Il principio di proporzionalità sanzionatoria quale criterio per la disapplicazione parziale della sanzione penale, fra diritto unionale, principi costituzionali e disciplina codicistica.

Di Barbara Nacar -

Sommario: 1. Introduzione. Il caso concreto. 2. Il principio di proporzionalità sanzionatoria nell’Unione europea. 3. Il principio di proporzionalità sanzionatoria nelle pronunce della Corte costituzionale. 4. La soluzione dei quesiti: spunti di riflessione. 4.1. La questione di legittimità costituzionale. 4.2. La doppia pregiudizialità. 4.3. Il potere del giudice nazionale di disapplicare parzialmente la norma interna.

1.Il caso concreto.

Il principio di proporzionalità è certamente un caposaldo del “costituzionalismo globale”[1], perché è contenuto – più o meno chiaramente – in tutte le Costituzioni, a prescindere dalle peculiarità di sistema: è ben accolto nei Paesi di civil law, in quanto connotato tipico delle tradizioni democratiche degli Stati di diritto, ma appare pure congeniale ai Paesi di common law, in ragione della sua fisiologica flessibilità[2]. È, insomma, <<una parte essenziale della grammatica di una nuova lingua franca che fa dialogare e interagire attori giuridici sostanzialmente in tutto il mondo, agevolando la circolazione globale di modelli giuridici e di standard di argomentazione>>[3]. Per questa ragione, ha facilmente trovato ingresso pure nelle Carte internazionali[4].

L’idea di base, che sorregge il principio, è che ogni diritto deve essere contemperato con gli altri, quello collettivo con quello individuale, in una logica di bilanciamento. Oggi, dunque, senza ombra di smentita, la proporzionalità è divenuto limite alle scelte di ogni legislatore quando interviene sui diritti dell’uomo[5], e criterio esegetico, per l’autorità giudiziaria, quando dispone una restrizione di essi o controlla il relativo provvedimento[6].

A dispetto dell’enfasi ad esso tributato, tuttavia, la sua capacità di influenzare ed omologare i comportamenti degli interlocutori interni e sovranazionali ha prodotto, fin’ora, risultati poco apprezzabili, circoscritti alla comune consapevolezza di essere al cospetto di un principio irrinunciabile quando si deve incidere sui diritti fondamentali dell’individuo e che, perciò, sempre più spesso, si ritrova espresso nelle disposizioni normative, o comunque si intuisce che sia uno dei principi ispiratori.

Difatti, allorché si tenta di cogliere il significato più profondo del principio, di comprendere fino a che punto la tutela di un diritto può giustificare la compressione dell’altro, non è semplice rinvenire soluzioni generalmente condivise, anche perché i parametri, comunemente accettati, sono così generici (diritti individuali e interessi collettivi) da poter contenere qualsiasi valore. La difficoltà di rintracciare un nucleo minimo indisponibile, che vada al di là della mera esigenza di bilanciamento, non è dovuta solamente alla vaghezza e all’indeterminatezza dell’espressione, che rimanda alla misura, all’equilibrio fra due entità[7], ma soprattutto alla circostanza che il principio si riempie di contenuti in base alle scelte politiche di ciascun Ordinamento.

L’indagine, ovviamente, si complica se si pone attenzione al principio di proporzionalità sanzionatoria che è fortemente condizionato dalle ideologie politico-criminali cui si ispira il singolo Stato; e nulla cambia se la ricerca si circoscrive ai rapporti fra diritto unionale e diritto interno in ragione del primato dell’uno sull’altro. Anzi, le differenze di sistema fra i due Ordinamenti aumentano il rischio di letture eterogenee, pure difronte al tema della proporzionalità sanzionatoria che fa parte del patrimonio comune degli Stati di diritto. È noto che quello italiano sia un Ordinamento chiuso che definisce, quale unica fonte di diritto, la legge di origine parlamentare; laddove, l’Ordinamento europeo individua come fonti di produzione normativa pure la giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte di Strasburgo. Il giudice europeo ragiona su princìpi, e non su regole, fondati su canoni di razionalità pratica – piuttosto che di razionalità astratta – che si specificano e si integrano attraverso le interpretazioni della Corte di giustizia; il giudice nostrano, invece, in ossequio al principio di legalità, applica la norma penale che deve essere chiara, precisa e determinata[8]. Ebbene, il primautè del diritto europeo impone, in ipotesi di contrasto fra norma interna e norma unionale, la disapplicazione dell’una, qualora l’altra abbia efficacia diretta; ed il giudice comune è legittimato ad agire per tal via senza dover chiedere, o attendere, l’effettiva rimozione della disposizione censurata ad opera degli organi nazionali all’uopo competenti[9]. Il percorso non muta se l’obbligo di disapplicazione deriva direttamente da una pronuncia della Corte di Giustizia perché, essendo interprete qualificato del diritto europeo, la sua decisione ha efficacia ultra partes, per cui ad essa va attribuito <<il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione[10], con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità>>[11].  Epperò, qualora il contrasto fra il diritto europeo e il diritto interno sorga sulla materia penale, come avviene quando si discute di proporzionalità sanzionatoria, che coinvolge il principio di legalità dei reati e delle pene e la funzione costituzionale della pena, l’integrazione fra i due Ordinamenti si può infrangere. Si ripropongono, così, le problematiche che hanno caratterizzato e, che ancora oggi, caratterizzano il percorso di armonizzazione europea: i rapporti tra Unione e Stati membri, con le rispettive ripartizioni di competenza; le procedure di formazione degli atti normativi dell’Unione in materia penale; il primato del diritto dell’Unione rispetto a quello degli Ordinamenti interni; il ruolo della Corte di giustizia e i suoi rapporti con i giudici nazionali, soprattutto con la Corte costituzionale[12].

La scelta di ragionare, oggi, sul tema della proporzionalità sanzionatoria fra diritto dell’unione e diritto interno, è stata indotta da una recente decisione adottata dalla Corte di cassazione, di cui appare utile indicare gli elementi essenziali, anche per giustificare, a mo’ di premessa, il campo di indagine delle successive riflessioni.

Di qualche mese fa è l’ordinanza della Corte di cassazione di rimessione alla Corte costituzionale di una questione di illegittimità, concernente l’art. 2641, commi 1 e 2, del codice civile, per violazione degli artt. 3, 27 commi I e III, 42 e 117 (quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del primo Protocollo addizionale Cedu), nonché degli artt. 17 e 49 par. 3 Cdfue, nella parte in cui la norma prescrive – per le condotte già sanzionate dagli artt. 2637 e 2638 c.c. – la confisca, anche per equivalente, dei beni utilizzati per commettere il reato[13]. In un processo molto complesso, pure per il numero elevato delle imputazioni (per molte delle quali erano maturati i termini di prescrizione del reato), la Corte di appello, in riforma della sentenza impugnata, ha disapplicato la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato, irrogata in primo grado per tutti gli imputati, sia per la piena idoneità del trattamento sanzionatorio ad esaurire la risposta punitiva dello Stato, sia per l’assenza di qualsivoglia profitto, suscettibile di valutazione economica, al quale (in ipotesi) ancorare l’importo da sottoporre ad ablazione. La Corte d’appello è addivenuta alla decisione ragionando sulla pronuncia C-205/20, con la quale la Corte di Giustizia aveva chiarito che il principio di proporzionalità sanzionatoria, di cui all’art. 49, par. 3, Cdfue, fosse norma immediatamente utilizzabile dai giudici comuni e che, pertanto, questi sarebbero stati legittimati a disapplicare parzialmente la sanzione edittale, al fine di riportarla alla proporzionalità. Contro la sentenza, il Procuratore generale ha proposto ricorso per cassazione, col quale ha sollecitato, fra l’altro, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, allo scopo di comprendere se la disapplicazione della normativa interna potesse avvenire in assenza di una base legale sufficientemente determinata, in violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri. La Cassazione, riflettendo sulle peculiarità strutturali della confisca regolata dall’art. 2641 cc., ha rilevato che, prima ancora di un problema di proporzionalità rispetto alla complessiva risposta sanzionatoria, si ponesse un dubbio di proporzionalità intrinseca della misura, perché priva ogni legame con la persona del colpevole[14]. Per queste ragioni, invece di pronunciarsi sul quesito principale, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale nei termini innanzi descritti.

2.Il principio di proporzionalità sanzionatoria nell’Unione europea.

Per quanto evidenziato in premessa, l’indagine deve necessariamente partire dal principio di proporzionalità di matrice comunitaria – che si rinviene, come un leitmotiv, nelle direttive e nei ragionamenti della Corte europea e – dal quale trae origine il principio della proporzionalità sanzionatoria, anch’esso sempre presente nelle sentenze della Corte di Giustizia[15], nelle decisioni-quadro e nelle direttive in materia penale.

È notorio che il diritto europeo si esprima attraverso disposizioni assolutamente generiche[16]; e, a tale caratteristica, non si sottrae neppure il principio di proporzionalità, né quello di proporzionalità sanzionatoria sebbene, questo, a differenza di quello, indichi i termini di riferimento del bilanciamento: la pena da un lato ed il reato dall’altro (par. 3 dell’art. 49, Cdfue). Ciò spiega il motivo per il quale gli studiosi hanno avuto approcci diversificati col principio, qualificandolo forma di tutela per il reo contro gli abusi del potere, cornice all’interno della quale è possibile mettere di tutto[17], o addirittura, criterio pericoloso che rischia di tradursi in un progressivo affievolimento dei diritti fondamentali sanciti dalle Costituzioni e dalle Carte fondamentali[18].

La ragione di tale varietà di posizioni risiede, verosimilmente, nelle origini storiche del principio di proporzionalità comunitario, preso a prestito dalla giurisprudenza tedesca sviluppatasi durante le monarchie prussiane dell’800 che nel corso del tempo ha assunto connotazioni ambivalenti. Esso origina dal diritto di polizia[19], come criterio generale per valutare gli interventi restrittivi delle libertà individuali, i quali non dovevano eccedere quanto fosse necessario per la realizzazione dell’interesse pubblico. La proporzionalità esprimeva il controllo della misura dell’azione pubblica, da attuarsi attraverso giudizi che prediligevano gli interessi dello Stato, a discapito di qualsiasi valutazione del sacrificio dei diritti soggettivi, che, perciò, rimanevano sullo sfondo[20]. Superata la pretesa d’un potere statuale assoluto, si diffuse l’idea che, nel diritto pubblico, l’ordinamento giuridico si dovesse autolimitare e, quindi, che dovesse concedere margini di manovra al privato, la cui autonomia, tuttavia, era l’effetto riflesso della volontà unilaterale di evitare esorbitanti costrizioni del singolo[21]. Il controllo riguardava solo gli atti amministrativi, intervenendo laddove gli strumenti repressivi utilizzati non fossero idonei o necessari per la realizzazione dell’interesse pubblico prefissato; mentre, era escluso ogni sindacato del giudice sulle opzioni assiologiche effettuate dall’autorità pubblica[22]. È col passaggio allo Stato costituzionale, ove il centro dell’attenzione si spostò sulla protezione dei diritti individuali contro la prepotenza del potere statuale, che il giudizio di proporzionalità mutò la propria dimensione ontologica e funzionale, si affrancò dal diritto amministrativo, per assurgere al rango di principio architettonico dell’ordinamento costituzionale tedesco[23]. Dunque, è solo nel corso del ‘900 che il principio fu adoperato dalla Corte costituzionale tedesca in un’accezione garantista[24]: i diritti individuali, dotati di un proprio peso specifico, e considerati prevalenti rispetto agli scopi di interesse collettivo, dovevano essere bilanciati con i secondi. E così che il principio di proporzionalità ha trovato il suo fondamento nel concetto di Stato di diritto (Rechtsstaatsprinzip) <<repubblicano, democratico e sociale>> (art. 28 GG), nel <<libero e pieno sviluppo della personalità>> (art. 2 GG), nella <<tutela della proprietà (art. 14 GG)>>. La trasposizione del criterio di proporzionalità, nell’ambito del sindacato di legittimità costituzionale, ha indotto a perfezionare il modello di giudizio: alla mera considerazione dell’azione statale in termini di idoneità e di necessità, si è aggiunto l’ulteriore requisito dell’ammissibilità dell’intervento pubblico restrittivo, da considerarsi ragionevolmente giustificato solo se posto a difesa di un valore di rango costituzionale ed in rapporto di equilibrato bilanciamento con il diritto sacrificato[25].

Oggi, quindi, il giudizio di proporzionalità fonda su una triplice valutazione (c.d. Dreistufigkeit): idoneità (Geeignetheit), necessarietà (Erforderlichkeit) e proporzionalità in senso stretto (Verhältnismäßigkeit im engeren Sinne ovvero, in alcuni casi, Angemessenheit). In sintesi, l’idoneità obbliga a verificare che la misura adottata sia funzionale al conseguimento dello scopo. Quindi, bisogna sincerarsi, in forza di un giudizio prognostico, che l’interesse pubblico sia suscettibile di essere realizzato o, quantomeno, sia plausibile la sua realizzazione. Il secondo passaggio riguarda la necessarietà della misura: essa deve apparire indispensabile per il raggiungimento del fine; per cui, fra più misure tutte idonee, deve essere preferita quella che comporta il minor sacrificio degli altri interessi in rilievo. Infine, il terzo test, definito di proporzionalità in senso stretto, guarda alla adeguatezza della misura in relazione ai diversi interessi in esame e, segnatamente, tra i vantaggi derivanti dal perseguimento dell’interesse pubblico ed i pregiudizi arrecati ai privati[26]. Diversamente dagli altri due parametri costitutivi del giudizio, la proporzionalità in senso stretto si è affermata pienamente, come criterio valutativo, soltanto dopo il 1945, a seguito dell’esperienza totalitaria dello Stato nazionalsocialista. È, infatti, in conseguenza di tale negativa esperienza che si diffuse fra i giuristi tedeschi la convinzione secondo la quale l’intervento dello Stato dovesse sempre essere oggetto di una indagine comparativa rispetto ai beni sacrificati[27]. È interessante notare, per quanto si dirà nei prossimi paragrafi, che il tema ancora oggi in discussione, nella dottrina tedesca, riguarda il limite del sindacato del giudice: ci si chiede, insomma, fino a che punto è consentito al giudice la sostituzione della propria valutazione con quella operata dal legislatore o dall’amministrazione quando verifica la proporzionalità in senso stretto. Certo è che, essendo il principio di proporzionalità contenuto nella Grundgesetz tedesca, il controllo sulle misure adottate dal legislatore spetta alla Corte costituzionale federale che esprime l’ultima parola in proposito[28].

Il giudizio di proporzionalità “a tre gradini”, così proposto dalla giurisprudenza tedesca, è stato recuperato dalla Corte di giustizia[29], anche se, per la verità, non sempre è possibile rinvenire chiaramente tutti i passaggi innanzi indicati, che talvolta risultano poco rigorosi[30], apodittici[31] o confusi, anche sotto il profilo lessicale[32].

Le prime applicazioni comunitarie del test di proporzionalità sono di origine giurisprudenziale, almeno fino a quando col Trattato di Maastricht del 1992 (art. 3 B, ora par. 3 e 4, dell’art. 5 TUE) e poi con la Carta di Nizza (art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali) – elevata, in forza dell’art. 6 TUE, a fonte primaria dell’Unione, al pari dei Trattati – il principio di proporzionalità è stato espressamente codificato. L’art. 52, in particolare, lo consacra a “tecnica di giudizio” irrinunciabile per verificare che, in un sistema volto alla protezione di una pluralità di diritti fondamentali, talvolta tra loro confliggenti, ad una limitazione di un diritto fondamentale corrisponda un accrescimento di tutela per un altro diritto fondamentale o per l’interesse generale[33]. E, la sua natura duttile e la sua logica combinatoria, lo rendono strumento congeniale a valutazioni esterne del sistema degli Stati membri.

Pertanto, quando oggetto del sindacato è una norma penale nazionale che pone una restrizione, essa è sottoposta al test di bilanciamento che segue quello di matrice tedesca dell’idoneità, della necessità e della proporzionalità in senso stretto. Per effettuare il giudizio, tuttavia, la Corte di Giustizia fa largo uso di valutazioni di impatto, di conoscenze extragiuridiche e di ragionamenti che possono prescindere da logiche di coerenza interna del sistema[34]. Ed è per questa ragione che il principio di proporzionalità assume connotati utilitaristici e diventa parametro di razionalità materiale.

Di diverso tenore è la proporzione sanzionatoria, a cui allude l’art. 49 par. 3, Cdfue, che appare rivolgersi a profili diversi dal principio di proporzione utilizzato dalla Corte di Giustizia, come criterio di legittimo esercizio dei poteri delle istituzioni europee[35] e di strumento di controllo sulle scelte sanzionatorie degli Stati membri, in settori di competenza europea[36]. Imponendo una relazione tra gravità del reato e pena inflitta, esso sembrerebbe riferirsi ad aspetti in cui entra in gioco la proporzione della risposta punitiva rispetto all’entità del fatto, in un’ottica, almeno prima facie, retributiva[37]. Dunque, l’uno – il principio di proporzionalità – si proietta nel futuro e serve per indagare sulle scelte di criminalizzazione o per controllare quelle scelte. L’altro, invece, pur presupponendo che sia soddisfatta la proporzionalità in astratto, guarderebbe al passato, al fatto commesso e richiede che la proporzionalità sia garantita nel caso concreto, secondo le specificità della condotta materialmente realizzata.

La disposizione pone due problemi esegetici.

Il primo. Autorevole dottrina sostiene che, se si seguisse il test di proporzionalità adoperato dal legislatore dell’Unione e dalla Corte europea, per sincerarsi che la proporzionalità in concreto sia garantita occorrerebbe sapere qual è la gerarchia degli interessi in gioco, la scala di pene e la ideologia politica che serve a valutare la gravità del reato. E, si è evidenziato che, di questi tre elementi, la Corte conosce solo la prima, avendo posto al centro dell’attenzione i diritti della persona[38]. Invero, poiché nel diritto europeo manca una dogmatica penalistica, il giudice non avrebbe punti di riferimento per stabilire se la pena è sproporzionata: bisogna avere come base di osservazione le modalità dell’offesa ad un determinato bene giuridico? Oppure, la riprovevolezza del comportamento dell’imputato? O, ancora, la pericolosità sociale del reo?[39]. Insomma, l’assenza di un referente teleologico vincolante[40] non consentirebbe di attribuire una specifica direzione alla sproporzione che, quindi, potrebbe tanto essere letta in una logica spiccatamente retributiva, quanto di prevenzione speciale anche negativa: certamente, però, non si rileverebbe alcun aggancio con la funzione rieducativa della pena, intesa come offerta di reinserimento sociale[41].

Né, peraltro, porterebbe a risultati utili in questa prospettiva, l’analisi delle direttive emanate dal legislatore europeo[42] ove, quasi sempre, si rinviene la generica espressione che le pene devono essere efficaci, proporzionate – e talvolta si richiede anche che siano – dissuasive[43], termine, quest’ultimo, che rimanda alla deterrenza sia individuale che generale.

Ebbene, per quanto si condivida la tesi per la quale nel diritto unionale difetti una chiara visione degli scopi penalistici, riteniamo che quell’assenza potrebbe non essere necessariamente preclusiva di un sindacato sull’equità della pena da parte della Corte di Giustizia. La proporzionalità sanzionatoria è principio metagiuridico – potremmo definirlo agnostico – perché prescinde dalle scelte di politica criminale di ciascuno Stato e dalle relative scale di pene, le quali, peraltro, potrebbero comunque essere conosciute dalla Corte. Il legislatore europeo e, conseguentemente, la Corte di Giustizia, difatti, mediante l’art. 49, par. 3, Cdfue, non pretendono di attribuire alla pena una specifica finalità ma, essendo consapevoli del loro ruolo di custodi dei diritti fondamentali, con quella norma pongono un limite di garanzia (id est, la proporzionalità alla gravità del reato), oltre il quale la sanzione non giustifica più il fine, qualunque esso sia, cui mira la norma incriminatrice. E ciò, indipendentemente dalle ideologie che la governano. La littera dell’art. 49, par. 3, Cdfue, è estremamente significativa: non prescrive che la pena sia proporzionata al reato – espressione che potrebbe essere intesa come una indicazione sulla funzione della pena – quanto, piuttosto, che la pena non deve eccedere la gravità del reato, proprio per evidenziare che quella relazione rappresenta lo sbarramento punitivo massimo consentito dal diritto europeo[44]. Insomma, né il diritto unionale, né in particolare l’art. 49 Cdfue, spiegano i principi a cui il giudice interno dovrebbe ispirarsi nella determinazione concreta della pena, perché al Parlamento europeo non interessa – né vi sono le condizioni per compiere quella scelta –: l’unico scopo, l’unico criterio che adotta, è che la pena non superare la sua proporzione con il reato commesso. La proporzionalità, dunque, non può avere alcun legame neppure con la funzione rieducativa della pena perché, per quanto i due principi possono intersecarsi[45], essi tendono ad obiettivi differenti. Per esemplificazione, se una pena che ambisce alla rieducazione potrebbe non avere mai termine – almeno fino a quando il reo non sia stato reinserito nella società – la proporzionalità richiede che essa sia in un rapporto di equilibrio con la gravità della condotta. Ogni diversa conclusione rischia di attribuire al principio di sproporzionalità sanzionatoria significati ulteriori a quello ontologicamente ad esso riferibile e che, più correttamente, andrebbero inquadrati in finalità diverse, di adeguatezza, di utilità della pena od altre ancora.

Quale sia, poi, il punto di osservazione per decidere quando una pena è sproporzionata al reato, spetta alla Corte di Giustizia stabilirlo, perché rientra nei suoi compiti istituzionali precisare e concretizzare i principi unionali. Ma su questo tema si ritornerà al termine del paragrafo.

Il secondo problema interpretativo sull’art. 49, par. 3, Cdfue, nasce dalle locuzioni contenute nella disposizione che, adoperando le espressioni <<pene inflitte>> che <<non devono essere sproporzionate rispetto al reato>>, si è anticipato, sembrerebbe avere riguardo – quantomeno – al profilo irrogativo della sanzione e, quindi, il suo destinatario non sarebbe solo il legislatore ma, innanzitutto, il giudice comune[46].

La osservazione apre scenari assolutamente innovativi, perché legittimati a controllare le determinazioni del legislatore interno, contrastanti con i principi comunitari, nei settori di competenza dell’Unione, sarebbero i giudici lussemburghesi e il giudice ordinario[47].

Siffatta conclusione è stata, inizialmente e timidamente, avallata dalla Corte europea in un caso particolare di doppio binario processuale, ove, l’art. 49, par. 3, Cdfue, viene indicato come criterio regolatore della sanzione complessiva, in una lettura sostanziale del principio del ne bis in idem[48]. In una successiva sentenza del 2022, poi, la esegesi è stata confermata chiaramente dal giudice europeo[49]. Questa pronuncia è di particolare importanza perché è stata invocata dalla Corte di appello, nel caso che ha dato vita a codeste riflessioni, al fine giustificare la disapplicazione parziale della sanzione edittale, ma anche perché potrebbe offrire ulteriori spunti di ragionamento sul primo problema che ci si è posti intorno al principio di proporzionalità europeo.

Dunque, con un overruling rispetto ad una precedente decisione del 2018[50], la Grande Sezione della Corte di giustizia ha riconosciuto, all’art. 49, par. 3, Cdfue, natura  immediatamente precettiva nell’Ordinamento degli Stati-membri, sia pure nelle materie regolate dal diritto dell’Unione; ha chiarito che il destinatario della norma è il giudice, il quale deve disapplicare quella parte della legislazione nazionale, da cui deriva la sproporzionalità della sanzione, in modo tale che essa continui a soddisfare anche  esigenze di effettività e dissuasività[51]; e ha spiegato che il giudice deve intervenire subito e non attendere che la normativa contrastante sia rimossa dalla Corte costituzionale o dal legislatore[52]. La soluzione, osserva la Corte, non viola il principio di certezza del diritto, perché il divieto di pene sproporzionate ha carattere generale e, in ogni caso, poiché la norma è chiara e precisa; né lede il principio di legalità, perché la garanzia vieta al giudice di aggravare il regime sanzionatorio, non certo di applicare pene più lievi e, comunque, poiché soddisfa il principio di parità di trattamento che pretende, fra l’altro, che situazioni diverse non siano trattate allo stesso modo[53].

Ebbene, pur essendo consapevoli che la Corte di giustizia è organo di vertice deputato all’interpretazione del diritto unionale, residuano talune perplessità sulla riconosciuta diretta applicabilità del principio di proporzionalità sanzionatoria. Perplessità avallate – anche se per ragioni, in parte, diverse dalle nostre – dalla circostanza che la stessa Corte, in precedenza, è pervenuta a conclusioni opposte sostenendo che, sebbene la disposizione sia espressione di un principio generale del diritto dell’Unione, essa non è tale da elidere la discrezionalità dei legislatori interni nella determinazione delle sanzioni[54].

Il nostro dubbio nasce da una duplice osservazione, la prima, legata all’istituto della disapplicazione in generale, l’altra, dipendente dal contenuto della norma. E, si anticipa, il nostro resta un dubbio che non trova soluzione definitiva, ma si ritiene comunque utile esporlo, quale spunto di ragionamento.

La disapplicazione diretta della norma interna in contrasto con quella europea, secondo autorevole dottrina, è possibile quando le due disposizioni hanno lo stesso grado di astrazione, tale da far derivare, in modo logicamente necessario ed univoco, la contraddizione fra di esse. Ove, invece, il livello di astrazione della norma unionale è più alto e distante di quello della norma interna, il giudizio di incompatibilità non può essere svolto dal giudice comune, quanto dalla Corte costituzionale[55]. Difatti, poiché nell’attuazione del diritto dell’Unione gli Stati membri godono di un certo margine di apprezzamento[56], che si realizza proprio nel momento della produzione della norma applicativa della volontà sovranazionale, quello spazio di discrezionalità osterebbe ad un sindacato diretto fra l’una e l’altra disposizione. Il rilievo sarebbe tanto più corretto quando ci si trova al cospetto di principi come la proporzionalità, strutturalmente graduabile secondo le scelte compiute da ciascuno Stato[57]. Ebbene, nel caso sottoposto alla nostra attenzione il raffronto dovrebbe avvenire fra l’art. 49, par. 3, Cdfue, il quale indiscutibilmente ha natura di principio generale, e – si è detto in premessa – l’art. 2641, commi 1 e 2, c.c., che prevede la confisca in aggiunta alla sanzione comminata dagli artt. 2637 e 2638 c.c., norme di sicuro carattere regolamentare[58]. Dunque, sarebbe il differente grado di astrazione fra le due disposizioni ad impedire una loro comparazione diretta e, quindi, il giudice comune non avrebbe alternativa diversa dal chiedere l’intervento della Consulta, o della Corte di Giustizia, per verificare se, la discrezionalità adoperata dallo Stato membro, non abbia finito per disattendere il principio unionale.

La seconda ragione – strettamente legata alla prima – che induce a domandarsi se realmente il principio di proporzionalità sanzionatoria sia direttamente applicabile nell’ordinamento interno, dipende dall’osservazione che, essendo l’art. 49 par. 3, Cdfue, un principio – e non una regola – non avrebbe le caratteristiche della norma self-executing. Con ciò, ovviamente, non si vuole discutere della prevalenza del diritto europeo sul diritto interno, quanto manifestare qualche incertezza sul carattere precettivo della disposizione che necessiterebbe di ulteriori precisazioni attraverso atti di diritto derivato[59].

Tradizionalmente, nell’Ordinamento giuridico dell’Unione, si è soliti differenziare i principi dalle regole, perché gli uni, diversamente dagli altri, vincolano le Istituzioni e gli Stati membri nella misura in cui questi provvedono alla loro attuazione e, così, i primi diventano parametro di legalità o di compatibilità per la norma che li applica[60]. Essi, inoltre, non sono invocabili per contestare la legittimità della norma (sovranazionale o interna) se quest’ultima non è stata immediatamente adottata per realizzare quello specifico principio. I principi, quindi, non sarebbero suscettibili di applicazione diretta da parte dei giudici comuni, né darebbero adito a pretese di azioni positive ad opera delle Istituzioni dell’unione (art. 51, par. 1)[61]. La caratteristica dei principi è la genericità, e in particolare la genericità unita all’indeterminatezza e, tali peculiarità, si riscontrano anche nelle conseguenze normative di un principio. In altre parole, la fattispecie di un principio di solito proclama un valore, un fine (l’uguaglianza, la libertà di manifestazione del pensiero, la correttezza nelle relazioni contrattuali, ecc.), senza stabilire chiaramente in che modo dovrà essere realizzato: quali precise conseguenze siano ad esso associate dipende da una serie di circostanze non esattamente predeterminabili[62].

Pur essendo consapevoli di muoverci su un terreno assai insidioso, perché la indicata distinzione fra principi e regole non è sempre così netta, sembra che l’art. 49 par. 3, Cdfue, abbia proprio tutti i connotati del principio. In qualche modo è la stessa Corte di Giustizia ad ammetterlo quando afferma che la proporzionalità è un principio generale del diritto dell’Unione che riceve una specifica declinazione, <<a livello costituzionale>>, per la materia penale, nel già menzionato art. 49. La disposizione, difatti, si è detto, si limita a pretendere che vi sia una relazione fra pena e gravità del reato, senza spiegare quali siano i criteri per la misurazione concreta della sproporzionalità. Quindi, se la proporzionalità sanzionatoria è principio non potrebbe godere di efficacia diretta, ma dovrebbe trovare ingresso, nell’ordinamento interno, mediante un provvedimento legislativo. Pertanto, fino a quel momento, la proporzionalità sanzionatoria non potrebbe avere altra funzione che di canone rafforzativo, per convergenza assiologica, dei contenuti dell’art. 27, comma III, Cost. e, dunque, potenziare l’interpretazione di quel parametro nei giudizi di legittimità costituzionale.

Smentisce i rilievi finora svolti – e da qui che il dubbio iniziale vacilla notevolmente in favore di una soluzione conforme a quella offerta dai giudici europei – la considerazione che, talvolta, pure le regole hanno carattere generale e che il diritto unionale si muove sempre su principi, i quali, si è detto, si concretizzano e si specificano mediante le pronunce della Corte di Giustizia[63]. Ed è stata la stessa Corte ad affermare che l’art. 49, par. 3, Cdfue, ha immediata efficacia, il suo destinatario è il giudice, il quale può disapplicare di propria iniziativa, sia pure in parte, la sanzione edittale. L’assenza, in quella o in altra pronuncia, di ulteriori chiarimenti, necessari a comprendere come apprezzare la sproporzione della pena rispetto al reato – che, dunque, priverebbero la disposizione di carattere precettivo a causa della sua genericità – potrebbe non essere dovuta ad una lacuna o dimenticanza dei giudici europei, quanto, piuttosto, frutto di una precisa volontà. Invero, come si è accennato in precedenza, la consapevolezza della mancanza, nel diritto europeo, di referenti teleologici sulla finalità della pena – conditio imprescindibile e prioritaria per un autonomo sindacato di sproporzionalità[64] – avrebbe indotto i giudici lussemburghesi a riconoscere, nel principio, un mero limite alla potestà punitiva statale, senza che ciò pregiudichi o influisca sulla concreta valutazione di sproporzionalità, che verrebbe delegata al giudice interno. Insomma, spetterebbe al giudice comune sindacare, discrezionalmente, l’iniquità della sanzione alla luce delle direttive costituzionali interne, se più favorevoli.

3. Il principio di proporzionalità sanzionatoria nelle pronunce della Corte costituzionale.

Sebbene la Corte costituzionale, nelle sue pronunce, assai di rado abbia richiamato espressamente il test, di origine tedesca, adottato dal legislatore europeo e dalla Corte di Giustizia, non v’è dubbio che la triplice verifica, ivi prescritta, si rinviene spesso nei suoi ragionamenti, sia pur in modo frammentato, allorché deve indagare sulla legittimità di una disposizione codicistica[65]. L’assenza di un chiaro riferimento a quel test, verosimilmente, risiede nella circostanza che i controlli, da esso imposti, già fanno parte del patrimonio genetico degli apprezzamenti che la Corte è deputata a compiere: il principio di offensività – inteso come relazione fra scopi e mezzi utilizzati – di sussidiarietà – letta quale necessità e ragionevolezza dell’intervento penale, che tuttavia sono adoperati come criteri informatori di politica criminale – e la funzione rieducativa della pena – invocata ai fini della legittimità/ragionevolezza dell’equilibrio sanzionatorio –[66].

Similarmente, pur rilevando che negli ultimi dieci anni la Corte costituzionale, in alcune occasioni, ha indicato, come parametro di riferimento anche – ma non solo – l’art. 49 Cdfue[67], è indiscutibile che il sindacato sulla sproporzionalità sanzionatoria è svolto secondo i canoni costituzionali interni e, il richiamo alla norma unionale, finora, è servito al mero scopo di rafforzare un giudizio di incostituzionalità a cui già si è pervenuti[68]. L’evenienza, peraltro, non deve meravigliare perché il principio di proporzionalità nostrano, calato all’interno di un sistema che attribuisce alla pena una specifica funzione[69], si è riempito di contenuti che ne hanno condizionato il significato, assolutamente peculiare, di cui è opportuno dare conto.

È noto che la Consulta, per due decenni dalla nascita, ragionando sulla primazia delle scelte democratiche manifestate dal Parlamento[70] e sulla incapacità di effettuare una verifica di corrispondenza tra disvalore del fatto e quantificazione della pena, ha ritenuto di non essere legittimata ad interloquire sulle determinazioni legislative in materia di trattamento punitivo. Del resto, anche se avesse reputato iniqua la risposta sanzionatoria, essa si sarebbe trovata nell’imbarazzante alternativa di elidere dall’Ordinamento la fattispecie penale oppure di individuare, in autonomia, la pena da sostituire, appropriandosi così di spazi discrezionali di competenza esclusiva del legislatore[71]. E’ solo a partire dagli anni ‘70 che si è assistito ad un cambiamento di orientamento – peraltro, coerente con la funzione della Corte di guardiano dei diritti fondamentali – giustificato dalla prevalente esigenza di verificare che l’intrusione legislativa sulle libertà personali dell’individuo non fosse fuori controllo o senza limiti[72]; scrutinio che, in materia penale, «deve essere compiuto con particolare rigore, per le conseguenze che ne discendono, sia per la libertà dei singoli che per la tutela della collettività»[73]. Stante l’assenza di un fondamento costituzionale espresso, la proporzionalità sanzionatoria è stata valutata, almeno inizialmente, utilizzando i due canoni ermeneutici dell’uguaglianza e della ragionevolezza[74]; parametri, questi ultimi, che spesso sono richiamati alternativamente o congiuntamente, a dimostrazione della nebulosità, quantomeno nominativa, degli interventi costituzionali sullo specifico tema[75]. E, dunque, i giudici costituzionali hanno ritenuto di poter esplicare il proprio controllo quando la pena sia manifestamente irragionevole[76] e, per un primo periodo di tempo, solo se fosse stato possibile adottare soluzioni obbligate: l’intervento è avvenuto là dove fattispecie di identico disvalore fossero punite con pene diverse oppure quando fattispecie di disvalore diverso prevedessero la medesima cornice edittale[77]. Ai fini del giudizio di incostituzionalità, tuttavia, la Corte ha avuto necessità di un tertium comparationis, di una norma da adoperare, dapprima, quale punto di riferimento per sostenere la irragionevolezza di un trattamento punitivo e, successivamente, per sostituire la sanzione edittale illegittima con quella in esso contenuta che, evidentemente, si presumeva a sua volta legittima. Si è coniato, così, il c.d. giudizio estrinseco “triadico” che ha trovato il suo referente nell’art. 3 Cost., il principio di eguaglianza – o, secondo taluni il principio di non contraddizione[78] – invocato allo scopo di rimuovere disparità di trattamento sanzionatorio non sorrette da alcuna giustificazione o, in alternativa, al fine di eliminare situazioni di parificazione sanzionatoria, per condotte espressive di differenti disvalori[79]. Epperò, bisogna attendere gli anni ’80 affinché la Corte parli più esplicitamente di proporzionalità sanzionatoria, quando – pur avendo sempre come punto di osservazione l’art. 3 Cost. – rileva che l’uguaglianza delle pene significa, in definitiva, proporzione della pena rispetto alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia, di tutela delle posizioni individuali e di limite alla potestà punitiva statuale[80].

Nello stesso periodo – anche se più diffusamente negli anni ’90 – nell’attività di controllo sulla dosimetria della pena, la Corte introduce un ulteriore e diverso tipo di giudizio, c.d. intrinseco-funzionale, volto a sindacare la coerenza fra la disciplina di riferimento e la finalità cui essa tende. I criteri di giudizio si avvicinano a quelli della idoneità, della necessità e della proporzionalità indicati nel test tedesco ed europeo: il centro d’interesse muta, focalizzandosi sulla congruità delle cornici edittali rispetto agli scopi della pena e sulla capacità di questa di raggiungere gli obiettivi prefissati dal legislatore[81]. La Corte, per tal via, si spinge a compiere valutazioni sulla razionalità politico-criminale sottesa all’opzione legislativa: svolge apprezzamenti sulla qualità dei beni giuridici in gioco, per verificare l’esistenza di un rapporto di proporzione con l’entità del sacrificio imposto dalla norma penale (c.d. razionalità assiologica), ma indaga anche sulla idoneità e adeguatezza della tecnica di tutela adottata in ragione del fine perseguito (c.d. razionalità strumentale)[82].

I principi costituzionali coinvolti aumentano: l’art. 3 Cost. viene letto alla luce del finalismo rieducativo, di cui al comma III dell’art. 27 Cost., poiché, si afferma, è la stessa funzione risocializzante della pena ad essere compromessa da sanzioni sproporzionate, per eccesso, alla gravità del reato[83]. Una pena, che non sia compresa o sentita come giusta dal reo, non favorisce la sua rieducazione, ingenerando, in lui, la convinzione di essere vittima di un ingiusto sopruso, sentimento che osta all’inizio di qualunque efficace processo di reinserimento sociale.

Se la pena proporzionata è servente alla rieducazione del reo, sosterrà, poi, la Corte, allora contribuiscono a definire il suo volto costituzionale pure il principio della responsabilità per il fatto (comma II dell’art. 25) e il principio della responsabilità penale personale (comma I dell’art. 27): nel senso del divieto di responsabilità per fatto altrui e soprattutto come responsabilità per il fatto proprio colpevole, perché solo colui che può controllare, consapevolmente, le conseguenze materiali delle proprie azioni o omissioni, è suscettibile di risocializzazione[84].

Così intesa, la proporzionalità diventa altresì linea guida per il giudice, il quale, dosando la risposta sanzionatoria all’entità del fatto concretamente commesso, garantisce che la pena sia funzionale alla rieducazione del reo.

Dunque, è facilmente comprensibile che le prime sentenze, ove il giudizio di sproporzionalità intrinseco ha indotto la Consulta a dichiarare illegittimo il trattamento punitivo, abbiano avuto ad oggetto le pene fisse, detentive e pecuniarie, perché l’impossibilità di modularle avrebbe impedito al giudice di calibrarle secondo il grado di responsabilità dell’autore del reato ed in base alle specificità dell’illecito posto in essere[85]. La pena fissa, si osserva, non compromette solo la funzione rieducativa e di emenda del reo, ma è in contrasto pure con il principio di responsabilità personale e di parità di trattamento (artt. 3 e 27, commi I e III, Cost)[86]: il principio di uguaglianza, sia formale sia sostanziale, esige di differenziare situazioni tra loro diverse, che vanno definite in «proporzione rispetto alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia ed anche di tutela delle posizioni individuali e di limite alla potestà punitiva»[87]. Insomma, la fattispecie deve essere strutturata in maniera tale da prevedere una pena proporzionata all’intera gamma delle condotte astrattamente riconducibili all’illecito ivi tipizzato; solo qualora esso, per sua conformazione, non sia graduabile, può considerarsi legittima la scelta di una pena rigida[88].

Essendo un giudizio di sproporzionalità totalmente interno, la Corte può emanciparsi dal tertium comparationis. Ma non se ne libera completamente, perché la gravità del trattamento punitivo, comminato nella norma censurata, emerge proprio dal confronto, dalla relazione, con altra pena prevista da una differente fattispecie penale incriminatrice.  Esso, però, viene degradato a mero valore «indiziante» circa la sperequazione sanzionatoria[89]. Inoltre, il parametro di riferimento è ancora indispensabile per giustificare una decisione costituzionalmente obbligata. Difatti, è solo dal 2018 che la Corte si svincola dalle rime obbligate e ritiene sufficiente, per l’individuazione della pena da sostituire, che il sistema, nel suo complesso, offra punti di orientamento e soluzioni già esistenti, purché costituzionalmente adeguate[90]. E spiega, il cambiamento, ragionando sulla prevalente esigenza di offrire tutela effettiva ai principi e ai diritti fondamentali, compressi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che diversamente resterebbero privi di protezione, laddove si potesse intervenire unicamente per rime obbligate.

Sia pur in tempi assai recenti, il controllo di proporzionalità sanzionatoria ad opera della Corte costituzionale è andato oltre le pene in senso stretto, estendendosi alle confische c.d. di carattere punitivo.

E’ notorio che il legislatore degli ultimi anni ha introdotto una molteplicità di misure ablative, come ulteriore corredo alle sanzioni tradizionali, quale conseguenza della commissione di un reato, e speciali ipotesi di confisca obbligatoria del profitto, prodotto o delle cose utilizzate per realizzare l’illecito, nonché, qualora non sia possibile la confisca diretta di essi, l’apprensione di differenti beni nella disponibilità del reo per un valore corrispondente (confisca per equivalente o di valore). La scelta legislativa di ampliare le ipotesi di confisca è dettata dalla consapevolezza dell’ineffettività delle pene pecuniarie, dal più basso standard di garanzie necessarie per la loro irrogazione rispetto a quelle dovute per l’inflizione delle sanzioni tradizionali[91], ma anche dalla particolare efficacia di siffatte misure quando si procede per reati di criminalità economica. La varietà di confische, oggi, è tale che, come ammette la Consulta[92] ed il Supremo consesso[93], non è possibile una reductio ad unum, sicché la loro natura va determinata caso per caso, in base all’oggetto dell’ablazione, alla disciplina e alle finalità perseguite[94]. Ciononostante, in dottrina prevale la tesi per la quale, salvo talune eccezioni, la confisca è divenuta a tutti gli effetti una pena patrimoniale, perché la sua comminazione prescinde da accertamenti sulla pericolosità del reo e perché la sua durata perpetua è inconciliabile con una finalità di mera prevenzione post delictum[95].

Peraltro, è risaputo, che la Corte di Strasburgo ha sollecitato una nozione autonoma di materia penale – da definirsi secondo i criteri indicati nella sentenza Engel[96] – che, superando l’etichetta formale, mira a stabilire se una determinata disciplina, indipendentemente dalla qualificazione accordata dal legislatore nazionale, abbia in realtà una natura afflittiva/repressiva, tale da renderne opportuna la sua riconduzione nell’alveo del diritto punitivo. Ebbene, la Corte ha proceduto ad una disamina strutturale e teleologica della sanzione, che ha differenziato in base alla sua funzione riparatoria, punitiva o preventiva e, per quest’ultima categoria, ha distinto la sanzione che ha finalità special-preventiva di contrasto alla pericolosità (trattamento, neutralizzazione) da quella che – pur presentando una finalità latu sensu preventiva – è comunque riferibile al concetto di punizione (come deterrenza ed intimidazione); e ha chiarito che, ad essa, devono estendersi le medesime garanzie previste per qualsiasi altra misura rientrante nel perimetro aformalistico della matière pénale[97]. Sulla scorta di tale distinzione è giunta così alla conclusione che alcune forme di confisca devono considerarsi di natura sostanzialmente punitiva e, dunque, la loro disciplina deve rispettare le guarentigie prescritte dagli artt. 6 e 7 Cedu[98] e, per quanto qui interessa, il principio di proporzionalità[99].

Dai rilievi finora svolti, è agevole intuire che il sindacato della Corte costituzionale abbia riguardato, principalmente, la eventuale natura punitiva di specifiche ipotesi di confisca[100], e in forza degli influssi comunitari, essa è stata indotta a riconoscere carattere sanzionatorio a talune confische di tipo amministrativo, per le quali deve essere assicurato il rispetto del principio di proporzionalità[101]. Quanto, più specificamente, alla dosimetria sanzionatoria delle misure ablative, il suo intervento, avvenuto negli ultimi anni, si è concretizzato unicamente nell’elisione della disposizione nella parte in cui la confisca non colpiva solo il profitto, ma si estendeva pure al prodotto[102], al prezzo e agli strumenti finanziari utilizzati per realizzare il crimine[103]. L’idea di fondo è che la confisca del profitto – e non del prodotto o dei beni strumentali – è funzionale a ripristinare la situazione patrimoniale preesistente al fatto illecito e, pertanto, avrebbe come unico scopo la sottrazione dei vantaggi economici ottenuti con la commissione di un reato o, comunque, conseguiti in modo illecito sulla base di un illegittimo titolo di acquisto. Essa, insomma, avrebbe una finalità di “compensazione”, traslato penalistico dell’istituto civilistico dell’arricchimento senza causa[104]. Sicché, essendo priva di carattere sanzionatorio-punitivo, la entità dell’ablazione sarebbe in re ipsa, corrispondendo al valore dell’ingiusto vantaggio[105]. Pur condividendo la conclusione, non può nascondersi che residui qualche perplessità e che la distinzione abbia piuttosto il sapore di una truffa delle etichette: escludendo la natura sanzionatoria della misura, la Corte può disinvoltamente proporzionarla alla sola entità dell’illecito profitto e prescindere da ogni complicata commisurazione con la gravità del reato. Pur essendo indubbia la sua funzione riparativa, la confisca del profitto sembra presentare, altresì, una finalità punitiva, perché rappresenta la reazione dell’Ordinamento alla violazione di una norma che prevede un illecito e punisce il reo privandolo del suo ingiusto arricchimento[106]. Per cui, seguendo gli insegnamenti dei giudici d’oltralpe, la confisca dell’illecito dovrebbe qualificarsi come sanzione di natura punitiva e, quindi, godere delle garanzie previste per le sanzioni penali[107].

A soluzione opposta, invece, giunge la Consulta per la confisca del prodotto, del prezzo o dei beni utilizzati per commettere il reato: eccedendo la funzione ripristinatoria tipica della ablazione del profitto, si afferma, la misura assume una connotazione sanzionatoria perché finisce per infliggere, all’autore dell’illecito, una limitazione del diritto di proprietà superiore alla sottrazione dell’ingiusto vantaggio economico[108]. Se quella tipologia di confisca ha carattere punitivo, allora, deve essere sommata alla pena in senso stretto contemplata dalla norma penale; sicché il risultato finale è l’irrogazione di una pena complessiva manifestamente sproporzionata. Dunque, la Consulta non perviene ad un giudizio di sproporzionalità ragionando sulla logica utilitaristica del rapporto di adeguatezza fra mezzi impiegati e obiettivi perseguiti, bensì sulla eccesiva risposta sanzionatoria della confisca e della pena alla gravità dell’illecito in contestazione. Di qui la scelta di elidere in parte la disposizione, lasciando sopravvivere la sola confisca dell’ingiusto profitto. La soluzione offerta dalla Corte, pure sul punto, appare assai singolare[109] e certamente differente da quella adottata per le pene edittali, detentive o pecuniarie, che appaiono già in astratto sproporzionate alle possibili condotte riconducibili alla fattispecie penale incriminatrice. Essa, difatti, ha preferito demolire totalmente la sanzione della confisca piuttosto che graduarla o sostituirla – con un’altra più adeguata contemplata comunque dall’Ordinamento – al fine di consentire l’irrogazione di una pena complessiva proporzionata alla entità del fatto concreto. Eppure, in un caso in cui il giudice italiano lamentava la sproporzionalità della confisca rispetto alla tenuità del disvalore del fatto (art. 44, d.P.R. 380 del 2001), e pertanto sollecitava una pronuncia additiva, allo scopo di essere legittimato ad applicare una sanzione meno afflittiva, la Corte ha ritenuto di non accogliere la questione[110]. Al contrario, quella proposta è stata successivamente condivisa dalla Cassazione che, adeguandosi ai diktat della Corte edu – con le quali si è posto l’accento sulla necessità che, fra più misure idonee, bisogna optare per quella che comprime meno il diritto di proprietà[111] – ha autorizzato il giudice di merito ad individuare lo strumento maggiormente proporzionato alle peculiarità del caso concreto, consentendogli anche di disapplicare la confisca, qualora essa apparisse sproporzionata agli obiettivi perseguiti dalla norma[112].

4. La soluzione dei quesiti: spunti di riflessione.

4.1. La questione di legittimità costituzionale.

Si è detto in premessa che la Corte di cassazione sospetti della legittimità costituzionale dell’art. 2641, commi 1 e 2, c.c., laddove la norma consente la confisca, anche per equivalente, dei beni utilizzati per commettere il reato, perché risulterebbe in contrasto con gli artt. 3, 27 commi I e III, 42 e 117 – quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Primo protocollo addizionale Cedu – nonché con gli artt. 17 e 49, par. 3, Cdfue. Nell’ordinanza di rimessione, difatti, la Corte osserva che la obbligatoria confisca dei beni utilizzati per commettere il reato è costruita in termini tali da non garantire, già in astratto, la ragionevole risposta sanzionatoria, cioè la necessaria adeguatezza al fatto che rappresenta la giustificazione retributiva della pena. Se la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato, non essendo correlata ad alcun vantaggio conseguito dagli imputati, ha natura punitiva, l’assenza di qualsiasi rapporto con il fatto la rende di per sé sproporzionata: mancherebbe una razionale correlazione fra bene confiscato e condotta contestata. Dunque, prima ancora di un dubbio di sproporzionalità della sanzione complessiva – determinata dalla sommatoria della pena detentiva alla confisca a carattere punitivo[113] – la misura ablativa sarebbe già intrinsecamente sproporzionata.

La questione, verosimilmente, sarà accolta dalla Corte perché poggia su argomentazioni già da essa condivise nel 2019 – ed espressamente richiamate nell’ordinanza di rimessione – quando ha dichiarato incostituzionale l’art. 187 sexies TUF, nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo[114], e non solo del profitto, per il reato di aggiotaggio manipolativo, qualora il fatto integri un illecito amministrativo[115].

Nel paragrafo precedente si è ricordato, attraverso le pronunce della Corte costituzionale, che il principio di proporzionalità della pena ha trovato riconoscimento nella Carta fondamentale, inizialmente, nell’art. 3 Cost., come principio di eguaglianza (o, secondo taluni come principio di non contraddizione), poi, nel corso del tempo, ad esso è stato associato il comma III dell’art. 27 Cost. e, in talune decisioni più recenti, l’art. 27 comma I e l’art. 25 comma II, Cost., da leggersi anch’essi alla luce della necessaria risocializzazione del reo. Si è detto, ancora, che la valorizzazione della funzione rieducativa della pena, nel giudizio di proporzionalità sanzionatoria, ha consentito alla Consulta di estendere il proprio sindacato anche alle fattispecie la cui pena edittale apparisse manifestamente sproporzionata, non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato quanto, piuttosto, in relazione alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, soprattutto a fronte di pene rigide, relegando, così, l’evocazione del tertium comparationis prevalentemente allo scopo di individuare la pena da sostituire.

Si è pure rilevato che la giurisprudenza ha ampliato il concetto di sanzione penale, estendendolo alla confisca quando eccede il valore dell’illecito profitto, perché la finalità meramente ripristinatoria dell’ingiusto vantaggio verrebbe meno qualora l’ablazione avesse ad oggetto il prodotto ovvero i beni utilizzati per commettere il reato. Specialmente quando i beni strumentali sono stati legittimamente acquisiti e detenuti, e sono occasionalmente legati alla condotta penalmente rilevante, la misura finisce per avere i tratti di una vera e propria pena. In queste circostanze, la confisca gode – deve godere – di tutte le garanzie previste per la sanzione penale in senso stretto. E, per quanto qui interessa, deve essere assicurata la proporzione fra il quantum confiscabile e la gravità del fatto attribuito al reo con la sentenza di condanna[116].

Ebbene, la Corte di cassazione reputa che, nel caso sottoposto alla sua attenzione, si ponga un problema di sproporzionalità sanzionatoria perché la confisca, pur avendo una finalità punitiva, non presenta alcun legame con il reato contestato. Noi riteniamo, invece, che, più correttamente, questa tipologia di ablazione debba essere eliminata dal sistema, non perché sproporzionata, ma poiché intrinsecamente irragionevole. A dispetto di quanto sostenuto nel provvedimento di rimessione, il particolare oggetto su cui cade la misura ha una relazione con la condotta se, proprio grazie ad esso, il reato si è potuto commettere: il bene, precisamente, rappresenta lo strumento mediante il quale si è realizzato l’illecito. Al contrario, la previsione risulta palesemente irrazionale ove si rilevi che l’entità della misura prescinde dalla gravità del reato e dal valore economico del bene, essendo unicamente computata sulla sua oggettiva ed intrinseca consistenza. Peraltro, pure laddove si ammettesse una graduazione della confisca, l’assenza di razionali parametri per dosarla in funzione della condotta dell’imputato, farebbe sì che l’ammontare del sacrificio patrimoniale sarebbe sempre rimesso alla totale discrezionalità del giudice[117]. Il problema reale, quindi, è di fondo, perché ci si trova al cospetto di due entità che non sono assiologicamente commensurabili e, dunque, per quanto diffusa sia l’idea che la confisca punitiva sia da equiparare alla sanzione pecuniaria, essa già in astratto non si presta ad una logica di proporzionalità.

Qualora i dubbi di illegittimità siano condivisi dalla Corte costituzionale, sarà interessante verificare se essa riterrà sussistente pure il contrasto con l’art. 27 comma III, Cost., come invocato dalla Corte di cassazione. Difatti, nella citata pronuncia del 2019, il giudice delle leggi ha escluso la violazione di quel parametro costituzionale, mentre ha reputato inosservati gli artt. 3 e 42 Cost. avendo individuato, in quest’ultima norma, la fonte di tutela del principio di proporzionalità della sanzione limitativa del diritto di proprietà[118]. E, assai innovativamente, ha considerato leso anche l’art. 49, par. 3 Cdfue perché, pur riferendosi alle “pene” e al “reato”, come spiegato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea[119], il principio si applica all’insieme delle sanzioni, sia penali che amministrative se di carattere “punitivo”.

Invero, se il caso che ha determinato la sentenza del 2019 ha riguardato le sanzioni amministrative “parapenali” – che godono, nella giurisprudenza, di uno statuto di garanzie inferiore a quello penale – l’esclusione della violazione della finalità rieducativa è stata motivata rilevando che essa è inscindibilmente connessa alla logica privativa o, quantomeno, limitativa della libertà personale, mentre resta sullo sfondo quando la pronuncia ha ad oggetto pene di natura diversa[120]. È come dire che l’ablazione di beni mobili od immobili – e, di conseguenza, anche del denaro – scarsamente contribuiscono alla risocializzazione del reo. Ciò, tuttavia, si è evidenziato, non la esclude dall’osservanza della proporzionalità sanzionatoria che, però, trova la sua copertura costituzionale nell’art. 3 in combinato disposto con l’art. 42, che protegge la proprietà privata, e con l’art. 49 Cdfue, che inibisce l’irrogazione di sanzioni sproporzionate. Insomma, in questo procedimento, la Consulta prospetta un sindacato nuovo sulle sanzioni patrimoniali, emancipato dai tradizionali parametri adoperati per delimitare la sanzione detentiva, che fonda su un differente bilanciamento di proporzionalità fra gravità del fatto commesso e proprietà privata[121]. Sicché, il richiamo alla equità sanzionatoria unionale diventa passaggio fondamentale ed irrinunciabile in quanto contribuisce a definire lo spazio di tutela – nel senso della necessaria proporzionalità del sacrificio – del bene-proprietà privata in rapporto all’entità dell’illecito di colui che subisce la compressione di quel diritto. Ma, si badi, è un concetto di proporzione diverso da quello utilizzato, in altre occasioni, dalla Corte europea[122], in cui il principio viene inteso in una logica utilitaristica e, cioè, come relazione di adeguatezza tra mezzi impiegati e obiettivi perseguiti, dove i vantaggi attesi per la collettività devono essere idealmente comparati con i costi che l’impiego di uno strumento, incidente sui diritti della persona, può comportare sul singolo che lo subisce. Nella pronuncia della Consulta, la proporzionalità diviene limite di carattere quantitativo alla potestà punitiva dello Stato, svincolato da valutazioni sull’adeguatezza della misura rispetto all’obiettivo perseguito, perché il termine di paragone è il fatto illecito commesso dall’imputato[123].

4.2. La doppia pregiudizialità.

Avendo ritenuto che la norma censurata sia affetta da un problema di illegittimità intrinseca che prescinde, quindi, dalla sproporzionalità complessiva della sanzione, la Corte di cassazione rinvia il processo innanzi al giudice costituzionale. L’escamotage consente ad essa di sottrarsi dalla difficile scelta di pronunciarsi sulla correttezza della disapplicazione della confisca operata dalla Corte d’appello – che avrebbe potuto incrinare i rapporti con i giudici unionali – ovvero di proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia – come suggerito dal Procuratore Generale – per ottenere ulteriori chiarimenti sulla efficacia diretta dell’art. 49, par. 3, Cdfue.

L’aver privilegiato la strada interna, in ipotesi di doppia pregiudizialità – di contrasto, cioè, della norma sia rispetto alla Carta fondamentale che alla Carta dei diritti dell’Unione – evidenzia il giudice della cassazione, trova avallo in diverse pronunce della Consulta[124], ove la Corte si è ritenuta legittimata a sindacare la norma, per prima, alla luce dei parametri interni ed europei, in base all’ordine che, di volta in volta, ha considerato più appropriato. Ed ha giustificato, la primazia, con l’esigenza di verificare che i diritti unionali siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali (art. 6 del trattato sull’Unione e 52 comma 4 del Cdfue). Il richiamo ai principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e ai diritti inalienabili della persona è palesemente funzionale a sottolineare che il primato del diritto europeo si arresta difronte a valori considerati prioritari nell’Ordinamento interno, fra i quali, per quanto qui rileva, gode di particolare protezione il principio di legalità, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo[125]. In ogni caso, facendo salvo il rinvio pregiudiziale per le sole questioni di interpretazione o di validità della norma europea[126], la Corte, così ragionando, inverte la sequenza logica e cronologica della doppia pregiudizialità perché, quando valuta la compatibilità della norma interna col diritto europeo, diviene essa stessa primo arbitro, a discapito dell’organo deputato istituzionalmente ad assolvere al compito. Difatti, la Corte di Cassazione, conclude sul punto, osservando che il rinvio alla Corte costituzionale non collide col sistema eurounitario, purché – come sostenuto anche dai giudici europei – il giudice comune (1) resti libero di sottoporre la questione, pure dopo quel giudizio, alla Corte di Giustizia; (2) possa adottare le misure necessarie a garantire la tutela provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale; e, comunque, (3) sia autorizzato a disapplicare la norma, al termine del procedimento incidentale, qualora superato quel vaglio, ritenga che essa sia in contrasto con altri profili del diritto unionale[127].  Peraltro, è inutile nasconderlo, alla base di tale scelta v’è il bisogno di non perdere il controllo accentrato nazionale affidato alla Corte costituzionale, il quale presenta l’indiscutibile pregio di consentire l’emissione di una decisione che, per la sua efficacia erga omnes, soddisfa esigenze di certezza e di uguaglianza di trattamento, vincolando i giudici ad uniformarsi al principio in essa contenuto. Quel controllo, difatti, rischia di essere compromesso dal raccordo diretto fra Corte di giustizia e giudici interni, che la prima, al contrario, incentiva fortemente[128].

4.3. Il potere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna.

La soluzione adottata dalla Corte di cassazione lascia impregiudicato il quesito fondamentale, se il giudice possa disapplicare parzialmente la pena edittale qualora la reputi sproporzionata al fatto contestato all’imputato. La problematica, riteniamo, deve essere comunque risolta, poiché potrebbe riproporsi, in un prossimo futuro, quando un giudice interno considererà iniqua, rispetto alla gravità della condotta accertata, la sanzione prevista da una diversa fattispecie incriminatrice, e richiamerà, ancora una volta, la sentenza della Corte di Giustizia del 2022, per legittimare il suo potere di disattendere, verso il basso, i limiti predeterminati[129].

Ebbene, è palese che la fattispecie sembri trovare un ostacolo nella Carta costituzionale, in particolare nell’art. 25 Cost. E’ nota la funzione di garanzia del principio di legalità e, principalmente, della riserva di legge, nella misura in cui, impedendo l’irrogazione di una pena non espressamente contemplata dalla norma penale, protegge l’imputato dall’arbitrio del giudice nel momento della determinazione del debito punitivo. Tuttavia, è altrettanto evidente che, in ispecie, l’esigenza giustificativa della guarentigia si attenua, anzi si inverte, perché l’autonomia di cui verrebbe a godere il giudice, svincolato dalla sanzione legale, sarebbe servente alla comminazione di una pena meno afflittiva[130]. Quindi, anche i c.d. controlimiti, elaborati dalla Corte costituzionale nella famosa saga Taricco[131] – e, per il tramite di essi, la riaffermazione che le norme penali (e le sanzioni) devono essere previste per legge, determinate e formulate in termini chiari, precisi e stringenti – risulterebbero ininfluenti[132]. E’ facilmente comprensibile che la rivendicazione del primato della legalità penale e dei suoi corollari apparirebbe poco proficuo se è vero che, nella vicenda Taricco, il richiamo al principio di legalità era finalizzato a privilegiare una normativa interna più favorevole; mentre, qui, l’applicazione diretta dell’art. 49, par. 3, Cdfue, autorizzerebbe l’irrogazione di una sanzione in mitius.

Peraltro, è stata la stessa Corte costituzionale ad affermare che il principio di sovranità della Costituzione può essere superato quando sia funzionale ad ampliare la tutela dei diritti della persona: sia pur riferendosi al rapporto fra Costituzione e Convenzione edu, ma con argomentazioni suscettibili di una valenza più generale, ha chiarito che <<…il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti>>[133]. La Corte, insomma, appare aperta ad un confronto libero con le giurisprudenze comunitarie ed internazionali, rifiutando di ripiegarsi su logiche nazionaliste[134].

Il discorso potrebbe indurre a conclusioni differenti, se si ragionasse sull’altro versante della riserva di legge, di garanzia che assicura la separazione dei poteri. Difatti, quando il giudice disapplica la norma, perché commina una pena di quantità diversa da quella prescritta, si altera il rapporto col legislatore: l’impianto costituzionale colloca il giudice, per un verso, in una posizione di autonomia e di indipendenza da ogni altro potere, e, per altro verso, in un condizione di subordinazione alla legge (art. 101 Cost.)[135]. I due profili si bilanciano perché l’indipendenza funzionale dal potere legislativo ha il suo contrappeso nel dovere di rispettare il prodotto di quel potere[136]. Invero, pur reputando che la pena appaia sproporzionata alla gravità della condotta attribuita al reo, il giudice non può modificarla di propria iniziativa, perché anche la determinazione della pena è espressione di scelte discrezionali di politica criminale che spettano al legislatore in quanto organo di democrazia, e che sono in pericolo quando il giudice irroga una sanzione diversa da quella edittale, ma pure, qualora, in ragione della evanescenza dei criteri indicati per computarla, i suoi spazi valutativi si dilatano eccessivamente[137]. <<Gli ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire>>[138].

Epperò, se la prioritaria esigenza di proteggere la forma di Stato, adottata dalla Carta costituzionale, imporrebbe di vietare al giudice qualsiasi intervento motu proprio, la conclusione non terrebbe in debito conto che la sua legittimazione ad agire non nasce da una arbitraria ed unilaterale iniziativa, quanto, piuttosto, dall’obbligo di omologarsi al diritto europeo[139]. Obbligo che deriva, paradossalmente, da una scelta effettuata dallo stesso legislatore, quando ha consentito di subordinare la propria autorità a quella del legislatore europeo, nelle materie di  competenza del secondo. Quindi, se, forse, potrebbe apparire eccessivo, sostenere che il potere di disapplicazione della norma penale trae direttamente origine dalla legge parlamentare, risponde sicuramente al vero che l’esercizio di quel potere non esprime, certamente, la volontà di appropriarsi di competenze assegnate ad altro organo, evenienza – questa sì – che metterebbe in crisi il sistema.

Infine, qualora si consentisse al giudice di disapplicare parzialmente la pena prescritta dalla norma, non si rileva alcuna violazione dell’art. 3 Cost., sebbene, questa, sia la ragione principale per la quale la dottrina preferisce percorrere la via del giudizio di incostituzionalità[140]. Riteniamo che il rischio di disparità di trattamento fra gli imputati – dovuto alla diversità di apprezzamenti che il singolo organo giurisdizionale sarebbe chiamato ad effettuare nel proprio procedimento – in qualche modo è già insito nel momento della concreta determinazione pena, perché essa è strettamente condizionata dalle peculiarità della vicenda e perché – come si evidenzierà meglio nel prosieguo – i parametri normativi di riferimento sono talmente ampli ed elastici da lasciare al giudice un dominio assoluto sul trattamento punitivo. Se la pena minima serve a garantire la parità di trattamento ed esprime il giudizio di riprovevolezza manifestato dal legislatore verso le condotte astrattamente riconducibili ad una determinata fattispecie incriminatrice, il sistema, per contro, già consente al giudice di andare al di sotto del limite edittale quando il fatto, al suo insindacabile apprezzamento, si palesi estremamente esiguo.

Per altro verso, la discussa legittimazione del giudice ad irrogare una pena inferiore al minimo edittale, se confrontata con le prassi applicative e con la disciplina codicistica, non risulta così distonica dagli altri poteri che l’Ordinamento gli conferisce.

Quando, ad esempio, la Corte costituzionale ritiene illegittimo il trattamento sanzionatorio previsto da una norma penale, perché sproporzionato alla gravità dei possibili comportamenti ad essa riferibili – dunque, non raffronta la norma con altri illeciti, ma si esprime in forza di un sindacato di irragionevolezza totalmente interno alla disposizione – essa finisce per manifestare un giudizio di iniquità che inevitabilmente è di tipo valutativo e prevale sulla libera discrezionalità legislativa. Se, poi, il giudizio di incostituzionalità prescinde completamente dal tertium comparationis e, quindi, la individuazione della pena da sostituire non è per rime obbligate, la Consulta svolge un compito che compete al Parlamento[141]. Ebbene, se è indubbio che la Corte costituzionale è la garante dei principi fondamentali, quando procede alla ricerca delle nuove sanzioni all’interno del sistema penale, diventa essa stessa legislatore, perché impone una propria determinata visione che, se funzionale a salvaguardare i diritti fondamentali dell’individuo, viola la riserva di legge[142].

Al di là del caso innanzi citato, certamente peculiare – per l’organo che si pronuncia e per le funzioni istituzionali ad esso conferite – che il giudice comune sia dotato di un potere discrezionale nella determinazione della pena, fino al punto di poter disapplicare in tutto o in parte la sanzione edittale, emerge chiaramente ove si rifletta sul c.d. doppio binario sanzionatorio, ammesso dalla giurisprudenza italiana[143] dopo le note sentenze Grand Stevens del 2014 e, soprattutto, A. e B. contro Norvegia del 2016[144]. E’ risaputo che la Corte edu – offrendo una lettura sostanziale della garanzia del ne bis in idem – ha consentito, a certe condizioni, la duplicazione dei giudizi sullo stesso fatto qualora il secondo giudice, nel momento applicativo della sanzione, possa prendere in considerazione quella già inflitta in una diversa sede; cosicché, la complessiva risposta punitiva risulti proporzionata all’intero disvalore del fatto. Poiché l’interpretazione è stata recepita anche dalla Corte di giustizia[145], il giudizio di proporzionalità sanzionatoria complessiva, ai fini della violazione del ne bis in idem, è oggi affidato all’insindacabile apprezzamento del giudice della cognizione – quando si tratta di materie di competenza dell’unione – perché l’art. 50 Cdfue, che cristallizza il medesimo principio, è norma di diretta applicazione. Sicché, in ossequio a tale principio, la Corte di cassazione ha riconosciuto al giudice penale, intervenuto dopo la comminazione di una sanzione amministrativa, il potere di irrogare una pena al di fuori del minimo edittale[146] e, addirittura, di disapplicarla totalmente qualora ritenga che la prima abbia completamente esautorato il giudizio di proporzionalità[147]. In tali evenienze, è palese, il principio di legalità diventa recessivo rispetto alla necessità di assicurare una risposta punitiva proporzionata. E se è vero che, quando il giudice disapplica la sanzione penale, ragiona contando su quella impartita da un altro giudice, è altrettanto evidente che essa viene computata sulla base di logiche e finalità diverse dai criteri che orientano la materia penale, e ciò avviene in contrasto con la riserva di legge che impone una propria sanzione per la sola rilevanza penale della condotta[148].

Per di più, questo potere manipolativo sulla sanzione edittale attribuito al giudice, per via giurisprudenziale, non rappresenta un’ipotesi isolata dovuta all’esigenza prioritaria di uniformarsi ai dicta sovranazionali – che già sola basterebbe per ritenere risolto, in senso positivo, il quesito che ci siamo posti – perché la legittimazione ad apprezzare la sanzione complessiva gli è stata riconosciuta dal legislatore del 2024 per superare problemi di bis in idem sorti in ragione di una nuova disciplina interna in materia di beni culturali[149], e perché pure in altre occasioni il Supremo consesso si è attribuita la legittimazione a ridefinire la pena[150].

Ebbene, se tali orientamenti mettono in crisi la riserva di legge, in qualche modo si spiegano col bisogno di non intrappolare in <<rigide gabbie normative>> il potere valutativo del giudice nella determinazione della sanzione, perché è la stessa funzione costituzionale della pena a pretenderlo, tanto da indurre la dottrina a parlare di una <<legalità costituzionale della commisurazione della pena>>[151]. Difatti, sarebbero proprio le esigenze di rieducazione a prescrivere che la pena sia proporzionata al fatto e necessariamente individualizzata, principi destinati ad operare specificamente nel momento della sua concreta inflizione[152]. A conti fatti, basta leggere l’art. 133 c.p. – norma di riferimento imprescindibile che, in ogni processo, dovrebbe guidare nella concretizzazione del debito punitivo – per intuire quanto sia ampia la discrezionalità del giudice in sede di definizione del trattamento punitivo: la disposizione rinvia ad una congerie tale di criteri, oggettivi e soggettivi, da ricomprendere qualsiasi elemento che, logicamente e razionalmente, sarebbe possibile utilizzare per orientarsi nel computo della pena[153]. L’onnicomprensività dell’elencazione, insomma, finisce per perdere la funzione di vincolo e consegna al giudice un potere pieno e libero di decidere la pena secondo il proprio insindacabile giudizio[154]. Potere che si amplifica a dismisura quando deve apprezzare la sussistenza delle circostanze attenuanti comuni o generiche (artt. 62 e 62 bis c.p.), ove peraltro, nel secondo caso, manca qualunque parametro, per quanto generico, per indirizzarlo. Eppure, quelle disposizioni consentono al giudice ampi spazi di discrezionalità verso il basso: di movimento al di sotto della cornice minima e di bilanciamento in caso di compresenza di circostanze aggravanti ed attenuanti[155].

Ad ogni modo, anche laddove il giudizio di sproporzionalità dovesse indurre a ritenere opportuna la totale disapplicazione della pena, è evenienza, questa, già considerata pure dallo stesso legislatore, nell’art. 131 bis c.p., che autorizza il giudice ad escludere la punibilità dell’imputato in presenza delle condizioni indicate nella norma. In tale ipotesi, il giudice si trova al cospetto di un fatto di reato perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi, epperò, può decidere di rinunciare all’inflizione della pena perché qualitativamente e quantitativamente sproporzionata all’offesa[156]. E, quasi paradossalmente, si prescrive che la valutazione del fatto debba avvenire sulla base dei generici parametri codificati nell’art. 133 comma 1, c.p. Ora, benché sia il Parlamento a legittimare il suo operato – quindi non sembra violata la riserva di legge – la vaghezza dell’enunciato normativo, generale ed astratto – se si esclude il riferimento alla sanzione minima per le fattispecie per le quali si applica l’istituto – nei fatti, lascia al giudice un potere incondizionato di rinunziare alla pena. E la rinuncia è proprio frutto di un sindacato di immeritevolezza: non è questo un tipico caso in cui il giudice disapplica la sanzione perché sproporzionata rispetto alla scarsa gravità del fatto?[157]. Ciononostante, non si è dubitato della legittimità costituzionale della previsione, ritenendo violato il principio di legalità penale, della riserva di legge, della separazione dei poteri o, ancora, nessuno ha contestato l’assenza di una base legale sufficientemente precisa che guidi il giudice nel suo apprezzamento. Forse perché l’istituto serve a soddisfare esigenze di efficienza, che evidentemente sono state considerate prevalenti ai principi fondamentali che regolano la materia penale[158].

Dunque. Le prassi giurisprudenziali consentono al giudice di disapplicare la pena, in tutto od in parte, in ipotesi di doppio binario processuale, qualora la sanzione complessiva appaia sproporzionata; gli artt. 62 e in particolare 62 bis c.p., conferiscono al giudice un ampio margine di arbitrarietà nella concretizzazione del trattamento sanzionatorio, fino a legittimarlo all’irrogazione di una sanzione anche al di sotto del minimo edittale, a prescindere dalla fattispecie incriminatrice; l’art. 131 bis c.p. legittima il giudice a non infliggere alcuna sanzione, però limita la possibilità alle sole fattispecie punite nel minimo con due anni di reclusione[159]. Il risultato è la nascita di un sistema in cui la discrezionalità giudiziaria nella determinazione della pena è <<a macchia di leopardo>> ed risulta difficilmente compatibile con il principio di proporzione, di ragionevolezza e di uguaglianza[160].

In conclusione. In un ordinamento in cui, non esistendo né sentencing guidelines né rigidi parametri commisurativi[161], il giudice ha il dominio assoluto nel computo della pena – soprattutto quando deve correggerla verso il basso o non irrogarla – sembra assolutamente in linea, con le sue prerogative, la possibilità di disapplicare parzialmente la pena, perché sproporzionata alla gravità del fatto, come gli consente la Corte di Giustizia[162].  Se l’art. 49, par. 3, Cdfue, non spiega i parametri che il giudice deve adoperare per sindacare la sproporzionalità e per graduare la pena al di sotto dei limiti edittali, del pari non esistono  criteri chiari, precisi e vincolanti per orientare il giudice nella definizione della pena, nella concessione delle attenuanti, nella disapplicazione prevista dall’art. 131 bis c.p.

[1] L’espressione è di G. Pino, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, in Ragion partica, 2014, 541.

[2] Così, M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in www.penalecontemporaneo.it, Riv. Trim., 2014, 143.

[3] In questi termini, G. Pino, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, cit., 542; G. Scaccia, Proporzionalità e bilanciamento tra diritti nella giurisprudenza delle Corti europee, in Rivista AIC, n. 3 del 26 settembre 2017, 11.

[4] Cfr., a titolo esemplificativo Corte Edu, 17 gennaio 2012, Vinter e a. c. Regno Unito, § 88, Corte Edu, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter e a. c. Regno Unito, § 102, ove si evidenziato il legame che intercorre tra il carattere sproporzionato di una pena e la violazione dell’art. 3 della Convenzione. Si vedano, sul principio di proporzionalità comunitario, fra tante, Corte europea 20 febbraio1979, causa 120/78, Rewe-Zentral-AG (Cassis de Dijon); id., 6 novembre 2003, causa C-243/01, Gambelli.

[5] D. Negri, Compressione dei diritti di libertà e principio di proporzionalità davanti alle sfide del processo penale contemporaneo, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2020, 3.

[6]G. Ubertis, Equità e proporzionalità versus legalità processuale: eterogenesi dei fini?, in www.archiviopenale.it, 2017, 1.

[7] G. Pino, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, cit., 543.

[8] D. Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, in www.penalecontemporaneo.it, 2015, 2, 46; F. Palazzo, Legalità fra law in the books e law in action, in www.penalecontemporaneo.it, del 13 gennaio 2016; M. G. Brancati, La pena proporzionata: viaggio tra legalità ed equità a partire dalla sentenza C-205/20, in www.archiviopenale.it., Riv. Trim., 2022, n. 2, 5.

[9] Giurisprudenza assolutamente conforme. Si vedano, Corte giust., 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, punto 24; id., 4 giugno 1992, cause riunite C‑13/91 e C‑113/91, Debus, punto 32; id., 18 luglio 2007, C‑119/05, Lucchini, punto 61; id., 27 ottobre 2009, C‑115/08, ČEZ, punto 138; id., 19 novembre 2009, C-314/08, Filipiak, punto 81; id., 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, punto 43; id., 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punto 45.

[10] …anche se poi la linea di confine fra interpretazione – ammessa – e creazione – vietata – della norma comunitaria è estremamente sottile, se le norme europee si muovono per principi e se la Corte di Giustizia ha il dovere di specificarne il contenuto e l’ambito di applicazione.

[11] Così, Cass., Sez. V, n. 22577 del 11 dicembre 2012; Cass., Sez. III, 2 marzo 2005, n. 4466 e Cass. 30 agosto 2004 n. 17350.

[12] Così, E. Kostoris, Processo penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2015,1177.

[13] Ci si riferisce all’ordinanza emessa dalla V° Sezione della Corte di cassazione il 14 dicembre 2023, n. 08612/24.

[14] Per una narrazione più articolata del caso sottoposto alla questione di legittimità costituzionale, si rinvia a G. Civello, Confisca per equivalente dei beni utilizzati per commettere i reati societari: sollevata la questione di legittimità costituzionale, in www.archiviopenale.it, del 28 marzo 2004.

[15] ..a partire dalla nota sentenza del 21 settembre 1989, Commissione c. Grecia, C-68/88.

[16] …ciononostante, si avverte – come si spiegherà meglio nel prosieguo di questo paragrafo – noi aderiamo alla tesi secondo la quale pure nel diritto unionale è possibile distinguere i principi dalle regole in base al grado di indeterminatezza e di genericità della disposizione.

[17] A. Barak, Proporionality. Constitutional Rights and their Limitations, Cambridge, 2012.

[18] G. Pino, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, cit., p. 541, il quale spiega che il riconoscimento solenne dei diritti fondamentali da parte di Costituzioni…dovrebbe servire esattamente a…trincerare certi interessi – i diritti fondamentali – rendendoli intangibili anche di fronte all’interesse collettivo, e insensibili a calcoli utilitaristici e valutazioni in termini di costi e benefici. Le faticose conquiste dell’età dei diritti, dunque, verrebbero adesso progressivamente erose dalla trionfale avanzata del principio di proporzionalità, che rende apparentemente limitabile qualsiasi diritto fondamentale sol che la limitazione sia «proporzionata», «ragionevole»; e alla fine quelle conquiste verranno fagocitate e annullate, con singolare dialettica, dalla melassa indistinta della age of balancing.

[19] Il principio ha trovato la sua prima applicazione giurisprudenziale nel celebre caso Kreuzberg (Oberverwaltungsgericht, 14 giugno1882) che si è svolto innanzi al Tribunale amministrativo superiore prussiano (preußisches Oberverwaltungsgerichts). Sul tema la letteratura è ampia. Tra i molti, M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, cit., 143; S. Cognetti, Il principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; A. Sandulli, voce Proporzionalità, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di Diritto Pubblico, vol. V, 2006, 4643; G. Scaccia, Il controllo di proporzionalità della legge in Germania, in Annuario di diritto tedesco, 2002, 379 ss.

1.               [20] Così, F. Falato, La proporzione innova il tradizionale approccio al tema della prova: luci ed ombre della nuova cultura probatoria promossa dall’ordine europeo di indagine penale, in www.archiviopenale.it,, Riv. Trim., n.1, 22.

[21]D. Negri, Compressione dei diritti di libertà e principio di proporzionalità davanti alle sfide del processo penale contemporaneo, cit., 4.

2.               [22] Cfr., sul punto A.M. Sandulli, Eccesso di potere e controllo di proporzionalità. Profili comparati, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1995, 341. G. Scaccia, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Roma, 2000, 266.

[23] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 39.

[24] Bundesverfassungsgericht, sentenza 11 giugno 1958, in BVerfGE 7, 377 ss.

[25] G. Scaccia, Il controllo di proporzionalità della legge in Germania, cit., 21.

[26] G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, cit., 267 ss.; Id., Il principio di proporzionalità della legge in Germania, cit., 232.

[27] Sul tema, oltre gli Autori innanzi citati, cfr., F. Falorni, Verso una compiuta elaborazione del “test di proporzionalità? La Corte costituzionale italiana al passo con le altre esperienze di giustizia costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, Riv. Trim., 2020, n. 4; G. Pino, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, cit., 541; M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, relazione svolta alla conferenza trilaterale delle corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola del 24-26 novembre 2013, in www.cortecostituzionale.it.

[28] Cfr., tra le tante, BVerfG sentenza 11 giugno 1958, in BVerfGE 7, 377 ss.

[29] I primi richiami al principio sono riscontrabili già nella sentenza del 29 novembre 1956 relativa al caso Fèdèration Charbonière de Belgique c. Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Lussemburgo “Con riferimento al controllo della proporzionalità, occorre ricordare che il principio di proporzionalità, che fa parte dei principi generali del diritto comunitario, richiede che gli atti delle istituzioni comunitarie non superino i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti”. Così Corte di giustizia, sentenza 07 settembre 2006, in causa C-310/04, Regno di Spagna c. Consiglio, ECLI:EU:C:2006:52, punto 96.

[30]…difatti, nella maggior parte dei casi il profilo della idoneità resta implicito nel ragionamento della Corte. Così ad es., Corte giustizia, dell’11 marzo1987, in cause riun. 279, 280, 285, 286/84, Rau, ECLI:EU:C:1987:119, punto 34.

[31] Sintomo di tale incoerenza argomentativa, peraltro, rileva G. Scaccia (Il principio di proporzionalità, in Ordinamento Europeo, a cura di S. Mangiameli, vol. II, Milano, 2006, p. 26), è una vistosa asimmetria di giudizio nella valutazione dei requisiti della idoneità e necessità, a seconda che lo scrutinio riguardi un atto di provenienza statale, ovvero un atto adottato dalle Istituzioni dell’Unione.

[32] Sotto il profilo penale, il carattere discontinuo dei giudizi della Corte di giustizia è messo in evidenza da S. Manacorda, Le contrôle des clauses d’ordre public. La «logique combinatoire» de l’encadrement du droit pénal, in AA. VV., Cour de Justice et justice pénale en Europe, 2010, Francia, 57 e ss.

[33] N. Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale, Torino, 2020, 104; C. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in www.penalecontemporaneo.it, 111.

[34] Cfr., Corte di giustizia 19 gennaio 1999, C-348/96, Calfa, ove la Corte nel valutare la sproporzionalità in senso stretto rinvia ad argomentazioni relative alle specifiche circostanze oggettive e soggettive del caso, bilanciandole con le esigenze di ordine pubblico; Id., 10 febbraio 2000, C-347/97 Nazli. In dottrina, sul tema, C. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 113.

[35] Corte di giustizia, 15 novembre 2012, Al-Aqsa/Consiglio e Pays-Bas/Al-Aqsa, C-539/10 P, ECLI:EU:C:2012:711.

[36] Corte giustizia, 14 luglio 1977, Sagulo e a., 8/77 EGLI:EU: C:1977:131; 23 novembre 2010, Tsakouridis, C-145/09, ECLI:EU:C:2010:708

[37] Cfr., in proposito, Corte di giustizia, Sez. IV, 19 ottobre 2023, n. 655, ove, in base al par. 3 dell’art. 49 della Carta di Nizza, la Corte reputa eccessivamente elevata la pena minima perché, afferma, sarebbe difficile per il giudice fissare una sanzione la cui entità non eccede la gravità del reato. Ma anche, Corte di giustizia, Sez. V, 6 ottobre 2021, n. 35. Sul concetto di proporzionalità europea, Cfr., V. Manes, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2007, 739.

[38]C. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 118.

1.               [39]C. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. Pen., 2010, 326 e ss.; D. Pulitanò, Diritto penale e costruzione europea, Atti del convegno “Il diritto penale nella prospettiva di riforma dei trattati europei” del 27 e 28 giugno 2008; R. Sicurella, La costruzione della dimensione penale dell’Unione europea: deriva simbolico-repressiva o occasione di approfondimento dei presidi garantistici?, in Riv. Trim. di diritto pen. dell’economia, 2013, 419; A.M. Maugeri, Il principio di proporzione nelle scelte punitive del legislatore europeo: l’alternativa delle sanzioni amministrative comunitarie, in G. Grasso – L. Picotti – R. Sicurella (a cura di), L’evoluzione del diritto penale nei settori d’interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, Milano, 2011, 75; S. Moccia, Funzioni della pena de implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Corte costituzionale italiana, in Dir. Pen. Proc., 2012, 921 e ss.

[40] È proprio l’assenza di un’esperienza penalistica dell’unione che ha spinto autorevoli studiosi a predisporre un manifesto per una politica penale europea che identifichi quale sia la funzione da attribuire alla sanzione penale a livello, appunto, europeo. Cfr., European Criminal policy initiative, Manifesto sulla politica criminale, in Riv. It. Dir. Proc., 2010, 1262 e ss.

[41] Pur nella consapevolezza che ogni scelta in materia penale sia espressione di una opzione politica criminale, la circostanza che il Consiglio..avesse riconosciuto la necessità di elaborare linee ufficiali di politica criminale, manifesta l’esigenza di una chiara e netta determinazione della funzione della pena. Così osserva Moccia, Funzioni della pena de implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Corte costituzionale italiana, cit., 923. Si veda, sul punto, anche M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie ed ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Storia del diritto penale e della giustizia, Milano, 2010, 148.

[42] In tema di pornografia, ad esempio, la Direttiva del 2004 (Decisione quadro 2004/68/GAI del 22 dicembre 2003) punisce la pornografia reale parificandola a quella virtuale sebbene, sul piano oggettivo, esprimono offese al bene giuridico protetto di intensità ben diverse e, dunque, l’equiparazione delle due condotte finisce per rispondere più a preoccupazioni morali e simboliche che di effettiva proporzionalità alla gravità del reato. Ancora, in materia di politiche ambientali dell’Unione europea (Decisione quadro 2004/68/GAI del 22 dicembre 2003) emerge un ulteriore profilo di frizione col principio di proporzionalità. Si tratta della forte connotazione in termini precauzionistici delle politiche ambientali perseguite dalle istituzioni comunitarie ex art. 191, par. 2, Tfue.

[43] Ci si riferisce, ad esempio, all’art. 5 comma 1 della decisione-quadro del 2002, in materia di lotta al terrorismo.

[44] Cfr., F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, cit.,120; M. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, 275, i quali, ragionando anche sulle origini storiche del concetto di proporzionalità dove, nel modello tedesco, la pena applicata non può superare il limite della colpevolezza del fatto (per tutti, C. Roxin, C., Politica criminale e sistema del diritto penale, 1970, traduzione italiana a cura di S. Moccia, Napoli, 1988, 51), affermano che la proporzionalità sanzionatoria debba essere intesa con funzione limitativa della potestà punitiva statale, a fronte delle ragioni di natura preventiva incorporate nelle finalità della pena, onde assicurare che essa si mantenga entro la dimensione di una risposta adeguata alla gravità del fatto commesso.

[45] Difatti, pur avendo finalità diverse, una pena sproporzionata – perché eccessivamente alta o bassa rispetto alla gravità del fatto – potrebbe non essere in grado di rieducare il reo. Cfr., a tal proposito, Corte cost., 26 giugno 1990, n. 313, dichiarativa della incostituzionalità dell’art. 444, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che, ai fini e nei limiti dell’art. 27, comma III, Cost., il giudice potesse valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole determinazione. L’attenzione della Consulta viene diretta verso la giustezza dell’intervento punitivo, da necessariamente calibrare con l’adeguatezza e la proporzione del trattamento sanzionatorio inflitto, condizione rispettata unicamente qualora il reo non percepisca la pena come reazione, viceversa, ingiusta all’illecito commesso Si osserva che la pena minima anche per le più modeste infrazioni, non risulti congrua, già e prioritariamente da un punto di vista qualitativo, alle tradizioni liberali italiana ed europea, il cui orizzonte assiologico deve costituire la linea guida per l’operato del legislatore, «per compiere il necessario e ragionevole bilanciamento di interessi che presiede alla determinazione della misura della pena». La proporzionalità, invero, viene calata in un rapporto non più di ripristino di una mera asimmetria legislativa, osservata da un punto di vista squisitamente quantitativo, bensì in una dimensione puramente diadica e verticale, dove i due poli nevralgici diventano il reato, osservato dalla lente della concreta carica offensiva espressa dalla condotta tipizzata, e la reazione punitiva apprestata dall’ordinamento. Già prima, però, Corte cost., n. 409 del 6 luglio 1989, in Giur. cost., 1989, 1906.

[46]La conclusione sarebbe coerente anche con la Spiegazione relativa all’art. 49 Cdfue, ove si chiarisce che “il paragrafo 3 riprende il principio generale della proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità”: giurisprudenza, quest’ultima, formatasi esclusivamente in materia di sanzioni amministrative applicate dalle istituzioni comunitarie. In proposito, cfr., L. Tummiello, Il volto del reo. L’individualizzazione della pena fra legalità ed equità, Milano, 2010; D. Brunelli, Dall’equità commisurativa all’equità nella esenzione da pena per fatto, in Paliero-Viganò-Basile-Gatta (a cura di), La pena, ancora: fra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, Milano, 2018, 251.

[47] Così R. Sicurella, Commento all’art. 49: legalità e proporzionalità nel diritto penale sostanziale, in R. Mastroianni – O. Pollicino – S. Allegrezza – F. Pappalardo – O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, 993.

[48] Cfr., Corte edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, ric. n. 18640, 18647, 18663, 18668 e 18698/2010, e poi Grande Camera, 16 novembre 2016, A. e B. contro Norvegia.

[49] Corte di giustizia, Grande Sezione, 8 marzo 2022, C- 205/20.

[50] Ci si riferisce alla sentenza della Corte di giustizia UE, 4 ottobre 2018, Link Logistic, C-384/17 ove il giudice ungherese dubitava della proporzionalità di una sanzione amministrativa quantificata dalla legge, in attuazione di una direttiva comunitaria 1999/62, in misura fissa che, pertanto, non consentiva di adeguare la sanzione alle caratteristiche del caso concreto nonostante che, l’art. 9 bis della medesima direttiva, imponesse la proporzionalità della pena. La Corte, tuttavia, addiviene ad una decisione contraddittoria perché, se per un verso esclude l’effetto diretto di una direttiva che prescrive sanzioni effettive proporzionate e dissuasive, dall’altro ribadisce la necessità di garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dalla direttiva, attraverso l’interpretazione conforme, ma anche mediante la disapplicazione di ogni disposizione nazionale che comporti un risultato contrario al diritto dell’unione.

[51] Invero, già nella sentenza del 14 luglio 1977, causa 8/77, Sagulo e altri, la Corte di Giustizia aveva chiarito che <<qualora uno Stato membro non abbia adattato la propria legislazione alle esigenze derivanti in materia dal diritto comunitario, il giudice nazionale dovrà far uso della libertà di valutazione riservatagli, al fine di pervenire all’applicazione di una pena adeguata alla natura e allo scopo [delle norme comunitarie] di cui si vuole reprimere l’infrazione>>.

[52] Nel caso in esame si discuteva della violazione del principio di proporzionalità sanzionatoria di una legge interna che, in applicazione della direttiva UE 2014/67, aveva previsto sanzioni pecuniarie eccessivamente elevate nel minimo, in contrasto con l’art. 20 della medesima direttiva che impone che le pene siano effettive proporzionate e dissuasive. Peraltro, l’Avvocato generale – che sollecitava il riconoscimento diretto del requisito di proporzionalità della direttiva – rilevava che il mancato riconoscimento avrebbe comportato la paradossale negazione dell’efficacia diretta del par. 3 dell’art. 49 della Carta. La Grande Sezione, nell’accogliere la interpretazione proposta dall’Avvocato generale, circa l’effetto diretto del requisito di proporzionalità indicato nella direttiva, motiva attraverso ragionamenti che coinvolgono direttamente il principio di proporzionalità contenuto nel par. 3 dell’art. 49. Dopo aver chiarito che il principio di proporzionalità, a cui si riferisce la direttiva, è sufficientemente preciso, con motivazioni tautologiche spiega che la proporzionalità sanzionatoria è principio generale dell’Unione, regolato dall’art. 49 e che l’art. 20 della direttiva citata si limita a richiamare. Dunque, di riflesso, anche il principio di proporzionalità indicato nella direttiva ha carattere imperativo. Non può sottacersi, però, che, generalmente, le pronunce della Corte di Giustizia sono fortemente condizionate dalle specificità del caso sottoposto alla loro attenzione. Ebbene, deve evidenziarsi che questa decisione nasce dopo ben due rinvii pregiudiziali, ove la Corte aveva già considerato la disciplina interna sproporzionata rispetto al diritto unionale e, poiché il legislatore non aveva proceduto a modificarla, essa perviene alla sentenza nei termini innanzi precisati.

[53] In proposito, per un approfondito commento, F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, in www.sistema penale.it, 24 aprile 2022, al quale si rinvia anche per un’analisi approfondita del caso che ha determinato la pronuncia della Corte di Giustizia.

[54] Corte di Giustizia, 4 ottobre 2018, LinK Logistic, C-384/17, cit.

[55] Il pensiero è di F. Palazzo, Europa e diritto penale: i nodi al pettine, in Dir. Pen. e Proc., 2011, 659.

[56] ..o come preferisce definirlo C. Sotis (La “mossa del cavallo”. La gestione dell’incoerenza nel sistema penale europeo, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2012, 464), margine nazionale di bilanciamento che, sottolinea l’Autore, sarebbe un parametro molto più affidabile e razionalizzabile dell’altro: con il “margine nazionale di bilanciamento” la Corte di giustizia giudicando sulla natura fondamentale di un diritto costituzionale nazionale, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza nazionale, individua immediatamente un interlocutore e attua un vero programma di sussidiarietà giudiziaria.

[57] In proposito, F. Viganò, Il diritto penale sostanziale, in F. Viganò – O. Mazza (a cura di), Europa e giustizia penale, speciale di Dir. Pen. e Proc., 2011, 22 ss.

[58]È ovvio che le considerazioni sarebbero identiche anche se cambiasse il secondo termine di paragone, visto che le norme penali incriminatrici interne assumono sempre la veste di regola e mai di principio.

[59] Negare la immediata applicabilità, ma non la prevalenza, comporta invece che su un piatto della bilancia c’è – per così dire “solo” – questa qualità della norma, non anche il suo contenuto. Così, C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia. Riflessioni su Corte costituzionale 24 del 2017 (caso Taricco), in www.penalecontemporaeo.it, p. 8.

[60] Sul tema, M. Condinanzi, Diritti, principi e principi generali nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, in L. D’Andrea – G. Moschella – A. Ruggeri – A. Saitta (a cura di), La Carta dei diritti dell’Unione europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), Torino, 2016, 82-83.

[61] S. Manacorda, Dalle Carte dei diritti a un diritto penale “à la carte”?, in www.penalecontemporaneo.it, del 17 maggio 2013,11.

[62] Sulla differenza fra principi e regole, cfr., G. Pino, Principi e argomentazione giuridica, in Ars Interpretandi, Rivista di ermeneutica giuridica, 2009, 131 ed in particolare, dello stesso Autore, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, cit., 541, ove, spiega che, se si pone attenzione al modo in cui sono codificati i diritti fondamentali nelle costituzioni contemporanee, si rileva che solitamente essi sono espressi con formulazioni estremamente ampie, indeterminate; talvolta, la proclamazione di un diritto è accompagnata anche dall’indicazione di uno o più fattori in vista dei quali è possibile limitare quel diritto, ma anche questi fattori sono a loro volta formulati in modo ampio e indeterminato («ordine pubblico», «buon costume», «sicurezza, libertà, dignità e umana»…).

[63] Segnala A. Bernardi (Il rinvio pregiudiziale in ambito penale e i problemi posti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia, in www.sistemapenale.it, del 30 maggio 2023, 37), v’è una progressiva tendenza della Corte di giustizia sia a creare per via pretoria “principi di diritto non scritto” ricchi di ricadute sulle misure punitive nazionali adottate nei settori di competenza UE, sia a implementare e arricchire con sempre nuovi corollari i principi/diritti UE “di diritto scritto” destinati a vincolare in vario modo le scelte sanzionatorie nazionali in sede di attuazione del diritto UE, sia a riconoscere efficacia diretta ai suddetti principi/diritti, e dunque a generalizzare il ricorso al meccanismo disapplicativo da parte dei giudici nazionali in caso di contrasto della normativa interna con tali principi/diritti. Epperò, prosegue l’Autore, percorrendo la strada intrapresa con la sentenza NE, v’è il rischio che, in un prossimo futuro, la Corte possa imporre la disapplicazione di una sanzione “tipologicamente sproporzionata” e contestualmente – in nome della lotta all’impunità – investire il giudice nazionale del potere-dovere di applicare una sanzione di tipo diverso, più mite ma pur sempre corredata dal necessario coefficiente di efficacia e dissuasività.

[64] E proprio ragionando su questi rilievi che la Corte di giustizia, nel caso precedente (del 4 ottobre 2018, Link Logistic, C-384/17, cit.), aveva negato la efficacia diretta del principio di proporzionalità contenuto nella medesima direttiva.

[65] Di approccio «de-strutturato» e «informale» parla M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, relazione svolta alla conferenza trilaterale delle corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola del 24-26 novembre 2013, cit.

[66] V. Manes, I principi penalistici nel netwok multilivello: trapianto palingesi, cross-fertilization, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2012, 854.

[67] Si vedano, a titolo esemplificativo, Corte cost. 10 novembre 2016, n. 236, ove la Consulta, al fine di pervenire alla declaratoria di illegittimità per sproporzione del reato di cui al comma 2 dell’art. 567 c.p., pur in assenza di una precisa indicazione nell’ordinanza di rimessione, richiama, accanto agli artt. 27 e 3, l’art. 49. Richiamo che, fra l’altro, gli consente di relegare in secondo piano il tertium comparationis ai fini della valutazione di irragionevolezza della sanzione. Cfr., pure, n. 32 del 12 febbraio 2014, ove la parte privata aveva posto come parametro di riferimento l’art. 49, ma la Corte non aveva recepito la sollecitazione; nonché, n. 112 del 2019.

[68] V. Manes, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019, 368.

[69] Invero, benché la Carta costituzionale attribuisca alla pena una funzione rieducativa (art. 27 comma III), la Consulta, inizialmente, ha adottato la tesi della polifunzionalità della pena (n.12 del 4 febbraio1966 e n. 264 del 22 novembre 1974): quest’ultima non avrebbe solo un fine rieducativo, ma servirebbe a realizzare una retribuzione per l’illecito commesso e a dissuadere i consociati dal porre in essere condotte simili (c.d. funzione general-preventiva). Nella nota sentenza n. 313 del 26 giugno 1990, la Corte ha escluso, in linea di principio, che la finalità rieducativa possa essere pregiudicata a vantaggio di altre finalità della pena; al tempo stesso, però, ha riconosciuto, queste ultime, come compatibili con la Costituzione e ha sottolineato che afflittività e retruibilità sono profili che riflettono le condizioni minime senza le quali la pena cessa di essere tale. Anche dopo il 1990, la Corte ha costantemente valorizzato il principio rieducativo della pena, ma non ha mai escluso la legittimità costituzionale delle altre funzioni tradizionalmente assegnate alla sanzione. Cfr., tuttavia, Corte Cost., n.149 dell’11 luglio 2018, con la quale la Corte ha affermato espressamente “il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”, così istituendo un’ideale gerarchia tra le funzioni della pena, al vertice della quale si colloca proprio la prevenzione speciale. In proposito, E. Dolcini, Pena e costituzione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 21.

[70]…oltre che sull’art. 28 della legge 87/1953 che limita ogni sindacato della Corte sull’uso legittimo del potere discrezionale del Parlamento.

[71] Così, R. Bartoli, Il sindacato di costituzionalità sulla pena tra ragionevolezza, rieducazione e proporzionalità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 1441.

[72] Corte cost., 6 luglio 1989, n. 409.

[73] Così, espressamente, Corte cost., 16 aprile 1998, n. 114, in Giur Cost., 1998, 965 e ss.

[74] I. Grimaldi, Il principio di proporzionalità della pena nel disegno della Corte Costituzionale, in Giur. Pen., 2020, 5.

[75] Emblematico in questo senso Corte cost., 18 gennaio 1999, n. 2: «L’automatismo della sanzione disciplinare è irragionevole, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che informa il principio di eguaglianza». Quanto alla relazione tra ragionevolezza e proporzionalità, cfr., Corte cost., 29 maggio 1995, n. 220, in cui il principio di proporzione viene definito come «diretta espressione del generale canone di ragionevolezza».

[76] Dunque, il limite al sindacato della Corte, nell’intervenire sulla discrezionalità legislativa in materia di determinazione delle sanzioni, è di carattere negativo, perché l’ideale positivo di una pena in sé proporzionata rispetto al fatto è compito esclusivo del legislatore, nella definizione del quadro edittale, e, poi, del giudice nella concreta individuazione della qualità e della quantità di pena proporzionata alla gravità del fatto concretamente realizzato. Difatti, quando la Corte ha ravvisato un quadro sanzionatorio squilibrato, ma non al punto da essere affetto da «intrinseca irragionevolezza», si è limitata a «rilevare l’opportunità di un sollecito intervento del legislatore, volto ad eliminare gli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie prima evidenziate». V. Corte cost., 22 gennaio 2007, n. 22, in Giur. cost., 2007, 181 e ss., con nota di commento di D. Brunelli, La Corte costituzionale “vorrebbe ma non può” sull’entità delle pene: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa?; nonché, Corte cost., 23 marzo 2012, n. 68, in Giur. cost., 892, con nota di C. Sotis, Estesa al sequestro di persona a scopo di estorsione un diminuzione di pena per i fatti di lieve entità. Il diritto vivente «preso – troppo – sul serio». In questi termini, il sindacato appare speculare a quanto indicato nell’art. 49, par. 3, Cdfue, anch’esso formulato in termini negativi di divieto di pene sproporzionate: la norma segue le direttive di specie della protezione dei diritti umani, che non pretende mai di imporre al legislatore democraticamente legittimato un unico bilanciamento corretto tra diversi interessi in gioco, disegnando piuttosto una cornice, pur sempre irremovibile, entro cui compiere la scelta della soluzione più appropriata. Sul punto R. Sicurella, Commento all’art. 49: legalità e proporzionalità nel diritto penale sostanziale, cit., 998.

[77] In tal senso a partire dalle sentenze n. 218 del luglio 1974; n. 176 del 14 luglio 1976 e 5 maggio 1979, n. 26, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., con nota di N. Rossetti, Controllo di ragionevolezza e oggettività giuridica dei reati di insubordinazione, 200.

[78] Cfr. G. Zagrebelsky, Giustizia costituzionale, vol. I, Storia, principi, interpretazioni, Bologna, 2018, 163.

[79] Corte cost., n. 440 del 18 ottobre 1995, id., n. 508 del 13 novembre 200, id., n. 329 del 10 novembre 1997. L’art. 3 Cost., in seguito, è stato invocato dalla Corte anche per dolersi dell’irragionevolezza del differente trattamento sanzionatorio per fattispecie analoghe. Cfr., nn. 218 del 27 giugno 1974 e 167 del 19 ottobre 1982.

[80] Corte cost., n. 50 del 14 aprile 1980. In dottrina, F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021, 57 e ss.

[81] V. Manes, I principi penalistici nel netwok multilivello: trapianto palingesi, cross-fertilization, cit., 854.

[82]A titolo esemplificativo si vedano le pronunce nn. 354 del 10 luglio 2002; 265 del 7 luglio 2005, in Giur. cost., 2005, 2432; 225 del 1 giugno 2008, ivi, 2008, 2528.

[83] I riferimenti giurisprudenziali sono molteplici, dalla sentenza n. 204 del 4 luglio 1974, fino a 21 settembre 2016 n. 236, cit., ove si afferma che «alla luce dell’art. 27 Cost., il principio della finalità rieducativa della pena costituisce “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (…). Anche la finalità rieducativa della pena, nell’illuminare l’astratta previsione normativa, richiede “un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (…), mentre la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale produce “una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione” (…). Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa».

[84] Per il riferimento all’art. 25 Cost., nn. 354 del 17 luglio 2002; 249 dell’8 luglio 2010; per il riferimento all’art. 27 comma I, nn. 212 del 9 ottobre 2018 e 73 del 7 aprile 2020.

[85] Cfr., n. 50 del 14 aprile 1980, cit. Invero, già con la risalente pronuncia n. 63 del 10 maggio 1963, la Consulta aveva affermato la preferibilità delle pene mobili nel meccanismo sanzionatorio predisposto dal legislatore, in quanto più idonee ad adeguare la risposta punitiva dell’ordinamento alle particolari circostanze oggettive e soggettive del caso concreto. Sul punto, D. Pulitanò, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, in www.penalecontemporaneo.it, Riv. Trim., n. 2 del 2017, 3.

[86]I. Grimaldi, Il principio di proporzionalità della pena nel disegno della Corte Costituzionale, cit., 6.

[87] Corte cost., 26 giugno 1990, n. 313, cit.

[88] In verità è solo molto più tardi che la Corte affronta in maniera più evidente il tema della irragionevolezza intrinseca del trattamento punitivo, alla luce dell’esigenza di proporzionalità del sacrificio dei diritti fondamentali, cagionato dalla pena, rispetto all’importanza del fine perseguito con l’incriminazione. In questa direzione, il principio di proporzionalità della pena opera come limite alla potestà punitiva statale, richiedendo, in altre parole, una pena adeguata all’effettiva responsabilità del colpevole, nonché percepibile dall’autore come giusta reazione all’illecito commesso (n. 236 del 2016, cit.). Il circuito su cui muove l’andamento motivazionale della Corte costituzionale si compone allora di tre scansioni fondamentali: anzitutto, punto di partenza è individuare, all’interno del perimetro disegnato dalla fattispecie astratta, classi di condotte, definite altresì «sottofattispecie», espressive di un tasso di gravità particolarmente tenue, tale da comportarne la sussunzione alla generale norma incriminatrice, ma allo stesso tempo, la collocazione nel livello più basso di offensività. In secondo luogo, la Consulta si concentra sulla pena minima delineata dal legislatore per la fattispecie astratta, osservando come, nel caso di specie, il giudice a quo sarebbe in ogni caso obbligato ad irrogare una sanzione manifestamente eccessiva rispetto la gravità espressa dalla condotta concreta. Così, I. Grimaldi, Il principio di proporzionalità della pena nel disegno della Corte Costituzionale, cit., 7.

[89] L’espressione è di V. Manes, il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, 221.

[90]Ci si riferisce alla sentenza n. 222 ove la Corte costituzionale afferma: «Non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata, in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima (…); essenziale e sufficiente a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento”». Seguendo il principio, nelle ipotesi in cui non solo manca una soluzione obbligata, ma pure soluzioni adeguate, la Corte abbandona la strada della inammissibilità, inaugurando un nuovo orientamento dove non si esita ad adottare l’ablazione secca dell’intera disposizione censurata, con la conseguenza che l’illegittimità della pena finisce per estendersi al precetto che tuttavia non è affetto da illegittimità. In proposito, n. 185 del 10 giugno 2021 e n. 95 del 26 luglio 2022.

[91] Si pensi, a tal proposito, alle note vicende giurisprudenziali interne e sovranazionali, sulla legittimità della confisca inflitta unitamente alla sentenza dichiarativa della prescrizione del reato, sfociate poi nell’intervento legislativo del 2022 sull’art. 578 bis c.p.p. La vicenda è la dimostrazione che il processo penale può divenire mera forma quando si tratta di affliggere beni come la proprietà privata.

[92] Già dalla pronuncia del 9 giugno 1961, n. 29.

[93] Cass., Sez. Un., 2 luglio 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti s.p.a. ed altri, in Ced n. 239923; Id., Sez. Un., 31 gennaio 2023, n. 4145.

[94] “Caleidoscopio di istituti, ciascuno dei quali iscritto in un differenziato regime, fortemente condizionato dalla specifica natura della res da assoggettare alla misura, dal reato cui la cosa pertiene, e, da ultimo ma certo non per ultimo, dagli esiti del processo in cui la confisca viene applicata”. Così si esprime, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617.

[95] A.A. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali (la confisca penale), in Dir. Pen. e Proc., 2021, 1372; T. Trinchera, Confiscare senza punire?, Torino, 2020, 34.

[96] Corte edu, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi bassi, secondo la quale, è ben noto, per delineare la natura penale della sanzione bisogna riferirsi alla qualificazione formale ufficiale o alla determinazione dell’ordinamento di appartenenza, alla natura stessa dell’infrazione, con particolare riferimento alle sue forme di tipicizzazione e al procedimento adottato, alla natura ed al grado di severità della sanzione.

[97] Così parafrasando, V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 1272.

[98] Corte edu, 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, ric. 17440/90; id., Sez. IV, Phillips c. Regno Unito, 5 luglio 2001, ric. 41087/98; id., 9 novembre 2009, Adzhigovich c. Russia, ricorso n. 23202/05; id., Sez. IV, Grayson e Barnham c. Regno Unito, 23 settembre 2008, ric. 19955/05, 15085/06.

[99]Corte edu, 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl c. Italia, n. 75909/01; id., Sez. I, 6 novembre 2008, Ismayilov c. Russia, ricorso n. 30352/03.

[100] Cfr., Corte cost., 2 aprile 1999, n. 97; id., 20 novembre 2009, n. 301; id., 7 aprile 2017, n. 68; id., n. 196 del 2010.

[101] Corte cost., 08 luglio 2021, n. 14.

[102]… inteso come le cose derivate, sul piano causale, dal reato commesso.

[103]Corte cost., n. 112 del 5 marzo 2019, in Dir. Pen. e Proc., 2020, 197.

[104] V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, cit., 1274.

[105]Conforme è la dottrina maggioritaria, la quale, tuttavia, precisa che, se confisca si allarga a ciò che non è strettamente espressione dell’illecito, allora pur’essa finisce per avere natura afflittiva e, dunque, sarebbe necessaria una proporzionalità rispetto alla gravità del fatto. Così, A.A. Maugeri, La proposta di una nuova direttiva per la confisca dei beni: l’armonizzazione e l’actio in rem contro il crimine organizzato e l’illecito arricchimento, in www.sistemapenale.it, 89.; T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, in Dir. Pen. e Proc., 2021, 828; A. Alessandri, voce Confisca nel diritto penale, in Dig. Disc. Pen., vol. III, Torino, 1989, 44 ss.

[106] In senso adesivo, M. Romano, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir. Proc. Pen, 2015, 1683; V. Mongillo, Confisca (per equivalente) e risparmi di spesa: dall’incerto statuto alla violazione dei principi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 731; A. M. Dell’osso, Sulla confisca di prevenzione come istituto di diritto privato: spunti critici, in Dir. Pen. e Proc., 2019, 1002.

[107] Peraltro, come affermato da parte della dottrina, la assenza di una nozione di profitto confiscabile induce la giurisprudenza a non sottrarre il profitto derivante da reato, ma è piuttosto commisurata a tale profitto o in ogni caso comporta l’ablazione di beni legittimamente posseduti. Cosi, T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, cit., 827.

[108] In questa pronuncia, la Corte sembra prendere le distanze da quell’orientamento, pressoché consolidato, secondo il quale la confisca per equivalente avrebbe sempre finalità punitiva, anche quando mira a recuperare l’ingiusto profitto, perché colpisce beni diversi da quelli derivanti dal reato (Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2023, n. 4145; Cass., Sez. Un., 21 luglio 2015, n. 31617; Cass., Sez. Un., 27 marzo 2008, Fisia Italimpianti, cit.; cfr., però, Cass., Sez. Un., 27 maggio 2021, n. 42415, ove si afferma che la confisca di denaro deve intendersi sempre come confisca diretta); con la conseguenza aberrante che la confisca per equivalente può essere applicata per l’intero importo nei confronti di uno qualsiasi dei concorrenti, anche se il profitto non è transitato, o è transitato solo in parte, nel suo patrimonio. La Corte, difatti, nella sentenza in commento, spiega che l’effetto sproporzionato della confisca del prodotto è indipendente dalla circostanza che essa abbia ad oggetto direttamente i beni dell’attività illecita o beni di valore equivalente.

[109] Per una critica sul punto, si rinvia al par. 4.

[110]Si trattava, con precisione, di un caso di lottizzazione abusiva, per il quale il giudice chiedeva alla Corte di disporre l’obbligo di adeguamento delle opere in conformità delle prescrizioni urbanistiche, in luogo della confisca dei terreni. Cfr., Appello Bari, sez. II, 18 maggio 2020, in www.sistemapenale.it, del 22 giugno 2020.

[111] Cfr., in particolare, Corte edu del 28 giugno 2018, causa G.I.E.M. s.r.l. ed altri c/ Italia, ove la Grande Camera evidenzia che, ai fini della valutazione della proporzionalità della confisca, devono essere presi in considerazione diversi parametri, quali la possibilità di adottare misure meno restrittive, come la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato.

[112] Cass. Sez. III, 5 febbraio 2020, n. 12640, Iannelli; Cass., Sez. III, 20 novembre 2020, n. 3727, Santamaria.

[113] Invero, rileva la Corte, che le argomentazioni del giudice territoriale più che porsi un problema di limite alla risposta sanzionatoria e di predeterminazione dei criteri che devono orientare la valutazione di sproporzione, si traducono nella prospettazione di un’interpretazione abrogatrice della previsione e ciò sulla base della mera valorizzazione dell’entità della pena detentiva prevista dal legislatore.

[114] In verità, il solo riferimento ai beni utilizzati per commettere il reato era stato già espunto dal D.Lgs. n.10//2018.

[115] Corte cost., 5 marzo 2019, n. 112, cit.

[116] Cfr., però, Corte cost., 24 gennaio 2023, n. 5, ove la Consulta ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 22 maggio 1975, n. 152, nella parte in cui impone al giudice di disporre la confisca delle armi anche in caso di estinzione del reato per oblazione, sul presupposto però che la confisca obbligatoria di armi, non possa considerarsi come sostanzialmente “punitiva”. Essa spiega che non ogni misura limitativa o privativa di diritti fondamentali applicata da un giudice penale in connessione con un fatto di reato abbia necessariamente natura punitiva. L’eventuale ulteriore funzione punitiva di tale confisca, in chiave di rafforzamento della pena prevista per la violazione dell’art. 38, settimo comma, TULPS, appare del tutto secondaria rispetto alla finalità di neutralizzazione del pericolo connesso alla circolazione dell’arma, finalità che la norma appare perseguire in via principale, e che conferisce alla confisca da essa prevista una connotazione essenzialmente preventiva.

[117] T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, cit., 826, il quale tuttavia reputa che, in ispecie, sorga un problema di sproporzionalità. L’Autore osserva, difatti, che pure laddove si riuscisse ad individuare i criteri per adeguare la misura alla gravità del fatto, si correrebbe il rischio di generare risultati evidentemente iniqui a fronte di condotte ugualmente rilevanti sul piano del disvalore, ma che siano state realizzate adoperando beni strumentali di valore assolutamente diverso.

[118] Per completezza, preme rilevare che la Corte costituzionale ha ritenuto, altresì, violati gli artt. 1 Prot. addiz. Cedu e 17 Cdfue  che, nel diritto della Convenzione e dell’Unione europea, tutelano il medesimo principio, in quanto riferito a una sanzione patrimoniale.

[119]Corte di giustizia, del 20 marzo 2018, G.R. SA e altri, in causa C-537/16, paragrafo 56.

[120] Conforme V. Mongillo Confisca proteiforme e nuove frontiere della ragionevolezza costituzionale. Il banco di prova degli abusi di mercato, in Giur. Cost., 2019, 234, per il quale la circostanza che la pronuncia della Corte abbia ad oggetto una speciale ipotesi di confisca amministrativa non deve trarre in inganno poiché la ratio decidendi è potenzialmente idonea ad estendersi ad altre forme di confisca previste nel nostro ordinamento.

[121] …senza però indicare i criteri in base ai quali dovrà ispirarsi per la valutazione della sproporzionalità. Così, R. Acquaroli, La confisca e il controllo di proporzionalità: una buona notizia dalla Corte costituzionale, in Dir. Pen. e Proc., 2020, 200.

[122] Cfr., ad esempio, Corte europea, nel caso G. I.E.M. srl c. Italia, del 28 giugno 2018.

[123]Per queste considerazioni si veda T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, cit., 826.

[124] Cfr., fra tante, oltre alla citata sentenza della Corte costituzionale del 2019, si veda la n. 269 del 14 dicembre 2017 e n.115 del 31 maggio 2018. I toni ed i contenuti, così perentori, sono stati, successivamente, parzialmente smorzati: cfr., nn. 20 del 21 febbraio 2019 e 60 del 20 febbraio 2019.

[125]«La Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee, (…). Appare a ciò conseguente che l’Unione rispetti questo livello di protezione dei diritti della persona, sia in ossequio all’art. 53 della Carta di Nizza, (…), sia perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani (art. 2 del TUE)>> così chiaramente si esprime la Corte costituzionale nell’ordinanza del 2017, n. 24, cit. L’esigenza di ribadire la primazia della Costituzione, quando essa comporta un innalzamento delle tutele dei diritti fondamentali, appare assai importante ove si rilevi che, in alcune occasioni, la Corte di giustizia ha manifestato una certa indifferenza rispetto ai principi costituzionali dei singoli Stati; soprattutto quando gli stessi siano stati utilizzati per limitare l’operatività delle norme unionali, ribadendo la necessità di non sminuire l’efficacia del diritto dell’unione in quello Stato: Cfr., Grande sezione CGCE, 26 febbraio 2013, Stefan o Melloni c. Ministerio Fiscal. In proposito, si rinvia a V. Manes, La legge penale illegittima, Torino, 2019,18. Per un commento alla sentenza, A. Ruggieri, La Corte di Giustizia, il primato incondizionato del diritto dell’Unione e il suo mancato bilanciamento col valore della salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali nel loro fare “sistema”, in www.diritticomparati.it, del 2 aprile 2013.

[126] In questo senso, Corte cost., n. 269 del 14 dicembre 2017, cit.

[127]Il corsivo è nostro. Cfr., Corte di giustizia, Sez. V, 11 settembre 2014, causa C-112/13 A contro B e altri; id., Grande Sezione, 22 giugno 2010, causa C-188/10, Melki e C- 189/10, Abdeli.

[128]Si veda, a titolo esemplificativo, Grande sezione, 26 febbraio 2013, Aklagaren c. Hans Akeberg Fransson.

[129] Nel proseguire col ragionamento, sembra utile evidenziare la diversità del caso che ha indotto la Corte di Giustizia a pronunciarsi nei termini innanzi descritti, da quello sul quale è intervenuta la Corte di cassazione. La Corte di Giustizia, difatti, in forza del par. 3 dell’art. 49, ha autorizzato il giudice interno a rimodulare una pena che potremmo definire fissa, perché avrebbe dovuto essere computata sulla base di parametri oggettivi del tutto svincolati dalla gravità della condotta. Nel procedimento nostrano, si è già detto, la sanzione era duplice, in quanto alla pena detentiva, variabile fra un minimo ed un massimo particolarmente elevati, andava aggiunta la confisca dei beni strumentali, quale ulteriore conseguenza per gli illeciti in contestazione. Sicché, il giudice territoriale, ragionando sulla sanzione complessiva, aveva considerato proporzionata al fatto contestato l’applicazione della sola pena limitativa della libertà personale. Pertanto, se si assume come punto di riferimento la sanzione complessiva, la eliminazione della confisca deve intendersi come disapplicazione parziale della pena; se si guarda alle due sanzioni di specie diverse, la disapplicazione parziale ha comportato la disapplicazione totale di una di esse. La distinzione è rilevante perché coinvolge istituti differenti di tipo positivo e perché, in un’ottica di più ampio respiro, per tutte le fattispecie che sanzionano l’illecito con pena detentiva e pecuniaria o con pena detentiva/pecuniaria e pena accessoria, il giudice potrebbe ritenere proporzionata solamente l’irrogazione di una delle due.

[130]La tesi è sostenuta da V. Manes, Metodo e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Arch. Pen., 2012, 37, nonché da C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia. Riflessioni su Corte costituzionale 24 del 2017, cit., 9.

[131] La vicenda Taricco, nota a tutti, aveva determinato un lungo dialogo fra Corte costituzionale e Corte di giustizia in merito all’istituto della prescrizione che, secondo la prima, era attratto nella materia sostanziale e, dunque, sottostava al principio di legalità ed ai suoi corollari, secondo l’altra, rientrava nella materia processuale penale. Il dialogo è stato serratissimo ed ha avuto inizio con la decisione della Corte di giustizia, dell’8 settembre 2015, C-105/14, cui è seguita la pronuncia della Consulta, la n. 24 del 2017, con la quale si è effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, a cui è seguita la decisione della Grande Camera di Lussemburgo (CGCE, 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S. e M. B.), alla quale ha replicato la Consulta con la decisione n. 115 del 2018.

[132] Garanzie, peraltro, che, è inutile sottolinearlo, sarebbero violate se il giudice comune, di propria iniziativa, modulasse la pena al di sotto dei limiti edittali minimi, in forza di una sentenza della Corte europea che, per di più, non ha indicato né i criteri per consentirgli di stabilire quale sia la pena sproporzionata, né i parametri da rispettare per graduarla. E di ciò sembra esserne ben consapevole la Corte di cassazione ove, nel motivare le ragioni per le quali reputa opportuno rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità, piuttosto che rinviare in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ribadisce la necessità che il diritto dell’Unione sia letto in armonia con i principi costituzionali.

[133] Corte cost. n. 317 del 4 dicembre 2009.

[134] F. Gallo, Rapporti tra Corte costituzionale e Corte edu, in www.cortecostituzionale.it/documenti.

[135] Il principio della divisione dei poteri è stato rinvenuto nell’art. 101, comma II, Cost. dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 230 del 12 ottobre 2012.

[136] Così, D. Pulitanò, La chiusura della saga Taricco e i problemi della legalità penalistica, in Dir. Pen. e Proc., 2018, 1292 e C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia. Riflessioni su Corte costituzionale 24 del 2017, cit., 13.

[137] R. E. Kostoris, Processo penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, cit.,177. In giurisprudenza, cfr., Corte cost., n. 299 del 30 dicembre 1992, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1992, 1468, secondo la quale “Il principio di legalità richiede che l’ampiezza del divario tra il minimo e il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 e non sia manifestamente non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta”.

[138] Così, espressamente, Corte cost., Ordinanza n. 24 del 14 dicembre 2017, cit.

[139] Scrive S. Silvestri (La discrezionalità tra legalità e giurisdizione, in www.sistemapenale.it, del 17 maggio 2024, 13) “Senza entrare in una disamina dettagliata della giurisprudenza delle Corti europee in tema di legalità (penale), possiamo dire – anche alla luce di considerazioni tratte dal diritto interno – che oggi non ci si può limitare a guardare soltanto alla legge formale per valutare la sussistenza e la consistenza delle garanzie di libertà dei cittadini, ma bisogna far riferimento al “clima costituzionale” complessivo, che risulta dalla confluenza della nostra Costituzione, della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali della UE… Con la conseguenza che la riserva di legge, anche in materia penale, perde la sua esclusività legalistica, per inglobare il portato dell’interpretazione giurisprudenziale – ormai vera e propria fonte del diritto concorrente – e dare un peso diverso che per il passato agli spazi di discrezionalità lasciati ai giudici”.

[140] Cfr., O. Spataro, La proporzionalità della sanzione nella prospettiva della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: riflessioni a partire da un’importante sentenza della Grande Sezione, in www.dirittifondamentali.it, 458; F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, cit., 17 ss.; N. Recchia, La proporzione sanzionatoria, cit., 891 ss.

[141] In senso adesivo, R. Bartoli, Il sindacato di costituzionalità sulla pena tra ragionevolezza, rieducazione e proporzionalità, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2022,1441.

[142]Cfr., a titolo esemplificativo, Corte cost., nn. 112 del 10 maggio 2019, 156 del 21 luglio 2020 e 28 del 1° febbraio 2022.

[143] Corte cost., 2 marzo 2018, n. 43; Cass., Sez. V, 15 aprile 2019 n. 39999; Cass. Sez. V, 9 novembre 2018, n. 5679.

[144] Corte edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia e Grande Camera, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.

[145] Grande sezione 20 marzo 2018, Menci, C-524/15; Garlsson Reale Estate, C-537/16; id., Di Puma, C-596/16, ove espressamente si rinvia al principio di proporzionalità di cui all’art. 49, par. 3.

[146] Cass., Sez. VII, 15 marzo 2016, n. 27674; Cass., Sez. III, 3 giugno 2014, n. 29985.

[147]Cass., Sez. V, 15 aprile 2019, in Ced n. 276963-04. Si vedano anche, Cass., Sez. V, 21 settembre 2018, Chiarion, in Ced n. 274604; id., Sez. V, 16 luglio 2018, Franconi, in Ced n. 274179; id., Sez. V, n. 5679 del 19 novembre 2019, Erbetta, in Ced n. 275314. Cfr., però, Corte cost., n. 149 del 16 giugno 2022, la quale – nel dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 649 c.p.p. – osserva che, ai fini della commisurazione della pena complessiva, nel sistema non esiste un meccanismo per consentire al giudice penale di tenere conto della precedente sanzione irrogata da altro giudice.

[148] Così, M. Pelissero, Il principio di proporzionalità (non sproporzionalità) delle pene: recenti sviluppi e impatto anomalo delle fonti eurounitarie

sul principio di legalità delle pene, in Dir. Pen. e Proc., 2023, 1360; T. Padovani, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1992, 445.

3.               [149]  Ci si riferisce alla recente legge del 22 gennaio 2024, n. 6, in materia di Tutela dei beni culturali e paesaggistici.

[150] Si pensi al caso, ben noto, in cui la Cassazione, in materia di sostanze stupefacenti, ha trasformato un elemento quantitativo non numerico – contenuto nella fattispecie – come l’<<ingente quantità>>, in specifici limiti quantitativi numerici, adoperando un proprio criterio ponderale. Cfr., Cass., Sez. Un., del 24 maggio 2012 n. 36258/12.

[151] L’espressione è F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, in Dir. Pen. e Proc., 2022, 1345.

[152] Il tema è complesso e non può essere racchiuso in poche battute. Si rinvia perciò a F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, cit., 1345 e ss.

[153] C. Massa, Le attenuanti generiche, Napoli, 1959, 70.

[154] Eppure, l’art. 133 c.p. nulla dice sul se e come la commisurazione della pena debba essere orientata alla rieducazione e, ancor prima e più in generale, su come i criteri commisurativi special-prevantivi debbano essere armonizzati con quello della proporzione posto in primo piano nella struttura dell’art. 133 c.p. Né la norma ci consente di comprendere che peso debbano avere la proporzione e la finalità rieducativa nella commisurazione infraedittale Così, F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, cit., 1346.

[155]C. Massa, Le attenuanti generiche, cit., 216, nonché F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 1743.

[156] D. Brunelli, Il fatto tenue tra offensività ed equità, in www.archiviopenale.it, 2016, 258.

[157] Ancora, F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, cit., 1345.

[158] Discorso analogo potrebbe compiere per la nuova disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie, il quale, all’art. 162-ter, prevede che, per i reati procedibili a querela, il giudice dichiara estinto il reato quando l’imputato ha riparato interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. Invero, rileva (M. Donini, Punire e non punire. Un pendolo storico divenuto sistema, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2023, 1331), tutta la riforma Cartabia è una macchina della dialettica punire/non punire… che spinge verso una nuova cultura della discrezionalità.

[159] La previsione di un limite minimo di pena, si ritiene, sarebbe dovuta all’esigenza di limitare il potere del giudice che, diversamente, sarebbe eccessivamente dilatato. Peraltro, quel limite servirebbe a garantire il principio di uguaglianza. In proposito, D. Brunelli, Il fatto tenue tra offensività ed equità, cit., 260.

[160]L’espressione è di D. Brunelli, Il fatto tenue tra offensività ed equità, cit., 260.

[161] …tanto indurre la dottrina a ritenere che sia plausibile che il giudice finisca per determinare intuitivamente la pena meritata, secondo un criterio di proporzionalità che avrà maturato lungo la propria esperienza personale, e solo successivamente ricostruisca ex post il calcolo della pena secondo le scansioni normative. Cfr., F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’Unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di Giustizia, cit., 168.

[162] Invero, in conclusione, si tratterebbe di estendere un potere che già l’art. 131 bis c.p. conferisce al giudice, perché, come affermato dalla Cassazione, l’istituto opera quando, utilizzando i parametri commisurativi, il giudice si accorge che la pena dovrebbe scendere al di sotto del limite legale, non essendo sufficiente neppure la diminuzione conseguente all’applicazione delle attenuanti generiche. Cfr., Cass. Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 44417, in Ced n. 265065.