Il procedimento per la decisione accelerata (art. 380-bis c.p.c.)

Di Elena Bruno -

L’art. 380 bis c.p.c. oggi prevede che nei casi di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso il Presidente di sezione o un Consigliere da lui delegato comunichi alle parti una proposta di definizione accelerata del giudizio. Il ricorrente ha, a questo punto, quaranta giorni per ribellarsi alla proposta e, munito di una nuova procura speciale, può depositare un’istanza con cui può chiedere la decisione. In mancanza, il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’art. 391 c.p.c. Se entro i quaranta giorni la parte chiede la decisione e la Corte definisce il giudizio in conformità alla proposta, applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96 c.p.c. In molti commenti all’art. 380 bis si legge che esso si pone in linea di continuità con i tentativi di deflazionare l’accesso alla giustizia, il cui abuso causa un appesantimento del lavoro dei giudici, specialmente di quelli di Cassazione. Io per la verità ho un’idea parzialmente diversa. È senz’altro vero che il legislatore, in ciò compulsato dalla stessa Corte, stia cercando di ridurre le pendenze in Cassazione. Ma a me pare che questa misura abbia qualcosa in più rispetto a quelle passate, dal momento che lo Stato scarica sul cittadino gli effetti delle proprie inefficienze. Lo Stato non ce la fa a rispondere alla domanda di giustizia, sicché tale domanda va scoraggiata.

Difatti mi pare volersi in qualche modo colpevolizzare quanti accedono alla Corte perché non si sentono soddisfatti della pronuncia che hanno avuto in appello, senza minimamente considerare che il problema potrebbe essere l’insoddisfacente risposta alla domanda di giustizia che viene offerta nei gradi di merito. Anzi: con l’introduzione del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. è stata compiuta un’operazione che, dal punto di vista economico, è magistrale. Prevedendo che in caso di lite temeraria si debba corrispondere una somma anche a favore della cassa delle ammende, dunque dello Stato, è stato fatto di ciò che era un minus, cioè una giustizia inefficiente, un plus, cioè un apparato che (proprio per essere inefficiente) produce denaro. Io, Stato, ti offro un prodotto con difetti e poi, sul presupposto che quel prodotto abbia dei difetti e debba essere usato con cautela, traggo profitto dall’uso che se ne faccia (ove tale uso sia “sconsiderato” perché non tiene in conto i difetti del prodotto). In buona sostanza, lo Stato guadagna dai difetti del servizio che offre. Eccezionale.

La riforma si è sin da subito palesata come poco gradita agli operatori del diritto e devo dire che non è stato fatto nulla per renderla, per quanto possibile, digeribile. Mi riferisco in particolare al fatto che, come noto, nella relazione illustrativa si legge che la previsione dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c. “non risponde ad un intento punitivo o sanzionatorio, ma è la realistica presa d’atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata”. Tale concetto è richiamato in maniera pressoché identica dalla relazione del Massimario del 6 ottobre 2022. Purtroppo, però, la natura sanzionatoria della condanna ex art. 96 c.p.c. era già stata affermata dalla Cassazione (v. pronuncia Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601) ed è stata anche successivamente affermata più volte (per es. Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195).

Dunque, francamente è parso che il legislatore e la relazione del Massimario semplicemente non volessero chiamare le cose con il loro nome, ben consci del fatto che una sanzione a carico del ricorrente sarebbe stata mal vista, con il risultato di rendere la riforma, se possibile, ancora più indigesta.

Ulteriore profilo che caratterizza l’istituto – e che contribuisce a non renderlo popolare – è che l’intento deflattivo che anima la riforma dell’art. 380 bis è realizzato in ottica se così si può dire “di respingimento”, con buona pace della CEDU. Difatti la Sezione Sesta decideva anche i ricorsi manifestamente fondati, cui era così riservata una corsia accelerata, mentre con l’art. 380 bis ciò non è più possibile. Eppure, è proprio il ricorso manifestamente fondato che merita di essere definito quanto prima, sia perché c’è un cittadino che ha ragione e merita di avere risposta nel tempo più breve possibile, sia perché evidentemente è stato emesso un provvedimento ingiusto che deve essere rimosso quanto prima dal nostro ordinamento. Stranamente, invece, in appello è stata introdotta una corsia più veloce per le impugnazioni manifestamente fondate, al terzo comma del 350 c.p.c.

Né a mio avviso vale – per giustificare la riforma –  dire che l’art. 380 bis c.p.c. è il rimedio alle esagerazioni di quanti si ostinano a proporre ricorsi in maniera spregiudicata.

Difatti una sanzione per il mancato rispetto delle regole del gioco – perché chiaramente tutti i requisiti di ammissibilità e procedibilità attengono al patrimonio di regole del gioco – può essere prevista solo se le regole del gioco sono chiare e certe. Ed invece più e più volte abbiamo visto che sulla stessa questione una sezione è in contrasto con l’altra ed una pronuncia è in contrasto con la pronuncia del giorno dopo.

E dunque già non è accettabile perdere un ricorso perché si è avuta la sfortuna di capitare con un collegio orientato in un certo modo invece che con il collegio orientato in altro modo; certamente è ancora meno accettabile essere per questo condannati anche alla lite temeraria. Ed è ancora meno accettabile che lo Stato lucri su questo.

Ciò a maggior ragione ove si consideri che con l’art. 380 bis abbiamo subito un vulnus significativo alla nomofilachia sull’ammissibilità e sulla procedibilità. Difatti, quando c’era la Sesta Sezione, io potevo studiare le pronunce della Sesta e capire con un certo margine di certezza – nei limiti dati da una nomofilachia che con i numeri che ci sono oggi in Cassazione non può essere esatta – come approcciarmi al giudizio di cassazione. Potevo avere contezza di quali fossero le regole del gioco. Oggi, invece, la proposta non è pubblicata e nel decreto di estinzione non si dà atto delle ragioni per cui quella proposta avesse ritenuto il ricorso inammissibile o improcedibile. Ragion per cui oggi mi trovo nella situazione di conoscere le regole del gioco meno di prima e di rischiare di pagare un prezzo più alto per la loro violazione.

Si sentiva il bisogno di una tale impostazione? Credo proprio di no, sinceramente. Scaricando sul cittadino i costi delle inefficienze statali non si fa che ampliare la distanza fra lo Stato ed il cittadino. Senza contare che le modalità di deflazione adottate si risolvono in una grossa difficoltà per gli avvocati che, al di là dei casi estremi, si trovano fra l’istanza del cittadino che chiede giustizia e la necessità di spiegare al cittadino che – magari per questioni di forma- egli non avrà una pronuncia e che, se insiste nel chiederla, sempre per quelle stesse questioni di forma, magari nemmeno condivise dal Consigliere della porta accanto, sarà condannato anche alla lite temeraria. Inoltre, mentre per le questioni di improcedibilità vi è una maggiore chiarezza su cosa si debba fare e come farlo – con il limite anche in questo caso dettato dal cambiamento di orientamento dimostrato proprio di recente dalla Terza Sezione sulla questione del glifo della sentenza (ordinanza 5204 del 27.02.2024 e sentenza 12971 del 13.05.2024) – non tutte le inammissibilità sono uguali. Un conto è proporre un ricorso chiaramente tardivo ed un conto è proporre un ricorso tardivo nel caso in cui – ad esempio – sia discussa l’applicabilità della sospensione feriale alla causa. Non vedo in quest’ultimo caso la possibilità di addossare al ricorrente una qualche forma di colpa grave nell’aver proposto il ricorso.

Pertanto, sono d’accordo con quella parte della dottrina che ha fatto notare che l’art. 380 bis quantomeno si sarebbe dovuto applicare, per quanto riguarda l’inammissibilità, solo ai casi di inammissibilità manifesta, così come è previsto per l’infondatezza, che è rilevante ai fini del 380 bis solo quando è manifesta.

In ogni caso, trovo in generale inaccettabile la presunzione di colpa grave in capo al ricorrente per questioni attinenti all’ammissibilità. Posso capire che si voglia punire chi porti avanti delle ragioni manifestamente infondate, magari a fini meramente dilatori, ma per questo bastava l’impostazione precedente al 380 bis perché l’art. 96 era già nel codice. Certo, forse la Cassa delle ammende non avrebbe guadagnato abbastanza.

Devo ancora notare che l’esperienza della Sesta Sezione ci aveva dimostrato che il meccanismo della proposta funzionava.

Si trattava forse del miglior strumento decisorio attuato nel nostro ordinamento, visto che essa consentiva il pieno contraddittorio e probabilmente il miglior esercizio della giurisdizione. Essa riduceva al minimo gli errori di giudizio (che sono gravi in generale, ma lo sono di più quando vengono commessi dal giudice di ultima istanza), consentendo alle parti di segnalare ciò che la relazione aveva sbagliato, o semplicemente di far emergere degli aspetti che forse non erano stati considerati, o non lo erano stati adeguatamente. I casi in cui il collegio ha fatto marcia indietro rispetto alla pro­posta del relatore ed ha rimesso la causa alla Sezione Semplice – seppure numeri­camente nettamente inferiori rispetto a quelli di conferma – rappresentano proba­bilmente la migliore essenza dell’esercizio della giurisdizione, del diritto di difesa delle parti e della collegialità della decisione. Ciò vale anche per i casi in cui la causa, la cui trattazione era stata originariamente fissata dinnanzi alla Sesta Sezio­ne, sia poi stata rimessa alle Sezioni Unite (Cass., Sez. VI-3, 2 marzo 2022, n. 6947 e Cass., Sez. un., 8 marzo 2022, n. 7514) o alla Corte costituzionale (Cass., Sez. III, 9 dicembre 2019, n. 32033)  e per i casi in cui il ricorso chiamato din­nanzi alla Sesta Sezione con la previsione di un determinato esito sia stato poi de­ciso in senso notevolmente difforme (Cass., Sez. VI-3, 23 settembre 2022, n. 27929 ha dichiarato l’improcedibilità di un ricorso di cui il relatore aveva proposto l’accoglimento per manifesta fondatezza; Cass., Sez. VI-2, 6 maggio 2021, n. 11867 ha dichiarato inammissibile un ricorso che era stato avviato alla trattazione con proposta di manifesta fondatezza); con ciò rivelandosi che la decisione, che pure al relatore sulle prime era apparsa facile, non lo era affatto.

A me pare, come detto, che questo istituto funzionasse bene ed anzi me­ritasse di essere esteso a tutte le decisioni, comprese quelle di merito: quante im­pugnazioni si sarebbero evitate se i giudici avessero sottoposto alle parti una sorta di bozza del provvedimento, pronunciando poi la sentenza vera e propria dopo delle brevi memorie dei litiganti ?

Oggi invece, con lo strumento della proposta, il contraddittorio con la proposta del relatore è consentito solo assumendosi il rischio di essere condannati al risarcimento danni per lite temeraria ed al pagamento in favore della Cassa delle ammende.

Eppure non sono rari i casi in cui le proposte di definizione accelerata hanno dimostrato la loro fallacia. Io ho rinvenuto una nutrita casistica in proposito: abbiamo casi in cui, pur essendo stata formulata la proposta di definizione accelerata, la Corte, dopo la richiesta di decisione, ha cassato la sentenza impugnata e addirittura deciso nel merito (Cass. civ., Sez. V, Ord., 27/05/2024, n. 14717).

Casi in cui, nonostante la proposta, la Corte, decidendo poi il ricorso a seguito della ribellione del ricorrente, lo ha accolto: Cass 20237 del 14.07.2023; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10556; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10555; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10531; Cass. civ., Sez. II, Ord., 18/04/2024, n. 10519; Cass. civ., Sez. II, Ord., 26/04/2024, n. 11213; Cass. civ., Sez. II, Sent., 22/05/2024, n. 14342; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord.,17/05/2024, n. 13822.

Vi è poi un caso che ha avuto un iter particolarmente tortuoso: Cass., sezione II, sentenza n. 14342 del 22 maggio 2024.

Vi sono altri casi in cui addirittura la Corte, nonostante la proposta e dopo l’istanza di decisione del ricorrente, ritenuta la valenza nomofilattica della pronuncia, rinvia la causa alla pubblica udienza: Cass. civ., Sez. II, Sent., 16/04/2024, n. 10272.

Senza contare naturalmente i casi in cui il ricorso viene rigettato o dichiarato inammissibile o improcedibile per ragioni diverse da quelle prospettate nella proposta, il che, come noto, esclude l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.

Segnalo, però, un paio di pronunce che mi paiono interessanti. Parto dall’ordinanza Civile Ord. Sez. 3 Num. 28574 del 13/10/2023, in cui era stata fatta una Proposta di Definizione Accelerata per la ritenuta inammissibilità del ricorso ed invece, a seguito dell’istanza di decisione, esso è stato dichiarato improcedibile. In questa ordinanza la Corte afferma che il ricorrente debba essere condannato per lite temeraria “in particolare, ai fini dell’applicazione delle richiamate norme la decisione di improcedibilità del ricorso è assimilabile (ed è anzi connotata da una più marcata connotazione di violazione di norme processuali, la cui valutazione era appunto pregiudizialmente fatta salva nella richiamata proposta) a quella di inammissibilità, che costituiva il fulcro della proposta originariamente formulata”. La stessa operazione è compiuta dal collegio che ha pronunciato l’ordinanza 16899/2024: in quel caso la proposta evidenziava un profilo di manifesta infondatezza mentre il collegio ravvisa l’inammissibilità del ricorso. Nonostante l’esito decisorio non sia conforme alla proposta, viene applicato l’art. 380 bis c.p.c.

Vi è poi un’altra questione: alcune volte, nonostante ve ne siano i presupposti, il ricorso sfugge alle maglie del filtro dell’art. 380 bis. Si sono verificati casi in cui il ricorso era affetto da improcedibilità manifesta eppure esso è stato trattato in camera di consiglio, senza che fosse formulata una PDA: Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 04/06/2024, n. 15611. In quel caso in particolare il ricorso era fondato su un unico motivo che atteneva la violazione del CCNL e il ricorrente non aveva depositato il contratto collettivo. Si tratta di un caso di improcedibilità piuttosto semplice e lampante eppure non è stata formulata la proposta ex art. 380 bis c.p.c. È ben vero che ciò accadeva già prima, tuttavia prima ciò non incideva sulla tasca del ricorrente. A me non pare giusto che il costo della giustizia cambi sulla base della strada che prende il ricorso.

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Dopo le considerazioni generali appena svolte sull’istituto, vorrei focalizzare l’attenzione sul compito e sulla posizione dell’avvocato che deve confrontarsi con la proposta di definizione accelerata, anche perché se guardiamo più da vicino il meccanismo congegnato con l’art. 380 bis c.p.c. emergono alcuni problemi applicativi.

Come noto, il legislatore delegato ha introdotto, con il nuovo filtro, due elementi di enorme rilevanza: il necessario rilascio di una nuova procura speciale al difensore ad opera della parte che voglia comunque ottenere la decisione e la condanna ex art. 96 c.p.c. (nella formulazione modificata dal decreto delegato).

In primo luogo vale la pena di evidenziare che il presupposto per la proposta di definizione accelerata è che non sia stata fissata l’udienza o l’adunanza, senza nessun’altra specificazione applicativa. Lo strumento è stato dunque utilizzato sin da subito anche nei giudizi davanti alle Sezioni Unite: all’uopo segnalo le ordinanze 28550/2023 Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195 e Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433.

Ne deriva che chiunque si trovi a dover affrontare il giudizio di cassazione, anche davanti alle SS.UU., corre il rischio di doversi misurare con la proposta ex art. 380 bis c.p.c.

Con riferimento alla necessità di munirsi di nuova procura speciale per ottenere la decisione della causa, la previsione ha suscitato immediatamente indignazione fra i commentatori perché appare un evidente segno di sfiducia nei confronti della classe forense, come se l’avvocato potesse non comunicare al cliente l’esistenza della proposta o, peggio, potesse ignorare la volontà del cliente che intendesse rinunciare.

A parte ciò, il problema concreto per l’avvocato esiste ed attiene, innanzitutto, al fatto che in genere l’esame del ricorso da parte della Corte interviene dopo un tempo significativo dalla sua proposizione, anche quattro o cinque anni. In questo lasso di tempo l’avvocato potrebbe non aver avuto nessun contatto con la parte assistita. Ciononostante, si lasciano a disposizione del legale solamen­te quaranta giorni per fare una serena disamina della situazione, rintracciare la parte, spiegarle tutto, aspettare le sue valutazioni, farsi rilasciare nuova procura e, infine, chiedere la decisione.

Si pensi ai casi, frequenti nelle controversie di lavoro, di ricorsi proposti da numerosi ricorrenti, che magari fisicamente si trovano in diverse parti d’Italia.

Ma essa appare poi del tutto eterodossa rispetto al sistema generale del giudizio di legittimità dato che, come sappiamo, il processo di cassazione è dominato dall’impulso d’ufficio, tanto che le cause interruttive non operano; sono irrilevanti il fallimento della parte, l’estinzione della persona giuridica, la morte della persona fisica e per certi versi finanche quella del difensore. Il giudizio di cassazione, una volta avviato, va avanti da sé fino alla sua naturale conclusione.

A parte i disagi nel raccogliere la procura, deve dirsi che sin da subito ci si è interrogati su cosa sia la nuova procura speciale di cui all’art. 380 bis e come debba essere conferita. In verità il testo della norma non pare essere felice, poiché la nuova procura speciale sembra essere una procura non dissimile dalla prima procura speciale conferita per la proposizione del ricorso ma semplicemente successiva alla proposta. In realtà un’interpretazione che tenga in debito conto il fine a cui è teso il conferimento della nuova procura non può non condurre a ritenere che la nuova procura speciale sia una procura a compiere l’atto che è necessario compiere, ovvero la proposizione dell’istanza di decisione.

Chiarito ciò – e su questo pare che pochi dubbi possano residuare – ci si è posti il problema di dove possa essere collocata la procura in esame e se l’avvocato possa attestare l’autografia della firma del conferente. Il problema è posto da un difetto di coordinamento dell’art. 380 bis con l’art. 83 c.p.c., dal momento che, come tutti sappiamo, l’art. 83 elenca gli atti al cui margine o in calce ai quali può essere apposta la procura specificando che, quando essa acceda a tali atti, il difensore può certificare l’autografia della firma. Dunque il potere del difensore di attestare l’autografia è strettamente dipendente dal fatto che essa corredi uno degli atti menzionati nell’art. 83 c.p.c. L’inghippo sta dunque nel fatto che fra gli atti a margine o in calce ai quali può essere apposta la procura elencati nell’art. 83 non vi è l’istanza di decisione. E, conseguentemente, il testo della norma non dà al difensore il potere di certificare l’autografia della firma della procura che correda la detta istanza.

In realtà se dopo la proposta la parte decidesse di munirsi di un nuovo difensore il problema non si porrebbe, dal momento che l’art. 83 prevede che uno dei loci ove può trovarsi la procura sia proprio la memoria di nomina del nuovo difensore. Dunque un escamotage per evitare tutti i dubbi connessi alla regolarità della nuova procura speciale potrebbe essere quello di nominare un nuovo difensore che poi proponga l’istanza di decisione.

Ma se il difensore resta lo stesso? Qualcuno ha sostenuto che, con la proposta, la nomina del difensore originario perda efficacia, ragion per cui, proponendo l’istanza di decisione, in realtà egli diventerebbe un nuovo difensore. Da ciò potrebbe discendere la possibilità che la procura sia in calce all’istanza di decisione, che sarebbe quindi qualificabile come nomina di nuovo difensore. Conseguentemente l’avvocato potrebbe attestare l’autografia della firma del conferente. A me pare un’interpretazione un po’ forzata.

L’idea che mi ero fatta in sede di prima interpretazione della norma, e che confermo, è che innanzitutto il requisito della novità fosse da ricondursi alla posteriorità della procura rispetto alla PDA. Ma su questo credo che possano esserci pochi dubbi. Il problema che si poneva era chiaramente la specialità. Che cosa significa procura speciale? Io credo che la specialità della procura richiesta dall’art. 380 bis sia da ricondurre al concetto di specialità della procura in Cassazione che è diverso dalla specialità della procura nel merito, come predicato sin dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1161 del 1961 (citata ampiamente in SS.UU. 35466/2021). Nel merito, specialità significa specificità, cioè conferimento del potere a rappresentare e difendere la parte in quel singolo giudizio. In Cassazione la specialità è invece intesa nel senso di ricondurre il conferimento della procura ad una scelta consapevole e meditata della parte, che deve essere ben conscia di ciò che va a fare. Vi sono dunque degli indici attraverso i quali si estrinseca la consapevolezza della scelta della parte, e qui si apre tutta la problematica ormai nota – e si spera risolta – della collocazione topografica della procura, della data, del grado di specificità del testo della stessa etc., di cui già si è approfonditamente parlato nel primo incontro di questo ciclo. Dunque, a mio avviso, la specialità della nuova procura di cui all’art. 380 bis c.p.c. significa consapevolezza e riferibilità all’atto da compiere, per cui secondo me hanno agito bene quei colleghi che si sono premurati di inserire nella procura anche il testo della proposta. Ciò non solo garantisce la sicura riferibilità della procura alla richiesta di decisione, ma è anche utile per evitare eventuali contestazioni da parte del cliente, che non potrà dirsi non informato dei fatti processuali.

La possibilità che la sottoscrizione della procura ex art. 380 bis fosse invece dichiarata autografa dal difensore non mi ha mai convinto, per due motivi: in primo luogo perché nell’art. 83, nell’elenco degli atti che possono essere corredati dalla procura, l’istanza di decisione non è menzionata e quindi, specialmente nel giudizio di cassazione, connotato da un rigore formale superiore rispetto agli altri procedimenti, non mi sembra possibile sostenere che la procura possa accedere anche ad atti diversi dal ricorso, dal controricorso e dalla memoria di nomina del nuovo difensore.  Dunque in primo luogo la procura non può essere apposta in calce all’istanza. In secondo luogo, ove anche fosse apposta in calce all’istanza, il difensore non potrebbe dichiarare l’autografia di quella firma, proprio perché egli può attestare l’autografia della firma solo quando essa si trovi sugli atti menzionati nell’art. 83. Di recente è intervenuta la Terza Sezione, con una pronuncia in cui si sente chiaro il senso di solidarietà nei confronti degli avvocati e per quale il Collegio merita di essere ringraziato. Mi riferisco alla sentenza n. 13555 del 15/05/2024. In questo caso il ricorrente aveva proposto l’istanza di decisione munito di una nuova procura speciale conferita in modo generico e depositata unitamente alla busta telematica contenente l’istanza di decisione. La Corte ritiene che il requisito della novità sia integrato dalla data successiva a quella della proposta; quello della specialità, da intendersi in questo caso come procura conferita per il compimento di un singolo atto (si parla di procura ad actum, diversa da quella ad litem di cui al 365 c.p.c., così per vero avvicinandosi più al concetto di specialità di cui all’art. 83 c.p.c.), può essere integrato dalla collocazione topografica che, in questo caso, è assicurata dalla congiunzione materiale tra procura e atto cui accede. Quanto alla possibilità di attestare l’autografia della firma, si legge: “Ritiene il Collegio, in primo luogo, che debba condividersi l’opinione che non esclude il potere del difensore di autenticare la sottoscrizione della parte relativa a tale procura e, dunque, non implica la necessità in ogni caso di una procura notarile. Anche se l’art. 83 c.p.c. non include l’istanza di decisione di cui all’art. 380 bis c.p.c. tra gli atti in calce o a margine dei quali il difensore può autenticare la sottoscrizione della parte in relazione alla procura difensiva, è possibile giungere ad escludere che sia richiesta, sempre e necessariamente, una procura notarile a tal fine, anche sulla base di una interpretazione “costituzionalmente orientata” della disposizione, in base ai seguenti argomenti sistematici: a) il rilievo che, nella legge delega sulla base della quale è stata introdotta la nuova formulazione dell’art. 380 bis c.p.c. non era specificamente imposto il requisito di una nuova procura per l’istanza di decisione; b) la considerazione che una interpretazione eccessivamente rigorosa del suddetto requisito potrebbe costituire, in qualche modo, una ingiustificabile limitazione al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.; c) l’indirizzo consolidato secondo il quale viene comunemente ritenuta possibile l’autenticazione da parte del difensore della sottoscrizione della parte che personalmente effettua la dichiarazione di rinuncia, ai sensi dell’art. 306 c.p.c. e anche dell’art. 390 c.p.c., in calce alla rinuncia stessa, sebbene anche in tal caso non vi sia una previsione espressa che consenta tale autentica in calce a quell’atto”.

Ebbene, per quanto apprezzi lo sforzo del Collegio, non posso dirmi d’accordo. Ciò in quanto la prima argomentazione svolta non mi pare dirimente: se anche nella legge delega non era specificamente imposto il requisito di una nuova procura per l’istanza di decisione, una volta che tale procura sia prevista, essa deve essere conforme a legge. Quanto alla seconda argomentazione, essa è certamente apprezzabile, ma a mio avviso sono ben altri i profili del nuovo filtro che ledono il diritto di difesa. In riferimento al terzo argomento, non credo che esso si attagli al caso, in cui si tratta di valutare le modalità di conferimento di un potere all’avvocato (senza contare che parte della giurisprudenza non ritiene necessaria l’autentica della firma nei casi di rinuncia) e soprattutto non risolve il problema della tipicità degli atti previsti nell’art. 83 c.p.c.

In conclusione, pur ringraziando il Collegio, io continuo a consigliare la procura notarile perché fare diversamente mi pare un modus agendi rischioso, almeno finché non vi sarà un orientamento consolidato.

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In riferimento all’applicazione dell’art. 96 c.p.c. vorrei solo evidenziare che, sebbene in molte pronunce si legga che la conferma della proposta sia idonea a radicare in capo al ricorrente una presunzione di colpa grave, vi sono pronunce che escludono l’automatica applicazione del detto art. 96 c.p.c., ritenendo che debba operarsi una valutazione caso per caso (Cass. civ., Sez. V, Sent., 19/06/2024, n. 16899; Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 19/06/2024, n. 16840; Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 19/06/2024, n. 16840; SS.UU.36069/2023). Sull’applicazione automatica dell’art. 96 c.p.c. segnalo invece le seguenti pronunce: Cass. civ. 33468/2023 che richiama Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433; Cass. civ., Sez. I, 11.07.2023, n. 19749; Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195.

Infine, un paio di casi degni di nota. Ci siamo molto concentrati sulla procura speciale, ma non bisogna dimenticare che è necessario proporre anche l’istanza. Segnalo, all’uopo, il decreto del 13.06.2024, n. 16562 della Sezione Terza in cui si dichiara l’estinzione del giudizio perché il ricorrente aveva depositato soltanto la procura speciale senza, tuttavia, chiedere la decisione.

Inoltre, segnalo una recente ordinanza, la n. 10131 del 15 aprile 2024. In quel caso il ricorrente, ritenendo che fosse stata dichiarata ingiustamente l’estinzione del giudizio, aveva proposto istanza per la revoca del provvedimento di estinzione. La Corte ha riqualificato la detta istanza come opposizione ex art. 391 c.p.c. dichiarandola poi inammissibile perché proposta oltre i dieci giorni.

Credo che le mie riflessioni sull’art. 380 bis c.p.c. possano concludersi qui, convinta come sono che, come si usa dire, “the best is yet to come”.