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Impressioni a caldo sulla Sentenza della Corte di Cassazione S.U. 9479/2023
Di Ilenia Febbi -
Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi ai sensi dell’art. 363 c.p.c. sulla questione eurounitaria, oggetto di un accesso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in merito al superamento del giudicato implicito nel provvedimento monitorio e delle possibili soluzioni per adattare gli istituti dell’ordinamento interno secondo le indicazioni della Corte di Giustizia Europea.
La Corte di Lussemburgo con le quattro sentenze emesse il 17 maggio 2022 cause riunite C-693/19 e C-831/19, causa C-725/19, causa C-600/19 e causa C-869/19, in applicazione della disciplina prevista dalla direttiva europea 93/13/CEE a tutela della categoria dei consumatori, ha ritenuto superabile la definitività del decreto ingiuntivo non opposto rispetto al diritto in esso accertato in presenza di clausole abusive ed ha disposto che tutti gli Stati Membri debbano assicurare le misure idonee al fine di garantire la piena tutela riconosciuta dalla direttiva in questione (Art. 6: Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché il consumatore non sia privato della protezione assicurata dalla presente direttiva a motivo della scelta della legislazione di un paese terzo come legislazione applicabile al contratto, laddove il contratto presenti un legame stretto con il territorio di uno Stato membro; Art. 7 Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori.)
La giurisprudenza europea, quindi, facendo leva sulla posizione di inferiorità del consumatore, sia dal punto di vista informativo che rispetto al potere negoziale, nei confronti del professionista ha dichiarato contraria ai principi europei la normativa interna che non consente al Giudice dell’Esecuzione di poter rilevare d’ufficio l’eventuale abusività delle clausole del contratto su cui si fonda il diritto di credito accertato nel provvedimento monitorio non opposto scalfendo il principio nazionale secondo cui il decreto ingiuntivo fa stato tra le parti sia sul dedotto – il diritto di credito- che sul deducibile – le clausole contrattuali.
Inutile dire che le sentenze del 17 maggio 2022 hanno suscitato un gran trambusto tra tutti gli addetti ai lavori -magistrati, giuristi, avvocati- molti dei quali hanno cercato di trovare negli istituti già presenti nell’ordinamento interno le misure adeguate a tutelare la posizione del consumatore così come richiesto dalla Corte Europea.
Un primo orientamento ha riconosciuto nell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. il mezzo idoneo per contestare la validità del titolo esecutivo e, quindi, il diritto ad eseguire, eccependo l’esistenza di clausole abusive all’interno del contratto da cui si origina il diritto di credito. Il G.E., invero, in questa sede avrebbe anche il potere di sospendere l’esecuzione al fine di scongiurare il pericolo di un pregiudizio irreparabile per il consumatore qualora si giunga alla vendita o all’assegnazione del bene pignorato.[1]
Un secondo orientamento, al contrario, propende per l’esercizio dell’actio nullitatis avente ad oggetto il decreto ingiuntivo, che stante il vizio che lo affligge dovrebbe essere considerato nullo o addirittura inesistente. Nello specifico, il G.E. potrebbe, anzi dovrebbe, sollevare d’ufficio all’interno della procedura esecutiva il carattere abusivo delle clausole contrattuali avendo il dovere di verificare la legittimità del titolo esecutivo ma l’esecutato dovrebbe introdurre un giudizio di merito autonomo innanzi al Tribunale competente per contestarne la validità.
Solo all’interno del giudizio dell’actio nullitatis il debitore potrebbe presentare istanza di sospensione della procedura esecutiva al Giudice Istruttore, che alla stregua di quanto previsto dall’art. 623 c.p.c., potrebbe sospendere l’esecuzione con un provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c.[2]
Una terza ipotesi, invece, ha rinvenuto nell’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c. la misura adeguata attraverso cui il consumatore potrebbe tutelare la propria posizione contestando l’esistenza di clausole abusive all’interno del contratto da cui si origina il diritto di credito del professionista. [3]
Non sono mancati anche coloro che hanno mostrato diversi dubbi di costituzionalità riguardo alla pronuncia della Corte di Giustizia Europea ed hanno temuto che potessero essere messi in pericolo i principi interni del nostro ordinamento soprattutto quelli di certezza del diritto e del legittimo affidamento del creditore sulla validità del titolo esecutivo, che sono garantiti proprio dalla stabilità e dalla definitività del decreto ingiuntivo.[4]
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9479 del 6 aprile 2023, ha formulato diverse soluzioni a seconda che si tratti di un giudizio monitorio promosso ex novo successivamente le sentenze lussemburghesi o di un decreto ingiuntivo già passato in giudicato.
Nel primo caso, le Sezioni Unite hanno riconosciuto in capo al Giudice del monitorio l’obbligo di effettuare un controllo sulle clausole contrattuali e all’esito dello stesso, qualora rinvenga la presenza di clausole abusive dovrà rigettare o accogliere solo in parte il ricorso per decreto ingiuntivo;
nel caso contrario, invece, emetterà un decreto ingiuntivo sinteticamente motivato in cui darà atto che il controllo sull’abusività delle clausole ha avuto esito negativo con l’avvertimento espresso che in mancanza di opposizione nel termine indicato dalla legge il titolo diverrà definitivo e il consumatore non potrà più contestare le clausole contrattuali.
In tal modo, secondo la giurisprudenza di legittimità, si pone il consumatore nelle condizioni di poter tutelare i propri interessi.
Nella seconda ipotesi, invece, la Corte ha ritenuto lo strumento dell’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. il più idoneo, con i dovuti adeguamenti, a dare esecuzione alle Sentenze della Corte Europea, in quanto più “malleabile” rispetto agli altri istituti di diritto interno.
I giudici di legittimità, infatti, hanno riadattato l’istituto dell’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo apportando diverse modifiche.
In primo luogo, hanno ricondotto all’ipotesi di “forza maggiore” o di “caso fortuito” il mancato avvertimento del Giudice del monitorio circa la preclusione ad impugnare le clausole abusive in caso di mancata opposizione entro quaranta giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo e, in secundiis, hanno abrogato il comma 2 dell’art. 650 c.p.c. che fissa il termine per proporre l’opposizione tardiva nei dieci successivi al primo atto esecutivo.
Secondo la ricostruzione proposta dalle Sezioni Unite, il Giudice dell’esecuzione promossa in forza del decreto ingiuntivo passato in giudicato dovrebbe verificare la presenza di clausole abusive nel contratto su cui si fonda il diritto di credito, essendo onerato di constatare la validità e la legittimità del titolo esecutivo. Al termine del controllo, il Giudice informerà le parti riguardo alle proprie determinazioni sia se ritiene che le clausole siano abusive sia se, al contrario, considera pienamente valide tutte le condizioni contrattuali. Nel primo caso il debitore avrà tempo quaranta giorni per proporre opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c. e l’efficacia del titolo verrà sospesa ex art. 649 c.p.c. dal giudice dell’opposizione.
Qualora, invece, il debitore, al fine di contestare il carattere abusivo delle clausole contrattuali, si sia già attivato promuovendo erroneamente l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., due sono le soluzioni prospettate:
nel caso dell’opposizione formulata antecedentemente la procedura esecutiva ai sensi del comma 1, il giudice investito della causa dovrà riqualificarla ai sensi dell’art. 650 c.p.c. rimettendo il giudizio innanzi al Giudice competente, fissando un termine per la riassunzione non inferiore a quaranta giorni;
nel caso dell’opposizione promossa all’interno dell’esecuzione ai sensi del comma 2, invece, il Giudice dovrà concedere il termine di quaranta giorni al debitore per introdurre l’opposizione tardiva. Anche in queste ipotesi, l’efficacia del titolo esecutiva verrà sospesa ai sensi dell’art. 649 c.p.c.
Secondo le Sezioni Unite in questo modo si tutelerebbero sia le ragioni del consumatore dato che potrebbe contare su un giudizio a cognizione piena, a differenza di quanto si potrebbe verificare con un accertamento endoprocessuale da parte del Giudice dell’esecuzione, il cui provvedimento sarebbe impugnabile esclusivamente ex art. 617 c.p.c., sia la posizione del creditore dato che l’esecutato potrebbe proporre opposizione solo entro il termine perentorio di quaranta giorni da quando il G.E. rileva d’ufficio il carattere abusivo delle clausole contrattuali, al contrario dell’actio nullitatis che potrebbe essere esercitata anche successivamente la vendita in fase di distribuzione delle somme.
Inoltre, sempre secondo la Corte di Cassazione, accogliendo la tesi dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., sarebbe fatto salvo il concetto di titolo esecutivo passato in giudicato rispetto al decreto ingiuntivo non opposto, contrariamente a quanto si verificherebbe nel caso in cui si accogliesse la tesi dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. che permetterebbe al consumatore di contestare la validità del titolo esecutivo giudiziale eccependo anche fatti antecedenti la sua formazione, dato che con l’opposizione ex art. 650 c.p.c. si possono impugnare solo i decreti ingiuntivi divenuti definitivi.
La soluzione prospettata dalle Sezioni Unite desta non pochi dubbi per diversi ordini di ragioni.
In primis, non si può escludere che quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea si possa o meglio si debba applicare anche alle sentenze fondate su clausole vessatorie emesse in contumacia del consumatore, come ipotizzato anche dal Procuratore Generale nelle proprie conclusioni.
Infatti, anche in questi casi verrebbe emesso un provvedimento in assenza di contraddittorio con il consumatore che potrebbe non aver preso parte al giudizio proprio per quel deficit informativo presunto dalla Corte di Cassazione.
E’ chiaro che non si possa ricorrere al mezzo dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo nei confronti delle sentenze, essendo un mezzo applicabile solo nei confronti dei provvedimenti monitori.
In secondo luogo, riguardo al termine entro cui il G.E. potrà sollevare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole contrattuali ma nella pronuncia è stato indicato genericamente che potrà esercitare il proprio potere sino alla vendita o all’assegnazione del bene.
Sembrerebbe prima facie che il controllo sulla validità del titolo esecutivo e, quindi, anche l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. potranno essere effettuati perfino entro un termine maggiore rispetto a quello previsto per l’opposizione all’esecuzione ai seni dell’art. 615 c.p.c., secondo cui deve essere dichiarata inammissibile l’opposizione promossa dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti.
Quest’ultimo comma è stato così modificato dal d.l. 59/2016 conv. in l. 119/2016 proprio al fine di garantire la stabilità della procedura esecutiva affinché i debitori esecutati non potessero rimettere in discussione l’intera esecuzione dopo l’avvio delle operazioni di vendita per tutelare non solo il legittimo affidamento del creditore procedente ma anche dei terzi intervenuti potenziali acquirenti dei beni pignorati.
Non si può negare che la ricostruzione fornita dalla Corte di Cassazione svuota di ogni significato la disposizione in questione.
Inoltre, contrariamente a quanto dedotto dalle Sezioni Unite, non può considerarsi salvo né il concetto di definitività del decreto ingiuntivo non opposto dato che possono essere contestati fatti antecedenti la formazione del titolo esecutivo oltre il termine previsto dalla legge né soprattutto il ruolo super partes del Giudice esecutivo.
Al riguardo, ciò che emerge dalla soluzione prospettata dalla Corte di Cassazione è che il G.E. debba presumere che il debitore non abbia impugnato il decreto ingiuntivo per mancanza di informazioni e non per noncuranza mentre al creditore non vengono forniti gli strumenti idonei per sconfessare l’eventuale deficit informativo e provare l’assolvimento dell’obbligo informativo e di trasparenza imposto proprio in capo al professionista, così da rendere impossibile la rimessione in termini.
Il procedimento disciplinato ai sensi degli artt. 484 e ss. c.p.c. previsto dai giudici di legittimità non può considerarsi un mezzo idoneo a far valere le ragioni creditorie dato che disciplina un accertamento esclusivamente endoprocessuale con poteri limitati in capo ad ambo le parti coinvolte (Giudice e creditore).
Salta agli occhi che con questa pronuncia le Sezioni Unite non si siano limitate a svolgere la loro funzione nomofilattica fornendo una corretta interpretazione delle norme di diritto interno ma si siano spinte oltre realizzando il primo esempio di mezzo di impugnazione di origine giurisprudenziale con tutte le storture e le criticità del caso di cui si è già ampiamente detto.
A parere di chi scrive, al fine di dare esecuzione alle Sentenze della Corte di Giustizia Europea e tutelare al contempo anche la posizione del professionista-creditore, sarebbe necessario l’intervento del legislatore per introdurre un mezzo di impugnazione straordinario ad hoc che possa valere per tutti i provvedimenti emessi nei confronti dei consumatori, decreti ingiuntivi e sentenze, e che imponga al debitore di provare di non aver agito nei termini di legge non per inerzia ma per il difetto di informazione relativo all’abusività delle clausole contrattuali- unica circostanza che giustificherebbe la possibilità di contestare il titolo esecutivo divenuto ormai definitivo – nel rispetto del principio dell’onere della prova che impone di provare i fatti che si deducono in giudizio, compresi anche quelli che consentono di accedere ad una specifica tutela.
Qualora, al contrario, si giunga alla conclusione che la mancanza di informazione debba essere presunta, a maggior ragione si rivela necessaria una legge disciplinante tale presunzione juris tantum in quanto non solo viene derogata la normativa generale ma viene anche introdotta una disciplina di favore esclusivamente per una determinata categoria.
Dunque, è necessario che questa nuova misura di tutela venga sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale e ciò può essere garantito solo qualora venga introdotta e disciplinata attraverso una legge o un atto avente forza di legge.
[1] E. Scoditti, Quando il diritto sta nel mezzo di due ordinamenti: il caso del decreto ingiuntivo non opposto e in violazione del diritto dell’Unione europea in Questione e Giustizia, 2023
[2] Conclusione della Procura Generale della Corte di Cassazione Ricorso R.g. 24533/2021 Relatore Cons. E. Vincenti
[3] S. Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto ed effettività della tutela giurisdizionale: a proposito di due recenti rinvii pregiudiziali, in Giur. It., Utet, 2022; A. Carratta, L’ingiuntivo europeo nel crocevia della tutela del consumatore, in Giur. it., Utet, 2022
[4] F. Marchetti, Note a margine di Corte di Giustizia UE, 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19), ovvero quel che resta del brocardo “res iudicata pro veritate habetur” nel caso di ingiunzioni a consumatore non opposte, Judicium, 2022; I. Febbi, La Corte di Giustizia Europea crea scompiglio: il superamento del giudicato implicito nel provvedimento monitorio, in Judicium, 2022.