La mediazione obbligatoria e le domande “successive” rispetto a quella introduttiva del giudizio.

Sommario: 1. Il caso – 2. Mediazione obbligatoria, domanda riconvenzionale ed intervento di terzo – 3. Una diversa soluzione.

Di Raffaella Porto -

T. Roma 18 gennaio 2017

1. Il caso.

Il provvedimento in commento, reso a seguito di un giudizio introdotto con ricorso ex art. 447 bis cpc per ottenere la risoluzione di un contratto di affitto di azienda, la restituzione del complesso dei beni produttivi, ed il risarcimento del danno, esamina l’ambito applicativo della mediazione obbligatoria quando, in un giudizio rientrante tra quelli per cui il tentativo di conciliazione sia previsto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, vengano proposte domande ulteriori oltre a quella introduttiva del giudizio.

Nel caso di specie, a fronte della domanda del ricorrente di risoluzione del contratto d’affitto d’azienda, restituzione del complesso dei beni produttivi e risarcimento del danno, il resistente proponeva domanda riconvenzionale, diretta alla risoluzione contrattuale in danno del ricorrente ed alla sua condanna al risarcimento dei danni, senza che in relazione all’oggetto della domanda proposta in riconvenzionale venisse esperito alcun tentativo di mediazione.

Il Tribunale, a fronte dell’eccezione di improcedibilità per mancata proposizione del tentativo conciliativo sulla domanda riconvenzionale, proposta peraltro dallo stesso convenuto, delimita l’area della necessità di previo esperimento della mediazione alle sole domande proposte originariamente dall’attore.

In particolare ci si sofferma sull’aspetto dell’esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, prescritto come condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 28/2010.

2. Mediazione obbligatoria, domanda riconvenzionale ed intervento di terzo.

Secondo il giudice romano la mediazione obbligatoria non si estende alle domande riconvenzionali sollevate dal convenuto, o proposte da eventuali terzi intervenuti. Le ragioni poste alla base di tali conclusioni possono essere così sintetizzate: a) le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità sono di stretta interpretazione, poiché introducono limitazioni all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., quindi la locuzione “chi intende esercitare in giudizio un’azione“, contenuta nel comma 1, art. 5, d.lgs. n. 28/2010, sarebbe da intendersi come “chi intende instaurare un giudizio”[1]; b) vanno fatti salvi i principi di ragionevole durata del processo e di equilibrata relazione tra procedimento giudiziario e mediazione[2], indicato nella direttiva comunitaria 2008/52/CEE; c) il procedimento di mediazione sulla domanda riconvenzionale non è generalmente idoneo, dopo il fallimento del procedimento di mediazione sulla domanda principale, a porre fine al giudizio[3]; d) l’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010, prevede la facoltà del convenuto di eccepire il mancato tentativo di mediazione, sicché va considerato tale “chi viene citato in giudizio”, e non già “chi, avendo promosso un’azione e , pertanto, notificato ad altri una vocatio in ius, risulti a sua volta destinatario di una domanda, collegata a quella originaria”; e) non è possibile ammettere che vengano formulate domande riconvenzionali al solo fine di costringere il giudice a mandare le parti in mediazione, così da dilazionare i tempi del processo; infine f) l’affermazione formulata dalla giurisprudenza di legittimità[4] con riferimento all’art. 46 della legge n. 203/1982 e, cioè, che “ l’onere del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione … sussiste, oltre che a carico dell’attore che agisce in via principale in giudizio, anche nei confronti del convenuto che proponga una domanda riconvenzionale, secondo uno dei criteri di collegamento previsti dall’art. 36 cod. proc. civ.” dovrebbe riguardare, semmai, la sola domanda riconvenzionale c.d. inedita.

L’ orientamento giurisprudenziale espresso dal Tribunale di Roma[5], è conforme a quella parte di autorevole dottrina[6], che afferma che la ratio del tentativo obbligatorio di mediazione è di economia processuale, cosicché dilazionare il processo per permettere l’esperimento del tentativo di conciliazione, su domande ulteriori rispetto a quella introduttiva, sarebbe contrario alle intenzioni del legislatore.

Secondo un opposto orientamento giurisprudenziale[7], invece, deve affermarsi che ogni domanda proposta in giudizio dunque, non solo la domanda introduttiva ma anche quelle successive, avente ad oggetto una delle materie di cui all’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, è soggetta alla condizione di procedibilità ivi prevista. Alla base di questo orientamento, vengono poste una serie di argomentazioni: a) nella normativa sulla mediazione, il legislatore non precisa se l’esperimento del procedimento di mediazione costituisca condizione di procedibilità della sola domanda introduttiva del giudizio, ovvero di tutte le domande giudiziali, anche se proposte in corso di causa[8], quindi l’interpretazione letterale dell’art. 5, d.lsg. n. 28/2010, non consente di distinguere tra domande principali e domande successive, talché anche per le seconde vigerebbe la condizione di procedibilità b) la Corte di cassazione[9]nell’interpretare una norma analoga[10] all’art. 5, comma 1, in materia di controversie agrarie, ha affermato che l’onere dell’esperimento del tentativo di conciliazione sussiste anche nei confronti del convenuto che proponga una riconvenzionale secondo i criteri di collegamento dell’art. 36 c.p.c., pur escludendo l’obbligatorietà del tentativo quando le parti del giudizio coincidano con quelle del tentativo obbligatorio di conciliazione, e quando la formulazione della domanda riconvenzionale non comporti nessun ampliamento della materia del contendere perché fondata su questioni già esaminate nella prima sede conciliativa; c) il termine “convenuto” usato dall’art. 5, comma 1-bis, d.lsg. n. 28/2010, per indicare il soggetto che eccepisce l’improcedibilità della domanda, ben può essere riferito all’attore rispetto alla domanda riconvenzionale[11]; d) l’esclusione delle domande successive a quella introduttiva del giudizio dall’ambito di applicazione dell’art. 5, comma 1-bis, provocherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra le parti processuali[12]

In breve: da una parte, c’è chi afferma che il tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità solo per la domanda che introduce il giudizio[13]; dall’altra, invece, c’è chi afferma che l’obbligatorietà della mediazione sussiste oltre che per la domanda introduttiva del processo, anche per le domande successive.

3.Una diversa soluzione.

Nessuno dei due orientamenti sopra descritti, sembra essere pienamente condivisibile, lasciando spazio ad una “terza via”, che guardi non solo alla funzione della domanda giudiziale ma soprattutto allo scopo della mediazione.

Ed invero, la mediazione riveste funzioni ulteriori rispetto a quella di economia processuale, non essendo un istituto strettamente strumentale al processo civile. Vero è che si tratta di uno strumento utile alla risoluzione delle controversie, che offre alle parti in lite la possibilità di raggiungere un accordo, senza dover ricorrere alla giustizia ordinaria, caratterizzata da tempi e costi maggiormente gravosi.

Tuttavia, essendo un mezzo di risoluzione negoziale delle controversie, sarà necessario che le parti abbiano interessi in gioco tra di loro compatibili. Risulta all’uopo fondamentale avere riguardo ai bisogni ed agli interessi sottesi ai diritti fatti valere in giudizio, per poter giungere ad una tesi mediana rispetto agli orientamenti sopra descritti. L’analisi che segue è, dunque, incentrata sulla componente soggettiva del processo, e sui bisogni concreti delle parti, che sono determinanti per le sorti del tentativo di conciliazione.

Per quanto concerne la categoria delle domande ulteriori rispetto a quella introduttiva del giudizio, che lasciano invariati gli elementi soggettivi del processo, che prosegue tra le stesse parti, pare condivisibile l’orientamento secondo cui, non v’è, rispetto alle domande “nuove”, estensione dell’obbligo di esperire il tentativo di mediazione. Ciò in quanto, gli interessi ed i bisogni sottesi delle parti, restando invariate esse stesse,  rimangono inalterati e, quindi, se non si è raggiunto un accordo nel tentativo preventivo di mediazione, difficilmente questo potrà essere raggiunto in un tentativo successivo all’istaurazione del processo, producendo un’ingiustificata dilazione dei tempi processuali, correndo anche il rischio che le domande riconvenzionali vengano formulate al solo fine di costringere il giudice a mandare le parti di nuovo in mediazione, così da allungare i tempi del giudizio.

Vi è più quando, come nel caso di specie, l’eccezione di improcedibilità è sollevata dallo stesso convenuto che propone la riconvenzionale. Così che pare che sia la domanda che l’eccezione abbiano solo uno scopo dilatorio.

A questo proposito, è condivisibile l’osservazione secondo cui, quando il giudizio è preceduto da un tentativo di mediazione, e successivamente viene proposta la domanda riconvenzionale da parte del convenuto, questo, non assoggettando alla mediazione le proprie pretese, fatte poi valere con la riconvenzionale, ha di fatto implicitamente espresso la volontà di non voler addivenire ad alcun accordo conciliativo, salva l’ipotesi residuale nella quale, il fatto costitutivo della domanda riconvenzionale sia sorto successivamente all’esperimento del procedimento di mediazione[14]. Solo in quest’ultimo caso, pare sostenibile l’orientamento secondo cui il tentativo di conciliazione dovrebbe considerarsi obbligatorio anche per la domanda proposta dal resistente, in quanto, la riconvenzionale c.d. inedita, avente ad oggetto una delle materie prescritte dall’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010,  è relativa ad un fatto costitutivo sorto posteriormente al primo tentativo di conciliazione , il quale potrebbe produrre una variazione degli interessi in gioco. Tale variazione di interessi, ben potrebbe condurre le parti a risolvere stragiudizialmente la loro controversia.

Per quanto riguarda, invece, la categoria delle domande successive aventi ad oggetto le materie indicate dall’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, che incidono sulla struttura soggettiva, determinando un aumento delle parti del processo[15], non pare condivisibile l’interpretazione restrittiva della non obbligatorietà del tentativo di mediazione[16], in quanto in questi casi, si hanno parti ulteriori, con ulteriori interessi e bisogni sottesi, che, se compatibili con quelli delle altre, possono portare al buon esito del tentativo di mediazione, ed alla risoluzione negoziale della controversia. Infatti, come afferma autorevole dottrina[17], la situazione sostanziale protetta è destinata a soddisfare bisogni ed interessi che possono essere valutati solo ed esclusivamente dal titolare del diritto, il quale, tra le altre cose, non necessariamente è guidato da finalità economiche, e che sono inaccessibili a terzi, anche a coloro che devono decidere una controversia che abbia ad oggetto quel diritto.

Si ravvisa la necessità di adottare un orientamento “temperato”, una via mediana rispetto a quelle sino ad ora analizzate, attraverso la quale si possa ottenere un bilanciamento tra esigenze di ragionevole durata del processo ed efficacia della mediazione, quale strumento di risoluzione alternativa delle controversie[18].

Nei casi di intervento o chiamata di terzo, potrebbe pensarsi allora alla possibilità di ricorrere alla mediazione delegata[19], prevista dal comma 2, dell’art. 5, d.lgs. n. 28/2010, il quale prevede che “Fermo quanto previsto dal comma 1 bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede d’appello.” Ogni qual volta vi sia l’entrata del terzo sulla scena processuale, sarebbe auspicabile che il giudice valuti l’opportunità o meno di mandare le parti in mediazione, fiutando le possibilità di successo della stessa, ovvero formulando una valutazione di “mediabilità” del conflitto. Sta proprio in questo l’attività valutativa richiesta dal legislatore del d.lgs. n. 28/2010 al giudice, il quale dovrà capire se, in seguito alla chiamata del terzo, o l’intervento di questo nella compagine processuale, entrando in gioco nuovi diritti sostanziali, quindi nuovi interessi e bisogni, sia conveniente o meno, ragionando in un’ottica di bilanciamento tra economia processuale e mediazione, disporre un ulteriore tentativo di conciliazione. Vero è, però, che il giudice conosce i diritti sostanziali fatti valere dalle parti, mentre gli interessi ed i bisogni concreti di queste, non sono nella sua disponibilità, con la conseguenza che la valutazione sulle possibilità di successo del tentativo di conciliazione potrebbe dirsi “incompleta”[20].

Altra soluzione, potrebbe essere quella dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione relativamente alle domande successive a quella introduttiva del giudizio, nei casi di intervento o chiamata di terzo, ovvero ogni qualvolta vi sia un ampliamento della componente soggettiva del processo. La giurisprudenza di legittimità si è espressa sul punto, riguardo l’interpretazione di una norma in materia di controversie agrarie, l’art. 46 l.n. 3 del 3 maggio 1982, affermando che l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, va esclusa solo quando sono presenti i seguenti presupposti: le parti del giudizio coincidono con le parti del tentativo obbligatorio di conciliazione; la formulazione di una riconvenzionale non produce nessun ampliamento rispetto alla controversia già oggetto della conciliazione, perché fondata su questioni già esaminate in quella sede.

Nel caso dell’intervento o chiamata di terzo, si ha una modifica della componente soggettiva del processo; le parti del giudizio non coincidono più con quelle del tentativo obbligatorio di conciliazione esperito sulla domanda introduttiva del processo. Quindi, seguendo l’orientamento giurisprudenziale appena detto, quando si hanno intervento di terzo o chiamata in causa di terzo, dovrebbe ritenersi obbligatorio l’esperimento della mediazione[21].

[1] Per un’interpretazione restrittiva si veda SCARSELLI G. il quale afferma che la legge non subordina mai alla previa mediazione la domanda proposta dal convenuto, La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in www.judicium.it, p.3.

[2] In tal senso si veda DALFINO D., il quale osserva che “un’interpretazione restrittiva sarebbe preferibile, in considerazione del notevole allungamento dei tempi processuali che determinerebbe l’esperimento di una pluralità di procedimenti di mediazione in corso di causa per ciascuna domanda giudiziale (successivamente) proposta”; Dalla conciliazione societaria alla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali,in www.judicium.it, pp. 9-10.

[3] Tribunale Reggio Calabria, 22 aprile 2014, in Osservatorio Mediazione Civile n. 42/2014; in modo analogo Tribunale di Palermo, 11 luglio 2011, in Osservatorio Mediazione Civile n. 29/2012.

[4] Cass. 18 gennaio 2006, n. 830, consultabile in www.foroeuropeo.it.

[5]Sono conformi Tribunale Reggio Calabria, 22 aprile 2014; Tribunale di Palermo, 11 luglio 2011 cit.

[6]F.P.LUISO, in Diritto Processuale Civile, Volume V, La Risoluzione non Giurisdizionale delle Controversie,  p. 79 e seg.

[7] Così in Trib. Roma, 15 marzo 2012, in Osservatorio Mediazione Civile n. 77/2012; Trib. Como sez. di Cantù, 2 febbraio 2012, in Osservatorio Mediazione Civile n. 74/2012; Trib. Firenze, 14 febbraio 2012, in Osservatorio Mediazione Civile n. 64/2012.

[8]Si veda F.P.LUISO, in Diritto Processuale Civile, Volume V, La Risoluzione non Giurisdizionale delle Controversie, cit. p. 79.

[9] Cass. 18 gennaio 2006, n. 830 cit. Considerazioni simili anche nella giurisprudenza relativa alla conciliazione lavoristica precedente alla riforma intervenuta con la l.n. 183 del 2010, per cui veniva ritenuto che la proposizione di una domanda riconvenzionale fosse soggetta all’esperimento preliminare del tentativo di conciliazione. Si vedano in questo senso Cass., sez. un., 21 luglio 2009, n. 16910, in Guida dir. 2009, fasc. 37, p. 30; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255, in Giur. It. 2009, p. 1719.

[10]Art. 46, l.n. 3/1982.

[11] Così in ordinanza Tribunale di Verona, sez. III civile, 12/05/2016, consultabile in www.dirittoegiustizia.it.

[12] Così in sentenza Cass. Sez. III, 7 marzo 1992, n. 2753, consultabile in Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 3.

[13]In questo senso si esprime la Commissione Alpa nella relazione sulla riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione del 2017 dove viene chiarito che “la condizione di procedibilità attiene alla sola domanda principale con cui si inizia il processo, risolvendo così la vexata quaestio dei rapporti tra cumulo di domande e mediazione”, p. 33 consultabile in forma integrale su http://milanosservatorio.it.

[14]Così G. Battaglia La nuova mediazione “obbligatoria” e il processo oggettivamente e soggettivamente complesso, in Riv. Dir. Proc. 2011, p. 136 nota 21.

[15]Si fa riferimento ai casi di intervento di terzo e chiamata in causa di terzo.

[16]Nemmeno quella in cui si fa distinzione tra intervento litisconsortile, intervento principale, terzo chiamato in causa con diritto incompatibile e terzo chiamato in causa che avrebbe potuto esercitare intervento litisconsortile in quanto titolare di un diritto compatibile con quello di una delle due parti: a parere di chi scrive, si mette, in maniera non condivisibile, in secondo piano l’aspetto fondamentale degli interessi concreti. Viene  infatti affermato che, in caso di intervento litisconsortile, è sufficiente, ai fini del soddisfacimento della condizione di procedibilità ex art. 5 comma 1 d.lgs. n. 28/2010, che il tentativo di mediazione sia stato esperito sulla domanda introduttiva del giudizio. Mentre, per quanto riguarda l’intervento principale, in cui il terzo fa valere nei confronti di tutte le parti un diritto incompatibile, questo, dovrà previamente esperire il tentativo di conciliazione, per dirsi soddisfatta la appena detta condizione di procedibilità. Anche relativamente alla chiamata in causa del terzo,  viene fatta leva sulla componente del diritto incompatibile, affermando che “il necessario esperimento del procedimento di mediazione dovrebbe allora trovare spazio nell’ipotesi di chiamata del terzo che vanti un diritto incompatibile con quello già oggetto di causa; potrebbe invece essere superato il condizionamento imposto alla domanda giudiziale nel caso di chiamata di colui che avrebbe potuto esperire intervento litisconsortile, in ragione dell’eventuale particolare rapporto di connessione posto a fondamento del cumulo di domande, volto ad assistere non solo un interesse di economia e concentrazione delle attività processuali, ma anche ad evitare un possibile contrasto tra decisioni”. Così si può leggere in G. Battaglia, La nuova mediazione “obbligatoria” e il processo oggettivamente e soggettivamente complesso, in Riv. Dir. Proc. 2011, pp. 140 e seg.

[17]Così F.P.LUISO, in Diritto Processuale Civile, Volume V, La Risoluzione non Giurisdizionale delle Controversie, cit. p. 20.

[18]In questo senso può intendersi il principio di “equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario” posto come uno tra gli obiettivi richiamati nella Direttiva europea 2008/52/CEE.

[19] Sulla mediazione delegata si veda R. Tiscini, in Corso di mediazione civile e commerciale, Giuffrè Editore 2012, pp. 82 e seg.

[20]Permarrebbe quindi, con questa soluzione, l’ostacolo dell’inaccessibilità da parte di terzi (in questo caso da parte del giudice) rispetto agli interessi e bisogni sottesi delle parti. Il giudice può valutare la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti, ma non potrà conoscere le reali esigenze delle parti, sottese ai diritti sostanziali fatti valere in giudizio. A tal proposito, si veda F.LUISO, in Diritto processuale civile, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, volume V, Giuffrè Editore, 2015, p. 35, il quale afferma che “Il mediatore certamente non deve essere digiuno di cognizioni giuridiche: ma è un grave errore ritenere che sia sufficiente essere un buon tecnico del diritto per poter essere un buon mediatore […] Il diritto si limita a disegnare i confini esterni del campo di gioco, ma non dà gli strumenti per vincere la partita: fuor di metafora, per metter d’accordo le parti. L’arbitro ed il giudice risolvono la controversia applicando il diritto (sostanziale); il mediatore non applica il diritto”.

[21]Così M.VACCARI Questioni controverse in tema di mediazione, in Questione Giustizia 1/2015, p. 131, riferendosi alla sentenza della Corte di Cassazione n. 830, del 18 gennaio 2006.

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