La Corte di Giustizia ed il lodo (“riprodotto” in sentenza giudiziale o, in ipotesi, di per sé considerato) quale fondamento di non riconoscibilità della decisione estera: più che la logica giuridica poté la diffidenza verso l’arbitrato.

Di Antonio Briguglio -

SOMMARIO. – 1. London Steam-Ship e sentenza inglese “riproduttiva” di lodo arbitrale: la Corte di Giustizia la dice giustamente opponibile, in base alle disposizioni di Bruxelles I e Bruxelles I bis, al riconoscimento di contrastante decisione, nonostante l’arbitrato sia “materia esclusa”. – 2. E se fosse un lodo arbitrale puro e semplice (interno o estero)? La risposta dovrebbe essere con ogni probabilità identica. – 3. Sennonché la Corte di Giustizia, quanto alle condizioni di opponibilità della sentenza “riproduttiva” di lodo (ed in ipotesi del lodo puro e semplice), detta condizioni talmente illogiche da apparire dovute alla attuale sua diffidenza verso l’arbitrato.

1.Interloquisco rapidamente (salvo a tornare in futuro, e dopo eventuali nuovi sviluppi giurisprudenziali, in argomento e rinviando per il momento il lettore per gli opportuni approfondimenti alla annotazione così completa e intelligente di Flavio PONZANO pubblicata in questa Rivista, II/2023, 349 ss.), insieme al testo della pronuncia pregiudiziale del 20 giugno 2022, c. 700/20 London Steam-Ship Owners’ Mutual Insurance Association Ltd. c. Regno di Spagna) solo per sottolineare come innanzi alla Corte di Giustizia, ma anche in altri ambienti “unionali”, la in parte comprensibile ma non giustificabile (vedi già la mia nota Achmea and the day after Achmea, in questa Rivista, 2018, 493 ss.) diffidenza per l’arbitrato faccia purtroppo premio sulla logica giuridica[1].

In London Steam-Ship la Corte, rispondendo in via pregiudiziale al primo ed al secondo quesito posti dalla High Court londinese  conglobati fra loro, ha stabilito quanto segue: “L’art. 34, punto 3, del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di uno Stato membro e che riprende i termini di un lodo arbitrale non costituisce una “decisione” ai sensi di tale disposizione, se una decisione che comporti un risultato equivalente a quello di tale lodo non avrebbe potuto essere adottata da un organo giurisdizionale di tale Stato membro senza violare le disposizioni e gli obiettivi fondamentali di detto regolamento, in particolare l’effetto relativo di una clausola compromissoria inserita nel contratto di assicurazione di cui trattasi e le norme relative alla litispendenza che figurano all’articolo 27 del menzionato regolamento, e che la suddetta sentenza non può in tal caso impedire, in detto Stato membro, il riconoscimento di una decisione emessa da  un organo giurisdizionale di un altro Stato membro”.

Ha poi risposto anche a quesito ancillare (il terzo della High Court) comprensibilmente negando che il contrasto fra decisioni, ove esso non possa costituire ostacolo per la ragione di cui alla prima risposta alla recezione di sentenza straniera, possa poi rientrare dalla finestra sub specie di violazione dell’ordine pubblico ed impedire comunque quella recezione (“l’articolo 34, punto 1, del regolamento n. 44/2001 deve essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui l’articolo 34, punto 3, di tale regolamento non si applichi a una sentenza che riprende i termini di un lodo arbitrale, il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione promanante da un altro Stato membro non possono essere negati in ragione della contrarietà di tale decisione all’ordine pubblico per il motivo che essa violerebbe l’autorità di cosa giudicata acquisita da detta sentenza”).

Senza ripercorrere le complicate e lunghe vicende contenziose nazionali, basterà qui rammentare che la High Court inglese, giudice del rinvio, era investita dal Regno di Spagna della richiesta di riconoscimento di una sentenza giudiziale spagnola e che a tale riconoscimento era stata opposta – in particolare in sede di ricorso avverso la iniziale decisione favorevole della stessa High Court – una confliggente sentenza giudiziale inglese meramente “riproduttiva”, ai sensi dell’art. 66.2 dell’Arbitration Act del 1996, del contenuto di un lodo arbitrale inglese.

Ancora va rammentato che la Corte di Giustizia risponde ratione temporis in punto di interpretazione dell’art. 34, punto 3, nonché delle disposizioni sistematicamente correlate, del Regolamento Bruxelles 1, n. 44/2001, ma il responso è destinato a valere – come la Corte non manca di precisare – anche per le parallele disposizioni del Regolamento Bruxelles 1 bis, n. 1215/2012.

Vi sono nella motivazione della Corte di Giustizia: a) due cose logiche, l’una scontata l’altra forse meno, ma altrettanto condivisibile con necessarie precisazioni; b) una cosa non detta, e che la Corte non aveva qui il dovere di dire, ma l’interprete ha il dovere di chiedersi; c) in cauda una cosa gravemente illogica sotto due distinti profili.

a1)    Logico, quanto scontato, è che la nota “esclusione” della materia arbitrale dal regime della Convenzione di Bruxelles e poi del Reg. Bruxelles 1 (n. 44/2001) e poi ancora Bruxelles 1 bis (n. 1215/2012) – più volte confermata dalla Corte con riguardo alla conseguente inapplicabilità ai lodi della disciplina unionale per il riconoscimento e la esecuzione e perciò per la circolazione nello spazio giudiziario europeo (Gazprom del 13 maggio 2915), nonché ad altro (March Rich del 25 luglio 1991) – non esclude affatto che l’art. 34, punto 3 del Reg. 44/2001 (ma all’occorrenza anche punto 4) ed oggi l’art. 45, lett. c) (ma all’occorrenza anche lett. d)) del Reg. 1215/2012, quando menzionano quale ragione ostativa al riconoscimento di una decisione giudiziale la contrarietà ad altra decisione resa fra le stesse parti nello stesso paese del giudice richiesto (o all’occorrenza anche in altro paese dell’Unione o in paese terzo), possano riferirsi anche ad una sentenza “che riprende i termini di un lodo arbitrale”, nella specie il classico, e per la verità esotico ed ormai raro altrove, “merger” contemplato dall’Arbitration Act inglese del 1996.

Non vi è qui invero alcuno spazio per negare l’applicazione del regime di Bruxelles visto che si tratta di riconoscere ed eseguire, non una decisione arbitrale o ad essa parificata, bensì una decisione giudiziale proveniente dallo spazio europeo ed è questo l’oggetto principale del giudizio. Fermo questo prius logico, e ben fuori dunque dalla applicazione del disposto sulle “materie escluse”, si tratta poi semplicemente di stabilire come debba intendersi nella applicazione degli art. 34 Reg. 44/2001 e 45 Reg 1215/2012 la espressione “decisione” contrastante ai fini del diniego di exequatur. E una decisione giurisdizionale inglese non cessa all’evidenza di esserlo sol perché si limita al “merger” e cioè si limita a “riprendere i termini di un lodo arbitrale”, né più e né meno di quanto accadrebbe per una decisione giurisdizionale che avesse ad oggetto altra materia esclusa (ad esempio la successione o lo stato delle persone) e risultasse confliggente e perciò ostativa rispetto al riconoscimento di decisione cui i Regolamenti invece si applicano[2].

a2)    Meno scontata è l’altra ed anzi immediatamente precedente affermazione – solo motivazionale ed estranea di per sé alla formale risposta pregiudiziale – secondo cui “una sentenza [giudiziale] che riprende i termini di un lodo” “ricade”, quanto alla sua circolazione, “nella esclusione dell’arbitrato” di cui all’articolo proemiale dei Regolamenti, “e di conseguenza non può beneficiare del riconoscimento reciproco tra gli Stati membri né circolare nello spazio giudiziario dell’Unione conformemente alle disposizioni” dei Regolamenti. Questo passaggio motivazionale della Corte (punti 43 ss.) è del resto puramente confermativo di ciò che il giudice inglese nella formulazione del quesito dava per pacifico (v. punto 40, n. 2 della motivazione della Corte ove è riportato il quesito).

Qui tuttavia la logica – per ciò stesso meno scontata appunto – è conforme ad una opzione di valore: far prevalere, sul dato formale della provenienza della decisione da un organo giurisdizionale di uno Stato, il dato sostanziale di un contenuto della decisione pedissequamente riproducente quello del lodo (e previo ben limitato controllo di quest’ultimo, qualcosa in più insomma ma non troppo della nostra omologazione). Dopo di che, quando mai capiterà, si tratterà di chiedersi, e di chiedere se del caso alla Corte, se la stessa cosa valga per la nostra sentenza giudiziale che condanni all’adempimento coattivo, essendo mancato quello spontaneo, sulla base di un lodo irrituale. La risposta a mio epidermico avviso dovrebbe essere negativa, perché una situazione del genere – di là dal comune presupposto teorico della efficacia “negoziale” del lodo irrituale italiano e forse ancora del lodo inglese tout court – è in misura non indifferente diversa da quella del semplice “merger” d’oltremanica. Sennonché – quando e se – si tratterà di avventurarsi a spiegare l’arbitrato irrituale o quel tanto che ne resta a ventisette culture giuridiche diverse o anche solo a quelle da cui sortiranno i giudici della Chambre officiata al Kirchberg, e non sarà una passeggiata.

A questo punto la Corte avrebbe potuto fermarsi perché l’aver fatto pienamente combaciare la sentenza inglese meramente “riproduttiva” di lodo arbitrale con la “decisione” opponibile ai sensi e per gli effetti dell’art. 34, punto 3, Reg. 44/2001, nonostante l’“esclusione” dell’arbitrato dalle materie oggetto del Regolamento, dava sufficiente replica ai primi due fra loro correlati quesiti pregiudiziali per come essi erano stati formulati. È chiaro però che il principio dell’“effetto utile” del rinvio pregiudiziale, e senza ostacoli derivanti da una incongrua considerazione puramente processualcivilistica della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato (v. anche infra par. 3.4) consentiva, anche se non imponeva, alla Corte di andare avanti e precisare le condizioni ed i limiti di quella corrispondenza e perciò della invocabilità della sentenza inglese “riproduttiva” di lodo ai sensi dell’art. 34, punto 1. Ciò che la Corte ha fatto nel modo radicalmente illogico di cui si dirà sub 3.

2.Quel che in via parentetica la Corte non dice né doveva dire – sennonché la domanda sorge spontanea come fiore di campo e di quest’ultimo però ben meno liliale – è se ciò che vale per la sentenza giudiziale nel caso particolarissimo del “merger” valga anche per il lodo arbitrale puro e semplice e cioè non “mergered” in sentenza giudiziale[3].

Che valga la generale “esclusione” dall’ambito applicativo dei Regolamenti (v. supra 1-a2) – se vale per la sentenza “riproduttiva” ma in ipotesi anche se non dovesse valere per essa – è questa volta assolutamente ovvio, perché non vi è neppure a frapporsi l’argomento formale della provenienza della pronuncia dalla giurisdizione statuale: a cos’altro dunque dovrebbe servire la perdurante “esclusione” dell’”arbitrato” dalla disciplina-Bruxelles se non anzitutto ad escludere che il lodo arbitrale in quanto tale circoli sulla base del regime dei Regolamenti unionali, e non invece sulla sola base delle norme internazionalprivatistiche applicabili nell’ordinamento dello Stato richiesto con quelle della Convenzione di New York in testa.

Che valga quanto indicato supra 1-a1, e che cioè anche il puro e semplice lodo arbitrale interno o estero, al pari di una normale sentenza giudiziale interna o estera, sia da considerarsi come “decisione” la quale, se contrastante, impedisce il riconoscimento della pronuncia straniera ai sensi degli art. 34 punti 3 e/o 4 e 45 lett. c) e/o d) dei Regolamenti, è questione di non semplice scelta di campo.

2.1.   Occorre stabilire anzitutto se le disposizioni proemiali definitorie (art. 32 Reg. 44/2001 e 2 lett. a) Reg. 1215/2012), quando esse si riferiscono a qualsivoglia “decisione” emessa rispettivamente “da un giudice di uno Stato membro” ovvero “da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro”, possano essere sufficientemente elasticizzate o meglio by-passate per lo meno quando il lemma “decisione” venga in considerazione ai fini della applicazione degli artt. 34 (44/2001) e 45 (1215/2012). E la risposta dovrebbe essere senz’altro affermativa, considerando oltretutto che le cennate disposizioni definitorie sono ovviamente pensate per delimitare il campo generale di applicazione alle sentenze giudiziali provenienti dagli Stati membri, mentre nel contesto particolare degli artt. 34 e 45, che qui ci interessa, la “decisione” opponibile alla recezione della sentenza è anche quella proveniente da paese terzo, e dunque per definizione esorbitante rispetto alla letterale indicazione delle disposizioni definitorie, e che così dunque può ben essere per una “decisione”, come la sentenza “riproduttiva” di lodo o il lodo stesso, esorbitante dall’ambito applicativo generale dei Regolamenti quali disciplina del riconoscimento ed esecuzione.

2.2.   Occorre poi e comunque chiedersi se una tale elasticizzazione o un tale bypass consenta di dar prevalenza – ai fini della riconduzione del lodo al novero delle “decisioni” opponibili ai sensi dell’art. 34 ecc. – piuttosto che all’aspetto della provenienza formale a quello della equipollenza funzionale fra lodo arbitrale e sentenza giudiziale ed alla sostanziale equivalenza del nucleo essenziale dei relativi effetti, di modo che lo scopo delle previsioni in discorso, che è in definitiva quello di evitare che il giudice nazionale, nonostante il favor complessivo per il recepimento della sentenza giudiziale proveniente dallo spazio europeo, sia costretto ad importare un conflitto, debba essere perseguito anche quando il conflitto si avrebbe nei riguardi di un lodo arbitrale già efficace ab origine nell’ordinamento del giudice richiesto o comunque in esso riconosciuto o fors’anche solo riconoscibile (su quest’ultimo aspetto v. infra 2.3).

Anche a questa domanda dovrebbe darsi, ed è stata già data in dottrina, risposta affermativa. E ciò anche considerando che alle cennate equivalenze funzionali ed effettuali l’ordinamento unionale, attraverso il suo Giudice apicale, ha già posto mente in modo significativo a partire da Eco Swiss-Benetton, e che di contro il perdurante rifiuto della Corte di superare Nordsee e dunque di ammettere anche gli arbitri privati al rinvio pregiudiziale non è affatto dovuto alla negazione di quelle equivalenze bensì proprio al dato formale ed istituzionale della provenienza della decisione (e dunque del presupposto rinvio pregiudiziale), con particolare riguardo al fatto che gli arbitri non coinvolgerebbero direttamente la responsabilità “comunitaria” dello Stato (che anche questa giustificazione sia discutibilissima, essendo discutibilissimo che il rinvio pregiudiziale si fondi solo su quel possibile coinvolgimento, è altra storia).

Il tutto con l’avvertenza che la nozione di “decisione” opponibile nel contesto degli artt. 34 ecc. necessita sì di una interpretazione uniforme, ma ad essa non si arresta, perché per forza di cose l’interpretazione uniforme deve tener conto dei singoli ordinamenti nazionali e della considerazione funzionale ed effettuale che essi riservano al lodo arbitrale o a determinati tipi di lodo arbitrale, e riscontrare definitamente in base a ciò quelle concrete ed autentiche equivalenze funzionali ed effettuali (riscontro negativo, ad esempio, quanto al nostro lodo irrituale).

2.3.   Discorso ulteriore e particolare riguarda il lodo estero rispetto al giudice richiesto di riconoscimento o esecuzione di sentenza giudiziale in forza dei Regolamenti: se esso cioè possa essere opposto solo ove già riconosciuto (in forza della Convenzione di New York ed in apposito procedimento) nello Stato richiesto (così, sia pure in relazione al riconoscimento di sentenza straniera in forza della nostra legge sul d.i.p. n. 218/1995, Elena D’ALESSANDRO, Il riconoscimento delle sentenze straniere, Torino, 2007, 313 s.), ovvero se ne sia possibile, ai fini di quella opposizione, anche la sola verifica di riconoscibilità (a mio avviso, naturalmente sempre e solo sulla base di criteri newyorkesi o di quelli eventuali legittimamente integrativi previsti dalla legge interna: v. il successivo paragrafo) da parte del giudice richiesto del riconoscimento ed esecuzione della sentenza in forza dei Regolamenti.

L’assenza nel sistema complessivo della Convenzione di New York, nella sua interazione con le leggi processuali interne (e salve, riguardo a queste ultime, eccezioni a me non note), di qualcosa di simile al riconoscimento automatico previsto dal sistema-Bruxelles dovrebbe far propendere nel primo senso. Ma mi induce a ragionare nel secondo senso il fatto che gli artt. 34, punto 4 Reg. 44/2001 e 45, punto 1 lett. d) Reg. 1215/2012 si riferiscono indifferentemente alla possibile verifica di riconoscibilità in via incidentale – assegnandola poi ed infatti gli artt. 33, punto 3 Reg. 2001 e 36, punto 3 Reg. 2012 allo stesso giudice adito in forza dei Regolamenti – non solo quando la decisione opposta proviene da uno Stato membro, bensì anche quando essa proviene da uno Stato terzo e non si giova dunque, almeno in base ai Regolamenti, di alcun riconoscimento automatico. Lo stesso dunque dovrebbe valere anche quanto al lodo estero, una volta che il lodo arbitrale tout court sia stato assimilato alla “decisione” opponibile ai fini della applicazione  di quelle disposizioni dei Regolamenti

2.4.   Naturalmente non è qui che si può sviscerare ulteriormente, e nelle sue varie e progressive cennate declinazioni, il complesso argomento (a riguardo sia sufficiente  il rinvio, quanto alla sola nostra letteratura, a SALERNO, Il coordinamento tra arbitrato e giustizia civile nel regolamento (UE) n. 1215/2012, in Riv. dir. int., 2013, 1146 ss., PINTALDI, Il contrasto tra lodi arbitrali e decisioni dei giudici degli Stati dell’UE nel regolamento (CE) n. 44/2001 e nuove prospettive, in Riv. dir. int. priv. proc. , 2013, 715 ss.).

Ci si può semmai immaginare che, ove investita in ideale consecutio rispetto alla pronuncia London Steam-Ship da nuovo ed apposito quesito pregiudiziale interpretativo del termine “decisione” ai sensi e per gli effetti dell’art. 34 Reg. 44/2001 o 45 Reg. 1215/2012, la Corte – a meno che non prevalga anche a riguardo la sua attuale diffidenza per l’arbitrato – sarebbe propensa a sciogliere definitivamente il nodo nel senso che quel termine può comprendere anche il lodo arbitrale. Se infatti in London Steam-Ship, da un lato, la sentenza giudiziale che “riprende i termini del lodo” esorbita dall’ambito applicativo dei Regolamenti proprio in ragione del suo contenuto meramente riproduttivo e della “esclusione della materia arbitrale”, d’altro lato però seguita ad essere, proprio quanto al suo contenuto e cioè al lodo che riproduce, opponibile al riconoscimento di pronuncia straniera, non si vede perché non debba esserlo il lodo considerato come tale ed a prescindere dall’ esotico e ben raro “merger”. Insomma: se la sentenza riproduttiva è per la Corte un semplice involucro e ciò che conta è il suo contenuto, è difficile immaginare che la Corte sarebbe disposta a trattare diversamente il puro contenuto e cioè il lodo in quanto tale.

3.Veniamo ai due profili di illogicità, considerandoli ora indistintamente (perché distinzione in relazione ad essi non pare vi sia) vuoi rispetto al contenuto esplicito della sentenza London Steam-Ship, concernente la sentenza giudiziale “riproduttiva del lodo”, vuoi in relazione alla ipotesi che la Corte di Giustizia reiteri nella sostanza il medesimo contenuto anche in relazione al puro e semplice giudicato arbitrale opposto alla recezione di sentenza straniera contrastante.

3.1  Il primo profilo di illogicità sistematica consiste in ciò: se la sentenza giudiziale riproduttiva del lodo ed a fortiori il lodo puro e semplice sono entrambi, a motivo della “esclusione” dell’”arbitrato” e come la stessa Corte sostiene (vedi punto 45 della motivazione), indifferenti alla disciplina dettata dai Regolamenti anche ed in primo luogo quanto al loro “riconoscimento”, pur essendo senz’altro opponibili ex artt. 34 e 45 al riconoscimento di altra pronuncia (straniera) a quella disciplina assoggettata, non ha alcun senso – come invece pretende la Corte – condizionare tale opponibilità al rispetto, ad opera del lodo quale contenuto sostanziale della pronuncia “riproduttiva” o del lodo in quanto tale, di segmenti di disciplina dei Regolamenti quali quelli concernenti “l’effetto relativo della clausola compromissoria inserita in contratto di assicurazione” e la “litispendenza”. In altri termini: il giudice richiesto, a norma dei Regolamenti, del riconoscimento di una sentenza straniera, ed investito dal resistente della eccezione fondata su contrastante sentenza “riproduttiva di lodo” o su contrastante lodo, dovrebbe, una volta verificato il contrasto, accogliere l’eccezione valutando la sentenza “riproduttiva” ovvero il lodo non già in relazione alla loro conformità a quei due o ad altri segmenti di disciplina regolamentare, bensì solo ed esclusivamente ai parametri della loro efficacia definiti dalla legge interna, se si tratta di sentenza “riproduttiva” o di lodo nazionali per lo stesso giudice richiesto, ovvero, e se invece si tratta di sentenza “riproduttiva” o di lodo esteri per tale giudice, ai parametri della loro riconoscibilità secondo il diritto internazionale privato interno o altrimenti convenzionale applicabile nello Stato richiesto, e quanto al lodo dunque quelli e quelli soli contemplati della Convenzione di New York del 1958 o quelli più favorevoli previsti dalla legislazione nazionale.

Che tali soltanto siano i parametri di verifica quando la pronuncia “riproduttiva” o il lodo sono interni per il giudice in questione è implicito ma evidente nell’art. 34, punto 3 Reg. 44/2001 e nell’art. 45, punto 1 lett. c) Reg. 1215/2012, perché della “decisione” (contrastante) “emessa nello Stato membro richiesto” la giuridica efficacia al fine di dar rilievo al contrasto non potrà che verificarsi in base alla legge dello Stato membro richiesto (sicché ad esempio una decisione come una nostra ordinanza, sempre rivedibile e modificabile dal giudice che la ha emessa secondo la nostra legge processuale, non potrà evidentemente essere presa in considerazione dal nostro giudice richiesto di riconoscimento o exequatur di pronuncia straniera in forza dei Regolamenti).

Del pari evidente mi sembra, mutatis mutandis, la impostazione anche quando la pronuncia “riproduttiva” o il lodo opposti al riconoscimento siano a loro volta esteri per il giudice richiesto. In tal caso le disposizioni regolamentari presuppongono, ai fini della fondatezza della opposizione, che la pronuncia contrastante rispetto a quella di cui si chiede il riconoscimento soddisfi a propria volta “le condizioni necessarie per essere riconosciuta nello Stato membro richiesto”. Queste condizioni saranno senz’altro quelle uniformi previste dall’uno o dall’altro Regolamento applicabile ratione temporis allorché la pronuncia contrastante provenga dallo spazio giudiziario europeo. Non potranno ovviamente esserlo, bensì saranno quelle previste dal d.i.p. del foro, allorché la pronuncia contrastante provenga da paese terzo (ipotesi espressamente contemplata sia dall’art. 34, punto 4 del Reg. 44/2001, sia dall’art. 45, punto 1 lett. d) del Reg. 1215/2012), perché è più che evidente che alla pronuncia proveniente da paese terzo risulta oggettivamente inapplicabile il regime di riconoscibilità unionale (ove occorresse l’argomento si ricava per tabulas dall’art. 32 Reg 44/2001 come dall’art. 36 n. 1 Reg. 1215/2012).

Ma lo stesso dovrà dirsi – per la ragione, parallelamente oggettiva, della “esclusione” ratione materiae dell’arbitrato dall’ambito applicativo dei Regolamenti – per la sentenza “riproduttiva del lodo” o per il lodo arbitrale tout court che siano esteri rispetto al giudice richiesto, e la cui riconoscibilità andrà dunque vagliata in base ad altri complessi normativi (Convenzione di New York, all’occorrenza, in testa), con esclusione  di ogni riferimento alle disposizioni dei Regolamenti su litispendenza e contratti di assicurazione di cui la Corte tiene invece, illogicamente, conto.

3.2.   Si potrebbe in teoria ragionare in senso diverso e considerare – alquanto fideisticamente ed in realtà senza alcuna convincente spiegazione autenticamente razionale – che la sicura riconducibilità comunque, e nonostante la generale “esclusione” dell’arbitrato, di un dictum arbitrale (recepito o meno in sentenza giudiziale) al novero delle decisioni opponibili ex artt. 34 e 45 dei Regolamenti attragga alla sola verifica di riconoscibilità di quel dictum, ai fini della concreta applicazione di quei disposti, i parametri normativi dei Regolamenti.

Se così fosse però andrebbe allora corretta e ridimensionata la consueta affermazione, reiterata anche nella sentenza London Stream-Ship, secondo cui, in virtù dell’esclusione, “la procedura di riconoscimento ed esecuzione di un lodo arbitrale non è disciplinata dal Regolamento, bensì dal diritto nazionale e dal diritto internazionale applicabili nello Stato membro in cui tale riconoscimento e tale esecuzione sono richiesti”. Occorrerebbe insomma aggiungere un inciso chiarificatore, fino ad ora mai uscito dalla bocca della Corte, del tipo: “salvo che non si tratti della verifica incidentale di riconoscibilità di lodo estero o di una sentenza straniera riproduttiva di lodo estero che siano stati opposti ex art. 34 Reg. 44/2001 o 45 Reg. 1215/2012 al riconoscimento ed esecuzione di decisione di una autorità giurisdizionale di Stato membro”

Ma allora, sul piano per così dire eurounionale, non si intenderebbe il perché dei “due pesi e due misure” e cioè di un regime diverso a seconda che la verifica incidentale di riconoscibilità riguardi una sentenza giudiziale di paese terzo o invece un lodo o una sentenza di questo “riproduttiva”, e men che meno lo si capirebbe se la sentenza “riproduttiva” o il lodo provenissero a propria volta da paese terzo. Quasi che la generale “esclusione” della applicazione della disciplina unionale dovesse funzionare in modo assoluto quando la sua ragione è di ordine “geografico” (sentenza proveniente da paese terzo) ed in modo invece relativo quando la sua ragione è di ordine “virtuale” o “qualitativo” (lodo arbitrale come dictum proveniente da un mondo estraneo e diverso da quello delle giurisdizioni statuali dei paesi membri).

E sul piano dei diritti nazionali, astretti comunque alla conformità con la Convenzione di New York (espressamente salvaguardata – si rammenti – dalla disciplina unionale: v. l’art. 73, punto 2, nonché il considerando 12 Reg. 1215/2012, e vedi in termini generali già l’art. 71 Reg. 44/2001), risulterebbe disatteso il principio generale di quest’ultima in ordine alla parità di trattamento fra lodo interno e lodo estero quanto al prodursi dei loro giuridici effetti, una volta scontate le (sole) condizioni di recepimento previste per il secondo dalla stessa Convenzione. Perché invece, sia pure riguardo al solo prodursi degli effetti impeditivi del riconoscimento di sentenza straniera contrastante, il lodo estero sconterebbe condizioni anche ulteriori (ed è quasi inutile dire che non sarebbe dato imporre queste condizioni ulteriori anche al lodo interno per il prodursi dei medesimi effetti impeditivi, perché sarebbe davvero troppo).

3.3.   Ma se anche si compisse un tale sforzo notevolissimo e si volesse superare la complessiva illogicità fin qui rappresentata, altro profilo di illogicità rimarrebbe insormontabile.

Vi è infatti che per la sentenza giudiziale estera i requisiti di riconoscibilità previsti dai Regolamenti sono e non possono che essere equivalenti sia che si tratti del riconoscimento in via principale sia che si tratti della verifica incidentale di riconoscibilità presupposta alla applicazione degli artt. 34 e 45 dei Regolamenti, e fra questi requisiti non vi è affatto (a differenza da quanto ad esempio accade, sia pure con particolare modulazione e cioè con riguardo alla litispendenza contemporanea al giudizio di riconoscimento, ai sensi dell’art. 64 lett. f della nostra legge n. 218/1995) il rispetto a suo tempo delle regole di litispendenza, visto che a ciò non vi è il benché minimo riferimento in quelle disposizioni concernenti i motivi di non riconoscibilità; (quanto al, diverso, rispetto dell’”effetto relativo della clausola compromissoria” nei contratti di assicurazione, esso non viene qui concretamente in discorso perché non può evidentemente riguardare la sentenza giudiziale, ma occorre riconoscere che il rinvio di quelle disposizioni sui motivi di non riconoscibilità alla normativa regolamentare in tema di competenza giurisdizionale relativa ai contratti di assicurazione vi è indubitabilmente, e che la Corte, sia pure in modo alquanto apodittico e criptico, desume proprio da tale rinvio l’”effetto relativo della clausola compromissoria” quale ragione “tipica”, per forza di cose valevole solo quando vi sia di mezzo un lodo e non invece una sentenza giudiziale, di non riconoscibilità e dunque di non opponibilità ex art. 34 ecc.).

Men che meno, ed ovviamente, il rispetto a suo tempo (e cioè da parte del giudicante che ha reso la decisione opposta) della disciplina regolamentare sulla litispendenza è richiesto allorché alla recezione della sentenza straniera sia opposta siccome contrastante una sentenza proveniente dal medesimo ordinamento del giudice richiesto, in tal caso non essendovi neppure questione di “riconoscibilità” bensì solo di presa d’atto della esistenza della sentenza nazionale.

Ebbene: non  ha allora alcun senso logico richiedere – come vuole la Corte nella pronuncia in questione – il rispetto (aggiuntivo) delle regole di litispendenza unicamente perché vi è di mezzo il giudizio privato degli arbitri (tanto più essendo l’arbitrato  “materia esclusa”), e cioè sol perché la decisione opposta ex art. 34 o 45 dei Regolamenti è una decisione giudiziale meramente “riproduttiva” di un lodo o (a fortiori) lo stesso lodo.

Non è insomma logico trattare diversamente lodo e sentenza giudiziale, quanto ai requisiti di opponibilità finalizzati al rifiuto di recezione di decisione estera contrastante, anche una volta ammesso che quei requisiti debbano essere desunti dai Regolamenti.

Delle due l’una: o si nega che il dictum arbitrale, “riprodotto” in sentenza o di per sé considerato, sia nella sostanza equivalente ad una normale sentenza giudiziale ai fini della opponibilità ex art. 34 o 45 alla recezione di decisione straniera, ed allora il problema non si pone; oppure lo si ammette – come la Corte ha fatto per il momento per il solo dictum arbitrale “riprodotto” ma come potrebbe fare in futuro anche per il lodo in quanto tale – ed allora equivalenti debbono essere anche le verifiche presupposte alla opponibilità. Le quali, se il dictum arbitrale è nazionale rispetto al giudice richiesto, consisteranno come per la sentenza nazionale nella semplice presa d’atto della sua esistenza e della sua giuridica efficacia (secondo il diritto dell’arbitrato nazionale); se il dictum arbitrale è estero consisteranno al più (e sempre che si superi, ciò che ritengo comunque assai difficile, il profilo di illogicità cennato sub 3.1. e 3.2.) nel controllo di “riconoscibilità” sulla base dei medesimi artt. 34 e 35 Reg. 44/2001 e 46 Reg. 1215/2012, alla stregua soltanto, come accadrebbe per una sentenza giudiziale, di ciò che è ivi previsto e dunque senza alcun riguardo al rispetto della disciplina dei Regolamenti in materia di litispendenza.

La circonvoluzione verbale utilizzata dalla Corte nel formale responso pregiudiziale, forse allo scopo di mascherarne l’illogicità, finisce per confermarla vieppiù. La Corte evoca ciò che avrebbe dovuto fare, in luogo dell’arbitro, un organismo giurisdizionale di uno Stato membro e dice appunto che non può essere opposta ex art. 34, punto 1 una decisione arbitrale recepita in sentenza allorchè un giudice nazionale in luogo dell’arbitro non avrebbe potuto adottarla “senza violare le disposizioni fondamentali e gli obiettivi del Regolamento”. Sennonchè, e per farla breve, se un giudice nazionale pronuncia violando le norme del Regolamento sulla litispendenza sarà anche brutto e cattivo, ma la sua decisione non cessa per ciò di essere opponibile ex art. 34, punto 1 ad altra decisione di cui si chiede il riconoscimento. E ciò semplicemente perché così ha voluto il Regolamento, che non ha affatto condizionato (come pur avrebbe potuto, ma era scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore unionale) quella opponibilità al previo rispetto delle regole sulla litispendenza. E per l’appunto, se si sostituisce l’arbitro al giudice nazionale, la soluzione non può essere diversa una volta che si sia ammesso, come la Corte ha ammesso, che entrambe le rispettive decisioni, quella arbitrale “riprodotta” in sentenza e quella giudiziale, risultano riconducibili in astratto al novero di quelle opponibili ex art. 34, punto 1.

3.4   L’avviso contrario espresso dalla Corte nel responso pregiudiziale London Steam-Ship è dunque doppiamente e fortemente illogico. E non potendosi certo immaginare che vi corrisponda una occasionale arrampicata sugli specchi onde proteggere la gloriosa Corona spagnola (in un contenzioso vagamente marinaro e dunque vagamente evocativo dell’epoca di Filippo II ed Elisabetta I, per un attimo vicini al fidanzamento poi rivali), a me pare, sommessamente, che quell’avviso sia frutto della diffidenza della Corte, inauguratasi con Achmea, tutte le volte che vi sia di mezzo il dictum arbitrale[4].

E’ già noto per altro (e vi ha dedicato acuta e sintetica chiosa informativa Flavio PONZANO su questa Rivista, II/2023 nello scritto cui facevo riferimento in apertura) come la High Court remittente, ricevuto il responso, vi si sia ribellata pressoché in pieno, forse facilitata dalla Brexit, se non sul piano, giuridico, sul piano subliminale della diminuzione del metus per la CGUE.

Per la verità la High Court non esprime una patente ribellione ma giustifica la non applicazione di quella parte del responso della Corte, che qui si è sottoposta a critica, ricorrendo al profilo della esorbitanza rispetto al quesito rivolto; come se la corrispondenza fra il chiesto e pronunciato dovesse valere rigorosamente anche nel rapporto “da giudice (nazionale) a giudice (unionale)” che caratterizza il rinvio pregiudiziale. Il che evidentemente non è. Sicché la ribellione occulta resta una ribellione, da far invidia al nostro a volte intemperante Consiglio di Stato (il compagno Franti) e da far inorridire la nostra fin troppo ligia Cassazione (il compagno De Rossi), quella ad esempio della sentenza delle Sez. Un. n. 24533/2021 sul procedimento ingiuntivo e le clausole abusive, compito a casa, su traccia della Corte di Giustizia, svolto con diligente ingegno e paradossali risultati.

Ed è – quella del giudice inglese – una ribellione-monito per chi vuole intendere: se si superano certi limiti anche la logica-giuridica è un controlimite, e l’antipatia in parte comprensibile ma irrazionale per l’arbitrato non vale a giustificare la totale illogicità.

Quanto allo “splendor di una Corona” esso – come canta Elvira nell’Ernani – “leggi al cuor non puote imporre”, e neppure alla logica giuridica. Lo dimostra il finale atteggiamento, pur un tantino forzato, della High Court inglese.

[1] Io la chiamo diffidenza, enfatizzando il côté per così dire “in negativo”. Il mio amico Massimo BENEDETTELLI la chiama da un po’ “Communitarization of International Arbitration (a New Spectre Haunting Europe?)” (Arb. Int., 2011, XXVII, 14, 588), enfatizzando il côté “in positivo” e cioè l’incongrua imposizione all’arbitrato di regole di origine unionale. Ovviamente l’una cosa è l’altra faccia dell’altra, sicché London Ship-Steam – che immagino avrà fatto venire l’orticaria anche a Massimo – può essere considerata come un altro episodio della spettrale “Communitarization”.

Resto sempre convinto – come quando si trattò di Achmea – che, di là dalle critiche di singoli ed anche numerosi autori di varie appartenenze culturali nei riguardi della Corte di Giustizia e delle sue sbandate, una soluzione di compromesso e pacificatoria fra Europa e Arbitrato vada trovata, e che non possa essere quella dei “due popoli due stati” bensì quella – mi rendo conto assai utopica e difficile – della calibrata fusione, e cioè del lavoro su uno strumento normativo europeo di diritto uniforme dell’arbitrato sì da tranquillizzare l’Europa (quanto a garanzie e fairness dell’istituto arbitrale) e far venire meno la diffidenza, e tuttavia da lasciare in pace l’arbitrato attribuendogli per di più il vantaggio di una circolazione europea (a certe condizioni) del lodo senza necessità di exequatur all’estero (v. se vuoi sinteticamente il mio The long growth crisis of International Commercial Arbitration, in questa Rivista, 2020, 387 ss.). Insomma una “Communitarization” buona e ragionevole. So bene però che questa idea lascia perplessi molti autorevoli cultori dell’arbitrato internazionale, ad esempio Luca Radicati con cui ne ho brevemente discusso nel corso di un seminario milanese di qualche anno fa (non so se anche Massimo al quale lascio volentieri la parola – ma ben inteso anche a Luca o ad altri – in uno dei prossimi fascicoli della Rivista).

[2] In realtà, a quanto sembra emergere, dal primo dei due correlati quesiti della High Court (“Se tenuto conto della natura delle questioni che il giudice nazionale è chiamato a risolvere per decidere se pronunciare una sentenza nei termini di un lodo arbitrale ai sensi dell’art. 66 della legge sull’arbitrato del 1996, una sentenza emessa ai sensi di tale norma possa costituire una «decisione» pertinente dello Stato membro richiesto ai sensi dell’art. 34, punto 3 del regolamento”), la quaestio poteva essere più criptica e sottile (e quel primo quesito non semplicemente ripetitivo – come probabilmente la Corte lo ha considerato – del secondo ove si chiedeva espressamente se la sentenza inglese “riproduttiva” di lodo potesse costituire una decisione opponibile ex art. 34, punto 1, nonostante la “esclusione” dell’arbitrato).

Si trattava cioè di verificare anche il particolare “contenuto” della sentenza inglese “riproduttiva” di lodo, e ciò proprio ai fini di verificare in concreto la sua “opponibilità” ex art. 34, punto 1 e cioè in concreto il suo contrasto con la sentenza giudiziale di cui è richiesto il riconoscimento. Sebbene in proposito il quesito della High Court fosse tutt’altro che perspicuo, a voler sottilizzare non è la stessa cosa se il contenuto della sentenza giudiziale ex art. 66 dell’Arbitration Act sia la validità del lodo come atto (anche a prescindere dall’estensione del controllo di tale validità) ovvero sia il medesimo contenuto del lodo, decisorio della lite sostanziale originaria, siccome integralmente recepito nella sentenza. Sembra peraltro evidente che in punto di diritto inglese questa seconda debba essere la risposta. Ed è ancor più evidente dal complesso della motivazione della Corte che quest’ultima assuma che, in punto di diritto dell’Unione, il confronto ex art. 34 punto 1, ove possibile, debba riguardare per l’appunto il contenuto della sentenza di cui si chiede il riconoscimento ed il contenuto del lodo siccome integralmente recepito nella sentenza “riproduttiva”.

[3] Per la verità l’interrogativo era implicitamente adombrato dalla High Court nella sola formulazione del suo terzo quesito ove si chiedeva se fosse opponibile ex art. 34, punto 1 Reg. 44/2001 per lo meno ragione di ordine pubblico processuale fondata sulla “violazione del principio della res judicata a causa di un precedente lodo arbitrale nazionale o di una precedente sentenza che riprende i termini del lodo arbitrale”, e le due situazioni – del lodo mergered e del puro e semplice lodo – erano dunque (con quanta provocatoria consapevolezza non è dato sapere) poste sullo stesso piano. Sennonché la Corte non se ne avvede o finge di non avvedersene, anche perché considera piuttosto scontata la risposta a tale quesito (se non è possibile invocare in opposizione l’art. 34, punto 3, non è possibile neppure invocare l’art. 34, punto 1, ed in essa risposta menziona letteralmente solo la “sentenza che riprende i termini del lodo”).

[4] Da tenere presente per altro che la illogicità giuridica, ispirata da un eccesso di “comunitarizzazione” (da non confondersi ovviamente con il doveroso ossequio alla primauté del diritto dell’Unione ed alle prerogative della Corte di Giustizia), conduce per vie strane anche a risultati ben opposti a quelli di sfavore, ed invece di favore per l’arbitrato, ma essi pure difficilmente tollerabili in termini di buon senso oltre che di logica. Si consideri, proprio su questo fascicolo, la sentenza del Tribunale di Firenze (criticamente e perspicuamente annotata da Rebecca RICIFARI, con espressioni fin troppo sobrie dovute al garbo ed alla giovane età): un autentico pasticcio di logica che, attraverso l’applicazione esorbitante (e contraria oltretutto allo stesso diritto dell’Unione) dell’art. 25 Reg. 1215/2012, in materia di clausole di proroga della giurisdizione statuale, alla convenzione per arbitrato estero, conduce alla possibilità che quest’ultima si consideri sempre efficacemente stipulata (con tutti i suoi effetti compreso quello impeditivo dell’esercizio della giustizia dello Stato) anche “per fatti concludenti”. Anche a me piace l’arbitrato e sono tutt’altro che diffidente (salve alcune occasioni purtroppo sempre più numerose) nei riguardi di questo esemplare frutto della privata autonomia. Ma vorrei che ci si rendesse conto che una cosa è affidarsi “per fatti concludenti” ad una giurisdizione statuale di un paese dell’Unione piuttosto che di un altro, ben altra cosa è che un giudice statuale ricostruisca con un ampio margine di errore una evanescente volontà compromissoria basata su evanescenti “fatti concludenti” piuttosto che su di un solido documento scritto, ed in ragione di ciò neghi giustizia alla parte e la rimetta al giudizio di uno o più privati cittadini.