Il potere cautelare degli arbitri. Note di primo commento ad una riforma attesa

Di Beatrice De Santis -

Quello relativo alla possibilità di riconoscere un potere cautelare in capo agli arbitri è un problema annoso, che si è ciclicamente riproposto nella storia e nelle vicissitudini dell’arbitrato italiano.[1]

Il divieto di riconoscere poteri cautelari in capo agli arbitri nella disciplina previgente si giustificava in modi disparati, tra tutti facendo leva sull’argomento sensibile della mancanza di un potere di coercizione, espressione della potestà solo statuale, in capo agli stessi arbitri. Il dogma del rifiuto della attribuzione di potestà cautelare arbitrale era difatti particolarmente solido fra le ricostruzioni del passato, che relegavano l’arbitrato a quel ristretto recinto riservato alla autonomia privata.[2]

Tuttavia, la tradizionale avversione mostrata dal legislatore nei confronti dell’arbitrato è progressivamente venuta meno negli anni, superandosi quella originaria contrapposizione tra giudizio civile e procedimento arbitrale. L’avvicinamento cui si è assistito negli anni del procedimento arbitrale al giudizio dinanzi all’autorità giurisdizionale allora ha progressivamente accorciato le distanze tra la tutela dinanzi agli arbitri a quella dinanzi all’autorità giurisdizionale, iniziando a sfaldare quella idea per cui la prima rappresenterebbe un minus rispetto al processo civile ma facendosi spazio l’idea per cui essa sarebbe un aliud.

Peraltro, la mancanza di poteri cautelari costituiva ormai un elemento di distanza del nostro sistema, sempre più isolato a livello internazionale nel negare qualsivoglia potestà cautelare, quasi come petizione di principio. Ebbene, come accade spesso alle norme di principio, tale previsione è andata sempre più invecchiando a confronto con legislazioni vicine alle nostra, che spesso hanno di fatto approfittato di questa intrinseca debolezza dell’arbitrato italiano per attirare a sé arbitrati internazionali. Questa è una delle lamentele ricorrenti di molti settori del diritto e dell’avvocatura, che hanno considerato proprio la mancanza di tutela cautelare come il maggior ostacolo della tutela arbitrale italiana[3], auspicando numerose volte un suo superamento.[4]

Questa seria limitazione del potere arbitrale, che ha costituito in Italia un ostacolo importante all’effettività del rimedio, è stata superata per tabulas dalla legge delega n. 206/2021. E questo, che si può ritenere il punto saliente delle (pur varie) modifiche intervenute in materia di arbitrato, ha portato il decreto legislativo n. 149/2022 ad attribuire agli arbitri il potere cautelare che, finora limitato alla impugnazione delle delibere assembleari nell’ambito societario, viene esteso e generalizzato.

E così il vecchio art. 818 cpc, che sanciva espressamente il divieto[5], è sostituito dal nuovo 818 c.p.c. intitolato espressamente “provvedimenti cautelari”, che recita: “Le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di concedere misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale. La competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva.

Prima dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del collegio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice competente ai sensi dell’articolo 669-quinques”.

L’attribuzione agli arbitri del potere cautelare sembra ribaltata: il potere è riconosciuto “salva diversa disposizione di legge” e a condizione dell’accordo delle parti in tal senso. Si esclude, di conseguenza, il potere dell’autorità giudiziaria di adottare misure cautelari in presenza di un accordo compromissorio a partire dall’accettazione del mandato da parte degli arbitri.[6]

Salta però agli occhi che, nonostante gli sforzi aperturisti, il legislatore ha fatto mostra di una certa timidezza poiché non viene riconosciuto agli arbitri un potere autonomo di emettere provvedimenti cautelari. Spetta infatti alle parti conferirglielo con una volontà singolare ed espressa, mediante una clausola inserita nella convenzione di arbitrato o in un atto scritto anteriore. In altre parole, la potestà cautelare non assume carattere di potere proprio e naturale degli arbitri ma deve, al contrario, derivare da una volontà delle parti espressa ed univoca.

C’è senz’altro un ribaltamento della precedente formulazione contenente l’inciso “salva diversa disposizione di legge” che era stato introdotto nel 2006 per dare conto non solo di possibili iniziative settoriali, ma soprattutto della eccezione contemplata già allora nell’art. 35 comma 5 d.lgs. n. 5/2003 che ammetteva, nell’arbitrato societario, in caso di devoluzione in arbitrato di controversie relative alla validità di delibere assembleari, di disporre la sospensione dell’efficacia della medesima delibera con ordinanza non reclamabile.[7] Ciò porta a ritenere che tuttora l’unica attribuzione agli arbitri di potestà cautelare ex lege, ossia, più precisamente, che non necessita di un apposito conferimento di poteri cautelari da parte dei compromittenti, rimane quella oggi contemplata (visto il trasferimento nel codice di rito della normativa sull’arbitrato societario) dall’art. 838-ter c.p.c., comma 4 (sospensione cautelare della delibera societaria, oggetto di giudizio arbitrale). Una disposizione che resta dunque speciale rispetto alla subordinazione alla volontà delle parti: solo nel suddetto caso si può parlare di cautela sospensiva connaturata alla funzione svolta. D’altronde la circospezione del legislatore trova conferma nell’art. 669-quinquies (Competenza in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza del giudizio arbitrale) che mantiene in termini generali la regola che se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri (anche non rituali) o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda cautelare “si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito” solo aggiungendovi “salvo quanto disposto dall’articolo 818, primo comma”.

I termini della scelta operata dal legislatore si presta allora a sollevare (più di) qualche dubbio, presentandosi il rischio di “limitare significativamente la portata innovativa della riforma”.[8] Sarebbe stato infatti preferibile che la norma si fosse espressa in termini di generale potestà cautelare dell’arbitro prevedendo la possibilità per le parti, nell’eventualità in cui non avessero aderito a tale soluzione, di negarla per il caso concreto e non già il meccanismo inverso, ossia la possibilità per le parti di devolvere all’arbitro potestà cautelare. Difatti, seguendo la prima impostazione si sarebbe evitato che nelle convenzioni di arbitrato il potere cautelare non fosse soggetto anch’esso al meccanismo di quel patchwork di clausole copiate ed incollate là da vecchi arbitrati senza una reale cognizione della loro portata. Ben si conosce la prassi: quando si va a stipulare un accordo commerciale di qualsivoglia natura, i contraenti con ogni probabilità si concentrano su problemi di natura prevalentemente contenutistica (giuridica ed economica), mentre poco si bada al tenore delle clausole compromissorie, che vengono inserite quasi per inerzia.

Si può allora ragionevolmente temere che questa volontà delle parti di conferire un potere specifico, così esaltata dalla legge delega e poi trasfusa nel nuovo art. 818 c.p.c., in realtà si risolverà in un pugno di mosche e quindi (almeno per il futuro prossimo), fino ad una inversione di rotta (spontanea o indotta da correttivi normativi), si continueranno ad avere convezioni arbitrali privi del conferimento del potere.

La soluzione preferibile poteva essere allora quella di introdurre la norma ma rovesciata, prevedendo di escludere il potere cautelare in capo agli arbitri, nel caso di accordo tra le parti su siffatta esclusione. Anche perché la nostra è, alla fine, una evenienza per lo più sconosciuta alle più evolute leggi straniere sull’arbitrato che prevalentemente adottano il principio inverso[9].

Le clausole compromissorie dunque diventano l’elemento fondamentale per verificare se gli arbitri siano dotati o meno di potere cautelare e ciò con tutti i dubbi connessi che si pongono di fronte al lavoro di copia e incolla di clausole prese da formulari in via tralatizia e trasfusi all’interno della convenzione compromissoria.[10]

Si vedrà, dunque, se nella prassi ci saranno clausole compromissorie che attribuiranno questo potere cautelare agli arbitri, che certamente non se lo possono autoattribuire, ovvero se esso emergerà da patto successivo, e sempre per iscritto, purché precedente la “instaurazione del giudizio arbitrale”[11], vale a dire la notifica della domanda di arbitrato o il suo deposito ai sensi di un regolamento arbitrale che ciò preveda.

Si pone poi un interrogativo ulteriore, che porta a chiedersi se possa essere adito in via cautelare il giudice statuale quando, dopo l’accettazione di arbitri a cui le parti abbiano conferita tale potestà, la misura richiesta coinvolga anche terzi estranei alla convenzione arbitrale. Tale misura si presenta infatti problematica per gli arbitri, rischiando di risultare in tutto o in parte inefficace se da essi emanata.

Ancora, ci si deve chiedere se la volontà delle parti possa – apparentemente derogando alla volontà del legislatore (ma in realtà affiancandola) – selezionare ab origine, purché in modo inequivoco soltanto alcuni  provvedimenti o situazioni da attribuire alla potestà cautelare degli arbitri, con facoltà di scelta alternativa del giudice ordinario sulle altre.[12]

L’esercizio della potestà cautelare arbitri presenta peraltro degli spazi vuoti. A cominciare dalla competenza cautelare attribuita ante causam all’autorità giudiziaria, nel senso di anteriormente all’accettazione dell’incarico da parte del collegio arbitrale. Il nuovo art. 818 c. 2 c.p.c. provvede nel senso che “prima dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del collegio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice competente ai sensi dell’articolo 669-quinquies”. La norma riempie la lacuna temporale che inevitabilmente si presenta prima che l’arbitro sia in condizione di provvedere sulla richiesta. Dal momento in cui l’arbitro acquista il potere cautelare, il giudice perde il proprio: non si dà quindi, almeno in linea di principio, concorso di poteri. Resta il problema se l’accettazione degli arbitri sopravvenga alla proposizione al giudice dell’istanza cautelare: una prima risposta potrebbe essere quella per cui il potere del giudice resta comunque fermo (in applicazione del principio della perpetuatio iurisdictionis) ma ci si può attendere che la questione farà discutere (anche considerato si vedranno ben presto prassi di anticipazione, cioè di iniziative cautelari che, elusivamente o meno, per urgenza reale o asserita, volte a porre gli arbitri di fronte ad uno status quo al momento dell’accettazione).

 

Il reclamo avverso il provvedimento cautelare reso dagli arbitri

L’attribuzione della potestà cautelare agli arbitri ha imposto anche di disciplinare il reclamo contro il suo esercizio. Il nuovo art. 818-bis c.p.c. prevede che il provvedimento cautelare con cui è stata accolta o rigettata l’istanza sia anche reclamabile ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c. dinanzi alla Corte d’Appello nel cui distretto è posta la sede dell’arbitrato (appare chiara la scelta legislativa di individuare anche la competenza).

Si tratta di una norma importante che testimonia l’intenzione legislativa di proteggere l’autonomia decisoria degli arbitri: non reclamabile era infatti il ricordato antecedente della sospensione delle delibere societarie (assembleari o consiliari) nel d.lgs. 5/2003[13], unica misura cautelare finora concessa agli arbitri. L’anomalia era stata notata sin dalla promulgazione del d.lgs. n. 5/2003, ma legislatore non era intervenuto.

Con il nuovo art. 818-bis c.p.c. il quadro viene ribaltato. La modifica è quindi senz’altro da salutare con favore, atteso che altrimenti ciò avrebbe dato luogo con ogni probabilità ad una censura per disparità di trattamento censurabile sul piano costituzionale. Da altro punto di vista, la previsione della competenza del giudice statuale interviene a temperare la portata aperturista della riforma.

Caratteristica del reclamo è la sua limitazione ai soli motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c., nei limiti della compatibilità ed alla deduzione del contrasto del provvedimento con l’ordine pubblico. Esso si caratterizza dunque per essere uno strumento di impugnazione non solo a critica vincolata ma anche focalizzato sul controllo di legittimità. Resta così esclusa – almeno in linea di principio, e fatto verosimilmente salvo il solo caso delle impugnazioni per contrarietà all’ordine pubblico –ogni rinnovata indagine sia circa la verosimile fondatezza della pretesa, sia circa la esistenza di una situazione di pericolo (da tardività o infruttuosità)[14]. Questo fa salva l’esclusività della potestà arbitrale.

La mancanza della formula, nell’art. 818-bis c.p.c., dell’applicazione dell’art. 669-terdecies c.p.c. nei limiti della compatibilità, indurrebbe a ritenere potenzialmente applicabili tutte le carie disposizioni presenti sei commi di quest’ultimo. Crea comunque qualche dubbio l’applicabilità della previsione (comma quinto) per cui il collegio adito in sede di reclamo può non solo confermare o revocare il provvedimento reclamato, ma anche modificarlo. Dato il tenore del novellato art. 818-bis c.p.c., e poiché la competenza cautelare arbitrale è espressamente definita “esclusiva” si potrebbe dubitare della effettiva esistenza in capo alla Corte d’Appello di un potere sostitutivo di merito cautelare, da esercitarsi nei casi in cui risulti fondata la pregiudiziale censura di nullità del provvedimento e di conseguenza si pongano le premesse per l’apertura di una fase che si potrebbe definire “rescissoria”.[15] L’art. 829 c.p.c. restringe l’impugnazione del lodo a precisi motivi di nullità (legittimità procedurale e formale), sicché la critica libera ed aperta propria dell’art. 669-terdecies, viene radicalmente a trasformarsi. Da questo punto di vista emerge un contrasto intrinseco tra il cuore dell’art. 669-terdecies c.p.c. (mezzo a critica liberissima, aperta anche ai nova) ed il nuovo meccanismo previsto per gli arbitri.

La prevista insindacabilità del provvedimento cautelare sotto il profilo dell’error in iudicando – di fatto e di diritto – solleva peraltro un interrogativo ulteriore: se, infatti, come visto, l’art. 818-bis c.p.c. prevede che si possa reclamare sia il provvedimento che concede sia quello che nega la misura cautelare, dal momento che poi i motivi dell’art. 829 c.p.c. escludono il merito, può davvero reclamarsi il rifiuto della misura cautelare? Sicuramente si, per motivi di rito. Emerge comunque che il reclamo cautelare rappresenta una penetrazione della giurisdizione statuale nel cuore della vicenda arbitrale.

Questione ulteriore è se, una volta accolto il reclamo, possa il giudice emanare la misura cautelare. In tal caso, infatti, esso giudicherebbe nel merito, e la riforma sembra non consentirlo, riservando questa possibilità di riesame ai soli motivi di legittimità (con divieto di allegazione di vizi della cognizione arbitrale nell’accertamento dei fatti storici e, soprattutto, con impossibilità di dedurre l’inosservanza di norme sostanziali o processuali relative a presupposti e limiti di concedibilità delle singole misure cautelari). Di qui il dubbio di disparità con i provvedimenti cautelari dall’autorità giudiziaria pronunciati ante causam o comunque prima della costituzione del collegio arbitrale dove tali limitazioni non si incontrano.

Non si  può a priori escludere che il problema possa essere affrontato in sede di autonomia privata, cioè di convenzione arbitrale nel senso che, in caso di violazione di diritto espressamente posta a motivo di nullità (art. 829 c. 3), anche il reclamo potrebbe guadagnare tale motivo per violazioni del “merito” cautelare. La clausola compromissoria diventerebbe lo strumento per fissare potere e relativi limiti della decisione cautelare con riflessi simmetrici sul reclamo che diverrebbe proponibile anche per violazione delle regole di diritto.

L’attuazione del provvedimento cautelare

L’art. 818-ter c.p.c. prevede che l’attuazione del provvedimento cautelare emesso dagli arbitri avvenga a norma dell’art. 669-duodecies c.p.c. sotto il controllo del Tribunale nel cui circondario è fissata la sede dell’arbitrato.

Il secondo comma, con una previsione in parte superflua, fa comunque salvo il disposto degli artt. 677 c.p.c. e seguenti in ordine all’esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri, richiamandosi, anche per tale ipotesi, la competenza del tribunale nel cui circondario si trova la sede dell’arbitrato.

Infine il legislatore si preoccupa delle ipotesi in cui debba attuarsi in Italia un provvedimento cautelare emesso all’esito di un giudizio con sede all’estero prevedendo la competenza del Tribunale del luogo in cui il provvedimento cautelare deve essere attuato.

Richiamandosi l’applicazione dell’art. 669-duodecies c.p.c. tout court e facendo salve le disposizioni di cui agli artt. 677 ss. c.p.c. per l’esecuzione dei sequestri, il legislatore delegato ha deciso di ammettere i provvedimenti cautelari arbitrali ad una immediata possibilità di attuazione senza che sia necessario ottenere una preventiva dichiarazione di esecutività secondo quanto previsto per il lodo ai sensi dell’art. 825 c.p.c.[16] Dunque in ogni caso non sarà necessaria alcuna prodromica attività del creditore sequestrante che non solo non dovrà munirsi di preventivi exequatur per il provvedimento cautelare reso dall’arbitro, così non dovrà far precedere l’attuazione del sequestro dalla notificazione del provvedimento o del precetto.[17]

Emerge poi dal confronto letterale con il 669-duodecies, che il legislatore ha inteso consapevolmente superare, almeno ai fini della competenza giudiziale, la contrapposizione tra attuazione di provvedimenti cautelari aventi ad oggetto somme di denaro e attuazione di provvedimenti ad oggetto consegna/rilascio/ fare/non fare. Infatti tutte le misure cautelari arbitrali, a prescindere dal loro oggetto, devono essere attuate dal tribunale dove ha sede l’arbitrato.

Traspare, quindi, la volontà di unificazione e semplificazione che potrebbe lasciare qualche problema di attuazione e coordinamento tra attuazione misure condanna somme di denaro con questo meccanismo, anche se non sembra potranno verificarsi particolari problemi sul punto.

Revoca e modifica del provvedimento cautelare

Profili più problematici si ricollegano alla revoca o alla modifica del provvedimento reso dagli arbitri in sede cautelare, e ciò anche e soprattutto perché il legislatore delegato non si occupa specificatamente del problema del regime del provvedimento emesso, salvo quanto si è detto con riguardo alla sua impugnabilità mediante reclamo.

Tuttavia, sebbene la norma delegante non menzioni la revoca o la modifica del provvedimento cautelare arbitrale, non sembrano esserci ostacoli ad ammetterlo. Il problema si pone con riferimento alla individuazione del soggetto competente ad adottare le relative misure, e, prima ancora, quali siano i rapporti con il reclamo.

Senz’altro deve ritenersi che se il provvedimento cautelare è stato emanato dagli arbitri la revoca e modifica si chiedono in linea di principio agli stessi arbitri. Difatti la circostanza per cui sia stato aggiunto l’inciso “salvo quanto disposto dall’art. 818 comma 1” porta a ritenere che saranno arbitri a revocare o modificare il provvedimento cautelare precedentemente emanato.

E deve parimenti ritenersi che se le parti non hanno assegnato agli arbitri la competenza cautelare bensì solo quella di merito, la revoca e modifica del cautelare giudiziale si chiederà al giudice statuale che lo ha emanato, anche pendente l’arbitrato.

Invero non meriterebbe di trovare accoglimento la diversa impostazione per cui, operando la disciplina del procedimento cautelare uniforme, si dovrebbe concludere nel senso che, stante il carattere tendenzialmente residuale del rimedio rispetto a quello previsto dall’art. 669-terdecies c.p.c., le circostanze ulteriori sopravvenute nonché quelle esistenti ma scoperte dopo vadano dedotti in sede di reclamo finchè questo sia proponibile, o sia pendente il relativo giudizio, dovendo di conseguenza ritenersi investito dell questione il giudice.

A sostegno della prima ricostruzione deporrebbe innanzitutto il dato letterale per cui se il legislatore avesse voluto devolvere la competenza per la revoca e la modifica all’autorità  giudiziaria statuale lo avrebbe specificato, come fa nel caso del reclamo. E certamente non varrebbe dire che ciò sarebbe stato superfluo in quanto deriverebbe dalla trasposizione in materia arbitrale delle regole sul cautelare uniforme perché altrimenti vi sarebbe un appiattimento della disciplina dell’arbitrato in materia cautelare su quella prevista per il giudizio ordinario. Ma è il legislatore che pacificamente vuole evitare tale equiparazione, prevedendo infatti espressamente un rimedio differenziato qual è quello del 669-terdecies c.p.c. Dunque l’espressione “salvo quanto disposto dall’art. 818 primo comma” come la clausola fondante l’attribuzione agli arbitri di una potestà cautelare davvero “esclusiva” tout court, e perciò estesa anche alla revoca e modifica della cautela in ragione di sopravvenute circostanze.

Resta il problema della sorte del provvedimento concesso dal giudice prima della instaurazione del collegio arbitrale perché occorre chiedersi a chi vada richiesta la modifica. Probabilmente, e quale svolgimento naturale di quanto detto, anche sulla misura emanata dal giudice (beninteso se la convenzione attribuisca potestà cautelare arbitrale), saranno gli arbitri competenti a decidere. E questo anche se essi non avevano ancora accettato l’incarico al momento della richiesta di provvedimento cautelare.

L’inefficacia del provvedimento cautelare

Meritano infine un cenno i problemi che l’art. 669-novies (inefficacia del provvedimento cautelare) proietta sulla cautela arbitrale. La norma attribuisce al giudice che ha pronunciato la cautela la competenza a dichiararne l’inefficacia, e anche qui il problema centrale è legato all’individuazione in concreto di tale soggetto. Due sono infatti i punti problematici: in primis si pone il problema di chi debba dichiarare l’inefficacia quando il provvedimento sia stato emanato dal giudice prima dell’accettazione dell’arbitro; in secondo luogo resta sempre da considerare che, al momento opportuno, potrebbe non esserci un arbitro (un giudice c’è invece sempre).

In linea di principio, la dichiarazione di inefficacia proverrà dall’arbitro (munito del relativo potere dalla convenzione di arbitrato) per i provvedimenti da esso emanati. Per le ipotesi di inefficacia conseguenti al mancato versamento della cauzione e (soprattutto) alla dichiarazione di inesistenza del diritto alla cui tutela era stato concesso il provvedimento cautelare (terzo comma dell’art. 669-novies), la dichiarazione di inefficacia spetterà agli arbitri ai sensi dell’art. 669-novies comma 2 c.p.c. (che continua a parlare di giudice ma va letto in senso lato, comprensivo degli arbitri, in combinato con il nuovo art. 818 c.p.c.). Sembra ragionevole che la regola valga anche se il provvedimento provenga dal giudice in un momento anteriore, ma occorre in proposito superare il tenore dell’art. 669-novies che attribuisce la competenza al soggetto autore del provvedimento.

A sua volta l’art 669-novies c. 1, stabilisce che il provvedimento cautelare conservativo perde efficacia se il processo di merito non è iniziato nel termine perentorio previsto dall’art. 669-octies, oppure si estingue dopo l’inizio. Il primo caso non può riguardare un provvedimento proveniente dagli arbitri (provvedimento che, evidentemente, può essere solo successivo all’inizio del processo arbitrale) ma ben potrebbe darsi, per es., che ad un sequestro concesso dall’autorità giudiziaria non segua tempestivamente la domanda arbitrale. In tal caso a quale organo spetterebbe dichiarare l’inefficacia posto che, a seguito di estinzione del procedimento arbitrale, non c’è più un arbitro? Qui l’inefficacia dovrebbe dichiararsi nel provvedimento di estinzione ma, in mancanza, spetterebbe certamente al giudice pronunciare l’inefficacia.

Alla pronuncia di inefficacia seguono, spesso, provvedimenti di ripristino che, di regola, debbono essere assunti con la medesima ordinanza dichiarativa dell’inefficacia. Qualche problematicità potrebbe emergere a proposito della “efficacia esecutiva” di tale ordinanza (l’art. 669-novies, comma 2) considerata la pur sempre limitata potestà decisionale dell’arbitro.

In conclusione. Sicuramente la riforma poteva essere migliore; ma, ci si può consolare, sarebbe potuta essere anche peggiore. Importante, per ora, è essersi liberati del mito della estraneità della dimensione cautelare all’arbitrato. La modifica in tal senso non poteva più farsi attendere dato che l’Italia era rimasta quasi isolata nella sua radicale esclusione.

La potestà cautelare arbitrale resta in qualche modo “condizionata”, non solo perché è subordinata all’apposita ed esplicita volontà compromissoria delle parti, ma anche perché il coordinamento con il potere dell’autorità giudiziaria presenta aspetti problematici. Si tratta di un modello non semplice per l’interprete, anche considerando la difficoltà intrinseca di un tema nuovo che trova la pratica verosimilmente impreparata.

[1] V. già P. Calamandrei, in Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 252, che scriveva che la spiegazione del perché la giurisprudenza, già prima dell’avvento dell’art. 818 c.p.c. del codice del 1942, si mostrava restia ad ammettere che agli arbitri possa essere conferito dai compromittenti il potere di concedere sequestri: richiamato da A. Carlevaris, Commento ai principi in materia di arbitrato – Lett. c): provvedimenti cautelari, in Rivista dell’arbitrato, n. 1/2022, p. 37.

[2] A. Briguglio, Il potere cautelare degli arbitri, introdotto dalla riforma del rito civile, e la inevitabile interferenza del giudice (“evviva il cautelare arbitrale!”, ma le cose non sono poi così semplici), in www.judicium.it, 31 gennaio 2023, nota 4.

[3] Così P. Biavati, Spunti critici sui poteri cautelari degli arbitri, in Rivista dell’arbitrato, 2013, p. 335; per un esame sulle diverse posizioni esistenti v. anche A. Carlevaris, La tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, Cedam, 2006, pp. 251 ss. V. poi M. Benedettelli che nell’opera International arbitration in Italy, Kluwer Law International, 2020 cerca di proporre l’Italia come una valida piazza per l’arbitrato internazionale, cercando di salvare il salvabile, per poi alla fine dover ammettere a malincuore che non c’era chance di riconoscere – nello scenario ante riforma – uno spazio per il potere cautelare degli arbitri.

[4] V. C. Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, Giuffrè, 1991, p. 457 e v. F.P. Luiso, Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo civile, in Riv. arb., 1991, pp. 253 ss. richiamati da A. Briguglio,  op.cit., nella nota n. 3, secondo cui l’ostacolo che si sarebbe frapposto al riconoscimento del potere cautelare in capo agli arbitri, derivante dalla assenza di un potere coercitivo per i giudici privati, sarebbe in realtà solo apparente visto che agli arbitri è sempre stato riconosciuto il potere di emanare pronunce di condanna destinate anche, se del caso, alla esecuzione coattiva, potendosi risolvere la questione, così come per il lodo anche per i poteri cautelari, mediante  meccanismi di attuazione forzata richiedenti la inevitabile cooperazione del giudice dello Stato.

[5] Stabilendo che “Gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge”.

[6] A. Carlevaris, op. cit., p. 38.

[7] A. Villa, Arbitrato e tutela cautelare, in L’arbitrato (a cura di Salvaneschi e Graziosi), 2020, pp. 518 ss.

[8] A. Carlevaris, op. cit., p. 48

[9]  In Germania, per es., gli arbitri possono rendere le misure cautelari ritenute necessarie “a meno che le parti della controversia non abbiano concordato diversamente” (così il § 1041 ZPO che fissa la regola per cui “l’arbitro può disporre, su istanza di parte, le misure provvisorie o di garanzia che ritiene opportune in relazione all’oggetto della controversia”).

[10] Sul punto G. Tota, I poteri cautelari degli arbitri ella legge di delega n. 206/2021, in Judicium, 06/2022, p. 174 osserva che un problema distinto è quello relativo alla possibilità di integrare “l’espressa volontà delle parti” anche mediante il rinvio, contenuto nella convenzione di arbitrato, ad un regolamento arbitrale precostituito che preveda il potere cautelare degli arbitri. Difatti, come noto, molti dei regolamenti delle più importanti istituzioni arbitrali prevedono da tempo il potere degli arbitri di emettere misure cautelari o provvisorie (si pensi p.e. al Regolamento di arbitrato CCI, il cui art. 28.1 consente al tribunale arbitrale di “adottare ogni misura provvisoria o cautelare che ritenga opportuna” o stessa cosa per il reg. della Camera arbitrale di Milano, che all’art. 26.1 similmente ammette che il collegio possa pronunciare “tutti i provvedimenti cautelari, urgenti e provvisori, anche di contenuto anticipatorio, che non siano vietati da norme inderogabili applicabili al procedimento”. Ovviamente la concreta applicabilità di tali norme dipende dalla legge nazionale di volta in volta applicabile, che dovrà risultare compatibile con la previsione di poteri cautelari in capo agli arbitri (ragione per la quale, ante riforma, in caso di arbitrato avente sede in Italia si tendeva ad escludere tale compatibilità).

Con la riforma, con cui si è rimosso il divieto suddetto, però, forse potrebbe sostenersi una diversa interpretazione: dal momento che, infatti, l’arbitrato amministrato rimane una opzione sempre espressa, il requisito della “espressa volontà delle parti” potrebbe ritenersi soddisfatto anche soltanto per relationem, sia pure in mancanza di un esplicito richiamo delle parti.

[11]Si deve osservare che la necessaria precedenza del conferimento del potere cautelare agli arbitri non si ritrova nella legge delega, la quale faceva riferimento al solo “atto scritto successivo” alla convenzione arbitrale. Tuttavia tale apparente divergenza tra il testo del legislatore delegato e quello adottato con la riforma si riduce di fronte alla considerazione per cui deve ritenersi abbastanza improbabile che, nel corso dell’arbitrato, quindi in un momento successivo alla sua instaurazione, le parti decidano di statuire sulla competenza cautelare degli arbitri.

[12] Dubbi sollevati da A. Briguglio, op. cit., in www.Judicium.it , 31 gennaio 2023.

[13] All’art. 35 comma 5 stabiliva la non reclamabilità dell’ordinanza con cui gli arbitri hanno disposto la sospensione dell’efficacia della delibera assembleare oggetto di impugnazione. Sul punto v., per tutti, i dubbi sollevati da F.P. Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. Dir. Proc., 2003, p. 725.

[14] M. Farina, La riforma Cartabia del processo civile (commento al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, (a cura di) R. Tiscini, Pacini Giur., 2023, p. 1207.

[15] In questo senso V. Tota, op. cit., p. 179.

[16] Per una analisi più approfondita v. M. Farina, op. cit., pp. 1219 ss.

[17] Così M. Farina, op.cit., p. 1220.