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La Corte d’Appello di Milano sui “gravi motivi” ex art. 830 c.p.c.
Di Claudio De Falco -
SOMMARIO: 1. Il contenuto dell’ordinanza e l’articolo 830 c.p.c – 2. I “gravi motivi” tra art. 283 e 830 c.p.c. – 3. La possibilità di “salvare” la ratio decidendi della Corte d’Appello di Milano. – 4. Conclusioni.
1.Il contenuto dell’ordinanza e l’articolo 830 c.p.c.
Con l’ordinanza in epigrafe, la Corte d’Appello di Milano sospende l’efficacia del lodo impugnato per nullità, apparentemente applicando in maniera piana l’ultimo comma dell’articolo 830 del c.p.c., a mente del quale la corte d’appello adita per l’impugnazione può sospendere l’efficacia del lodo “quando ricorrono gravi motivi”.
Tralasciando le implicazioni sistematiche della norma sul tema dell’efficacia sostanziale del lodo[1], è evidente che il principale aspetto problematico concerne l’interpretazione della formula “gravi motivi” e il rapporto dell’inibitoria con i tradizionali presupposti della tutela cautelare, cui normalmente è assimilata, del fumus boni juris e del periculum in mora.
La Corte interpreta la formula con riferimento alla consolidata esegesi del vecchio testo dell’articolo 283 c.p.c., che, fino alla riforma per legge 263 del 2005, subordinava l’inibitoria dell’esecutività della sentenza di primo grado agli stessi “gravi motivi” menzionati dall’art. 830 c.p.c.
Proprio l’ordinanza in commento dimostra la problematicità dell’espressione “gravi motivi”, dietro la quale si nascondono talvolta delle contraddizioni della giurisprudenza: nel caso in esame, la Corte richiama una sentenza espressiva dell’orientamento interpretativo dominante, secondo cui i gravi motivi includono una “valutazione globale di opportunità”, che tenga conto di una delibazione positiva, sia pure sommaria, tanto della fondatezza dell’impugnazione quanto del pregiudizio patrimoniale che il soccombente potrebbe subire[2].
Fatto questo riferimento alla giurisprudenza della Cassazione, la Corte d’Appello di Milano giunge, nondimeno, ad una conclusione forse in contraddizione con le proprie premesse: la concessione dell’inibitoria viene motivata con esclusivo riferimento al “disequilibrio finanziario” causato dalla somma oggetto del lodo; in sostanza, la Corte si preoccupa principalmente del periculum in mora derivante dall’entità elevata della somma cui la parte impugnante è stata condannata, non fornendo particolari motivazioni sulla fondatezza dell’impugnazione, salvo specificare che il suo accoglimento non sarebbe “escludibile aprioristicamente”.
Dall’ordinanza sembra emergere il requisito della “non aprioristica escludibilità” dell’accoglimento dell’impugnazione, che potrebbe dubitarsi sia sufficiente a raggiungere la soglia di fondatezza necessaria per valutare il fumus del gravame; ciò è confermato dalla stessa Corte d’Appello, il cui vero argomento risolutivo finisce per essere un giudizio comparativo tra il pregiudizio subito dall’impugnante in caso di provvisoria esecuzione del lodo e quello subito dal resistente in caso di rinvio dell’esecuzione al passaggio in giudicato, e non una valutazione positiva dei due requisiti della tutela cautelare, come la giurisprudenza citata dallo stesso organo giudicante richiederebbe. La Corte sembra richiamare un bilanciamento degli interessi, in realtà spesso considerato alla base della valutazione sul periculum, più che sostituivo della presenza del fumus.
2. I “gravi motivi” tra art. 283 e 830 c.p.c.
L’ordinanza in commento potrebbe quindi criticarsi da un punto di vista logico argomentativo, per richiamare dei criteri decisionali della Cassazione poi non presi sufficientemente in considerazione al momento della decisione.
Ci si può però chiedere se, tralasciando l’apparato argomentativo, la soluzione in diritto della Corte d’appello possa accogliersi, vale a dire se i “gravi motivi” ex art. 830 c.p.c. possano interpretarsi con esclusivo riferimento al periculum in mora, essendo questa la regula iuris desumibile dall’ordinanza in esame.
L’espressione “gravi motivi” si deve alla dirompente riforma per legge 353 del 1990, che da un lato rese esecutiva ex lege (almeno) la sentenza di condanna di primo grado, dall’altro precisò il presupposto su cui il giudice d’appello poteva sospendere quest’esecutività, aspetto su cui il precedente testo dell’art. 283 c.p.c. taceva. L’approdo a questa soluzione fu piuttosto travagliato nell’iter della riforma, laddove l’espressione poi confluita nel testo finale era stata per un certo momento sostituita con quella di “fondati motivi”[3], che avrebbe forse indirizzato il giudice più verso il fumus che verso il periculum.
Anzitutto, bisogna capire se gli orientamenti adottati per l’interpretazione dell’articolo 283 c.p.c. siano estensibili al lodo, di modo che i gravi motivi di cui all’art. 830 c.p.c. possano essere letti alla stessa maniera.
La scelta del legislatore di introdurre la summenzionata espressione si deve alla terza riforma dell’arbitrato: prima di allora, infatti, era piuttosto animato il dibattito sulla norma applicabile in tema di inibitoria: per alcuni, si doveva fare riferimento all’articolo 283 c.p.c., sulla base di un’analogia fra il lodo e la sentenza di primo grado, con la conseguente necessità dei “gravi motivi” ai fini della concessione del provvedimento[4]; per altri, la norma richiamabile era l’art. 373 c.p.c., che disciplina invece l’inibitoria dell’esecutività della sentenza d’appello, richiedendo invece il “grave e irreparabile danno”[5]. Il legislatore nel 2006 ha in un certo senso optato per la prima soluzione, stabilendo che la soglia di periculum da valutare ai fini dell’inibitoria sia quella dei “gravi motivi”, in analogia con l’art. 283 c.p.c., probabilmente perché l’inibitoria colpisce in ambo le ipotesi un provvedimento conclusivo di un “primo giudizio”[6]. Di conseguenza, l’interpretazione del lemma “gravi motivi” di cui agli articoli 830 e 283 c.p.c., fin quando recava questa formula, è sostanzialmente la stessa.
3. La possibilità di “salvare” la ratio decidendi della Corte d’Appello di Milano.
Stabilita la sostanziale uniformità del requisito dettato dall’articolo 283 c.p.c. fino al 2005 e quello ancora proprio dell’articolo 830 c.p.c., bisogna considerare se ai fini della valutazione dei “gravi motivi” possa ritenersi sufficiente la presenza del solo periculum in mora, così da confermare il contenuto sostanziale della decisione qui commentata.
È opportuno in proposito considerare due fattori: anzitutto, è vero che l’interpretazione del 283 c.p.c. anteriore al 2005 dominante includeva sotto l’ombrello dell’art. 283 c.p.c. sia fumus che periculum[7]; è anche vero, però, che non solo si erano profilate opinioni contrarie[8], sia pure isolate, ma all’interno dello stesso orientamento maggioritario taluno riteneva che i due tradizionali presupposti fossero alternativi, sicché il rischio di un danno sufficientemente grave sarebbe stato di per sé idoneo a giustificare l’inibitoria[9]. In quest’ottica è interessante l’opinione di chi ha ritenuto che fumus e periculum debbano essere sempre ambedue presenti, ma in un rapporto di inversa proporzionalità tale che il loro prodotto rappresenti un “valore costante”, di modo che tanto maggiore è l’uno tanto minore può essere l’altro[10].
Il secondo fattore da considerare riguarda la rilevanza delle rielaborazioni cui è andata in contro la norma sull’inibitoria della sentenza: i “gravi motivi”, menzionati dall’art. 283 c.p.c. dopo la riforma del 1990, erano diventati “gravi e fondati motivi” per opera della legge 263/2005, ai fini di sciogliere ogni dubbio sulla necessità del fumus boni juris dell’impugnazione. La norma è stata nuovamente riscritta dal d. lgs. 10 ottobre 2022 n.149 (c.d. riforma Cartabia), che ha sancito l’alternatività dei tradizionali presupposti della tutela cautelare in tema di inibitoria, peraltro riformulati esplicitamente come “grave e irreparabile danno” e manifesta fondatezza dell’appello[11].
Ci si deve quindi chiedere se sia possibile raccogliere gli orientamenti minoritari che interpretavano i gravi motivi con esclusivo riferimento al periculum, o che ritenevano alternativi e non cumulativi fumus e periculum, alla luce del fatto che nel caso della sentenza il legislatore ha fatto riferimento più esplicito al fumus con ben due riforme, mentre l’espressione usata dall’articolo 830 c.p.c. ult. comma è rimasta sostanzialmente immutata.
A questo dubbio sembra potersi dare risposta negativa anzitutto per ragioni di opportunità. Un’inibitoria fondata esclusivamente sul periculum, infatti, si presta ad agevoli abusi della impugnazione: accogliendo la tesi qui contestata potrebbe finanche concedersi l’inibitoria in seguito ad appello totalmente pretestuoso e dilatorio, per il solo motivo che il lodo arreca un pregiudizio sì grave, ma non per questo contrario a diritto, alla parte soccombente. Così facendo, nella gran parte delle cause di maggior valore, dove spesso particolarmente sentite sono le esigenze di celerità, si avrebbe una quasi automatica sospensione del lodo, evidentemente in conflitto con le istanze ispiratrici dell’istituto dell’arbitrato, per natura inteso a conferire una soluzione rapida alla controversia.
In secondo luogo, la sufficienza di uno solo dei requisiti sembra incompatibile con l’inibitoria del provvedimento giurisdizionale o para-giurisdizionale, per dottrina ormai consolidata attratta nel genus della tutela cautelare[12], che richiede normalmente fumus e periculum quali presupposti cumulativi. In proposito, l’inibitoria è una misura interinale che segue una cognizione sommaria, volta ad anticipare la tutela eventualmente spettante al richiedente dopo il giudizio a cognizione piena, ossia l’eliminazione definitiva del provvedimento considerato ingiusto. Si tratta quindi di una misura cautelare essenzialmente anticipatoria, in qualche modo sui generis, perché può svolgersi solo nel contesto dell’impugnazione[13].
Con specifico riferimento al fumus, apparentemente sottovalutato dall’ordinanza in commento, se ne deve quindi ritenere necessaria la presenza anche alla luce dell’ontologico legame tra l’impugnazione e l’inibitoria, costruita come un subprocedimento al giudizio impugnatorio. L’impugnazione contiene necessariamente una “componente di tipo ipotetico”[14], che non può certo essere ignorata nella valutazione discrezionale del giudice che sospende l’efficacia del provvedimento contestato; in particolare, è stato sostenuto che nelle ipotesi in cui il presupposto dell’inibitoria è ravvisato proprio nei “gravi motivi”, come nel caso del lodo, ancora più sentite sono le esigenze di fondatezza dell’impugnazione, che sola è idonea a determinare un rischio di ingiustizia dell’esecuzione provvisoria. In assenza del rischio che la decisione eseguita si rilevi ingiusta, corroborato solo da un giudizio prognostico favorevole sull’accoglimento del gravame, non c’è alcuna ragione per sospendere il provvedimento.
Conformemente a questa visione, anche la giurisprudenza ha subordinato la concessione dell’inibitoria del lodo alla contemporanea presenza del rischio di un grave danno subito dall’impugnante e della fondatezza della sua impugnazione, così assimilando l’interpretazione dell’articolo 830 c.p.c. alla tesi maggioritaria sul previgente art. 283 c.p.c.[15]
4. Conclusioni.
In conclusione, l’ordinanza della Corte d’Appello di Milano è sindacabile sotto due profili: da un punto di vista logico, la Corte richiama una giurisprudenza di Cassazione che forse tradisce nelle conclusioni, laddove motiva la concessione dell’inibitoria con esclusivo riferimento al periculum, mentre i giudici di legittimità ritengono che la formula “gravi motivi” imponga di vagliare autonomamente la fondatezza dell’impugnazione, all’uopo non sembrando sufficiente definire l’accoglimento del gravame “non escludibile aprioristicamente”; da un punto di vista giuridico, poi, la Corte accede ad un’interpretazione contestabile della formula “gravi motivi”, dalla dottrina e dalla giurisprudenza quasi sempre interpretata come cumulativa di fumus e periculum. Nel nostro ordinamento, certo, il principio stare decisis non ha rilevanza paragonabile a quella ricoperta nei sistemi di Common Law, ma se un giudice vuole contraddire l’orientamento dominante, è opportuna una congrua motivazione in proposito.
In questo caso, invece, l’organo giudicante non solo non pare addurre argomentazioni sufficienti a sostegno della tesi implicitamente adottata, che alla luce di un’interpretazione del sistema non sembra accettabile, ma sembra citare quale modello una giurisprudenza in realtà contraria alle proprie soluzioni.
[1] Su cui G. Ruffini, S. Boccagna, Commento all’art. 830, in, Codice di procedura civile. Commentario, a cura di C. Consolo, Ipsoa, 2013, p. 1925
[2] Cass. 25 febbraio 2005, n. 4060, in Foro it., 2005, I, pp. 2375 ss.
[3] La vicenda è raccontata da G. Impagnatiello, La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, Giuffré, Milano, 2010, p. 443 e da C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Estratto, Giappichelli, Torino, 2019, p. 337.
[4] App. Roma, 20 maggio 1996, in Riv. arb., 1997, p. 80, con nota di E. Fazzalari, Sospensione dell’esecutività del lodo; in dottrina, E. Zucconi Galli Fonseca, Riflessioni sulla sospensione dell’esecuzione delle sentenze arbitrali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, pp. 385 ss.; G. Ruffini, La sospensione dell’esecuzione delle sentenze arbitrali, in Riv. arb., 1993, p. 697
[5] App. Roma, 26 luglio 1995, in Riv. arb., 1995, pp. 695 ss., con nota di R. Vaccarella, Lodo rituale e sospensione dell’esecutività dopo la riforma dell’arbitrato; in dottrina, C. Furno, La sospensione del processo esecutivo, Giuffrè, 1956, pp. 71 ss.
[6] U. Corea, Revocabilità e reclamabilità dell’ordinanza inibitoria dei lodi arbitrali, in Riv. esec. forz. (2), 2012, p. 250.
[7] C. Cecchella, D. Amadei, D. Buoncristiani, Il nuovo processo ordinario e sommario di cognizione, Giuffré, 2006, 3; S. Chiarloni, Le recenti riforme del processo civile, Zanichelli, 2007, p. 255; R. Vacarella, G. Verde, Codice di procedura civile commentato, II, UTET, 1997, p. 525; in giurisprudenza, oltre alla già menzionata Cass. 25 febbraio 2005, n. 4060, v. anche App. Venezia 3 marzo 2005, in Foro it., 2005, I, c. 1640, App. Bari 7 luglio 2004, ibid., c. 241.
[8] App. Milano 19 novembre 2001 in Giur. dir. ind., 2001, p. 1053.
[9] App. Milano 26 giugno 2003, in Foro it., 2004, I, c. 1251 e soprattutto App. Milano 5 maggio 2000 in Giur. dir. ind., 2000, p. 943, che, come l’ordinanza in esame, fa riferimento all’esigenza di un contemperamento degli interessi delle parti.
[10] F. Auletta, Diritto giudiziario civile, I modelli del processo di cognizione (ordinaria e sommaria), Zanichelli, 2020, p. 398; evoca invece la suggestiva figura dei “vasi comunicanti” C. Consolo, Spiegazioni, cit., p. 337.
[11]Codice di procedura civile. Commentario a cura di C. Consolo, art. 283, a cura di A. Izzo, aggiornato da E. A. Daniele, M. Teresi, 2023; F. Petrolati, Riforma del processo civile: le novità del giudizio di appello, in Il processo civile (portale Giuffré), 2023, §12.
[12] F. P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Giuffré, 2011, p. 291; L. Comoglio, L’esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, in M. Taruffo, Le riforme della giustizia civile, UTET, 1993, p. 376; C. Punzi, Il processo civile, II, Giappichelli, 2009, p. 220; in giurisprudenza, si v. la già citata Cass. 25 febbraio 2005, n. 4060, che parla di natura “latamente cautelare” dell’inibitoria, e Cass. 21 febbraio 2007, n. 4024 in Foro it., Rep. 2007, voce Esecuzione forzata, n. 1.
[13] G. Impagnatiello, La provvisoria esecuzione, cit., p. 435.
[14] R. Maccarone, Per un profilo strutturale dell’inibitoria processuale: riflessioni in margine all’art. 830, comma 2, c.p.c., in Riv. dir. proc., 1981, p. 308.
[15] App. Roma, 21 marzo 2011, in Riv. arbitrato, fasc. 3, 2012, con nota di C. SANTINI, La revoca del provvedimento che decide sull’inibitoria dell’efficacia esecutiva del lodo arbitrale rituale impugnato per nullità, p. 609.