenti: qualche questione internazionalprivatistica. – 8. Il reclamo cautelare avverso provvedimento arbitrale. – 9. Revoca e modifica. – 10. Sopravvenuta inefficacia. – 11. L’attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali. – 12. ……e di quelli resi da arbitri esteri.

1.La poco utile ultima riforma della giustizia civile e le (invece) non disprezzabili modifiche alla disciplina dell’arbitrato, con il fiore all’occhiello rappresentato dalla introduzione della potestà cautelare arbitrale ed il definitivo superamento di un risalente dogma.

Avevo avuto già occasione di osservare – introducendo sulla Rivista dell’arbitrato il commento a più mani ai principi in materia di arbitrato introdotti dalla legge di delega per la ennesima riforma della giustizia civile (n. 206/2021) – che solo qualcuno molto ingenuo potrebbe attribuire una portata deflattiva e perciò migliorativa della efficienza del servizio di giustizia togata a qualche ritocco alla disciplina dell’arbitrato, “così come sarebbe puerile immaginare che gli ospedali pubblici si svuotino sol perché si migliora il servizio catering delle cliniche private”[1]. Rilevavo conseguentemente – e non credo di essere il solo a pensarlo – che ben difficilmente al legislatore italiano di questo torno di tempo sarebbe mai venuta in mente (sebbene tutto sia perfettibile) una quarta riforma della sola disciplina arbitrale dopo le novelle di crescente incidenza del 1983, del 1994 e del 2006, tralasciando interventi minori e cartacei come quello tramandato col nome di “degiurisdizionalizzazione” o altri settoriali come quello relativo al c.d. “arbitrato societario”.

Sennonché è noto come le vicende legate ai nostri rapporti con l’Europa ed alla attuazione del PNRR, quanto alla materiale erogazione delle elargizioni assegnate all’Italia, ci abbiano semplicisticamente imposto la tipica “ammuina” da Regia Marina Borbonica e ce l’abbiano imposta “ampress’ ampress’ ” (come del resto immagino si svolgesse quella ineffabile manovra marinaresca); ci abbiano cioè imposto di rimestare per la centesima volta e con urgenza acqua fresca nel mortaio della giustizia civile solo modificando norme senza decisivi effetti utili e col rischio tangibile di far danno, e non invece rimediando davvero alle crepe del mortaio in primo luogo attraverso il progressivo aumento del numero dei decisori ed anche il richiamo al mestiere di decisori dei non pochi giudici che svolgono, in svariate pubbliche amministrazioni, altri mestieri (cosa quest’ultima non scandalosa ed anzi commendevole se solo gli apparati della giustizia funzionassero a dovere e non fossero bisognevoli di tutti gli uomini e donne abili, oltre che di mezzi).

Ed insomma è accaduto che – già che c’erano e dovevano volenti o nolenti mettersi all’opera[2] – il legislatore ed i suoi aiutanti, e dunque la “Commissione Luiso” anzitutto e poi il Ministero della Giustizia, il Parlamento e le rispettive commissioni competenti, quanto alla legge di delega, e poi nuovamente il Ministero supportato da una nutrita serie di sottocommissioni consultive, quanto al DLGS attuativo n. 149 del 10 ottobre 2022, si sono affaccendati anche con l’arbitrato.

Lo hanno fatto senza ovviamente alcuna convinzione o pretesa di dar fondo all’universo e con la semplice intenzione di apportare qualche ulteriore miglioramento alla disciplina dell’arbitrato in sé considerata.

Vi sono riusciti? Lo si constaterà davvero solo dopo qualche anno di esercizio pratico. In prima approssimazione si può però registrare:

(i) la plausibilità (non necessariamente la assoluta condivisibilità) di alcune soluzioni davvero marginali e di dettaglio (immediata efficacia esecutiva del decreto inaudita altera parte che concede l’exequatur al lodo estero: soluzione, prevista ora dal novellato art. 839 c.p.c. con conseguente modifica anche dell’art. 840, semplificatoria ma che almeno a me convince poco; dimezzamento del termine lungo di impugnazione del lodo: vedi il novellato art. 828; trapianto nel codice, con qualche possibile effetto nuovo, della disciplina dell’ “arbitrato societario”: v. i nuovi artt. 838 bis e ss.);

(ii) un certo grado di incertezza derivante da nuove disposizioni in qualche modo necessarie o per lo meno resesi assai opportune (quelle sulla translatio iudicii a seguito di Corte Cost. n. 233 del 9 luglio 2013: v. i nuovi artt. 819 quater e 816  bis.1) o che potevano essere perfino evitate (quelle sul diritto applicabile: v. il nuovo art. 822);

(iii) un intervento di pura e vacua cosmesi (la disposizione di cui al nuovo c. 3 dell’art. 820 sulle nomine presidenziali degli arbitri);

(iv) un tangibile pasticcio pur realizzato per fini nobili, il perseguimento ad oltranza dei quali è oltretutto, come sempre ed in ogni contesto, non scevro da pericoli (la novellazione degli art. 813 e 815 in tema di disclosure e garanzia di indipendenza dell’arbitro).

Su questo quadro complessivamente minimalista si leva come aquila la vera grande novità: la attesa, più volte auspicata[3], qualche altra volta invano tentata[4], solo settorialmente e timidamente anticipata[5], inversione di segno: dal divieto assoluto agli arbitri di concedere provvedimenti cautelari, secondo il perentorio testo dell’art. 818 fino ad ora vigente, al permesso largito dal nuovo testo del medesimo articolo.

2.L’attribuzione di poteri cautelari agli arbitri mediata dalla volontà delle parti.

Un tale permesso, ben inteso, è dato non direttamente ed ex lege agli arbitri, bensì alle parti[6], le quali potranno d’intesa attribuire agli arbitri la facoltà di provvedere in via cautelare, ma potranno anche non attribuire tale facoltà o – a mio avviso – attribuirla solo in parte e ad esempio escludere espressamente alcuni provvedimenti o consentirne espressamente solo alcuni[7]. L’unica attribuzione agli arbitri di potestà cautelare ex lege, o per meglio dire veicolata dalla generica volontà compromissoria senza necessità di apposito conferimento di poteri cautelari per apposita volontà delle parti, è stata già prevista dall’art. 35 DLGS n. 5/2003 ed ora contemplata, visto il cennato trasferimento nel codice di rito della normativa sull’arbitrato societario, dall’art. 838 ter, c. 4. Essa riguarda la sospensione cautelare della delibera societaria, affidata agli arbitri sol che ad essi sia devoluta controversia avente ad oggetto la validità della delibera. Tale perdurante regola speciale si giustifica, anche dopo la introduzione generalizzata della regola diversa (potere cautelare arbitrale solo in caso di apposita volontà delle parti), perché nella interconnessione fra diritto societario sostanziale e strumentario processuale la cautela sospensiva è fin troppo essenziale connotato del giudizio sulla validità della delibera[8].

Nel nuovo diritto comune all’arbitrato i poteri cautelari sono attribuibili agli arbitri, anche mediante relatio a regolamento arbitrale, da convenzione compromissoria[9], ovvero da patto successivo, e sempre per iscritto, purché precedente la “instaurazione del giudizio arbitrale”[10], vale a dire la notifica della domanda di arbitrato o il suo deposito ai sensi di un regolamento arbitrale che ciò preveda[11].

3.Il carattere tendenzialmente esclusivo della competenza cautelare arbitrale (ove attribuita): la ragione della scelta e le parzialmente superabili controindicazioni.

Il potere cautelare che il nuovo art. 818, di conserva con la legge di delega,[12] attribuisce agli arbitri, previa previsione pattizia, è esclusivo. Il quadro comparatistico esibiva – a partire dal paradigmatico sistema svizzero – il modello alternativo e diffuso della potestà cautelare concorrente del giudice statuale, con rimessione alla scelta di parte caso per caso fra le due; modello che ha anche i suoi potenziali vantaggi[13], ma che è certamente più complesso nonché fonte di possibili confusioni. Si è optato dunque per il modello apparentemente più semplice e probabilmente più adatto ai nostri ambienti.

Ne deriveranno comunque problemi: potrà il giudice statuale essere adito in via cautelare, pur dopo l’accettazione di arbitri cui sia conferita dalle parti potestà cautelare, quando il provvedimento cautelare richiesto si rivolga anche nei confronti di terzi estranei alla convenzione arbitrale e sarebbe dunque non emanabile dagli arbitri o comunque in tutto o in parte inefficace se da questi emanato? Riterrei di sì, sulla base di un principio di necessaria effettività della cautela cui si è già fatto ricorso in altri contesti[14].

Ancora: potrà la volontà delle parti in deroga apparente a quella del legislatore, ma in realtà complementariamente affiancandosi ad essa, postulare ab origine, purché in modo inequivoco ed eventualmente con riguardo selettivo a particolari provvedimenti o situazioni[15] la attribuzione di potere cautelare agli arbitri e tuttavia con facoltà di scelta alternativa del giudice ordinario ad iniziativa dell’istante? La mia risposta è nuovamente affermativa, perché la stessa possibilità compromissoria, con previsione di unilaterale scelta alternativa della giurisdizione ordinaria ad opera di chi assume l’iniziativa o di una fra le parti anticipatamente determinata, è aperta anche quanto alla cognizione sul merito (clausole arbitrali che in vario modo non pregiudichino il ricorso alternativo al giudice).

4.Segue: due precisazioni sistematiche in ordine alla esclusività della competenza cautelare arbitrale: a) la inevitabile interferenza del giudice dello Stato (e le conseguenti complicazioni che una novellazione più accorta avrebbe potuto almeno in parte evitare); b) esclusività sincronica e concorrenza diacronica (la linea di confine data dalla accettazione degli arbitri).

Tornando tuttavia al principio, per lo meno di massima (se si condividono le due peculiari risposte affermative precedenti), della potestà cautelare arbitrale esclusiva e non concorrente, due precisazioni di sistema sono però essenziali.

a) In primo luogo la esclusività della competenza cautelare arbitrale non poteva affatto, almeno nei nostri lidi, impedire una qualche ingerenza del potere giudiziale sulla vicenda cautelare arbitrale, a partire dalla apposita impugnazione e cioè dal reclamo; e ciò per ragioni non già di ordine costituzionale[16], bensì di ordine “politico”, e però tali da orientare decisamente la discrezionalità legislativa nel momento in cui si compiva il gran salto ma non si voleva che esso fosse troppo lungo o troppo nel buio.

Questo saggio sarà appunto soprattutto dedicato alla ricostruzione dei limiti e della portata di siffatta ingerenza giudiziale, e non solo – come si vedrà – quanto al reclamo. Se ne trarrà la conclusione che il modello forzatamente scelto è stato quello della potestà cautelare arbitrale “condizionata”, e non semplicemente nel senso che essa ha come presupposto l’apposita ed esplicita volontà compromissoria delle parti (ancor qui si è scelto di non fare il passo più lungo della gamba e perciò di non adottare la opposta soluzione di un potere cautelare arbitrale intrinseco alla generica volontà compromissoria e solo espressamente da essa escludibile). E perciò tale modello è solo apparentemente semplice e le sue complicazioni, che si cercherà qui nei limiti del possibile di stemperare e ridurre, attestano una volta di più che se si vuole la bicicletta bisogna poi pedalare e saper pedalare. Siamo tutti soddisfatti ideologicamente che anche l’ordinamento italiano si sia allineato al diffuso trend che vuole possibile l’emanazione di provvedimenti cautelari arbitrali[17], ma – a parte il fatto che non sarà certo ciò sufficiente a che l’Italia divenga la Svizzera e neppur forse la Svizzera mediterranea degli arbitrati internazionali (come non fu a ciò sufficiente, su altro versante, nel 1983, la introduzione del newyorkese[18] “binding”, tradotto nella lingua di Dante, quale predicato originario del lodo) – bisognerà pur fare i conti con i problemi interpretativi e pratici che questo comporta, acuiti dalla peculiare causidicità degli operatori italiani; problemi che potevano sicuramente ed almeno in parte evitarsi con una maggiore attenzione, ponderazione e chiarezza del legislatore – il delegante come il delegato – tutto preso invece dalla fretta e dall’“evviva i cautelari arbitrali !”

b) In secondo luogo la potestà cautelare arbitrale non è concorrente con quella giudiziale sul piano sincronico. Ma il concorso sussiste sul piano diacronico e dunque e per così dire in sequenza: a’ sensi del secondo comma del nuovo art. 818, prima della “accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del collegio”[19] la potestas iudicandi cautelare resta attribuita al “giudice competente a norma dell’art. 669 quinques”. E il discorso vale invariabilmente anche per la sospensione cautelare delle delibere societarie ora prevista dall’art. 838, c. 4, perché l’esordio di tale disposto (“salvo quanto previsto dall’art. 818”) proprio ciò implica[20].

Si tratta di una impostazione normativa agevolmente superabile dalla autonomia privata, almeno nell’ambito del nostro attuale ordinamento. Perciò le previsioni attributive di potestà cautelari ad organi privati prearbitrali, contemplate da regolamenti arbitrali nazionali o internazionali (pre-arbitral referee ICC e simili) proprio per la evenienza che la esigenza di cautela insorga a convenzione arbitrale stipulata ma prima della costituzione del tribunale arbitrale, ove esse siano richiamate per relationem dall’accordo compromissorio, da un lato non impediranno alla parte di rivolgersi al giudice dello Stato per la soddisfazione di quella esigenza, d’altro lato – e se rese operative – daranno luogo, come poteva accadere fino ad ora, ad una misura puramente “privata”, di una qualche concreta efficacia se “autorizzativa” ma priva di possibilità coattive. Non escludo la plausibilità di un ragionamento diverso: quelle previsioni regolamentari integranti la convenzione di arbitrato attribuirebbero pur sempre, e legittimamente dal punto di vista del nuovo art. 818, la competenza cautelare esclusiva ad “arbitri”, di solito designati in via rapida o addirittura pre-designati dall’organismo di amministrazione[21], sia pure diversi da quelli che poi le parti con il concorso o meno dell’organismo di amministrazione designeranno per il merito. Anche così ragionando, tuttavia, resterebbe insuperabile per lo meno la necessità ex art. 818 della accettazione dell’incarico arbitrale (cautelare) come dies a quo della insorgenza effettiva della relativa competenza. Perciò vi sarebbe pur sempre uno spazio teorico ed anche pratico di competenza cautelare concorrente, ante causam, del giudice dello Stato prima che l’“arbitro di urgenza” abbia accettato l’incarico. Il che di fatto – e salve ipotesi di pre-designazione stabile ad opera dell’organismo di amministrazione ed accettazione ora per allora[22] – comporterebbe che la parte interessata alla cautela ante causam sarebbe sempre libera di rivolgersi al giudice dello Stato invece che ricorrere secondo le modalità regolamentari al procedimento di urgenza. Ed anzi, anche ove scegliesse questa seconda via, la competenza cautelare dell’“arbitro di urgenza” sarebbe in astratto preclusa dalla necessità che, sia pure in tempi rapidi, questi sia designato ed accetti; e per “salvare” quella competenza, se proprio l’“arbitro di urgenza” è stato adito per la cautela, si dovrebbe allora ricorrere all’escamotage che suggerisco al paragrafo successivo, ad altro rispetto, imperniato sull’operare solo secundum eventum dell’art. 5 c.p.c.

5.Le verifiche in ordine alla competenza cautelare in caso di convenzione attributiva di poteri cautelari agli arbitri.

Un giudice statuale adito con un ricorso cautelare che constati la presenza di una previa convenzione arbitrale devolvente il merito ad arbitri dovrà dunque verificare in ordine logico ai fini della affermazione o negazione della propria potestas iudicandi: (i) dapprima (non già se il procedimento arbitrale sia pendente, cosa di per sé irrilevante, bensì) se vi sia espressa volontà delle parti di attribuire agli arbitri funzioni cautelari e se costoro abbiano accettato: in presenza di entrambi i presupposti si dichiarerà incompetente, in assenza di qualunque dei due passerà alla seconda verifica, e cioè (ii) se sussista la sua potestas iudicandi cautelare ai sensi delle ordinarie regole del procedimento uniforme ed in particolare dell’art. 669 quinquies (il quale dunque – mantenendo un suo precipuo spazio applicativo anche in ipotesi in cui agli arbitri siano devoluti per convenzione inter partes sia il merito sia la cautela, ma su quest’ultima essi non possono pronunciare non avendo ancora accettato – è rimasto invariato con la sola ovvia aggiunta finale “salvo quanto disposto dall’art. 818, primo comma”)[23].

Non solo alla seconda ma naturalmente anche alla prima delle due verifiche corrisponde, in ragione dell’art. 28 c.p.c., la regola della rilevabilità d’ufficio, e dunque ad esempio della constatazione del contenuto della convenzione arbitrale dagli atti versati ed anche senza espressa eccezione di parte; ed in ogni caso la decisione assunta dal giudice statuale in ordine alla sua potestas iudicandi sarà sindacabile solo in sede di reclamo e non certo in sede di regolamento di competenza, visto il tenore limitativo dell’art. 819 ter, c 1.[24] Neppure saranno dati meccanismi riassuntivi del procedimento cautelare in caso di declinatoria della competenza giudiziale in favore di quella arbitrale, dato che il nuovo art. 819 quater resta confinato nell’analogo ambito limitato del ter e cioè quello del procedimento “di merito” che trasmigra da giudice ad arbitro o viceversa; ma francamente non vi è da stracciarsi le vesti per ciò.

È quasi inutile dire che ai sensi del generale principio ex art. 5 cpc, una volta richiesta la tutela cautelare al giudice statuale non sarà certo il sopravvenuto accordo scritto attributivo della potestas cautelare agli arbitri o la sopravvenuta accettazione di costoro a far venir meno la competenza di quel giudice.

Più delicato è il problema inverso: la parte di una convenzione arbitrale attributiva di potestà cautelare ad arbitri ad essi rivolge l’istanza cautelare, siccome già nominati, ma prima della loro accettazione; possono gli arbitri immediatamente provvedere alla accettazione e ritenersi competenti per la cautela? Ovviamente sì, qualora si segua il consolidato orientamento giurisprudenziale (pur occasionalmente criticato) secondo cui le sopravvenienze sono comunque idonee ad incidere sulla competenza e sulla giurisdizione secundum eventum e cioè solo in senso affermativo; orientamento questo la cui riconduzione al principio di economia processuale[25] è qui particolarmente pregnante, visto che altrimenti si avrebbe un comico rimpallo dovuto al fatto che il giudice statuale, investito successivamente alla declinatoria degli arbitri, si troverebbe di fronte alla loro accettazione nel frattempo intervenuta e perciò sarebbe costretto a sua volta a dichiararsi incompetente.

Il principio della perpetuatio iurisdictionis non opererà nei modi consueti in relazione alla sopravvenienza “normativa” data dalla entrata in vigore del nuovo art. 818, fissata originariamente all’art. 35, c. 1 del DLGS n. 149/2022 al 30 giugno 2023 ed anticipata a sorpresa (a seguito di frettolosa e non commendevole vicenda) al 28 febbraio 2023 dall’art. 1, c. 380 della legge 29 dicembre 2022.

L’art. 818 deve infatti considerarsi regola attributiva agli arbitri di una competenza (cautelare) che prima essi non avevano, e come tale, ed in presenza di apposita disposizione transitoria, essa sfugge alla interferenza notoriamente residuale dell’art. 5[26]. Perciò il giudice statuale adito con ricorso cautelare depositato prima del 28 febbraio 2023 conserverà la propria potestas iudicandi – in virtù della disposizione transitoria ex art. 35, c. 1 del DLGS prima ancora che dell’art. 5 c.p.c. – anche successivamente a tale data ed anche se gli arbitri fossero per avventura investiti di poteri cautelari dalla convenzione inter partes ed avessero accettato prima di quella data. E viceversa, e nella stessa situazione, dovranno dichiararsi incompetenti gli arbitri aditi per la cautela prima della data medesima. Per contro, dopo quella data saranno competenti per la cautela gli arbitri e non il giudice (con conseguente declinatoria ad opera di quest’ultimo ove adito) se la convenzione inter partes, pur anteriore, lo preveda e se gli arbitri abbiano, anche anteriormente, accettato l’incarico. Per “procedimento instaurato successivamente a tale data”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 35, c. 1 del DLGS n. 149/2022, deve infatti intendersi, in relazione alla applicazione nel tempo del nuovo art. 818, non già il procedimento arbitrale (che potrebbe essere stato già instaurato in precedenza), bensì il procedimento cautelare innanzi agli arbitri o innanzi al giudice. Né sembrano esservi ragioni per ritenere che il potere cautelare arbitrale sussista solo se conferito da una convenzione arbitrale o patto separato successivi alla entrata in vigore del nuovo art. 818, c. 1, e non anche da una convenzione precedente (l’ipotesi di una convenzione precedente alla modifica dell’art. 818 e però attributiva di poteri cautelari agli arbitri è ovviamente plausibile ponendo mente alla possibile relatio a regolamenti arbitrali). L’ art. 818, c. 1, infatti – pur coinvolgendo indirettamente anche la efficacia della convenzione arbitrale – non è disposizione sulla convenzione arbitrale, bensì disposizione schiettamente processuale e non vi è dunque alcun motivo per postulare deroghe implicite, oltretutto difficilmente giustificabili anche in astratto, alla generale disposizione transitoria ex art. 35, c. 1 del DLGS, ad instar della nota distinzione che il legislatore del 2006 (art. 27 del DLGS n. 40/2006) tracciò fra la entrata in vigore delle nuove norme sull’accordo compromissorio e quella della altre norme procedimentali.

6. Riproposizione della istanza cautelare.

Per principio generale (art. 669 septies) il provvedimento negativo sulla richiesta cautelare non ne preclude la riproposizione. Perciò la si potrà riproporre davanti agli arbitri anche dopo che il giudice l’ha respinta, ed anche viceversa ove il diniego sia in rito ed in particolare per ragione di incompetenza[27].

In caso di rigetto nel merito, la riproposizione innanzi agli arbitri, nel frattempo divenuti competenti per aver accettato, sconterà il pur labile diaframma ex art. 669 septies, c. 1, della deduzione di “mutamenti delle circostanze” o per lo meno di “nuove ragioni di fatto o di diritto”. Agli arbitri il legislatore ha invero attribuito la potestà cautelare quale conformata dal diritto italiano, che è dunque lex arbitri negli arbitrati con sede in Italia.

7. In parentesi e salvi doverosi approfondimenti: qualche questione internazionalprivatistica.

Questo ultimo cenno richiama un tema arduo, mai studiato approfonditamente dalla nostra dottrina perché fino ad ora, e nel vigore del declinante vecchio testo dell’art. 818 cpc, non ve n’è stato quasi bisogno, ed il cui reale approfondimento, anche con riguardo alle esperienze ed alle dottrine straniere, richiederebbe una indebita duplicazione del già ampio spazio dedicato a questo scritto ed è dunque da rinviare ad altra sede.

La questione, assai complessa[28] è la seguente.

Posto che i nuovi artt. 818 ss. del codice di rito sono almeno in prima approssimazione sicuramente lex fori e dunque, per gli arbitri sedenti in Italia, lex arbitri (le due cose, e cioè la lex fori dal punto di vista del giudice statuale e la lex arbitri, non sono notoriamente sempre ed in assoluto la identica cosa) e risultano pertanto direttamente applicabili tendenzialmente solo dal giudice italiano o dall’arbitro di un arbitrato domestico o anche internazionale italiano e dunque con sede in Italia e governato dalla legge processuale italiana (il che non esclude che, preliminarmente, la convenzione arbitrale prevedente l’affidamento ad arbitri italiani anche di potere cautelare debba interpretarsi anzitutto sulla base di una legge straniera nei rari casi in cui sia questa a governarla), quid riguardo alle norme sui presupposti generali o speciali della cautela e soprattutto sui tipi ed i corrispondenti contenuti della cautela? Sono essi governati in tutto e per tutto dalla lex fori dell’arbitrato o se si vuole dalla lex arbitri e dunque, per ciò che qui interessa, in primo luogo dalla legge della sede dell’arbitrato[29], oppure dalla lex causae?

Giusto per intenderci: può l’arbitro di un arbitrato “italiano”, che però sia chiamato ad applicare al merito il diritto francese, provvedere in via cautelare disponendo un référé e cioè nella sostanza prescindendo dal periculum o previa valutazione di urgenza del tutto generica ed attenuata, ben diversa dal riscontro del “pregiudizio imminente ed irreparabile” del nostro articolo 700 e dalla conseguente e pur ondivaga selezione delle situazioni soggettive tutelabili? Io supporrei senz’altro di no: un giudice italiano nella stessa situazione, e cioè anche se chiamato ad applicare il diritto sostanziale francese, non potrebbe certo farlo, e non vi sono ragioni serie per autorizzare ovvero obbligare l’arbitro italiano in senso diverso. Ed insomma a quella domanda di partenza si dovrebbe rispondere che presupposti, tipi e contenuti della cautela, se ed in quanto la loro disciplina sia immedesimata all’evidenza nella legge del processo siccome strumentale alla tutela di situazioni sostanziali, pertengono schiettamente alla lex fori.

Sennonché è proprio quella evidente immedesimazione che può dar adito occasionalmente a dubbi. Non si può escludere insomma che un certo tipo di cautela – di carattere specifico e non trasversale rispetto ad una pluralità di situazioni soggettive[30] o ad una situazione apparentemente unica ma genericamente individuata[31] – risulti, anche a prescindere dalla collocazione formale della sua disciplina, talmente immedesimato invece nella regolazione sostanziale del rapporto da essere attratto dalla lex causae; di talché il giudice o l’arbitro non potrebbero ricorrervi sulla base soltanto della loro lex fori e potrebbero invece e dovrebbero farlo, pur ammessa la previa verifica della generale non incompatibilità con la lex fori[32], sulla base della legge applicabile al rapporto sostanziale ed al merito della controversia[33].

Un esempio di questa situazione – che riproduce in dimensione particolare il consueto dilemma della collocazione internazionalprivatistica dei meccanismi di tutela che stanno sul crinale fra diritto sostanziale e processo – potrebbe essere dato, ponendo mente al nostro ordinamento, dalla revoca cautelare dell’amministratore di s.r.l. prevista dall’art. 2476, c. III, cc, non già appunto perché contemplata da una disposizione del codice civile, bensì perché troppo inerente alla peculiare disciplina del rapporto societario sostanziale, e di quel tipo di società, per poter essere applicata da un arbitro, investito per avventura di controversia fra socio e ed amministratore di società di diritto straniero, sol perché l’arbitrato ha sede in Italia ed è governato dal diritto processuale italiano.

Se comunque si segue la pur eccezionale strada della possibile attrazione di presupposti, tipi e contenuti della cautela alla lex causae straniera piuttosto che alla lex fori, o addirittura la strada della signoria della autonomia privata nel senso della possibilità che essa affidi ad arbitri italiani la disposizione anche di misure cautelari previste da legge straniera[34], il provvedimento cautelare di un arbitro italiano tenuto nel caso concreto ad imboccare quelle strade sarà nondimeno assoggettato, a partire dal reclamo, all’interferenza giudiziaria quale disciplinata dagli artt. 818 ss. e correlate disposizioni ex artt. 669 bis ss., nei termini che saranno fra breve descritti; salvo che il giudice italiano di ciò investito dovrà nei congrui casi – altro possibile tema di complesso approfondimento – egli pure tener conto di quella legge straniera.

Sotto diverso e parallelo profilo deve poi osservarsi che la ripartizione ora voluta dalla nostra legge processuale fra competenza cautelare dell’arbitro e competenza cautelare del giudice, quando la controversia di merito è devoluta in arbitrato, non si impone ovviamente al giudice straniero. Il quale deciderà secondo la propria legge[35] se gli sia dato provvedere, dal punto di vista della giurisdizione cautelare eventualmente fondata sul luogo di esecuzione della misura, su richieste cautelari anche ove queste risultino funzionali ad un merito devoluto ad arbitri italiani e secondo la legge italiana andrebbero inoltrate agli arbitri invece che al giudice (italiano). Il rilievo è assolutamente scontato, ma è utile completarlo rammentando come neppure vi siano ragioni per ritenere il patto compromissorio o separato fra le parti attributivo della competenza cautelare agli arbitri (e costituente in proposito, secondo la nostra ed anche altre leggi nazionali, condizione necessaria) sia universalmente protetto dall’art. II della Convenzione di New York nel senso di precludere sempre la cognizione cautelare concorrente dei giudici statuali[36].

 8.Il reclamo cautelare avverso provvedimento arbitrale.

Premesso che il provvedimento arbitrale sulla istanza cautelare sarà invariabilmente una “ordinanza”, non necessitante né suscettibile dunque di omologazione visto che da nessun indice normativo può ricavarsi che possa trattarsi di un lodo (parziale)[37], l’art. 818 bis tempera, come si è anticipato, la novità liberista prevedendo, avverso la pronuncia arbitrale concessiva o negatoria della cautela, il reclamo “a norma dell’art. 669 terdecies davanti alla corte d’appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato[38].

Vi è una remota possibilità che, a sede dell’arbitrato non determinata compromissoriamente, tra la accettazione (specie quella dell’arbitro unico) e la fissazione della sede dell’arbitrato corra lasso temporale sufficiente al collocarsi di una ordinanza arbitrale su richiesta cautelare e che neanche in tale occasione l’arbitro e/o le parti rammentino l’esigenza di determinare la sede: soccorreranno allora, purché si sia ragionevolmente certi che si tratti di arbitrato radicato nell’ordinamento italiano, i criteri residuali ex art. 816, c. 2, senza peraltro che la sede resti così definitivamente fissata e che le parti o anche l’arbitro non possano modificarla ai fini del prosieguo del procedimento arbitrale e della individuazione del giudice competente per omologazione ed impugnazione del lodo.

Il termine di 15 gg. prenderà data – esclusa, per incongruità del riferimento rispetto al procedimento privato, la decorrenza dalla “pronuncia in udienza” – dalla notificazione ad istanza di parte o dalla comunicazione in qualsiasi forma ad opera del collegio[39].

Il reclamo è proponibile – così espressamente e con una qualche disinvolta faciloneria l’art. 818 bis reiterando quanto già esplicitato dal principio di delega[40] – “per i motivi di cui all’art. 829, primo comma, in quanto compatibili, e per contrarietà all’ordine pubblico”.

Secondo alcuni il legislatore ha detto troppo. Secondo me ha detto per un certo profilo troppo poco.

La intentio, in ogni caso, mi sembra abbastanza chiara ed in punto di principio non certo sfavorevole al provvedimento arbitrale in materia cautelare ed alla sua ragionevole protezione: trasformare una impugnazione a critica eminentemente libera e per di più aperta ai nova come è il reclamo cautelare in una impugnazione a critica vincolata. E certamente pur di fronte alla concreta attuazione del principio di delega si può senz’altro dire che il controllo del giudice statuale non consente un riesame nel merito del provvedimento arbitrale, così come non è consentito un tale riesame in sede di controllo impugnatorio avverso il lodo.

Bisogna comunque mettere ordine e non è facile.

In realtà i motivi ex art. 829, c. 1, quelli cioè corrispondenti agli errores in procedendo arbitrali, sono in astratto quasi tutti, con eventuali adattamenti, compatibili[41] con il reclamo cautelare avverso provvedimento arbitrale vuoi concessivo, vuoi negatorio della cautela. Ad esempio non può esservi dubbio che un sequestro conservativo o un provvedimento di urgenza impartiti da arbitro la cui nomina sia invalida, o al di fuori dei limiti oggettivi del patto di arbitrato, ovvero nonostante la inesistenza, invalidità o inefficacia di tale patto, o con disposizioni contraddittorie, o in spregio al contraddittorio, o addirittura una volta che gli arbitri risultino decaduti dal loro mandato per scadenza del termine, non meriti di restare in piedi. E neppure merita di restare in piedi un provvedimento cautelare arbitrale privo di motivazione, dispositivo o sottoscrizione, potendosi dunque ben ritenere compatibile con il reclamo, previa applicazione estensiva all’ordinanza cautelare arbitrale dell’art. 823, anche il motivo ex art. 829, c. 1, n. 5.

L’esame di tutti questi motivi in sede di reclamo corrisponde alla volontà esplicita e non irrazionale del legislatore ed è sterile lamentarsi. Un tale esame per di più prescinde da qualunque dinamica – tipica invece del reclamo avverso provvedimento cautelare giudiziale – di verifica in seconda istanza del fumus boni iuris, la quale nulla ha a che vedere con i vizi in procedendo ed invece solo con la esistenza o meno del diritto cautelando[42]. In altri termini la Corte d’appello adita con il reclamo di che trattasi non sarà certo chiamata a verificare ad esempio il fumus della validità o invalidità della convenzione arbitrale, bensì la validità o invalidità della convenzione arbitrale né più e né meno che se si trattasse della impugnazione del lodo. Con la precisazione per altro – altrimenti il sistema salta – che l’accoglimento di uno o l’altro di quei motivi in sede di reclamo cautelare non vincola, se non di fatto e se del caso in termini di persuasivo convincimento, in relazione alla prosecuzione del giudizio arbitrale ed alla successiva fase di impugnazione del lodo.

Anche con questa precisazione è chiaro che il reclamo cautelare dà esca ad una notevole intrusione della giurisdizione statuale nel cuore della vicenda arbitrale in corso: ma siamo appunto al discorso della bicicletta e della imprescindibilità del pedalare che si faceva in apertura.

Lo stesso è a dirsi per la “contrarietà all’ordine pubblico” dell’ordinanza arbitrale. La quale risentirà della medesima (tuttora incerta) elaborazione formatasi nella interpretazione ed applicazione dell’art. 829, c. 3, quanto alla contrarietà del lodo rispetto all’ordine pubblico. Sicché se tale contrarietà – visto che il termine di raffronto è la pronuncia arbitrale, cautelare o di merito che sia, e non la sua “esecuzione” – si intenda ragionevolmente comprensiva anche della vulnerazione, nel percorso motivazionale e decisorio, di disposizioni sostanziali inderogabili di ordine pubblico, ne seguirà che per tal via anche le valutazioni degli arbitri in punto di fumus della pretesa di merito potranno essere sindacate in sede di reclamo per aver ritenuto essi sussistente o insussistente il fumus in palese rotta di collisione con una di quelle disposizioni inderogabili.

In concreto, verosimilmente incompatibile con il reclamo cautelare – ma del resto di chimerica portata operativa anche in sede di impugnazione del lodo – sarà invece il motivo ex art. 829, c. 1, n. 7 (inosservanza di forme). Ed anche in astratto incompatibile, di per sé considerato, parrebbe a tutta prima il motivo ex art. 829, c. 1, n. 8, perché la contrarietà con il giudicato dovrebbe aver rilevo solo ove si raffronti pronuncia idonea a sua volta al giudicato e non pronuncia cautelare. A meno che ancor qui non si ritenga – come per la contrarietà all’ordine pubblico e come tutto sommato credo sia corretto – che la corte d’appello possa sindacare la valutazione arbitrale in punto di fumus o di insussistenza di fumus ravvisando che essa è ictu oculi smentibile sulla base di un precedente giudicato. Astrattamente compatibile, mutatis mutandis, ed ovviamente solo in relazione alla pronuncia arbitrale negatoria della cautela per ragioni di rito, è il numero 10 dell’art. 829, c. 1.

E quanto al n. 12 (“se il lodo non ha pronunciato su alcuna delle domande ed eccezioni proposte dalle parti in conformità alla convenzione di arbitrato”), il modo migliore di renderlo compatibile in sede di reclamo mi sembra il seguente: l’omessa pronuncia sindacabile è solo quella relativa al petitum cautelare (ho chiesto un sequestro conservativo ed in subordine un provvedimento di urgenza e gli arbitri non se ne sono avveduti e si sono limitati a negarmi il primo) ed alla eccezione direttamente opposta alla concessione della cautela, senza che la Corte d’appello possa qui sindacare la valutazione arbitrale in punto di fumus attraverso una indiretta riconsiderazione delle contrapposte posizioni e conclusioni ai fini del merito. La differenza è sottile ma mi sembra essenziale onde non dare adito ad una eccessiva intrusione giudiziale nelle valutazioni arbitrali.

Assodato tutto ciò è dunque chiaro, sempre de facto, che la parte che ha richiesto la cautela agli arbitri e se l’è vista rifiutata, dovrà ben calibrare l’opportunità o meno di un reclamo per motivi destinati ad essere riproposti in sede di impugnazione del lodo (in ipotesi, quest’ultimo, poi favorevole a quella stessa parte): ad esempio per vizio di costituzione del collegio, ovvero per inefficacia-invalidità della convenzione arbitrale.

Quel che però mi sembra certo – di là da queste valutazioni strategiche – è che il consueto (in ambito puramente giudiziale) interesse immediato alla cautela impartita dal giudice del reclamo, dopo il diniego in prime cure, può essere senz’altro perseguito anche attraverso il particolare reclamo ex art. 818 bis. In assenza di contrarie specificazioni normative vigenti, infatti, va affermato il pieno ed integrale potere cautelare sostitutivo del giudice del reclamo; il quale potrà sempre entrare nel “merito” della richiesta cautelare ed accoglierla anche quando il rifiuto totale o parziale degli arbitri sia annullato per ragioni di rito, come accade quando il giudice statuale di prime cure nega la cautela per ragioni di rito e il collegio del reclamo le ritenga erronee.

Se poi si applicasse “in quanto compatibile” anche il limite al rescissorio giudiziale di cui all’art. 830, le valutazioni strategiche dovrebbero essere ancor più complesse e accurate. Ma secondo me quel limite non si applica, perché, se così avesse voluto, il legislatore (pur quello frettoloso in parola) lo avrebbe richiamato. E bene ha fatto a non richiamarlo perché si tratterebbe di un limite incongruo rispetto al buon senso ed alla funzionalità complessiva della tutela cautelare.

Facciamo un esempio.

Gli arbitri negano una richiesta di sequestro conservativo. A seguito di reclamo la corte d’appello annulla l’ordinanza arbitrale perché la convenzione di arbitrato è invalida o perché il collegio arbitrale è irregolarmente costituito. Se fossimo in sede di impugnazione del lodo la corte d’appello non potrebbe, in ragione del limite al rescissorio ex art. 830, decidere il merito della controversia, il quale merito sarebbe destinato ad essere semmai riproposto al giudice di primo grado. Ma lì la cosa quadra perché la sentenza della corte d’appello è idonea al giudicato e perché non vi è di mezzo la impellente esigenza cautelare. Nel nostro caso, invece, credo che sul principio del limite al rescissorio debba decisamente prevale il principio del carattere integralmente sostitutivo del reclamo cautelare. Ergo: (i) la corte d’appello può ben annullare l’ordinanza negativa e concedere essa stessa il sequestro ravvisandone i presupposti; (ii) e lo stesso deve per coerenza dirsi – sempre che questa volta vi sia richiesta incidentale/riconvenzionale della parte reclamata – se gli arbitri hanno concesso il sequestro e la loro ordinanza viene reclamata ed annullata per quei motivi.

Ammetto che questa seconda soluzione (ii) è piuttosto eterodossa perché con essa si perviene nella sostanza ad una cautela impartita ex art. 669 quinquies (e cioè funzionalmente ad un merito per il momento affidato agli arbitri), e però in unico grado cautelare dalla corte d’appello. Ma si tratta, si ripete, di soluzione coerente con la prima (quella cennata sub (i)), e funzionale all’effetto utile della originaria istanza cautelare ed alla soddisfazione conforme alla economia processuale della relativa sottostante esigenza.

Su un piano più generale, va ribadito che il legislatore, con quel richiamo alla tassatività degli errores in procedendo, oltre che al contrasto con l’ordine pubblico, sindacabili nei riguardi del lodo, e perciò con la trasformazione del reclamo cautelare in mezzo a critica vincolata, ha inteso in prima approssimazione proteggere l’ordinanza cautelare arbitrale da un eccesso di controllo giudiziale esteso tout court e con libertà di sindacato al “merito” precipuo della cognizione cautelare e perciò alla verifica del fumus e del periculum oltre che all’ingresso dei nova, così come il sistema protegge dalla impugnazione il “merito” della cognizione arbitrale che si incorpora nel lodo. Ma a parte le sopra cennate indirette intromissioni nella verifica per lo meno del fumus attraverso qualcuno dei motivi del catalogo ex art. 829, il richiamo di tale catalogo comporta comunque un controllo ad opera del giudice statuale che, sebbene sistematicamente non abnorme visto che non è per definizione maggiore di quello esercitabile nei riguardi del lodo, è tuttavia condizionante de facto il successivo svolgimento della vicenda arbitrale e post-arbitrale.

Non solo. Sarà poi vero che le valutazioni arbitrali in punto di fumus e periculum non possono essere sindacate in sede di reclamo? È certamente così, salvo sempre quanto si è sopra precisato, purché però quelle valutazioni vi siano.

Ma se gli arbitri concedessero o negassero un provvedimento cautelare del tutto ignorando la necessità di riscontrare i due fondamentali presupposti della cautela (e solo quelli piuttosto che accertare funditus la situazione litigiosa), per come declinati dalla legge in relazione a ciascuna delle cautele tipiche, o viceversa in relazione a quella atipica, probabilmente si potrebbe ricondurre il vizio all’eccesso di potere di cui all’art. 829, c. 1 , n. 4: la convenzione inter partes avrà invero conferito ai giudici privati non già l’arbitrio provvisorio, bensì quella stessa potestà che il sistema conferisce al giudice. E come tale il vizio sarebbe deducibile in sede di reclamo: ad esempio ove gli arbitri concedano un provvedimento di urgenza senza alcun cenno al “pregiudizio imminente e irreparabile” e solo sulla base del fumus; oppure ove gli arbitri neghino un sequestro giudiziario dicendo “non si ravvisa il necessario pregiudizio imminente e irreparabile”.

9.Revoca e modifica.

Alla disposizione (art. 669 decies, u.c.) che recita “se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato (….) i provvedimenti [di revoca o modifica] devono essere richiesti al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare[43] è stato aggiunto (c. 47, lett. c del DLGS n. 149/2022) l’inciso: “salvo quanto disposto dall’art. 818 primo comma”, quello cioè che assegna agli arbitri, nel caso in cui così abbiano voluto le parti, la competenza cautelare esclusiva.

Il che vuol dire senz’altro che se il provvedimento cautelare è stato emanato dagli arbitri la revoca e modifica si chiedono in linea di principio agli stessi arbitri.

E vuol dire anche – del pari inossidabilmente – che se le parti non hanno assegnato agli arbitri la competenza cautelare bensì solo quella di merito, la revoca e modifica del cautelare giudiziale si chiederà al giudice statuale che lo ha emanato, anche pendente l’arbitrato.

Se invece, pur in presenza di un accordo compromissorio che assegna agli arbitri competenza cautelare, il provvedimento è stato del tutto legittimamente emanato dal giudice perché richiesto prima della costituzione del collegio o dell’accettazione dell’arbitro unico, a chi si chiede la revoca o modifica ? Si potrebbe opinare nel senso della competenza di chi ha emanato la misura, per evitare che agli arbitri sia riservato il potere di incidere sull’efficacia di un provvedimento del giudice dello Stato. E non escludo che molti ragioneranno così.

Io credo invece che l’espressione “salvo quanto disposto dall’art. 818 primo comma” sia tutt’altro che generica e noncurante, bensì generale e pregnante; e che essa insomma richiami l’attenzione sulla attribuzione agli arbitri di una competenza cautelare, entro i limiti prima cennati, davvero “esclusiva” a tutto tondo, e perciò anche ed invariabilmente estesa alla revoca e modifica della cautela in ragione di sopravvenute circostanze. Ergo: se le parti hanno voluto questa competenza esclusiva, saranno gli arbitri, una volta effettivamente acquisitala con la costituzione del collegio e fin tanto che l’arbitrato sia ancora pendente, a pronunciare sempre ex art. 669 decies anche rispetto ad una misura cautelare emanata, prima della costituzione del collegio, dal giudice. Del resto il procedimento di revoca e modifica non è che la ideale prosecuzione di quello cautelare alla luce delle sopravvenute circostanze[44].

Se così stanno le cose bisognerebbe ritenere che l’intero sistema speciale della competenza cautelare arbitrale, comprensivo anche di un reclamo anch’esso speciale in quanto non “aperto” ma chiuso ed a critica vincolata, si imponga in deroga perfino alle disposizioni (già di per sé estremamente complesse) ex art. 669 decies, c.1 e 669 terdecies, c.4, le quali consentono ed anzi impongono che sia il giudice del reclamo ad occuparsi, quando temporalmente possibile, fuori da qualunque vero e proprio sindacato impugnatorio, delle circostanze sopravvenute comportanti revoca e modifica. Ne conseguirà un assetto se si vuole semplificato ed a paratie stagne senza commistioni, sovrapposizioni e condizionamenti fra il procedimento di reclamo e quello di revoca o modifica. Ciò sicuramente quando la misura cautelare sia stata effettivamente e legittimamente emanata dagli arbitri; ma con ogni probabilità anche quando essa sia stata emanata dal giudice, pur in presenza di convenzione che attribuisca la potestà cautelare agli arbitri e sol perché questi non avevano ancora accettato al momento della proposizione della istanza, ma lo abbiano fatto nel frattempo divenendo così competenti per la revoca e modifica.

Questa impostazione va comunque coerenziata con il secondo comma dell’art. 669 decies.

Se abbiamo un “700” o altro provvedimento anticipatorio e dunque a strumentalità attenuata, esso non diventa com’è noto inefficace per mancato inizio o estinzione del giudizio di merito, ma resta nondimeno esposto alla revoca o modifica per mutamento di circostanze.

Bene: se il giudizio di merito è deferito ad arbitri, chi pronuncia sulla revoca e modifica del “700” emanato a) dal giudice prima della costituzione del collegio, ovvero b) dagli arbitri dopo, qualora il giudizio arbitrale non inizi o inizi e si estingua?

Applicando con un minimo di coerenza quanto sopra, e nel modo possibilmente più semplice l’art. 669 decies, c. 2, dovrebbe ritenersi che pronunci sempre il giudice se il provvedimento cautelare è stato da lui emanato, e pronuncino sempre gli arbitri rispetto a provvedimento da essi emanato. E ciò in modo da limitare la singolare ultrattività dei poteri e dell’impegno degli arbitri al solo caso in cui essi stessi abbiano disposto la cautela.

10. Sopravvenuta inefficacia.

Nulla ha detto il legislatore della riforma dei rapporti fra cautela arbitrale e art. 669 novies in tema di sopravvenuta inefficacia del provvedimento cautelare, gettandoci così nello sconforto (si fa per dire) ed in problemi ancora più complessi; non so se aggravati o resi di meno ardua soluzione dal fatto che lo stesso legislatore – pur senza avere minimamente di mira il versante del “cautelare arbitrale” – è però intervenuto sul testo dello stesso art.669 novies semplificando e prevedendo cioè che l’inefficacia si dichiara sempre, anche in caso di contestazione, “con ordinanza avente efficacia esecutiva”, piuttosto che con sentenza ed all’esito di un (a volte comico per la sua durata incongrua) giudizio ordinario in tre gradi.

Si riproduce lo stesso dilemma: chi dichiara l’inefficacia, in caso di convenzione arbitrale che affidi agli arbitri il potere cautelare “esclusivo”: gli arbitri o il giudice?

Qui sarei un po’ più prudente nell’ affidarmi toto corde e sempre agli arbitri, perché la cognizione, pur oggi semplificata, sull’inefficacia riguarda anche, a differenza di quella sulla revoca o modifica, fatti e profili altri rispetto all’ubi consistam della originaria cognizione cautelare, della sua mera rivisitazione e alla luce di sopravvenienze concernenti pur sempre quell’ubi consistam e cioè la valutazione del fumus e del periculum; e inoltre vi è che, pur se non sempre, alla declaratoria di inefficacia seguono i provvedimenti di ripristino e che di regola, pur se non sempre, tali provvedimenti debbono essere assunti con la medesima “ordinanza” di inefficacia avente a quel rispetto “efficacia esecutiva” (v. l’art. 669 novies, c. 2).

Salvi ulteriori approfondimenti traccerei dunque questo articolato quadro di massima.

Se il provvedimento cautelare è stato emanato dal giudice prima della accettazione degli arbitri ai quali fosse affidata dall’accordo delle parti la potestà cautelare, non vi è ragione, nel silenzio del novellatore ed anche attese le ragioni di cui sopra, per discostarsi da ciò che pianamente emerge dalla lettera dell’art 669 bis, e la declaratoria di inefficacia come i provvedimenti esecutivi conseguenziali vanno chiesti a quel medesimo giudice.

Se il provvedimento cautelare è stato emanato dagli arbitri, dovrebbero essere costoro competenti a dichiararne la inefficacia proprio in base al tenore dell’art. 669 novies, c. 2, plausibilmente letto in correlazione con il sopravvenuto nuovo art. 818, e perciò intendendosi “giudice” nel senso lato di “giudicante” comprensivo anche dell’arbitro (sarà fuori gioco per altro, fra le varie ragioni di inefficacia, quella rappresentata dal mancato inizio entro il termine del procedimento di merito, perché, se gli arbitri hanno provveduto alla cautela, il procedimento di merito arbitrale sarà stato per definizione già instaurato). A meno che non si trovi troppo scomodo che in caso di inefficacia per sopravvenuta estinzione del giudizio arbitrale gli arbitri debbano essere officiati per quella particolare incombenza al di là dell’espletamento (rectius della sopravvenuta estinzione) del loro mandato a decidere il merito. Ma l’argomento non è ovviamente insuperabile perché, se vi è concorde conferimento agli arbitri della decisione anche sulla cautela e relativa accettazione, un tale mandato non può che ricomprendere ogni connessa decisione pur successiva alla estinzione dell’arbitrato. E soprattutto a meno che non si opponga la difficoltà di conferire alla “ordinanza arbitrale di inefficacia” una portata effettivamente “esecutiva” quanto ai provvedimenti di ripristino, come vorrebbero l’art. 669 novies nonché le esigenze concrete, in assenza di sua omologazione; ma anche questo argomento è superabile, sebbene in modo operativamente più complesso, affidando l’esecuzione concreta dei provvedimenti di ripristino, siccome lato sensu pertinente all’esercizio della nuova potestà cautelare arbitrale, alla attuazione sorvegliata dal giudice secondo quanto previsto dal nuovo art. 818 ter (vedi oltre) da applicarsi analogicamente.

Chi considerasse significativa l’una o l’altra delle obiezioni farebbe bene per altro, e per ragioni di evidente semplificazione, a non distinguere caso da caso di inefficacia ovvero tra richiesta di declaratoria di inefficacia pura e semplice o con l’aggiunta dei provvedimenti di ripristino, e ritenere la vicenda post-cautelare della inefficacia affidata tout court al giudice dello Stato, che in tal caso andrebbe individuato, sempre con il soccorso della applicazione analogica del nuovo art. 818 ter, nel “tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato”.

Sicuramente però vi è un caso in cui l’affidamento dei provvedimenti in tema di inefficacia agli stessi arbitri che hanno pronunciato l’ordinanza cautelare non ha davvero alcuna controindicazione ed è pienamente conforme sia all’impianto ed alla ratio dell’art. 669 novies sia a quelli dei nuovi artt. 818 ss. (sicché la predetta ragione semplificatoria suggerirebbe ancor qui di non distinguere fior da fiore ed affidare sempre agli arbitri la verifica della sopravvenuta inefficacia, per qualsiasi ragione, della misura cautelare da loro emanata, superando decisamente le remore di cui sopra). E questo è il caso della inefficacia dovuta al sopravvenire di pronuncia di merito, anche non passata in giudicato, accertativa della inesistenza del diritto cautelato (art. 669 novies, c. 3). Tale pronuncia di regola sarà rappresentata dal lodo arbitrale con il quale gli arbitri completeranno l’espletamento del loro mandato dichiarando con capo aggiuntivo la inefficacia della loro misura cautelare e dettando le disposizioni per il ripristino, per la cui effettiva esecutorietà la parte interessata si affiderà ove del caso alla omologazione dello stesso lodo. Restano fuori due ipotesi residuali: (i) quella in cui gli arbitri trascurino di pronunciare nel lodo sulla conseguente inefficacia della misura cautelare (o non sia neppure richiesto loro di farlo), e (ii) quella (remotissima) in cui il giudizio arbitrale si estingua impregiudicato il merito dopo la emanazione ad opera degli arbitri di una misura anticipatoria a strumentalità attenuata, e per qualche ragione l’accertamento negativo del diritto cautelato sopravvenga all’esito di un giudizio ordinario nel quale non sia stata svolta o sia stata respinta l’eccezione di compromesso. In entrambe le ipotesi va a mio avviso opportunamente valorizzata, sebbene un tantino decontestualizzandola, l’espressione del terzo comma dell’art. 669 novies: “in tal caso i provvedimenti [relativi] alla inefficacia sono pronunciati nella stessa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito di ricorso al giudice….”. Ed insomma è preferibile nella seconda ipotesi (ii) affidare i provvedimenti sulla inefficacia de plano al giudice che emana la sentenza di merito, e non certo ad arbitri nel frattempo più che “pensionati” rispetto alla originaria pattuizione compromissoria. E nella prima ipotesi (i) consentire che, in luogo dell’eventuale e pur astrattamente possibile farraginoso iter consistente nella impugnazione del lodo ex art. 829, c. 1, n. 12 per omessa pronuncia (accessoria) sulla inefficacia della cautela con conseguente incombenza affidata nel rescissorio alla corte d’appello, la parte interessata si rivolga più rapidamente al giudice lato sensu “cautelare”, da individuarsi per territorio sempre mediante applicazione analogica dell’art. 818 ter e che deciderà con ordinanza.

Rimane, sempre a proposito della inefficacia, da far cenno a due distinti profili.

Il primo riguarda l’ultimo comma dell’art. 669 novies. Il legislatore della riforma non ha ritenuto – ha dimenticato – di coerenziarlo formalmente (e magari con il semplice “salvo quanto disposto dall’art. 818” già utilizzato nella novellazione del decies) rispetto alla novità del “cautelare arbitrale”. Ma all’interprete è agevole osservare che nell’incipit di quel quarto comma – “Se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato italiano o estero”, con tutto quello che poi segue e ne è implicato – il riferimento all’“arbitrato italiano” ha un senso operativo solo per il caso in cui le parti non abbiano conferito agli arbitri il potere cautelare. Altrimenti l’iter per la declaratoria di inefficacia della cautela previsto, per il caso di lodo che accerti la inesistenza del diritto cautelato, dal n. 2 nello stesso comma quarto andrà sostituito nei sensi di cui si è sopra detto[45].

Il secondo profilo è più importante e di ordine più generale. Una riflessione sistematica che tiene equilibratamente conto vuoi dei dati normativi preesistenti, vuoi dell’inserimento della cautela concessa da arbitri mi induce a ritenere che all’art. 669 novies ed alla sua mancata modifica quanto al catalogo dei casi di inefficacia, nonostante il dirompente ingresso della “cautela arbitrale”, vada prestato ossequio. Insomma non sembra dato creativamente aggiungere, sia pure con la scusa della novità sistematica, altri casi di inefficacia a quelli già previsti (mentre l’adeguamento dell’art. 669 novies è ben possibile nei termini che si sono visti quando riguardi le semplici modalità di richiesta e di pronuncia della declaratoria di inefficacia). Pertanto perfino l’annullamento del lodo in sede impugnatoria per ragioni che ridondino direttamente (ad es. invalidità o inefficacia dell’accordo compromissorio contenente la attribuzione del potere cautelare agli arbitri o vizio di costituzione dell’organo arbitrale) o anche indirettamente sulla legittimità della misura cautelare emanata dagli arbitri non comporta la inefficacia di quest’ultima, perché non è una “sentenza che dichiara inesistente” il diritto cautelato, la quale si avrà semmai solo all’esito dell’eventuale rescissorio in corte d’appello o all’esito del nuovo giudizio di merito ordinario o arbitrale. Semmai può dirsi, onde non lasciare indefinitamente efficace un provvedimento cautelare conservativo, che la sua inefficacia sopravviene ove non si dia rescissorio e perciò prosecuzione dell’originario giudizio di merito innanzi alla corte d’appello ed il nuovo giudizio sul merito non sia instaurato nel termine previsto, decorrente dalla pubblicazione della pronuncia della corte d’appello puramente rescindente. In diverse parole: gioca qui, unitamente al fatto che l’art. 669 novies contiene un catalogo tassativo di ipotesi di inefficacia ed appunto non è stato modificato in proposito, un senso questa volta pregnante del c.d. giudicato cautelare, nel senso che non è stato esperito a suo tempo o è stato esperito invano il reclamo quale unico mezzo idoneo per contestare la originaria legittimità della misura cautelare arbitrale, e poco importa che il lodo sia stato poi annullato per ragioni astrattamente inficianti anche quella.

Poiché però il diverso strumento della revoca del provvedimento cautelare è per definizione idoneo, nei congrui casi, a superare il giudicato cautelare nella accezione cennata e l’art. 669 decies non contiene affatto un catalogo tassativo dei mutamenti delle circostanze idonei a giustificare la revoca, non posso escludere che nei casi sopra prospettati il sopravvenire della sentenza della corte d’appello che annulli il lodo possa essere utilmente posto a fondamento di una istanza di revoca

11.L’attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali.

A quanto si evince dal nuovo art. 818 ter, l’attuazione della misura cautelare concessa dagli arbitri – i quali restano certamente privi di imperio coattivo pur se ciò finalmente è stato inteso dal legislatore come dato non impediente la attribuzione ad essi di potestà cautelare – segue le regole ordinarie, comprese quelle apposite per i sequestri stabilite dagli artt. 677 ss., ed è affidata alle medesime modalità previste per la misura cautelare giudiziale[46] dall’art. 669 duodecies, senza necessità di previo exequatur.

“L’attuazione” – recita il comma primo dell’art. 813 ter – “si svolge sotto il controllo del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato”.

Da un semplice confronto con la impostazione lessicale del parallelo art. 669 duodecies può evincersi come il legislatore abbia inteso consapevolmente superare, almeno ai fini della competenza giudiziale, la contrapposizione fra attuazione di provvedimenti cautelari aventi ad oggetto somme di denaro ed attuazione di provvedimenti aventi ad oggetto consegna, rilascio, fare o non fare, nonché i conseguenti dubbi ancora in parte irrisolti. Qualunque misura cautelare arbitrale, a prescindere dal suo oggetto, è attuata “sotto il controllo” del tribunale della sede dell’arbitrato[47]. Ed una tale soluzione unitaria e semplificatoria è poi confermata dal secondo comma nel quale, pur facendo salve le modalità “degli art. 677 e seguenti in ordine all’esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri”, si rinvia al primo comma quanto alla individuazione del tribunale competente[48].

Altro discorso è quello delle modalità di attuazione, perché dal rinvio dello stesso art. 818 ter all’art. 669 duodecies si evince che mentre per la misura cautelare arbitrale “non pecuniaria” le modalità di attuazione non sono pre-determinate e sono invece determinate, a seconda della situazione, dal tribunale (anche, ed in caso di contestazione, mediante apposita ordinanza all’esito di contraddittorio), per la misura cautelare arbitrale “pecuniaria” le forme della attuazione sono quelle “espropriative” previste dagli artt. 491 ss. “in quanto compatibili”. Perciò chi ritenga in termini generali che il mancato richiamo dell’art. 484 nel testo dell’art. 669 duodecies non impedisca che alla attuazione di misura “pecuniaria” debba necessariamente sovraintendere il giudice della esecuzione[49] non incontrerà, in caso di misura arbitrale, la difficoltà di postulare una competenza territoriale diversa rispetto a quella del giudice che ha emanato la misura[50] e potrà direttamente concludere che quella sorveglianza pertenga al giudice dell’esecuzione del tribunale della sede dell’arbitrato.

In ogni caso il sistema adottato dall’art. 818 ter, e cioè quello della diretta esecuzione sotto il controllo del giudice e su istanza della parte interessata, è sicuramente assai favorevole alla più celere possibile effettività del provvedimento cautelare arbitrale, se raffrontato al quasi altrettanto favorevole sistema dell’art. 183, c. 2 della legge svizzera sul d.i.p, ove la cooperazione giudiziale è mediata da una richiesta del tribunale arbitrale (al quale evidentemente l’interessato dovrà anzitutto e prudenzialmente indirizzare la propria sollecitazione), e soprattutto ai sistemi che richiedono un previo exequatur (quello olandese, pur notoriamente all’avanguardia quanto a favor arbitrati, e così anche la attuale versione della Legge-Modello Uncitral agli artt. 17 H e 17 I), o addirittura a quelli che prevedono una sorta di exequatur a seguito di richiesta arbitrale o di parte successiva alla mancata esecuzione spontanea (così in Inghilterra secondo la Sect. 42 dell’Arbitration Act del 1996) o un procedimento di exequatur con poteri modificativi della cautela assegnati al giudice dello Stato (così in Germania)[51].

12……e di quelli resi da arbitri esteri.

Quella ex art. 818 ter sulla competenza territoriale per l’attuazione è poi da altro punto di vista una apparentemente singolare disposizione, non so quanto pienamente intenzionale e consapevole, ma benefica. Vi si specifica che la competenza spetta al tribunale della sede dell’arbitrato se questa è in Italia, ma “se la sede dell’arbitrato non è in Italia” la competenza pertiene invece “al tribunale del luogo in cui la misura cautelare deve essere attuata”.

Se la sede dell’arbitrato non è in Italia, vuol dire che l’arbitrato non è italiano e dunque le regole del c.p.c., comprese quelle nuove sul cautelare arbitrale, non dovrebbero trovare applicazione, e non è certo il modesto art. 813 ter che può comportare un effetto di trascinamento sistematico in senso contrario e di inconcepibile ultrattività generalizzata della lex fori italiana.

Nondimeno vi è, ed è inequivoca, questa isolata disposizione che commette al giudice italiano, individuandone la competenza territoriale, l’attuazione del provvedimento cautelare reso da arbitri esteri e destinato alla esecuzione in territorio italiano. Il che vuol dire fra l’altro che, a questa sola ultima condizione e cioè alla localizzazione delle attività attuative in territorio italiano, il tribunale del luogo di attuazione potrà trovarsi, salvo il limite dell’ordine pubblico[52], a determinare caso per caso modalità di attuazione congrue anche rispetto a misure cautelari aventi natura, oggetto e portata in tutto o in parte “esotici” rispetto al ventaglio della nostra tutela cautelare[53].

Non vi è in ciò nulla di eretico perché il legislatore è ovviamente libero di affidare compiti al suo giudice statuale, pur diversi da quelli classicamente delibatori, anche in relazione ad una vicenda contenziosa devoluta ad arbitri o giudici esteri (come dimostrano proprio in materia cautelare già le disposizioni ex artt. 669 bis ss. dalle quali si evince il potere cautelare affidato al giudice italiano in presenza di convenzione per arbitrato estero o in pendenza di quest’ultimo[54], e qui si tratta della più modesta attuazione di cautela già impartita[55]).

Se questa disposizione – e cioè l’art. 818 ter – non vi fosse, il provvedimento cautelare emesso da arbitri esteri dovrebbe in teoria, per essere attuato in Italia, affrontare prima la trafila del riconoscimento con applicazione della Convenzione di New York e degli artt. 839 e 840 c.p.c., la quale per altro risulterebbe assai problematica ed anzi, salve evoluzioni future, pressoché da escludersi[56] perfino a prescindere dal fatto che l’una e gli altri si riferiscano letteralmente e rispettivamente alla “sentence arbitrale” o “arbitral award” ed al “lodo”[57].

Il legislatore ha inteso invece – ripeto non so con quanta puntuale consapevolezza – assicurare alla misura cautelare arbitrale estera lo stesso trattamento riservato alla misura cautelare resa da arbitri interni, esentando entrambe dal previo exequatur. Il che non solo è conforme, riguardo alla parità di trattamento e per quanto la cosa possa valere, alla Legge-modello UNCITRAL[58], ma rappresenta oltretutto spontanea scelta sintonica ed in qualche modo evolutiva e precorritrice rispetto allo spirito complessivo ed implicito della Convenzione di New York ed in particolare del suo art. III circa la sostanziale parità di trattamento da riservarsi al prodotto arbitrale estero rispetto a quello interno; sebbene non fosse adeguamento necessitato vista la nota e già cennata indifferenza della Convenzione e dello stesso art. III – illo tempore agevolmente comprensibile – rispetto a prodotti arbitrali diversi dal lodo. Sotto altro profilo, la piena compatibilità con il sistema della Convenzione di New York, nonostante la sua vocazione e la sua cogente efficacia di strumento di diritto uniforme, di un tale trattamento derogatorio e di maggior favore per la misura cautelare arbitrale estera rispetto a quanto la stessa Convenzione prevede per il lodo estero (il quale sconta invece, prima della sua attuazione coattiva nel paese ad quem, un imprescindibile e pur semplificato apposito procedimento di riconoscimento ed esecuzione), è già implicata dalla nota clausola del diritto più favorevole ex art. VII Conv..

Da soggiungere comunque che in via incidentale il giudice della attuazione cautelare dovrà verificare, per principio immanente, la riconoscibilità formale e sostanziale della medesima, e non potrà che indirizzarsi in proposito verso la applicazione analogica del catalogo ex artt. IV e soprattutto V della Convenzione di New York in quanto applicabile (non è ad esempio pensabile che il tribunale adito ad art. 818 ter dia attuazione ad una misura cautelare arbitrale estera emanata sulla base di una convenzione di arbitrato invalida nei termini di cui all’art. V, c. 1, lett. a, Conv.[59], ovvero ad una misura cautelare che imponga al debitore restrizioni della libertà personale o di circolazione). Pur fatta questa – a mio avviso necessitata[60] – implicazione ricostruttiva, la soluzione scelta dal legislatore italiano con l’art. 818 ter – attuazione diretta amministrata dal giudice senza previo exequatur – si rivela anche quanto ai provvedimenti cautelari arbitrali esteri particolarmente moderna e liberista.

La novità ha infine una particolare valenza sistematica. Sebbene l’art. 813 ter possa apparire addirittura del tutto normale nella prospettiva generica della recezione di effetti – sia pure per via non delibatoria ma appunto immediatamente “attuativa” – di un prodotto processuale straniero, occorre considerare che quel prodotto è a sua volta funzionale alla effettività di una ulteriore pronuncia di merito da emanarsi ad opera di arbitri esteri. Una tale funzionalità ancillare, sebbene essa possa presentarsi nei casi concreti con maggior o minore evidenza, non può essere negata, ben al di là della nota alternativa teorico-pratica fra strumentalità piena e strumentalità attenuata della cautela. E ciò perché il provvedimento cautelare in questione sarà sempre “in corso di causa” rispetto al giudizio arbitrale che si va svolgendo all’estero e dunque pressoché sempre destinato a risolversi nel definitivo lodo che lo concluda; a parte il fatto che in non pochi casi potrebbe trattarsi di cautela della prova, la cui attuazione giudiziale in territorio italiano costituirebbe un autentico e diretto ausilio all’esercizio della cognizione di merito degli arbitri esteri, e dunque allo svolgimento delle loro precipue funzioni[61].

Perciò l’art. 813 ter si inserisce anche nella prospettiva, assai meno “normale”, esplorata e certa, dell’ausilio giudiziario all’arbitrato estero e cioè della occasionale compatibilità – nonostante la apparente tendenziale incompatibilità logica ed anche fuori dai casi marginali di momentanea incertezza sul carattere interno o estero dell’arbitrato – tra funzioni ausiliarie del giudice dello Stato e vicenda arbitrale che si svolga nell’ambito di un ordinamento straniero (prospettiva nella quale un precedente balzo in avanti è stato ad esempio compiuto, nel diverso ambito dell’ausilio del juge d’appui alla costituzione dell’organo arbitrale, dal legislatore francese con il Decreto n. 2011/48 del 2011 e la modifica dell’art. 1505 del n. c.p.c.[62].

* Questo scritto – destinato alla Rivista dell’arbitrato – è dedicato affettuosamente e con commosso rimpianto alla memoria di Roberto Marengo, Elio Fazzalari, Edoardo Ricci e Nicola Picardi, perché con loro – amico carissimo il primo, maestri impareggiabili gli altri – avrei discusso volentieri, con la passione ed il divertimento intellettuale di sempre e ricavandone grande profitto, anche di queste ultime novità in materia di arbitrato.

[1] Cfr. BRIGUGLIO, in AA.VV., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, c. 15, in Riv.arb., 2021, 3 s.

[2] Che lo dovessero necessariamente fare con modifiche a macchia di leopardo di norme processuali oltre che con il varo dell’utile ma non decisivo e speriamo decentemente funzionale – ma non è detto – “ufficio del processo”, è, come si è appena rilevato, altra storia.

[3] Sulla base del noto e semplice ragionamento (vedi per perspicui riferimenti SALVANESCHI, Arbitrato, Bologna, 2014, 625 ss. ed in precedenza fra i molti CONSOLO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 1991, 457 e LUISO, Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo civile, in Riv. arb., 1991, 253 ss.) secondo cui l’asserito ostacolo derivante dalla assenza di potere coercitivo intrinsecamente proprio dei giudici privati è solo apparente visto che esso non impedisce né ha mai impedito agli arbitri di emanare pronunce finali di condanna destinate anche e se del caso alla esecuzione coattiva, la questione risolvendosi, dunque, e superandosi – vuoi per il lodo, vuoi per la eventuale ordinanza cautelare dell’arbitro – nell’approntare meccanismi di attuazione forzata richiedenti la inevitabile cooperazione del giudice dello Stato; il che – si badi – può prescindere perfino dalla previa omologazione, la quale potrebbe essere tranquillamente (si fa per dire) eliminata quanto al lodo, come accade in taluni (pochi) ordinamenti nazionali, e come dimostra proprio la riforma italiana in questione che, intonsa la necessità di previa omologazione per la trasformazione del lodo condannatorio in titolo esecutivo, non ha invece ciò previsto per il provvedimento cautelare arbitrale chiamando semmai in campo il giudice dello Stato appunto per la sua “attuazione” (vedi in dettaglio oltre al par. 10).

Il dogma del rifiuto della attribuzione di potestà cautelare arbitrale ed il suo progressivo superamento nulla o poco abbiano in astratto a che vedere con l’alternativa fra una visione prevalentemente “privatistica” o prevalentemente “giurisdizionalistica” della funzione arbitrale (assolutamente compatibile con entrambe essendo sia la indubbia assenza di poteri coercitivi direttamente propri dei giudici privati sia la indefettibile capacità di costoro di risolvere liti con pronunce destinate alla esecuzione forzata). È un fatto però che quel dogma fosse particolarmente solido in epoca o comunque fra studiosi del passato che confinavano (i più) l’arbitrato nel ristretto recinto della autonomia privata (v. ad esempio ancora SATTA, nel Commentario al codice di procedura civile, IV-2, Torino, 1971, 282); mentre il suo superamento si sia coralmente affermato mano a mano che la concezione di una autentica “iurisdictio” (pur privata) assegnata agli arbitri sul piano funzionale si andava facendo strada, consolidata anche da evoluzioni normative (soprattutto con la novella del 2006) e giurisprudenziali (a partite da una celebre sentenza delle Sezioni Unite del 2013) ben note. Probabilmente, per altro, ha influito, da diverso versante, sul trascorso radicamento del dogma, un qualche fraintendimento (non sull’arbitrato ma) in ordine alla funzione ed al ruolo della tutela cautelare come destinata, addirittura alla stregua del Contempt of court, a “salvaguardare l’imperium judicis, ossia ad impedire che la sovranità dello Stato nella sua più alta espressione che è quella della giustizia” [per incidens proprio quella alta espressione di sovranità mortificata ora dall’aver dovuto provvedere ad ogni costo ad una riforma del processo civile che nessuno voleva] si riduca ad essere una tarda ed inutile espressione verbale” (cfr. le note espressioni di CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 252), cui faceva seguito la spiegazione del perché “la giurisprudenza” [allora e già prima dell’avvento dell’art. 818 del codice del 1942] si mostra restia ad ammettere che agli arbitri possa essere conferito dai compromittenti il potere di conceder sequestri” (parole puntualmente ricordate ora da CARLEVARIS, nelle sue chiose al principio di delega di cui ci stiamo occupando, in AA. VV., Commento, cit., 37). E il fraintendimento stava, a mio sommesso avviso, nel fatto che invece ci si doveva e ci si dovrebbe preoccupare che non sia una “tarda ed inutile espressione verbale” la protezione concreta dei diritti soggettivi in caso di lite, onde una volta ammessa la devoluzione della lite agli arbitri la cosa più “normale” è che ad essi possa devolversi anche la tutela cautelare.

[4] La cosa non è agevolmente documentabile, ma è un fatto che almeno nei dibattiti fra i cd. “garzoni del legislatore” ed in particolare già nella commissione interna organizzata dall’Associazione Italiana per l’Arbitrato quale strumento promotore della riforma del 1994 e poi anche in occasione dei lavori che portarono alla novella del 2006, l’idea di valicare il Rubicone si fece insistentemente avanti; ma si riscontrò sempre, da fonti ufficiose e tuttavia affidabili, la avvertenza secondo la quale al Ministero e comunque in Parlamento una simile novità “non sarebbe passata”.

[5] Dall’art. 35 del DLGS n. 5/2003 in materia di arbitrato societario, con la concessione agli arbitri del potere di sospensione cautelare delle delibere assembleari: su cui vedi per tutti VILLA, Arbitrato rituale e sospensione delle decisioni sociali, Milano, 2007; questa pur timida, sebbene praticamente piuttosto rilevante, anticipazione ha comportato che perfino nel testo dell’art. 818 fino ad ora vigente si aprisse, di seguito al drastico divieto di provvedimenti cautelari arbitrali, un varco praticabile: “salva diversa disposizione di legge”.

[6] La cosa – che differenzia ad esempio la nuova soluzione italiana da quella svizzera, ove alle parti di una convenzione arbitrale è dato escludere la potestà cautelare arbitrale, ma altrimenti essa si intende ipso iure attribuita (v. l’art. 183, c. 1, della legge sul d.i.p), e da altre – può spiacere (cfr. ad esempio CARLEVARIS, in AA. VV., Commento, cit., 39), ma a me pare invece più che equilibrata.

[7] Vedi anche, con esito parzialmente diverso, oltre, par. 3, al richiamo della nota 15.

[8] Semmai, il rilievo conferito ora ed in termini generali dal nuovo art. 818 alla autonomia privata in tema di “cautela arbitrale” potrebbe giustificare l’assunto secondo cui l’art. 838 ter, c. 4, sarebbe derogabile e dunque la sospensione della delibera attribuibile al giudice statuale, se così preveda la convenzione arbitrale statutaria; sennonché proprio quella disposizione rientra (come rientrava anche prima) nell’ambito della “disciplina inderogabile del procedimento arbitrale”, e sebbene la “rubrica” non vincoli essa si oppone decisamente ad un assunto che già non ha per conto suo una giustificazione certissima.

[9] La “espressa volontà delle parti, manifestata nella convenzione arbitrale” di cui diceva il principio di delega (tacendo del possibile rinvio ad un regolamento arbitrale) è stata tramutata dal legislatore delegato nel semplice riferimento alla “convenzione di arbitrato” ed in quello aggiuntivo al possibile rinvio da questa a regolamento arbitrale che preveda la attribuzione di potere cautelare agli arbitri. Non mi sembrano tuttavia sussistere problemi seri di conformità alla delega. Da un lato è implicito – mediante interpretazione del testo dell’art. 818, c. 1, alla luce del principio di delega – che la attribuzione pattizia di poteri cautelari agli arbitri debba essere chiara ed espressa; d’altro lato la relatio perfecta dalla convenzione arbitrale al regolamento, che a sua volta conferisca chiaramente poteri cautelari agli arbitri, risponderà sempre al suddetto requisito nonché alla intentio del legislatore delegante.

[10] La necessaria “precedenza” del patto scritto, distinto dalla convenzione arbitrale, rispetto alla instaurazione del giudizio arbitrale farà sì che – salvi rarissimi casi di scuola: ad esempio quello di una convenzione arbitrale indicante già i nominativi degli arbitri i quali contestualmente accettino l’incarico in anticipo rispetto all’insorgere di una lite riferibile alla medesima convenzione – l’attribuzione di potere cautelare agli arbitri preceda sempre la loro accettazione.

Tale necessaria precedenza non era contemplata, per vero, dal principio di delega (che discorreva solo di “atto scritto successivo” alla convenzione arbitrale). E qui si potrebbe a rigore riscontrare una veniale divergenza della soluzione puntualizzata dal legislatore delegato nel testo dell’art. 818, c. 1, se non fosse per la assoluta improbabilità che dopo la instaurazione del giudizio arbitrale, cioè in corso di arbitrato, le parti concordino sulla competenza cautelare arbitrale. Il che rende quella discrasia ancor meno che veniale ed in realtà pressoché innocua. Probabilmente, tuttavia, il legislatore delegato ha ragionato in modo diverso ed un tantino sghembo o sfasato: il patto successivo alla convenzione arbitrale, di cui diceva il principio di delega, deve essere anteriore alla instaurazione dell’arbitrato in modo che, quando gli arbitri accettano, concordino anche con la attribuzione loro dei poteri cautelari (salvo che, ma la cosa è poco rilevante, vi è comunque di solito uno iato temporale fra instaurazione del giudizio ed accettazione degli arbitri). Quel che conta sul piano operativo è che se la remota eventualità di un patto attributivo della potestà cautelare raggiunto in corso di arbitrato si verifichi, il retaggio del principio di delega e le considerazioni fin qui svolte potrebbero ragionevolmente consentire una interpretazione adeguatrice dell’art. 818, c. 1, tale per cui quel patto sia efficacemente attributivo di potestà cautelare agli arbitri purché da questi accettato, il che verosimilmente avverrà subito di seguito al suo deposito o alla sua formalizzazione – ben inteso con intervento delle parti personalmente o dei difensori delegati ad hoc – a verbale di udienza arbitrale.

[11] In questo secondo caso deve ritenersi, per ciò che qui interessa, “instaurato” il giudizio arbitrale, appunto sulla base della relatio al regolamento, anche ove si considerino non ancora realizzati gli effetti sostanziali della domanda normativamente previsti.

[12] Va osservato – rinviando per l’analisi di altre discrasie letterali a quanto si avrà occasione di dire nel prosieguo – che nel principio di delega ex art. 1, c. 15, lett. c) della legge n. 206/2021 la novità della potestà cautelare arbitrale era accompagnata dal monito “salva diversa disposizione di legge”. Questo monito è parso ad alcuno sintomo di spiacevole ritrosia nella introduzione della rilevante novità, una sorta di dubbioso contraltare chiusurista rispetto alla medesima espressione che, nel sostituito vecchio testo dell’art. 818 (vedi sopra la nota 5) aveva invece sapore aperturista (cfr. CARLEVARIS, in AA.VV., Commento, cit., 39). Ma francamente a me non aveva dato una tale impressione, bensì quella di una, pressoché inutile, tuzioristica riserva pro futuro del legislatore, ovvero quella di una riserva di tutt’altro genere, orientata dalla esistenza nel sistema di una parzialmente diversa disciplina della cautela arbitrale già prevista dall’art. 35 del DLGS n. 5/2003. Ad ogni modo quel monito non vi è più nel testo dell’art. 818, ma è una soppressione assolutamente insignificante e non spregiativa della delega perché è assolutamente ovvio che il legislatore possa in futuro e per casi particolari derogare a sé stesso, e quanto all’art. 35 del DLGS sull’arbitrato societario le ridottissime differenze di regime rispetto alla cautela arbitrale per così dire ordinaria sono ormai immediatamente percepibili all’interno della stessa disciplina codicistica del giudizio privato, vista la già cennata rifusione nel codice della disciplina dell’arbitrato societario.

[13] Vedi in proposito e per utili riferimenti CARLEVARIS, in AA.VV., Commento, cit., 41 ss.

[14] Si pensi ad esempio alla ammissione della istanza ex art. 700 ante causam per la sospensione di delibera assembleare non ancora ottenibile con il provvedimento tipico (tipicità che dunque dovrebbe in astratto escludere la cautela atipica d’urgenza) previsto dal codice civile.

[15] Così fra l’altro potendosi risolvere ex ante il problema subito sopra segnalato della adozione della misura rivolta anche a terzo.

[16] Nella nota pronuncia n. 253 del 23 giugno 1994 la Consulta si mosse, in senso additivo rispetto all’art. 669 terdecies ancor caldo di forno legislativo, sol perché vi si prevedeva il reclamo secundum eventum e cioè unicamente avverso l’ordinanza concessoria, e ravvisando in ciò, per ragioni a tutti note, uno squilibrio lesivo dei principi costituzionali. Non sembrano invece esservi elementi davvero persuasivi per postulare che il legislatore ordinario non sia libero di prevedere una vicenda cautelare sempre senza doppio grado, vuoi in caso di concessione vuoi in caso di diniego della cautela. Del resto la limitata anticipazione normativa della cautela arbitrale ex art. 35 DLGS n. 5/2003 (sospensione delle delibere assembleari in caso di “arbitrato societario”) non ha dato luogo ad alcun particolare problema per il fatto di essere stata configurata in unico grado innanzi agli arbitri.

[17] Pertinenti osservazioni e riferimenti in proposito ad es. in CARLEVARIS, La tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, Padova, 2006, 251 ss. e passim, e poi in BIAVATI, Spunti critici sui poteri cautelari degli arbitri, in Riv. arb., 2013, 335 ss., BORN, International Commercial Arbitration, Alphen an den Rjin, 2021, 2619 s..

[18] Nel senso ovviamente di desunto dal testo della nota Convenzione del 1958.

[19] E perciò della accettazione ad opera di tutti i suoi membri. La formale accettazione dell’arbitro unico o di tutti gli altri è il momento indubitabilmente dirimente ai fini che qui interessano. Eventuali successive formalità prodromiche all’effettivo svolgimento della trattazione innanzi agli arbitri (trasmissione del file et similia), anche se previste da regolamenti arbitrali richiamati nella convenzione arbitrale, non rilevano minimamente nel senso di mantenere medio tempore la competenza cautelare al giudice precludendola agli arbitri: l’accettazione è l’accettazione e basta, e non possono esservi equivoci confusi su crinale così delicato come quello della ripartizione della competenza cautelare (contra dubitativamente CARLEVARIS, in AA.VVV., Commento, cit., 42).

[20] A tale approdo – che cioè la sospensione andasse chiesta al giudice prima della accettazione degli arbitri nonostante l’attribuzione ad essi del corrispondente potere cautelare in forza dell’art. 35 del DLGS. 5/2003 – si è giunti comunemente anche nella vigenza di quel disposto e quando ancora il nuovo art. 818 era di là da venire; in proposito v. per tutti VILLA, Una poltrona per due: la sospensione delle delibere assembleari fra giudice privato e giudice statuale in Riv. arb., 2009, 311, in nota a Trib. Milano 17 marzo 2009.

[21] Ma pur sempre per volontà riconducibile alle parti per via della relatio al regolamento.

[22] Di dubbia efficacia per altro, ai fini che ci interessano, se effettuata in incertam personam quanto a futuri o comunque ignoti compromettenti.

[23] Sulle complesse questioni teoriche ma anche pratiche relative al coordinamento fra l’art. 669 quinquies e le altre disposizioni sulla giurisdizione e la competenza cautelare, ivi compreso l’art. 10 della legge n. 218/1995, in relazione al caso in cui il merito sia devoluto ad arbitri esteri rinvio a BRIGUGLIO, Potestas iudicandi in materia cautelare ed arbitro estero, in Riv. arb., 210, 17 ss.

[24] E vero che in apparenza una strada per ammettere il regolamento di competenza proprio sulla base dell’intonso (ma in astratto aperto all’integrazione con le norme appena introdotte) art. 819 ter vi sarebbe, e consisterebbe nell’osservare che il c. 1 discorre anche di “ordinanza” del giudice, affermativa o dichiaratoria di competenza, “in ragione della convenzione di arbitrato”, e che quest’ultima potrebbe, dopo l’introduzione del nuovo art 818, intendersi anche come “convenzione fra le parti attributiva della competenza cautelare agli arbitri”. Ma il risultato sarebbe incongruo: l’ordinanza del giudice cautelare sulla propria competenza sarebbe ricorribile in cassazione solo ove essa riguardi il riparto di attribuzioni con gli arbitri, e non invece in ogni altro caso, perciò è miglior partito ritenere che la portata dell’art. 818 ter, c. 1, sia rimasto esattamente quella che era in precedenza: disposizione che saggiamente ammette il regolamento di competenza (in luogo della impugnazione ordinaria) le quante volte il giudice statuale decida sulla ripartizione fra sé e l’arbitro in ordine alla cognizione di merito.

[25] Cfr. per tutti BALENA, I nuovi limiti della giurisdizione italiana, in Foro it. 1996, V, 235.

[26] Cfr. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, 266 nota 6; LUISO, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 5.

[27] Se invece gli arbitri abbiano respinto nel merito l’istanza cautelare, la sua riproposizione davanti al giudice è in teoria possibile, ma praticamente assai problematica perché essa proverrebbe dalla medesima parte che in un primo tempo ha ritenuto la competenza cautelare arbitrale e che disinvoltamente muterebbe l’avviso.

A tacer d’altro dunque ad una riproposizione da tal parte fondata in punto di asserita competenza (giudiziale) su una certa interpretazione della pur dubbia volontà concorde dei compromettenti, potrebbe agevolmente esser opposta, ex art. 1362, c. 2° c.c., la precedente condotta di chi ha inizialmente ritenuto il contrario rivolgendosi agli arbitri.

[28] e non coincidente con la questione del fondamento della competenza cautelare arbitrale di cui si è intelligentemente occupato, nella nostra dottrina, CARLEVARIS, La tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, Padova, 2006, 31 ss., ma vedi anche lo scritto di TOMMASEO, Lex fori e tutela cautelare nell’arbitrato commerciale internazionale, in Riv. arb., 1999, 26 ss.

[29] Quando CARLEVARIS, op. lc. ult. cit., si occupa dell’in parte diverso problema del fondamento della competenza cautelare arbitrale finisce per giungere alla conclusione che il più sicuro ancoraggio di tale competenza è ovviamente alla legge della sede dell’arbitrato, per lo meno nel senso che quel fondamento può derivare solo dall’espressa attribuzione di tale competenza (con applicazione dunque della inerente disciplina) da parte di tale legge ovvero dal suo silenzio, permissivo della attribuzione implicita o esplicita mediante la volontà delle parti di quei poteri agli arbitri; disposizioni della legge della sede come il nostro precedente art. 818 inibiscono invece ed altrettanto ovviamente qualsiasi attribuzione pattizia implicita o esplicita, come pure qualunque possibilità, sia pure eccezionale, di utilizzare la legge straniera applicabile al merito della controversia per consentire agli arbitri la adozione di strumenti cautelari previsti da quella legge.

[30] Come ad esempio il nostro provvedimento di urgenza.

[31] Come ad esempio il nostro sequestro conservativo.

[32] Per lo meno sotto il profilo dell’ordine pubblico processuale.

[33] Una simile impostazione potrebbe risultare coerente con – e trovare dunque sponda nella – la più ampia dottrina degli “inherent powers” arbitrali (cfr. per tutti già CARON, Interim Measures of Protection, in Zeitschrift für auslӓndisches offentliches Recht und Vӧlkerrecht, 1896, 476 ss.), secondo la quale la competenza cautelare arbitrale (non derogabile dalle parti ma certamente escludibile dalla lex arbitri in quanto lex fori arbitrale ove essa comprenda disposizioni rigorosamente ed espressamente impeditive come il nostro ormai vecchio art. 818) troverebbe fondamento nella somma di tutti poteri intrinseci degli arbitri necessari ad assicurare tutela alle situazioni soggettive sostanziali innanzi ad essi dedotte ed a risolvere corrispondentemente la controversia di merito loro devoluta. In questa prospettiva pare ancor più plausibile che gli “inherent powers” ricomprendano nei congrui casi la potestà cautelare per come disciplinata, quanto a presupposti, tipologia e contenuti dalla legge sostanziale che governa il rapporto. Sennonché – a parte ovviamente la non certezza di siffatto link teorico-sistematico rispetto alla dottrina dei “poteri inerenti” – vi è che essa, fuori da ambiti peculiari inerenti al contenzioso direttamente o indirettamente internazional-pubblicistico (vedi riferimenti alla Corte internazionale di giustizia e soprattutto al Tribunale arbitrale Iran-USA in CARLEVARIS, La tutela cautelare, cit, 56 ss.), non ha incontrato una sicura e generalizzata affermazione.

[34] Strada quest’ultima che potrebbe risultare assai utile alla prassi dei futuri arbitrati internazionali con sede in Italia e che potrebbe trovare qualche supporto orientativo sia nella ampiezza del testo del nuovo art. 818, ove si dice della attribuzione pattizia agli arbitri del “potere di concedere misure cautelari”, sia soprattutto nel nuovo art. 818 ter, di cui oltre si riferirà in dettaglio, ed ove è conferita al giudice italiano la sorveglianza sulla attuazione anche delle misure cautelari disposte da arbitri esteri: parrebbe dunque, se non strettamente necessitato, per lo meno possibile che un giudice italiano, il quale già si trova ad attuare sul territorio italiano tipi e contenuti di cautela verosimilmente “esotici” disposti da arbitri esteri, fosse chiamato alla stessa incombenza quanto a tipi e contenuti esotici della cautela disposti da arbitri sedenti in Italia.

[35] La quale oltretutto, e come si è già avuta occasione di osservare, molto spesso contemplerà in principio una competenza sempre concorrente fra giudice ed arbitro.

[36] Su ciò e sul possibile riscontro invece, caso per caso ed a seconda anzitutto di come quel patto sia costruito, di una sua protezione in senso preclusivo sulla base dell’art. II Conv., rinvio, anche per riferimenti, al mio Potestas iudicandi in materia cautelare, cit., 22 ss.. Della distinta e non necessariamente interferente questione relativa alla inapplicabilità diretta della Convenzione di New York alle misure cautelari arbitrali si avrà occasione di dire infra, al par. 11.

[37] Nulla esclude per altro che il provvedimento sia per errore incorporato dagli arbitri nel testo di un lodo parziale o non definitivo, dovendosi allora ad ogni effetto scindere quel testo in due distinte pronunce ciascuna con il proprio regime.

[38] Il contraltare riequilibrante del controllo impugnatorio giudiziale è considerato più che plausibile anche in culture giuridiche, come quella svizzera, da tempo su posizioni di notevole favor arbitrati con particolare riguardo al potere cautelare degli arbitri: cfr. ad esempio BESSON, Arbitrage international et mésures provisoires, Zürich, 1999, 343.

[39] In realtà che il termine decorra da una notifica anteriore alla comunicazione è alquanto inverosimile, perché il notificante dovrebbe richiedere agli arbitri una copia da loro autenticata del provvedimento ed è per l’appunto inverosimile che gli arbitri si trovino a rilasciare tale copia senza aver prima comunicato il provvedimento ad entrambe le parti.

[40] “Prevedere l’attribuzione agli arbitri rituali del potere di emanare misure cautelari nella ipotesi di espressa volontà delle parti in tal senso, manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo, salva diversa disposizione di legge; mantenere per tali ipotesi in capo al giudice ordinario il potere cautelare nei soli casi di domanda anteriore all’accettazione degli arbitri; disciplinare il reclamo cautelare davanti al giudice ordinario per i motivi di cui all’art. 829, primo comma, e per contrarietà all’ordine pubblico; disciplinare le modalità di attuazione della misura cautelare sempre sotto il controllo del giudice ordinario”: così la lett. c) dell’art. 1, c. 15, della legge di delega. Se le prime disposizioni erano sufficientemente specifiche e chiare, la disposizione relativa al reclamo era generica ma consona ad una legge di delega. Sicché spettava al legislatore delegato di “disciplinare” concretamente ed in dettaglio il reclamo, ben considerando la peculiarità e la novità del suo oggetto in relazione al complessivo impianto della disciplina del procedimento cautelare uniforme e, d’altro lato, in relazione al catalogo impugnatorio ex art. 829. Il legislatore delegato si è sostanzialmente sottratto, come constateremo nei successivi paragrafi, al primo compito, occupandosi solo di quest’ultimo versante e solo con la facile e sbrigativa aggiunta dell’“in quanto compatibili” riferita ai motivi di impugnazione del lodo.

Sotto altro profilo è da segnalare che attraverso l’esplicito rinvio che il nuovo art. 838 ter, c. 4, in materia di provvedimento arbitrale sospensivo di delibera societaria, opera al reclamo “ai sensi dell’art. 818 bis” il legislatore delegato ha risolto nel modo più corretto e correttamente interpretando i principi di delega (secondo il suggerimento, fra gli altri, della SALVANESCHI, in AA.VV. Commento, cit., in Riv. arb., 2022, 83 s.) l’apparente discrasia fra le lettere c) ed f) dell’art. 1, c. 15 della legge di delega n. 206/2021. Non possono dunque esservi più dubbi sul fatto che il reclamo avverso provvedimento arbitrale concessivo o negativo su istanza di sospensione di una delibera societaria ha il medesimo ambito, quanto alle ragioni di doglianza (e non maggiore e cioè esteso tout court al sindacato degli errores in iudicando), del reclamo avverso qualsiasi altro provvedimento arbitrale su istanza cautelare.

[41] Diversamente, commentando il principio di delega, CARLEVARIS, in AA.VV., Commento, cit., 48.

[42] È così infatti anche in sede di sindacato, attraverso il reclamo cautelare, dei vizi in procedendo in cui sia incorso il giudice di prime cure.

[43] E non al giudice straniero o al giudice privato del merito.

[44] Ovviamente, e secondo impostazione assolutamente consolidata sul versante della cautela giudiziale, la pronuncia arbitrale sulla istanza di revoca e modifica sarà reclamabile innanzi alla corte d’appello ex art. 818 bis.

[45]  Il n. 1 del comma 4 è nato invece già non operativo perché notoriamente prevede una distinta ragione di inefficacia consistente nel mancato rispetto di termini di decadenza che non esistono.

[46] Compresa ovviamente quella resa prima della accettazione di arbitri pur incaricati dalle parti di provvedere anche in via cautelare.

[47] Del resto il principio di delega ex art. 1, c. 15, lett. c) della legge n. 206/2021 discorreva chiaramente di “attuazione della misura cautelare sempre sotto il controllo del giudice ordinario”.

[48] Invece nel testo dell’art. 669 duodecies è evidente – anche se non necessariamente insuperabile, donde appunto i noti problemi su cui riassuntivamente CONSOLO in Codice di procedura civile commentato, a cura del medesimo, IV, Milano, 2018, 101 ss. – la contrapposizione (marcata dalla congiunzione “mentre”) fra attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro “nelle forme degli art. 491 ss.” e attuazione di misure aventi ad oggetto obblighi specifici “sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare”; sicché proprio da tale contrapposizione dovrebbe intendersi che il richiamo agli art. 491 ss. implichi anche una competenza diversa da quella del giudice che ha emanato il provvedimento.

[49] Cfr. fra altri già LUISO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 681 e MERLIN, Procedimenti cautelari e urgenti in generale, in Digesto disc. priv., XIV, Torino, 1996, nota 15, e poi CARRATTA, La fase di attuazione coattiva, in AA.VV., I procedimenti cautelari, a cura del medesimo, Bologna, 2013, 401; contra, ad esempio, già VERDE-DI NANNI, Codice di procedura civile, Torino, 1993, e poi Trib. Roma 11 aprile 2003, in Giur.di merito, 2003, 51.

[50] La quale competenza diversa sembra implicata dall’art. 669 duodecies – vedi supra la nota 48 – e tuttavia non con assoluta certezza visto che il giudice che ha provveduto sulla cautela è pur sempre l’unico menzionato da quell’articolo.

[51] Una utile rassegna dei vari sistemi, anche riguardo alla attuazione dei provvedimenti interinali degli “arbitri d’urgenza” previsti da svariati regolamento arbitrali, in CARLEVARIS, The Recognition and Enforcement of Interim Measures Ordered by International Arbitrators, in Yearbook of Private International Law, 2007, 507 ss.

[52] Alquanto addomesticato per altro sulla scia della nota Cass. sez. un 5 luglio 2017, n. 16601 sulla riconoscibilità delle sentenze statunitensi di condanna a punitive damages.

[53] Vedi anche retro, per connesso profilo, il par. 7.

[54] In proposito vedi, se vuoi, ancora BRIGUGLIO, Potestas iudicandi cautelare, cit., 17 ss.

[55] Per apertura alla applicabilità – per altro di non semplice declinazione – dell’art. 669 duodecies anche a provvedimenti cautelari emanati dal giudice statuale straniero v., del resto, RECCHIONI, Diritto processuale cautelare, Torino, 2015, 903.

[56] Si rammenti, fra i pochissimi casi in qui la questione si è posta, il noto responso negativo della Supreme Court del Queensland, 29 ottobre1993, in Yearbook Commercial Arbitration, 1995, 628 ss..

[57] In proposito cfr. BRIGUGLIO, Potestas iudicandi in materia cautelare, cit. 23, e di recente e con ampi riferimenti anche ad isolate opinioni nel senso della applicabilità della Convenzione, CARLEVARIS, The Enforcement of Provisional Measures, in AA.VV., Provisional Measures Issued by International Court and Tribunals, a cura di Palombini, Vizio e Zarra, The Hague, 2021, 297 ss., nonché in AA. VV., Commento, cit., ove l’A. auspica, chiosando la nostra legge di delega ancora silente sul punto, proprio una disposizione attuativa quale quella poi adottata con il nuovo art. 818 ter.

[58] Secondo il cui art. 17H, n. 1 l’attuazione del provvedimento cautelare arbitrale avviene “irrespective of the country in which it was issued”.

[59] Più delicato il problema della compatibilità e dell’adeguamento alla misura cautelare estera della condizione di riconoscibilità relativa al rispetto del contraddittorio: v. l’art. V, c. 1, lett. b, Conv.

[60]  In senso diverso v. CARLEVARIS, in AA.VV., Commento, cit., 45-46. In realtà il riferimento al catalogo di New York in quanto compatibile, che prospetto, passa ovviamente per la via della interpretazione analogica e non è dunque in contraddizione con la ritenuta, anche da me, inapplicabilità diretta della Convenzione a pronunce arbitrali diverse dai lodi e semplicemente interinali e rivedibili. E quel riferimento mi sembra il più congruo per il giudice italiano della attuazione che voglia utilizzare criteri, da un lato, comuni e noti a livello transnazionale, d’altro lato, conferenti con il carattere arbitrale del prodotto estero per la verifica solo incidentale della sua riconoscibilità; verifica quest’ultima che a sua volta mi sembra imprescindibile di fronte a qualunque prodotto estero “decisorio” su controversia ed in assenza di disposizioni espresse in senso parzialmente o totalmente contrario.

[61] Sulle differenze comunque tra funzioni cautelari esercitate dal giudice statuale rispetto ad un “merito” devoluto ad arbitri (ma qui si tratta della ben diversa situazione delle funzioni giudiziarie “attuative” di misure cautelari arbitrali) e ausilio giudiziario (all’arbitrato) propriamente detto, e sulle varie implicazioni di tale differenza, v. – se vuoi – BRIGUGLIO, Potestas iudicandi in materia cautelare ed arbitrato estero, cit., 17-21.

[62] In proposito, ed in generale riguardo alla cennata prospettiva, vedi il mio Funzioni giudiziali ausiliarie e di controllo ed arbitrato estero, in Riv. arb., 2011, 573 ss..