Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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La Corte di Giustizia stimola una riflessione su contenuto e limiti della tutela monitoria
Di Bruno Capponi -
Il piccolo terremoto causato dalle sentenze della Corte europea di giustizia in tema di tutela del consumatore (Grande sezione, 17 maggio 2022 – causa C-600/19, cause riunite C-693/19 e C-831/19, causa C-725/19, causa C-869/19) potrebbe, auspicabilmente, stimolare qualche riflessione critica sul consolidato orientamento secondo cui il decreto ingiuntivo non opposto (o malamente opposto, ad es. per errore nella scelta del rito) è suscettibile, al pari della sentenza di merito, di formare il giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.).
In realtà, nessuna norma del procedimento speciale autorizza una simile conclusione perché il fenomeno che viene regolato, e che continuamente è destinato a riemergere nella disciplina speciale, è quello dell’esecutorietà del decreto. Anche la prospettiva storica mostra che il legislatore non si è mai preoccupato di associare alla produzione dell’effetto di esecutorietà il diverso effetto della formazione del giudicato. L’art. 6, comma 1, del r.d. 24 luglio 1922, n. 1036, si limitava infatti a prevedere che qualora non sia proposta l’opposizione nel termine stabilito, il decreto d’ingiunzione acquista forza di sentenza spedita in forma esecutiva ed è titolo per la ipoteca giudiziale; tale formula venne sostituita dall’art. 16, comma 1, del r.d. 7 agosto 1936, n. 1531, con la seguente: quando non sia stata fatta opposizione nel termine stabilito il conciliatore, il pretore o il presidente, su istanza anche verbale del ricorrente, dichiara la definitiva esecutorietà del decreto, e, in sostanza, tale lezione è quella recepita dall’attuale art. 647 c.p.c.
Molti hanno valorizzato l’argomento dell’assoggettamento del decreto divenuto esecutivo alle impugnazioni ex art. 656 c.p.c., tra cui la revocazione ordinaria ex art. 395, n. 5), c.p.c. per contrasto di giudicati; ma, alla base, occorrerebbe accordarsi sul modo di intendere la “cognizione” che il giudice esercita nella fase monitoria: secondo alcuni, il giudice non godrebbe di veri e propri poteri cognitivi, ancorché sommari, essendo soltanto chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti stabiliti per la pronuncia dell’ingiunzione (questa dottrina ha anche auspicato che la fase strettamente monitoria possa essere sottratta al magistrato); altri affermano che, sia pure nell’orbita della specialità che sorregge l’intera fase monitoria, il giudice avrebbe il potere-dovere di operare una cognizione, sia pure in termini di fumus (e così parziale, superficiale, incompleta, unilaterale, etc.), sulla domanda e non soltanto sui presupposti del rito speciale.
Il presupposto della condanna suscettibile di produrre un giudicato è che il giudice abbia “accertato”, sia pure nelle forme speciali sommarie, l’esistenza del diritto del ricorrente; tuttavia, il nostro modello di procedimento monitorio non risponde a un tipo unitario, essendo frutto della combinazione tra il sistema c.d. “documentale” (in base al modello austriaco del Mandatsverfahren) e il sistema c.d. “puro” (secondo il modello tedesco del Mahnverfahren): l’ingiunzione può essere pronunciata sulla base di documenti che davvero nulla hanno a che fare con la prova documentale in senso tecnico (cfr. gli artt. 633, nn. 2 e 3, 635, 636, 634, comma 2, c.p.c.). L’ambiguità ha del resto una chiara radice storica: mentre il r.d. del 1922 aveva introdotto un modello simile a quello austriaco, prevedendo come necessaria ai fini della pronuncia dell’ingiunzione la produzione di una prova documentale secondo la disciplina del codice civile e del codice di commercio allora vigenti, il r.d. del 1936 – modello poi importato nel libro IV del codice del 1942 – integrando le previsioni del primo stabilì che talune categorie di creditori potevano giustificare la domanda avvalendosi di “prove scritte” del tutto particolari, anche perché dagli stessi creditori unilateralmente formate. In tale situazione di ambiguità è certamente difficile affermare, in termini affatto generali, che il giudice della fase monitoria opera una “cognizione”, per quanto sommaria, sul fondamento delle pretese del ricorrente: affermazione dubbia, se non altro in relazione ai casi nei quali le condizioni stesse di ammissibilità lasciano pensare a un modello “puro”.
L’art. 2909 c.c. parla di “accertamento” contenuto nella sentenza ed è pertanto indispensabile pensare a una pronuncia condannatoria che “accerti” il fondamento sostanziale del diritto. Tuttavia, la nostra impressione è che il dibattito sia stato negli anni alimentato da una sorta di ribaltamento logico, ossia dalla necessità di spiegare un fenomeno con l’altro: se tale è l’effetto prodotto dalla sentenza, non diverso deve essere il fenomeno ove riferito a provvedimenti diversi dalla sentenza, sebbene l’art. 2909 c.c. guardi formalmente soltanto a quest’ultima; forse il discorso sarebbe stato sin dall’inizio diversamente impostato qualora fossero già note figure condannatorie in cui ciò che rileva è l’efficacia di titolo esecutivo in grado di sopravvivere all’estinzione del processo di merito nel cui àmbito il provvedimento sommario è stato pronunciato (art. 186 bis, comma 2, c.p.c.), ovvero fossero noti fenomeni di ordinanze-titolo esecutivo, valido anche per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, che, stabilizzatesi per mancata impugnazione, risultino espressamente sottratte al regime dell’art. 2909 c.c. (l’abrogato art. 19, commi 2 bis e 5, d.lgs. n. 5/2003 e, ora, l’art. 183 ter c.p.c.).
Quanto al motivo di revocazione ordinaria di cui all’art. 395, n. 5), c.p.c. (contrasto con precedente giudicato), che molta parte gioca nelle ricostruzioni in chiave di acquisto di giudicato sostanziale da parte del decreto non opposto o comunque divenuto intangibile, va osservato che l’art. 656 c.p.c. consente la revocazione del decreto per contrasto con altra sentenza inter partes, laddove l’art. 395, n. 5) non sembra dichiarare revocabile la sentenza in ragione della presenza di un precedente decreto inter partes. E soltanto da quest’ultima regola potrebbe inferirsi la parificazione quoad effectum tra sentenza e decreto, perché nel caso regolato dall’art. 656 c.p.c. ciò che viene rimosso, a seguito del vittorioso esperimento della revocazione, è non l’effetto di “accertamento” del decreto divenuto intangibile, bensì l’efficacia esecutiva del decreto (contrario al giudicato inter partes), efficacia che altrimenti non potrebbe essere rimossa.
Insomma, nostra impressione è che la giurisprudenza faccia appello alla nozione di giudicato sostanziale soltanto perché non riesce ad altrimenti spiegare il fenomeno di una pronuncia condannatoria che rimane stabile se non rimossa con gli strumenti interni allo stesso procedimento speciale; ma altre spiegazioni potrebbero darsi, come dimostrano i più recenti orientamenti sulle tutele sommarie che prescindono, dichiaratamente, dalla formazione del giudicato.
Il piccolo terremoto, di cui accennavamo all’inizio, sta mettendo in grave difficoltà i giudici dell’esecuzione, chiamati a confrontarsi con un fenomeno nuovo. E le loro difficoltà sarebbero, a nostro avviso, destinate a crescere qualora dovesse affermarsi l’anomala soluzione proposta dalla Procura Generale della Cassazione (requisitoria scritta depositata nel proc. R.G. n. 24533/2021, udienza pubblica del 13 luglio 2022, est. dott. Nardecchia:www.procuracassazione.it/procurageneraleresources/resources/cms/documents/24533_2021_CGUE_Nardecchia.pdf) secondo cui «il giudice dell’esecuzione deve rilevare d’ufficio l’eventuale natura vessatoria della clausola inserita nel contratto tra professionista e consumatore, non essendogli tanto precluso dalla definitività del decreto ingiuntivo non opposto, fermo il limite preclusivo del già avvenuto trasferimento del bene; il giudice dell’esecuzione deve indicare il rimedio a favore del debitore consumatore, da individuarsi in un’ordinaria azione di accertamento, un’actio nullitatis che inizi dal primo grado e davanti al giudice ordinariamente competente per territorio, materia e valore, nel corso della quale la sospensione (esterna) del titolo giudiziale può conseguirsi in via cautelare con efficacia ex art. 623 c.p.c. sul processo esecutivo; il giudice dell’esecuzione potrà differire la vendita a data presumibilmente successiva alla decisione (adottata anche in via cautelare) del giudice del merito».
Che soluzione inutilmente complicata, e soprattutto stravagante! Ma davvero il g.e. avrebbe il compito – amicus partis – di “indicare” al debitore il rimedio esperibile (al di fuori del processo esecutivo) e di attendere poi che il giudice della cognizione adotti il provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo a esecuzione già in atto, vale a dire allorché, di norma, si ritiene che il potere (in mancanza di una previa opposizione a precetto) compete soltanto allo stesso g.e. a norma dell’art. 624 c.p.c.? E il giudice dell’actio nullitatis in base a quali poteri potrebbe sospendere l’efficacia esecutiva del titolo, posto che l’art. 623 c.p.c. presuppone un giudice dell’impugnazione (o dell’opposizione a d.i.), mentre l’art. 615, comma 1, c.p.c. presuppone un giudice dell’opposizione a precetto?
Anche questa soluzione è espressione dell’attuale tendenza della Corte volta a inventare ex nihilo regole processuali, che mal si combinano con l’esistente. Meglio, molto meglio sarebbe considerare il d.i. non opposto alla stregua di un titolo stragiudiziale per poi rispettare le regole comuni: opposizione all’esecuzione senza limitazioni, potere del g.e. di sospendere l’esecuzione qualora ravvisi i “gravi motivi”. Mentre non ci sembra facilmente percorribile l’ipotesi di un’indagine officiosa del g.e. sull’intrinseco del titolo posto a base dell’esecuzione, per la fondamentale ragione che il g.e. – nonostante sporadiche affermazioni contrarie che a volte si rinvengono in giurisprudenza: G. Ghiurghi, Verso un nuovo modello di esecuzione civile?, in www.judicium.it dal 27 febbraio 2018) – non ha autonomi poteri d’indagine sul contenuto del titolo, dovendo il suo controllo officioso arrestarsi sul piano della sua esistenza e dell’eventuale suo venir meno.
Ne deduciamo così che certe espressioni delle richiamate sentenze europee, che sembrano voler attribuire al g.e. compiti di rilievo d’ufficio anche nella totale inerzia del consumatore-debitore, non possono non fare i conti col nostro sistema interno; mentre più equilibrate sembrano le espressioni della sentenza del 17 maggio 2022 (C‑600/19), laddove si parla di un «organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore» sul presupposto che la normativa interna determina un contrasto con l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, allorché «non consente né al giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di clausole contrattuali nell’ambito del procedimento di esecuzione ipotecaria, né al consumatore, dopo la scadenza del termine per proporre opposizione, di far valere il carattere abusivo di tali clausole nel procedimento in parola o in un successivo procedimento dichiarativo».