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La modificazione della domanda nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. A margine di Cass., Sez. Un., 15 ottobre 2024, n. 26727.
Di Barbara Desantis -
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la proposizione da parte dell’opposto nella comparsa di risposta di domande alternative a quella introdotta in via monitoria è ammissibile se tali domande trovano il loro fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione della originaria domanda nel ricorso diretto all’ingiunzione.
1. Con la sentenza n. 26727 del 15 ottobre 2024, resa a sezioni unite, la Corte di cassazione ha affrontato la questione di massima di particolare importanza, rimessa con ordinanza interlocutoria dalla Prima sezione civile[1], circa la possibilità che il convenuto opposto, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, proponga domande nuove, diverse da quelle avanzate nella fase monitoria, anche nel caso in cui l’opponente non abbia proposto una domanda o una eccezione riconvenzionale, limitandosi a chiedere la revoca del decreto opposto sulla base di sole eccezioni e, in particolare, se ed entro quali limiti possa considerarsi ammissibile la modificazione della domanda di adempimento contrattuale avanzata con il ricorso per decreto ingiuntivo, attraverso la proposizione di una domanda d’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento o di una domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale.
Quanto alla vicenda processuale, la questione si è posta nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo – ottenuto nel gennaio 2012, nel quale il convenuto opposto, in subordine al rigetto dell’opposizione, aveva proposto una domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale nonché, in via ulteriormente subordinata, una domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento, a modifica di una originaria domanda di adempimento contrattuale avanzata in fase monitoria.
Già la Corte d’appello, nel caso di specie, aveva ritenuto inammissibili le domande avanzate dall’opposto ex artt. 1337 e 2041 c.c., poi respinte anche nel merito, poiché non conseguenti a domande riconvenzionali dell’opponente, convenuto sostanziale, confermando la decisione del primo giudice.
Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite ha così dovuto traguardare la posizione dell’opponente che, pur non avendo ampliato il thema decidendum, si trovi a dover riorganizzare la propria opposizione intorno alle e in ragione delle diverse pretese dell’opposto.
Nell’escludere l’ammissibilità delle domande di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale e di indennizzo per ingiustificato arricchimento, la sentenza impugnata in Cassazione ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nell’ordinario giudizio di cognizione che si instaura a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo, la parte opposta, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle poste a fondamento del ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per effetto di una domanda riconvenzionale formulata dall’opponente, venga a trovarsi a sua volta nella posizione processuale di convenuto, cui non può esser negata la difesa rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione di una eventuale reconventio reconventionis[2]. Questa opzione interpretativa, anche nella giurisprudenza più recente, ha trovato giustificazione nella diversità sia strutturale che tipologica delle domande di arricchimento senza causa e di adempimento contrattuale nelle quali, in quanto azioni che riguardano diritti eterodeterminati, differiscono sia il petitum, sia la causa petendi.
Nel primo caso, infatti, l’attore non soltanto chiede un indennizzo in luogo del corrispettivo pattuito e dunque un bene giuridico diverso, ma introduce nel giudizio gli elementi costitutivi di una diversa situazione giuridica, nella quale rilevano il proprio impoverimento a vantaggio dell’altra parte e il riconoscimento dell’utilità della prestazione, che non occorre valorizzare nel rapporto contrattuale.
Su tale indirizzo l’ordinanza interlocutoria ha segnalato una rimeditazione frutto dell’impulso di una rilevante pronuncia delle Sezioni Unite, la n. 12310 del giugno 2015[3].
Nell’orizzonte della decisione del 2015, la Cassazione, richiesta circa l’ammissibilità della modifica dell’originaria domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di stipulare il contratto definitivo in domanda di accertamento dell’avvenuto trasferimento del diritto di proprietà, aveva colto l’occasione per affrontare la più ampia problematica dei limiti entro cui fosse ammessa la modifica in primo grado della domanda originaria.
La ragione dell’intervento era stata rinvenuta nell’insufficienza a livello pratico della distinzione, ribadita con intransigenza dalla giurisprudenza, sul piano teorico, tra emendatio libelli e mutatio libelli. Dopo aver affermato che tale distinzione fosse rispettata solo in apparenza, essendo diffusa “una logica del caso per caso”, Cass. 12310/2015 ha valorizzato anzitutto un collegamento testuale, rilevando che nell’art. 183 c.p.c., vigente ratione temporis, non fosse riscontrabile un esplicito divieto di domande nuove, e che, in ragione della formulazione dell’art. 189 c.p.c. per il quale il giudice invita le parti a precisare le conclusioni nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183 c.p.c., fosse possibile concludere circa l’ammissibilità della modifica delle domande e delle conclusioni formulate nell’atto introduttivo e ciò in misura sensibilmente apprezzabile, non come mere correzioni o precisazioni. Nel sistema sono state dunque individuate tre tipologie di domande: le domande nuove – implicitamente vietate, se non quando siano occasionate da una reazione specifica alle difese del convenuto, le domande precisate – ammissibili in quanto si tratta delle stesse domande introduttive meglio definite, puntualizzate, circostanziate e chiarite e, infine, le domande modificate, la cui ammissibilità diventa l’apporto della pronuncia del 2015. La distinzione più rilevante e fortunata tra quelle tracciate è stata dunque, intuitivamente, quella tra le domande nuove che si aggiungono alla domanda iniziale, che non possono trovare ingresso se non costituiscono reazioni alle difese del convenuto, e domande nuove che non si aggiungono alle domande iniziali «ma le sostituiscono» e si pongono rispetto a quelle in un rapporto di alternatività (o incompatibilità) che le rende immuni al divieto. Come per effetto di un giudizio di valore simil-paretiano, l’attore mostra «di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio»[4].
Secondo l’interpretazione estensiva si ritenuto dunque che la modificazione della domanda ammessa ai sensi dell’art. 183 c.p.c., nella formulazione allora vigente, possa investire anche uno o entrambi gli elementi identificativi sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale originariamente dedotta in giudizio, senza che le potenzialità difensive della controparte ne risultino per definizione compromesse o il tempo del processo dilatato.
Questa declinazione sistemica e funzionale del potere processuale dell’attore sulla domanda introduttiva, che ha attribuito un valore nettamente superiore al diritto sostanziale nella direzione dell’effettività della tutela giurisdizionale per evitare che questa fosse ingiustamente compressa dal formalismo, ha ricevuto una solida ampiezza di adesione da parte delle sezioni semplici, almeno nel sistema anteriore alla riforma del 2022[5].
2. Tra la recente pronuncia oggetto di queste brevi considerazioni e l’intervento del 2015 si è posta, quale decisione di passaggio di cui merita dar conto in tema di ius variandi, la sentenza delle Sezioni Unite n. 22404 del 13 settembre 2018, che ha affrontato la questione del confine tra emendatio e mutatio libelli nel rapporto tra domanda di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa.
Il quesito rivolto al giudice di legittimità riguardava allora la possibilità di ricondurre la domanda di arricchimento senza causa, proposta in via subordinata dall’attore con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c., alla nozione di domanda modificata ammissibile secondo il canone della pronuncia del 2015, nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale. La pronuncia del 2018 ha adeguato la lettura sostanzialista del rito per l’introduzione della domanda ex art. 2041 c.c., affermandone l’ammissibilità qualora tale domanda si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, in quanto domanda comunque connessa, nella specie per incompatibilità, a quella inizialmente formulata.
Per questa via, secondo le Sezioni Unite dell’ottobre scorso, la questione relativa alla domanda di arricchimento senza causa posta dall’ordinanza interlocutoria potrebbe già trovare integrale e inequivoca risposta positiva nella pronuncia del 2018, come pure l’ulteriore profilo della questione in apertura riassunta, vale a dire quello attinente alla domanda di risarcimento per responsabilità precontrattuale, che confluisce a sua volta nell’impianto sistematico e argomentativo dell’intervento del 2015.
Tuttavia, sia la decisione del 2015, sia la decisione del 2018 hanno trattato questioni sorte nell’ambito di cause instaurate con l’atto introduttivo ordinario, nel quale le domande modificate, alternative a quella originaria, venivano formulate nella prima memoria dell’art. 183, sesto comma, c.p.c., quale prosecuzione scritta della prima udienza.
3. L’apporto della pronuncia del 2024 si innesta invece sulla specificità di un diverso ambiente processuale. Il nucleo della questione interpretativa, ad avviso delle Sezioni Unite, si addensa attorno all’art. 645 c.p.c., per verificare se sia possibile equiparare il giudizio sorto dall’opposizione a decreto ingiuntivo a quello ordinario, che non ha quale premessa una vicenda monitoria.
L’evoluzione normativa, si osserva, non ha modificato la formulazione dell’art. 645 c.p.c. nella parte in cui dispone che, in seguito all’opposizione, il giudizio si svolga secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito. Tuttavia, la peculiarità genetica della fase di opposizione ha dato luogo ad alcune divergenze ricostruttive in ordine possibilità di ricondurla al genus del giudizio ordinario, preferendo talvolta declinarla secondo i canoni della forma impugnatoria. Queste deviazioni, non particolarmente seguite ma neppure scomparse, sono state da ultimo disattese dalla sentenza delle Sezioni Unite, 13 gennaio 2022, n. 927, la quale è valsa a chiarire almeno che l’opposizione prevista dall’art. 645 c.p.c. non costituisca una actio nullitatis o un’azione impugnativa nei confronti dell’emessa ingiunzione, ma un giudizio ordinario sulla domanda del creditore, che si svolge in prosecuzione del giudizio monitorio, non quale giudizio autonomo, ma come fase ulteriore – anche se eventuale – del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo, e nella quale si riespande la pienezza del contraddittorio. Questa lettura dell’istituto sembra consentire intanto di declinare l’art. 645 c.p.c. in accordo con le diverse opzioni valoriali cui risponde oggi il sistema rispetto all’epoca precostituzionale della sua introduzione (la tutela del contraddittorio, l’economia processuale, l’effettività della tutela giurisdizionale, la ragionevole durata del processo, la stabilità delle decisioni giudiziarie, la stessa intrinseca giustizia delle regole processuali)[6], tanto che una sua equiparazione col giudizio ordinario non sembra arbitraria, né fondata sull’esclusivo dato testuale.
Le Sezioni Unite valorizzano, inoltre, una linea interpretativa[7] che slega il novum dai limiti della reconventio reconventionis e riconosce all’opposto la possibilità di proporre con la comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata una domanda nuova, diversa da quella posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui l’opponente, convenuto sostanziale, non abbia proposto un domanda o un’eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto, qualora tale domanda si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, attenga allo stesso sostanziale bene della vita e sia connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta, per finalità di economia processuale e di ragionevole durata del processo, dovendosi altresì riconoscere all’opposto, quale attore in senso sostanziale, di avvalersi delle stesse facoltà di modifica della domanda riconosciute, nel giudizio ordinario, all’attore formale e sostanziale dell’art. 183 c.p.c.
Quanto emerge da questa lettura vale inoltre ad adeguare il ruolo dell’opposto a quello di attore sostanziale, quando la pretesa azionata in via monitoria evolva per la reazione oppositiva dell’ingiunto e recupera il paradigma del giudizio ordinario, ovvero il contraddittorio.
Dall’avvio monitorio del contenzioso non sembra derivare alcuna cristallizzazione delle facoltà difensive in termini di formazione del thema decidendum, come se l’opposto le avesse esaurite nella fase monitoria.
Le Sezioni Unite giungono dunque ad affermare che la complessiva interpretazione restrittiva anteriore all’intervento del 2015 non sia più sostenibile e riconoscono la legittimazione dell’opposto a proporre domande riconvenzionali in senso proprio e domande subordinate alternative a quella introduttiva, ammissibili perché correlate a quella originaria attraverso lo strumento teleologico dell’interesse.
Appare così superata l’intransigenza sull’attività processuale dell’opposto, effettivamente rinvenibile nella giurisprudenza anteriore al 2015, tesa a limitare fortemente i fenomeni evolutivi del thema decidendum, salve le reciproche pretese in via riconvenzionale. Resta da verificare la compatibilità di questo approdo interpretativo con le ragioni ispiratrici degli strumenti processuali disponibili a legislazione vigente, dei quali naturalmente le Sezioni Unite non si occupano, neppure nella prospettiva della ritualità famigliare evocata dalle espressioni impiegate dall’art. 171-ter, n. 1, c.p.c.
[1] Cass. civ., Sez. I, 17 luglio 2023, n. 20476.
[2] Cass. civ., Sez. II, 25 febbraio 2019, n. 5415.
[3] Su cui v. C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande «complanari»: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, in Corr. giur. 2015, 968 ss., nonché E. Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel giudizio di primo grado, in Riv. dir. proc., 3, 2016, 816 ss. La questione era stata già affrontata e risolta nel senso dell’inammissibilità della mutatio libelli da Cass., sez. un., 5 marzo 1996, n. 1731, in Corr. giur. 1996, 639 ss. Per un rapido raffronto con i precedenti più prossimi e alcuni primi rilievi critici, v. A. Mastantuono, Osservatorio sulla Cassazione civile, in Riv. dir. proc., 2015, §4, 1333.
[4] Così Cass. civ., Sez. Un., 15 ottobre 2024, n. 26727, §4.3.
[5] Cass. civ., Sez. Un., 13 settembre 2018, n. 22404.
[6] E. Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli, cit., 820.