La risoluzione negoziale delle liti  tra dimensione paritaria dell’azione amministrava e responsabilità erariale  

Di Silvia Izzo -

Sommario: 1. La risoluzione stragiudiziale delle controversie di cui è parte la pubblica amministrazione nel prisma dell’evoluzione dell’azione amministrativa – 2. La nuova disciplina della responsabilità erariale. 3. La disciplina dettata dal d.lgs. n. 149/2022. 4. L’ambito soggettivo di applicazione della disciplina riformata. 5. La speciale responsabilità del pubblico agente per la conclusione dell’accordo di conciliazione. La colpa grave. 5.1. Il dolo. – 6. La mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Sanzioni e conseguenti segnalazioni.  7. Conclusioni.

 1.La risoluzione stragiudiziale delle controversie di cui è parte la pubblica amministrazione nel prisma dell’evoluzione dell’azione amministrativa

L’impatto sul contenzioso civile delle liti in cui è parte la pubblica amministrazione non è affatto irrilevante[1]. Oltre all’attribuzione al giudice ordinario del contenzioso in materia di pubblico impiego e alla sempre crescente domanda relativa a prestazioni previdenziali e assistenziali, è la profonda evoluzione che ha caratterizzato l’azione amministrativa – che ha visto progressivamente valorizzata la dimensione paritaria dell’agere pubblico -, a rendere evidente l’opportunità di incentivare meccanismi di deflazione fondati sul ricorso a soluzioni stragiudiziali. L’attenzione a questi temi non è nuova e la riflessione svolta da Enrico Guicciardi che, in un noto e risalente saggio, sottolineava come la transazione costituisse «strumento efficacissimo della pace sociale» cui non poteva sottrarsi la pubblica amministrazione[2], non soltanto rimane attuale ma assume valore ancora maggiore atteso il cambio di prospettiva operato nel tempo «da un’amministrazione che, secondo il modello dello Stato di diritto liberale, doveva dare semplicemente esecuzione alla legge, adottando un singolo e puntuale atto amministrativo, a quella che è stata definita “amministrazione di risultato”, cioè un’amministrazione che deve raggiungere determinati obiettivi di policy e che risponde dei risultati economici e sociali conseguiti attraverso la sua complessiva attività»[3]. Il ricorso ai meccanismi negoziali di soluzione del conflitto si pone, dunque, armonicamente in questa complessiva evoluzione trovando un formidabile radicamento nei principi affermati dalla l. n. 241/1990. La legge sul procedimento individua quale fondamento dell’attività amministrativa oltre che il principio di legalità, i criteri di economicità ed efficacia (art. 1, c.1), richiama i canoni della «collaborazione» e della «buona fede» nei rapporti con il cittadino (art. 1, c. 2-bis), specificando che «salvo che la legge disponga diversamente», «nell’adozione di atti di natura non autoritativa» la stessa operi «secondo le norme di  diritto  privato» (art. 1, c. 1-bis)[4]. Si tratta di disposizioni di principio di notevole impatto, che, oltre a sottoporre i rapporti iure privatorum alla disciplina generale, consentono  la cura dell’interesse pubblico mediante l’innesto di moduli procedimentali tipici del diritto privato nell’attività provvedimentale della p.a. Si pensi alla disciplina degli accordi di cui all’art. 11 della legge n. 241, che fin dalla sua versione originaria ha consentito alle pp.aa. di concludere «accordi con gli interessati […]al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo», in accoglimento delle osservazioni e delle proposte presentate dai medesimi[5].

Nè il Legislatore ha mancato di regolare in specifici e numerosi contesti le procedure di ADR utilizzabili. Basti in questa sede ricordare che il nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36) articola il Libro V – relativo al contenzioso – in due titoli rispettivamente dedicati ai «ricorsi giurisdizionali» e  ai «Rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale»[6]. Le disposizioni di quest’ultimo regolano, in sostanziale continuità con la precedente codificazione (dlgs. 18 aprile 2016, n. 50), gli istituti dell’accordo bonario, della transazione, dell’arbitrato, del collegio consultivo tecnico e dei pareri di pre-contenzioso dell’Anac.

Pur a fronte di un contenzioso non particolarmente elevato, è significativa la previsione espressa di rimedi alternativi al giudizio, in un testo normativo,  che nell’enunciare i principi generali che ispirano l’azione amministrativa nella materia colloca, rispettivamente agli artt. 1 e 2, il «principio del risultato» e quello correlato della «fiducia»[7], rimarcando ancora una volta la dinamicità che deve caratterizzare l’agere pubblico.

Va poi rilevato che i meccanismi di risoluzione negoziale di nuovo conio – id est la mediazione finalizzata alla risoluzione delle liti in materia civile e commerciale introdotta con il d.lgs. n. 28/2010 e la negoziazione assistita da avvocati di cui al d.l. n. 132/2014, convertito con modificazione in l. n. 162/2014 – sono costruiti come meccanismi a vocazione generale, destinati ad operare senza particolari specialità anche nel campo dei rapporti tra privati e p.a. in materia di diritti disponibili per atti di natura non autoritativa. Con riferimento alla mediazione la giurisprudenza ha evidenziato come «la lettera e la sostanza» della relativa normativa vadano «nella direzione del raggiungimento di accordi conciliativi, senza alcuna eccezione soggettiva. Le pp.aa., pertanto, hanno, in subiecta materia, gli stessi oneri ed obblighi di qualsiasi altro soggetto»[8]. Quanto alla negoziazione, a fugare ogni dubbio, sta l’art. 1-bis della l. n. 162/2014 che  fa obbligo alle p.a. «di affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente».

Accanto a tale dato generale va poi considerato che il momento attuale accresce l’esigenza di  riqualificazione e ottimizzazione delle modalità di esercizio dei pubblici poteri al fine di affrontare le sfide gestionali imposte dal nuovo contesto macroeconomico e dalla gestione dei fondi PNRR. In questo quadro, la conclusione di soluzioni negoziate della lite, da un lato rappresenta «un formidabile strumento di contenimento della spesa pubblica»[9], dall’altro una più responsabile e rapida risposta all’istanza di tutela del cittadino.

Va , tuttavia, rilevato che l’imposizione di filtri all’azione giudiziaria ha dato nel tempo risultati del tutto insoddisfacenti rispetto alle aspettative, a riprova di quanto costantemente emerge della letteratura scientifica che documenta come i meccanismi alternativi di definizione del conflitto funzionino soltanto a fronte di sistemi giudiziari efficienti[10]. Purtuttavia, dai dati raccolti dalla Direzione statistica del Ministero della giustizia, emerge un numero abbastanza significativo e costantemente crescente di accordi conclusi in mediazione nel caso in cui le parti partecipino effettivamente al primo incontro e proseguano nel procedimento, come pure emerge che ancora altissimo è il numero delle mancate adesioni.  Non sorprende, dunque, che l’attenzione costante al recupero di efficienza del sistema giudiziario – divenuta ancora maggiore nel contesto degli interventi del programma Next Generation EU abbia coinvolto espressamente anche il contenzioso di cui è parte la pubblica amministrazione, al fine di rendere più agevole il ricorso alle ADR e, dunque, di alleggerire anche per questa via i ruoli sovraccarichi della giustizia civile[11].

La c.d. Riforma Cartabia ha proseguito nella politica legislativa inaugurata a partire dal 2010 e volta a potenziare i meccanismi ADR[12], sempre più riconosciuti come valido strumento sia per ridurre i ruoli sovraccarichi della giustizia civile, sia e soprattutto quali sedi di tutela da un lato più appropriate rispetto a quella giudiziaria per molte situazioni di conflitto, dall’alto capaci di offrire soluzioni stabili in tempi decisamente più concentrati rispetto a quelli propri del processo[13].

Sulla base di tali evidenze, pertanto, il legislatore della Riforma, dapprima con la legge delega, poi con il d.lgs. n. 149/22, oltre a praticare la consueta via dell’ampliamento del novero delle ipotesi di obbligatorietà del ricorso alle ADR[14], ha introdotto nuovi incentivi volti a favorirne l’utilizzo[15] e, per quanto qui specificamente attiene, ha tentato di eliminare i principali ostacoli all’adesione delle amministrazioni pubbliche alle procedure di conciliazione e mediazione.

2. La nuova disciplina della responsabilità erariale.

La complessiva evoluzione del sistema verso soluzioni negoziate e consensuali non è comunque finora riuscita a vincere l’atteggiamento di decisa cautela adottato dalle p.a. rispetto all’adesione a soluzioni conciliative e ben spesso finanche alla partecipazione ai relativi procedimenti.

Ciò, ad avviso di chi scrive, in primo luogo perché in quest’ambito emerge più che in altri la circostanza di non poco momento che anche là dove operi iure privatorum, la p.a. debba improntare la propria condotta ai principi costituzionali che ne regolano l’azione, cosicché risulta necessario coniugare –  con attenta capacità di bilanciamento – gli interessi sottesi a precetti che sembrano condurre a orizzonti di tutela, sia pur non incompatibili, senz’altro molto diversi tra di loro. Il riferimento è da un lato al principio di stretta legalità cui è chiamata ad attenersi l’Amministrazione apparentemente messo in in crisi dal raggiungimento di soluzioni equitative in cui non sia pienamente riconosciuto il bene in astratto ad essa spettante -, dall’altro a quello di buon andamento, che l’esito positivo di una soluzione conciliativa ben può garantire, rendendo più efficiente l’agire dell’Ente in termini di costi e tempi della risoluzione del contenzioso, ma che lascia sullo sfondo la responsabilità per danno erariale ex art. 28 Cost. [16]. Nella giurisprudenza contabile, in realtà, non si riscontra un atteggiamento di aprioristico disfavore rispetto a soluzioni negoziali del contenzioso di cui è parte la pubblica amministrazione, non mancando decisioni che hanno giudicato opportuna e non “sanzionabile” la scelta di addivenire a una rapida composizione della controversia in sede stragiudiziale, purtuttavia è innegabile che il principale fattore che ha impedito il radicarsi di politiche deflattive del contenzioso è rinvenuto nel timore di essere chiamati a rispondere innanzi alla Corte dei conti in seguito alla sottoscrizione di accordi considerati ex post non favorevoli per le casse o più in generale per gli interessi dell’Ente rappresentato.

La stessa Corte costituzionale ha registrato come la c.d. «paura della firma» possa provocare una vera e propria stasi nello svolgimento dell’attività amministrativa, sottolineando l’opportunità di scoraggiare e di reprimere condotte che, ispirate dal timore della responsabilità, espongano l’Amministrazione a rallentamenti e inerzie nello svolgimento delle pubbliche funzioni («burocrazia difensiva»)[17].

In questo contesto si inscrive l’evoluzione che ha investito l’istituto della responsabilità erariale del pubblico dipendente – accelerata dal dilagare dell’emergenza sanitaria e dalla crisi economica.

Il cd. decreto semplificazioni (d.l. 16 luglio 2020, n. 76 convertito in l. 11 settembre 2020, n. 120) ha dettagliato il principio generale espresso dall’art. 1 della l. 14 gennaio 1994, n. 20 – secondo il quale la responsabilità dei dipendenti pubblici soggetti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica ricorre in relazione a fatti ed omissioni commessi con dolo o colpa grave – con due rilevanti specificazioni. La disciplina novellata, in primo luogo, prevede che ai fini della prova del dolo occorra dimostrare la volontarietà in capo all’agente dell’evento dannoso, ed in secondo luogo – con disposizioni temporanee via via prorogata, – limita la responsabilità fino al 31 dicembre 2024 a quella dolosa, escludendo, dunque, i contegni caratterizzati da colpa grave, fatte salve le ipotesi in cui il danno sia stato cagionato da omissione o inerzia[18]. Tralasciando le ragionevoli perplessità che la normativa temporanea ha suscitato tra gli operatori[19], l’alleggerimento complessivo dei titoli di responsabilità e la tendenza a rendere il dolo erariale sempre più simile a quello penalistico, rispondono all’esigenza chiaramente segnalata dalla Corte costituzionale, di rendere l’istituto sempre più un pungolo, funzionale a garantire un’azione amministrativa efficiente ed efficace e non già un elemento di appesantimento o finanche di paralisi della stessa. In più occasioni, come anticipato, la Consulta ha ritenuto che una ragionevole disciplina della responsabilità erariale sia essenziale per garantire le finalità dell’art. 97 della Costituzione, in quanto il buon andamento e l’imparzialità della P.A. possono realizzarsi anche disincentivando comportamenti di inerzia e deresponsabilizzazione dei funzionari pubblici e garantendo un’equa ripartizione del rischio fra la P.A. ed i suoi funzionari[20]. Da ultimo, il Giudice delle leggi, ha ribadito il profondo legame che sussiste tra complessità dell’azione amministrativa e disciplina della responsabilità del pubblico agente, sottolineando come anche il «riassetto» di quest’ultima si inserisca in quadro evolutivo con cui il Legislatore ha inteso «promuovere un’amministrazione sempre meno relegata all’esecuzione del già deciso con la legge, ma orientata […] al risultato, e perciò sempre più ampiamente investita del compito di scegliere, nell’ambito della cornice legislativa, i mezzi di azione ritenuti più appropriati, di ponderare i molteplici interessi pubblici e privati coinvolti dalla decisione amministrativa, di legare insieme in un disegno unitario differenti atti e provvedimenti, e di assicurare l’efficienza, operando in un orizzonte temporale ben preciso […]. L’ampia discrezionalità, peraltro esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, è una componente essenziale e caratterizzante tale tipo di amministrazione. La necessità di scegliere, entro un termine predeterminato, sovente tra un ventaglio ampio di possibilità e in un ambito non più integralmente tracciato dalla legge, accresce inevitabilmente la possibilità di errori da parte dell’agente pubblico, ingenerando il rischio della sua inazione».  Con chiarezza, dunque, la Corte specifica che «Il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i profondi mutamenti del contesto in cui essa opera giustificano la ricerca legislativa di nuovi punti di equilibrio che riducano la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione»[21].

Ad avviso di chi scrive, altro elemento che ha fondato l’atteggiamento di diffusa ritrosia dei pubblici funzionari ad optare per soluzioni negoziate del contenzioso è riscontrabile nell’assenza di previsioni specifiche nella legislazione di settore – e in particolare in quella a portata generale della mediazione e della negoziazione assistita – dirette a disciplinare le modalità di applicazione degli istituti conciliativi ai soggetti pubblici[22]. Tanto nonostante ci si trovi, come già evidenziato supra, innanzi ad istituti a vocazione generale, come rimarcato fin da subito la stessa Amministrazione, con la circolare n. 9/12 del Dipartimento della funzione pubblica che ha dettato opportune “Linee guida in materia di mediazione nelle controversie civili e commerciali[23]. La circolare, nel solco dell’introduzione dell’ordinamento dell’istituto ad opera del d.lgs. n. 28/2010, ha specificato che anche sulla p.a. gravi l’obbligo di esperire preliminarmente il procedimento di mediazione nelle ipotesi in cui lo stesso sia previsto come condizione di procedibilità della domanda, come pure di partecipare al procedimento al quale sia stata invitata[24]. La stessa circolare non manca di sottolineare l’opportunità di avvalersi delle funzioni consultive dell’Avvocatura dello Stato nella valutazione dell’opportunità della conclusione dell’accordo conciliativo o dell’adesione alla proposta formulata dal mediatore[25]. Discorso analogo può essere condotto per la negoziazione assistita per la quale, tuttavia,  permane, ancor oggi, un pressoché assoluto silenzio normativo accompagnato dal completo disinteresse delle parti sia private sia pubbliche[26]. La scarsa considerazione anche da parte dell’ultimo intervento di riforma in materia di ADR conferma l’atteggiamento generale rispetto alle potenzialità dell’istituto che ne ha caratterizzato le sorti fin dall’introduzione. Pur trattandosi di un meccanismo che ha dato ottima prova di sé nella delicata materia della crisi familiare, nelle controversie relative a diritti a disponibili non ha mai visto un serio investimento legislativo vuoi attraverso la concessione di benefici indiretti, ancor oggi esigui, vuoi equiparandolo ai fini della procedibilità della domanda a numerosi altri strumenti ADR. Il ricorso alla negoziazione, al contrario, avrebbe meritato di essere maggiormente incentivato anche in considerazione della possibilità di adoperarlo nelle controversie di lavoro, tornate nel suo ambito di applicazione ad opera del d.lgs. n. 149/2022, con l’introduzione dell’art. 2-ter[27], trattandosi di meccanismo senz’altro più snello rispetto alla congerie di strumenti conciliativi propri delle controversie del lavoro[28].

3. La disciplina dettata dal d.lgs. n. 149/2022.

Sia pur solamente in parte, dell’assenza di disposizioni specifiche applicabili alle pubbliche amministrazioni e di limitare il timor di giudizi contabili per responsabilità erariale si è fatto carico il legislatore la c.d. Riforma Cartabia per quanto attiene alla mediazione e alla conciliazione giudiziale.

La Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, presieduta dal prof. F.P. Luiso[29], i cui lavori hanno costituito in larga parte il modello cui si è attenuto il Legislatore della delega, nella propria relazione conclusiva già rilevava come gli enti pubblici tendessero a disertare le procedure di conciliazione anche nei casi di mediazione obbligatoria per legge o disposta iussu iudicis. La Relazione sottolineava come il dichiarato «timore del funzionario di incorrere in una responsabilità erariale della quale, nella maggior parte dei casi, non vengono identificati gli esatti contorni e le causali», sia in realtà del tutto ingiustificato, attese le modifiche legislative che hanno decisamente circoscritto l’area dei pregiudizi risarcibili subiti dall’Amministrazione in ragione di condotte illecite dei propri funzionari. Si osservava incisivamente che «se la legge impone degli obblighi a tutti i soggetti giuridici, senza alcuna eccezione per gli enti pubblici, obblighi nella specie consistenti nella seria e cooperativa partecipazione alla mediazione, allora non è certo il loro assolvimento, ma, al limite, la loro evasione, a poter astrattamente generare, in capo all’autore della scelta, una responsabilità di natura erariale»[30].

Tali considerazioni sono confluite nell’art. 1, c. 1 lett. g) della legge n. 206/2021 che delegava il Governo a «prevedere per i rappresentanti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che la conciliazione nel procedimento di mediazione ovvero in sede giudiziale non dà luogo a responsabilità contabile, salvo il caso in cui sussista dolo o colpa grave, consistente nella negligenza inescusabile derivante dalla grave violazione della legge o dal travisamento dei fatti». Il principio direttivo si è tradotto, con il d.lgs. n. 149/2022, nella modifica tanto del d.lgs n. 28/2010, disciplinante la mediazione, quanto della l. n. 20/1994 che reca «Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti»[31]. Tali interventi, ispirati dalla medesima ratio, alleggeriscono nel primo caso la responsabilità amministrativa del funzionario che vi addivenga e – specularmente – la aggravano nel caso inverso.

Più specificamente, il d.lgs. n. 149/2022 ha novellato l’art. 1 della legge n. 20/1994 inserendovi il comma 1.1. che stabilisce che: «In caso di conclusione di un accordo di conciliazione nel procedimento di mediazione o in sede giudiziale da parte dei rappresentanti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, la responsabilità contabile è limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, consistente nella negligenza inescusabile derivante dalla grave violazione della legge o dal travisamento dei fatti».

Inoltre, e coerentemente, è stato introdotto nel corpo del d.lgs. n. 28/2010 l’art. 11-bis, in forza del quale «ai rappresentanti delle amministrazioni pubbliche, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che sottoscrivono un accordo di conciliazione si applica l’articolo 1, comma [0.]1 bis della legge 14 gennaio 1994, n. 20»[32]. Tale modifica specifica come anche nel giudizio di responsabilità conseguente alla conclusione dell’accordo conciliativo si debbano considerare i «vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione […] in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti  al  giudizio  di responsabilità».

Il successivo art. 12-bis, come si vedrà amplius infra, “sanziona”, infine, l’atteggiamento di ingiustificata partecipazione alle procedure obbligatorie, prevedendo tra l’altro che il giudice segnali la circostanza alla procura erariale.

4. L’ambito soggettivo di applicazione della disciplina riformata.

Occorre in primo luogo concentrarsi sul novero dei soggetti sottoposti alla normativa riformata, la quale opera un rinvio espresso all’art. 1, comma 2, del T.U. sul pubblico impiego (i.e. d.lgs. n. 30 marzo 2001, n. 165 ) e dunque include i «rappresentanti» di tutte le amministrazioni ivi richiamate, tra le quali, oltre a quelle dello Stato e degli enti pubblici territoriali e non economici nazionali regionali e locali, rientrano altresì le Università, gli enti del Servizio sanitario nazionale, le camere di commercio[33].

La tecnica normativa utilizzata non esclude, come già avvenuto in giurisprudenza ad altri fini, di applicare le disposizioni in commento a soggetti non ricompresi nell’elenco fornito dal T.U. ma comunque rientranti in quella nozione «dinamica, funzionale e cangiante» di pubblica amministrazione che sempre più emerge dalla giurisprudenza amministrativa. Nel corso degli ultimi anni, infatti, la nozione di ente pubblico si è progressivamente «frantumata» con il conseguente riconoscimento della natura pubblicistica di «figure soggettive ibride» – si pensi agli organismi di diritto pubblico o alle società in house – , al fine di sottoporle in tutto o in parte ad un regime di diritto pubblico[34]. «Secondo tale impostazione la nozione “funzionale” […], che ormai predomina nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, […]» fa sì che «il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a sé stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa». Ad avviso della giurisprudenza amministrativa, «occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica»[35].

Se così si ragiona, dunque, nulla osta a ritenere applicabili tanto le disposizioni sulla mancata partecipazione al procedimento di mediazione, quanto quelle relative all’adesione agli accordi conciliativi a tali soggetti «cangianti», i quali al pari delle amministrazioni pubbliche “classiche” – e anzi con maggiore frequenza visti i moduli privatistici utilizzati e i settori di attività in cui operano – possono risultare coinvolti in controversie risolvibili addivenendo ad una soluzione negoziata[36].

Quanto finora osservato è, ovviamente, limitato alle ipotesi in cui le p.a. rientranti nella nozione «cangiante» siano altresì sottoposte alla giurisdizione della Corte dei Conti delineata dall’art. 1 della l. n. 20/1994 sulla quale la riforma Cartabia incide.

La precisazione risulta tutt’altro che superflua atteso che l’art. 11-bis del d.lgs. n. 28/2010, come modificato da ultimo, riferisce atecnicamente di «responsabilità contabile». Tenuto conto che quest’ultima forma comprende esclusivamente la particolare specie di responsabilità amministrativa dei c.d. agenti contabili, soggetti al giudizio di conto[37], è evidente che l’ambito di applicazione delle disposizioni qui in commento vada invece individuato proprio con riferimento alle modifiche apportate alla l. n. 20, che all’art. 1, disciplina la ben più ampia responsabilità erariale.

Sempre con riferimento all’ambito soggettivo di applicazione della disciplina riformata, occorre, infine, individuare la nozione di «rappresentante delle amministrazioni pubbliche», rilevante con riferimento sia alla conclusione dell’accordo sia alla determinazione e alle motivazioni della mancata partecipazione.

La menzionata Circolare ministeriale del 2012 richiama, con riferimento a quelle statali, l’art. 16, c. 1, lett. f, del TU sul pubblico impiego, e, dunque, i soggetti che «promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e di transigere […]». Nel caso di specie, la stessa menziona i «dirigenti dell’ufficio dirigenziale generale competente sulla materia oggetto della controversia»[38]. Il riferimento ai poteri di rappresentanza in giudizio, di conciliazione e transazione risulta sicuramente utile per individuare – anche per amministrazioni diverse da quelle statali – “il rappresentante” al quale trovano applicazione le disposizioni riformate. Ove manchi un’indicazione legislativa, dunque, si potrà far richiamo alle specifiche previsioni del regolamento interno dell’ente.

Per quanto riguarda in particolare gli enti locali, la giurisprudenza contabile, riconduce di regola la materia delle transazioni e delle conciliazioni alla competenza dirigenziale[39], ma la medesima può rientrare nell’ambito di attribuzione delle Giunte o dei Consigli qualora l’atto negoziale involga atti di disposizione che implicano valutazioni esulanti dalla mera gestione[40].

In ogni caso, e sempre nell’ottica di agevolare quanto più possibile la scelta di moduli di soluzione della lite alternativi al processo, può essere interessante richiamare la giurisprudenza che ritiene applicabile all’attività di natura privatistica della P.A. la disciplina generale dettata dal codice civile in materia di rappresentanza senza potere, così contemplando anche per le amministrazioni pubbliche la figura del falsus procurator[41]. Pertanto, l’accordo conciliativo concluso in carenza di potere rappresentativo può essere successivamente ratificato dall’Organo rappresentato, senza che la ratifica debba «necessariamente risultare da un atto che manifesti espressamente la volontà del dominus, potendo questa utilmente desumersi anche implicitamente da altro atto che esprima in modo inequivoco una volontà incompatibile con quella di rifiutare l’operato del rappresentante senza potere»[42].

5. La speciale responsabilità del pubblico agente per la conclusione dell’accordo di conciliazione. La colpa grave.

Con le modifiche apportate in materia di conciliazione giudiziale e mediazione alla l. n. 20/1994, la c.d. Riforma Cartabia si è spinta finanche oltre a quanto già previsto per la conciliazione delle controversie di lavoro di cui sia parte un’amministrazione. L’art. 410, ult. comma, come introdotto dalla l. n. 183/2010, stabilisce difatti che «La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai sensi dell’articolo 420, commi primo, secondo e terzo, non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave». Il d.lgs. n. 149/2022,  per le ipotesi «di conclusione di un accordo di conciliazione nel procedimento di mediazione o in sede giudiziale», da un lato allinea le due discipline con riferimento titolo soggettivo di imputazione della responsabilità erariale al pubblico agente, limitato «ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave […]», dall’altro tipizza le condotte che integrano quest’ultima, specificando che essa consista «nella negligenza inescusabile derivante dalla grave violazione della legge o dal travisamento dei fatti» (art. 1, c. 1.1., l. n. 20/1994).

Va, innanzitutto, premesso che con riferimento alla conciliazione giudiziale l’ipotesi appare poco più che scolastica. La fattispecie normativa è infatti riferita alle ipotesi in cui l’Amministrazione addivenga alla soluzione conciliativa in ragione del tentativo condotto dal giudice civile ai sensi dell’art. 185 c.p.c., anche a seguito della proposta transattiva o conciliativa che il medesimo può formulare «avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto», ai sensi del successivo art. 185-bis. È palese che in tali circostanze l’emersione di una responsabilità dolosa o per colpa grave dell’Amministrazione risulti praticamente impossibile, atteso l’intervento attivo del giudice nel raggiungimento dell’accordo.

La vera novità introdotta rispetto a quanto già previsto sia a titolo generale, sia per la conciliazione del lavoro, come detto, consiste invece e senz’altro, nella previsione di una species di «colpa grave» più ristretta rispetto al genus individuato dall’art. 1 della l. n. 20/1994. La disciplina di nuovo conio individua, infatti, le condotte ascrivibili a tale titolo di responsabilità «nella negligenza inescusabile derivante dalla grave violazione della legge» e «nel travisamento dei fatti». Si è al cospetto, pertanto, di una disposizione eccezionale come tale di stretta interpretazione, con la conseguenza che sarà la regola generale prevista dall’art. 1, c. 1 della legge n. 20/1994 a trovare applicazione alle condotte che hanno determinato o comunque costituiscono il presupposto del contenzioso poi risolto attraverso l’accordo conciliativo, risultando sussumibili nella nuova species soltanto quelle tenute al momento di conclusione di quest’ultimo[43]. Si tratta di un vero e proprio statuto speciale della responsabilità erariale riferita alla conclusione di accordi conciliativi raggiunti in sede giudiziaria ovvero nel corso di un procedimento di mediazione, eclettico rispetto al titolo di imputazione generale vigente per gli altri ambiti di azione del pubblico agente[44]. Secondo dottrina e giurisprudenza, la colpa grave “classica” «si estrinseca in una marcata violazione degli obblighi di servizio o delle regole di condotta, concretizzandosi nell’inosservanza, alla stregua delle peculiarità del caso concreto, di un livello minimo di diligenza ovvero in una palese imperizia e/o superficialità»[45]. La giurisprudenza costante della Corte dei conti ha chiarito che essa «consiste nella macroscopica e inescusabile negligenza ed imprudenza nell’espletamento delle mansioni e/o nell’adempimento dei propri doveri istituzionali, cioè in un atteggiamento di estrema superficialità e trascuratezza o scriteriato nella cura dei beni e interessi pubblici, ovvero in un comportamento caratterizzato da un grado di diligenza, prudenza, perizia, razionalità e correttezza decisamente inferiore allo standard minimo professionale e tale da rendere prevedibile o probabile il concreto verificarsi di un evento dannoso»[46]. Nel valutare la ricorrenza di comportamento di tal sorta, occorre dunque la dimostrazione di un quid pluris rispetto quanto caratterizza la colpa semplice, tale da evidenziare l’abnormità della violazione, rendendo la condotta riconoscibile ex ante come gravemente colposa ictu oculi dalla categoria cui appartiene il soggetto agente[47].

Riportando l’orientamento tradizionale alla nuova tipizzazione delle condotte può rilevarsi come la «grave violazione di legge» presa in considerazione dal comma 1.1 va esclusa in presenza di una «mera violazione di legge», specie a fronte di incertezze interpretative[48] e, più ancora, nel caso l’accordo sia stato preceduto dall’acquisizione di un parere tecnico dell’Avvocatura dello Stato o di altro ufficio competente. Non a caso, le Linee guida ministeriali in materia di mediazione del 2012, sottolineano l’opportunità di attivare le funzioni consultive degli organi competenti al fine di valutare l’opportunità e la legittimità della conclusione degli accordi negoziali, in conformità alla giurisprudenza contabile che esclude costantemente la configurabilità della colpa grave in tali ipotesi[49]. Inoltre, rimane attuale l’insegnamento giurisprudenziale che considera figura sintomatica in materia di transazioni concluse dalla p.a., la sussistenza di accordi astrattamente nulli o annullabili, sia pur non dichiarati tali in sede giudiziaria[50].

Infine, può contribuire alla definizione anche il riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 2 della legge n.117 del 1988 in materia di responsabilità civile dei magistrati che include, tra le quattro specifiche ipotesi di colpa grave, «la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile»[51]. La pur esigua giurisprudenza sul punto è concorde nel ritenere integrata la fattispecie a fronte di «una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma, ovvero di una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico, o dell’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o della manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o infine dello sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero»[52]. È evidente che l’equiparazione con la responsabilità del magistrato non può spingersi oltre, e in particolare non può condurre ad utilizzare – neppure come parametro di giudizio della condotta del pubblico agente – l’esimente prevista dall’art. 2, c.1. n. 2, della medesima legge n. 117/88, con la quale si esclude che possa dar luogo a responsabilità del magistrato l’attività di interpretazione di norme di diritto ovvero quella di valutazione del fatto e delle prove. tale conclusione riposa non soltanto sull’eccezionalità delle disposizioni che prevedono esimenti, ma anche sulle caratteristiche proprie della stessa, la quale trova fondamento esclusivo nelle funzioni costituzionalmente attribuite alla magistratura, senza poter essere estesa ad altri poteri dello Stato.

Per quanto attiene alla condotta gravemente colposa per «travisamento dei fatti» può considerarsi l’ipotesi in cui l’accordo risolutivo della lite sia stato concluso dall’Amministrazione senza la necessaria analisi dei presupposti e delle circostanze fattuali prodromiche alla soluzione negoziata. Rientrano nella fattispecie, per esempio, i casi in cui si giunga ad essa senza una compiuta ricognizione delle obbligazioni o delle responsabilità dell’amministrazione oggetto di contenzioso[53].

Pare interessante sottolineare che la fattispecie in esame secondo la giurisprudenza amministrativa costituisce l’unica in cui il giudice  amministrativo può spingersi a sindacare le valutazioni – discrezionali o di merito –  dell’Amministrazione in quanto «il convincimento» della stessa «non risulta formato sulla base di un processo logico e coerente» bensì sul «travisamento dei fatti» che hanno condotto alla determinazione e, dunque, nel caso in esame nella conclusione dell’accordo conciliativo[54].

Occorre evidenziare che tale specialissima disciplina dell’imputazione di responsabilità a titolo di colpa non trova applicazione agli accordi conclusi dalla p.a. in seguito ad una procedura di negoziazione assistita. Là dove gli stessi riguardino le controversie in materia di lavoro, i pubblici amministratori potranno comunque giovare del regime generale di cui all’art. 420, ult. c. c.p.c., atteso che la formulazione dell’art. 2-ter spinge a considerare la procedura del tutto equipollente quanto a effetti a quelle disciplinate dal codice di rito (e non dalla contrattazione collettiva), salvo ai fini dell’assolvimento della condizione di procedibilità.

 

5.1. Il dolo.

A differenza di quanto avviene per la colpa grave, né l’art. 11-bis del d.lgs. n. 28/2010 né il novellato comma 1.1. dell’art. 1 della l. n. 20/94  apportano specificazioni al concetto di dolo fonte di responsabilità erariale nel caso di conclusione dell’accordo conciliativo, sicché soccorre in pieno l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale già formatasi su tale titolo di responsabilità, riletta alla luce delle modifiche operate con richiamato art. 21 del c.d. decreto semplificazioni. In ragione delle stesse, la prova del dolo del pubblico agente richiede la dimostrazione da parte della procura contabile «della volontà dell’evento dannoso». La previsione si è resa necessaria al fine di superare l’orientamento interpretativo prevalente nella giurisprudenza della Corte dei conti, che – pur accantonata la nozione «contrattuale»[55] – nel tempo ne ha accolto una più ampia rispetto a quella penalistica, ritenendo sufficiente ad integralo la sola consapevolezza dell’inadempimento e della violazione dei doveri di servizio, anche in assenza di volontà di cagionare l’evento lesivo. Si tratta, a bene vedere, di una nozione eclettica di dolo, c.d. erariale, differente sia da quello civilistico, sia da quello propriamente penalistico.

La novella del 2021 ha imposto, al contrario, una configurazione dell’elemento soggettivo che risulta sostanzialmente corrispondente alla nozione di dolo diretto che emerge dall’art. 43 del Codice penale e che esclude, dunque, la ricorrenza della figura ogniqualvolta il pubblico agente pur avendo scientemente intrapreso un comportamento contra legem non abbia avuto la diretta e consapevole intenzione di nuocere alla finanza pubblica[56]. Pertanto, sul pubblico ministero contabile grava normativamente l’onere di provare non soltanto la volontarietà dell’azione o dell’omissione del dipendente pubblico, ma anche quella dell’evento, ovvero la dimostrazione di una condotta finalisticamente orientata alla produzione dello specifico evento dannoso.

Neppure assume carattere di specialità rispetto alla disciplina generale, per assumere più che altro un valore simbolico, il riferimento all’art. 1-bis della l. n. 20/1994 operato dall’art. 11-bis del d.lgs. n. 28/2010 riformato, secondo il quale «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione,  deve  tenersi  conto  dei  vantaggi  comunque  conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra  amministrazione,  o dalla comunità amministrata  in  relazione  al  comportamento  degli amministratori o dei dipendenti  pubblici  soggetti  al  giudizio  di responsabilità». Si tratta, infatti, di criterio generale già applicato dalla magistratura contabile alle transazioni raggiunte dalla pubblica amministrazione.

In sede di interpretazione della disposizione nel tempo si è adottata una nozione di «vantaggio» non limitata all’aspetto economico-patrimoniale[57] bensì più ampia, capace di includere il raggiungimento di «fini meritevoli di considerazione», come pure, e all’opposto, quello di evitare «una traumatica interruzione dell’erogazione di un servizio pubblico»[58] o di rimediare al danno di immagine conseguente ai tempi e all’esposizione mediatica connessa alla definizione giudiziale della lite[59]. Tale linea ermeneutica risulta coerente, peraltro, con la posizione assunta dalla Corte dei conti in sede consultiva, là dove si è più volte sottolineato come «la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza del giudizio», costituisca soltanto uno tra gli indici rilevanti in termini di opportunità e vantaggi di addivenire ad accordi conciliativi o transattivi[60].

Nel complesso, dunque, le limitazioni operate alla responsabilità in questo peculiare settore dell’agire amministrativo precluderanno al giudice contabile di valutare le scelte discrezionali che abbiano indotto il pubblico funzionario a conciliare la controversia, a condizione che agli abbia agito nel rispetto dei criteri di adeguatezza e di proporzionalità, nonché di logicità e razionalità che devono sempre caratterizzare l’agire della pubblica amministrazione nonché nel rispetto dell’iter amministrativo previsto e degli obblighi di motivazione del provvedimento che autorizza l’accordo[61].

 

6.La mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Sanzioni e conseguenti segnalazioni.

Come anticipato, all’alleggerimento della responsabilità del pubblico agente in relazione alla conclusione dell’accordo conciliativo corrisponde un inasprimento della valutazione del contegno di mancata partecipazione della pubblica amministrazione al procedimento di mediazione.

Il novellato art. 12-bis rafforza, infatti, le reazioni ordinamentali a fronte del comportamento non collaborativo rispetto a tale ADR[62]. Il secondo comma della disposizione, in particolare, stabilisce che quando la mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda o del giudizio, e, dunque, rispettivamente nelle ipotesi di obbligatorietà ex lege e iussu iudicis, il giudice debba condannare la parte costituita che non ha partecipato al primo incontro senza giustificato motivo al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio. Si tratta di una conseguenza automatica rispetto ad un contegno oggettivo[63], che prescinde tanto dalla richiesta della controparte quanto dalla valutazione discrezionale cui il giudice, al contrario, è tenuto nel caso della speciale condanna alle spese contemplata dal terzo comma della disciplina riformata[64].

Di forte impatto a tal proposito è la conseguenza che il quarto comma dell’art. 12-bis collega al provvedimento di condanna dell’Amministrazione del quale il giudice è tenuto a trasmettere copia integrale tanto «al pubblico ministero presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti» quanto all’autorità competente in caso di amministrazioni sottoposte a vigilanza. La riforma positivizza e rende obbligatorio un contegno già adottato in molti casi nelle aule giudiziarie a fronte di condanne per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. collegate alla mancata partecipazione della P.A. in mediazione. Tuttavia, la nuova disciplina assume un valore simbolico e giuridico di notevole rilievo là dove mostra di considerare tout court l’ingiustificata partecipazione alla procedura di mediazione obbligatoria come potenziale fonte di danno erariale ovvero di responsabilità sottraendo la trasmissione della notizia alla valutazione discrezionale del magistrato. La scelta legislativa si pone in piena coerenza con la giurisprudenza contabile che costantemente ritiene che «l’atteggiamento di grave disinteresse nell’espletamento delle proprie funzioni, di negligenza massima» coniugato «alla prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento» anche omissivo, costituiscano ipotesi di responsabilità erariale per colpa grave in quanto determinano una «deviazione del modello di condotta doveroso per il pubblico agente»[65].

La previsione può essere intesa, ad avviso di chi scrive, quale equipollente dell’obbligo di denuncia alla Corte dei Conti, previsto per gli organi della Pubblica Amministrazione in relazione a fatti dannosi per l’Erario posti in essere dai dipendenti pubblici, o da soggetti, persone fisiche o giuridiche, comunque assoggettati alla giurisdizione contabile[66]. Si tratta di una innovazione importante atteso che finora soltanto l’art. 129 disp. att. c.p.p. prevedeva un obbligo similare i magistrati[67], in particolare imponendo al P.M. che eserciti l’azione penale per un fatto che ha cagionato un danno erariale, di dare notizia dell’imputazione elevata alla Procura contabile (c. 3)[68]. La trasmissione integrale del provvedimento adottato dal giudice nei confronti della P.A. non collaborativa, infatti, ha in sé quella specificità che l’art. 20 del T.U. sull’impiego pubblico impone per le segnalazioni alla procura contabile, senza perciò che il magistrato ordinario sia tenuto a provvedere ad altro adempimento che non sia – per l’appunto – quello della mera trasmissione[69]. Va, in particolare, escluso che il giudice debba evidenziare i profili di illegittimità o di mala gestio originati dalla condotta del pubblico agente o spingersi ad ipotizzare né tantomeno a quantificare il danno erariale, trattandosi di elementi che lo stesso valuterà, se del caso, in piena autonomia ai soli fini del giudizio di condanna per responsabilità aggravata.

Infine, come poco sopra accennato, il terzo comma dell’art. 12-bis prevede che nelle ipotesi di mediazione obbligatoria, il giudice, stavolta su istanza di parte, possa condannare il soccombente che non abbia partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte vittoriosa di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione. Si è qui al cospetto di una sanzione pecuniaria – forgiata sul modello di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. -, intesa a punire condotte ostruzionistiche e non collaborative della parte chiamata in mediazione, che risulti poi soccombente all’esito della lite.

A questo proposito è opportuno segnalare il rigore della giurisprudenza civile nel valutare il merito dei motivi addotti dalla p.a. a giustificazione della mancata partecipazione. Ben esemplificative dell’atteggiamento della giurisprudenza su tali profili appaiono le motivazioni rese dal Tribunale di Roma, con ordinanza del 13 ottobre 2021 resa nell’ambito di giudizio sommario di cognizione in materia di responsabilità medica. Richiamando i lavori parlamentari che avrebbero poi condotto all’approvazione della Riforma Cartabia, il giudice capitolino chiarisce come la mancata partecipazione al procedimento di mediazione delegata non possa essere giustificato dal timore di incorrere in responsabilità erariale e che al contrario «in tale timore sia insita un’aporia», atteso che  «la legge, nel disciplinare la mediazione, sia dal punto di vista attivo che passivo, non fa alcuna eccezione per quanto riguarda l’ente pubblico» e che anzi la giurisprudenza della Corte dei conti rassicuri costantemente circa «la perfetta compatibilità fra il modulo della transazione e lo statuto dell’azione amministrativa, a condizione che la situazione giuridica controversa sia disponibile e che l’atto dispositivo sia compiuto da soggetto all’uopo legittimato». A tal proposito il Tribunale di Roma richiama – sulla scorta della Circolare del 2012 – l’opportunità di «procedimentalizzare (con i vari sistemi possibili, in particolare con l’ausilio di una commissione di esperti per la valutazione dei sinistri con composizione multidisciplinare, che possa orientare al meglio le decisioni del Dirigente responsabile) a monte, la condotta del funzionario pubblico che amministra danaro della collettività e negozia», in modo da garantire che «il soggetto che va in mediazione in rappresentanza della P.A.» lo faccia secondo «perimetri oggettivi all’interno dei quali poter condurre le trattative» appositamente concordate con i soggetti cui fanno capo i diritti controversi.

In questo quadro, correttamente, il Tribunale reputa improbabile l’insorgere di una  responsabilità del pubblico funzionario, «considerato che una conciliazione raggiunta sulla base del correlativo provvedimento del giudice, spesso anche corredato da indicazioni motivazionali», responsabilità che, al contrario, rischierebbe seriamente di sussistere là dove si osservasse un contegno omissivo che, «oltre a poter attingere alla stessa procedibilità della domanda è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa. Ed inoltre consente l’applicazione dell’art. 96, comma 3 c.p.c.».

Non sono poi infrequenti i casi in cui la scelta di non partecipare, pur motivata, risulti non “giustificabile” ad avviso del giudice. In particolare, quasi mai sufficienti sono considerate le motivazioni fondate sulla convinzione dell’assenza di fondatezza della domanda che addirittura sono state considerate viziate «da manifesta miopia logico-giuridica». Di frequente la giurisprudenza di merito ha ritenuto che «addurre la pretesa ragione contro l’altrui torto per non aderire alla mediazione» costituisca «una vera e propria aporia: se questa fosse infatti una valida ragione per non partecipare al procedimento di mediazione, la mediazione non potrebbe esistere tout court, posto che alla base della sua ragione d’essere vi è, immancabilmente, una divergenza di vedute fra le parti in conflitto, e precisamente su dove sia allogata la ragione e dove il torto»[70].

Indipendentemente dall’opinione che si abbia sulla possibilità di entrare nel merito di scelte discrezionali dell’Amministrazione, dunque, la motivazione di non partecipare dovrà essere specifica e non meramente apparente, non risultando sufficiente il semplice riferimento alla fondatezza giuridica delle posizioni vantate atteso che la soluzione negoziata può risultare comunque più opportuna indipendentemente dalla logica meramente “aggiudicativa” sottesa alla valutazione di ragioni e torti reciproci nonché in ragione del fatto che la valutazione di astratta mediabilità della lite è stata effettuata dal legislatore nelle ipotesi di mediazione obbligatoria ovvero – per quella c.d. delegata – dal giudice investito della controversia. Come a più riprese statuito in sede giurisdizionale, infatti, «non è giustificabile una negativa e generalizzata scelta aprioristica di rifiuto e di non partecipazione al procedimento di mediazione in quanto la Pa ha i medesimi oneri e obblighi di qualsiasi altro soggetto chiamato in mediazione».

Nella diversa ipotesi di invito alla mediazione rivolto alla p.a. amministrazione dalla controparte, ferme restando le conseguenze processuali appena citate (valutabilità del comportamento come argomento di prova, rilevanza in ordine alle spese e alla eventuale responsabilità ex art. 96 c.p.c.), si configura uno spazio maggiore per la pubblica amministrazione nella valutazione del contegno da assumere. Già la Circolare del 2012 specificava come fosse onere dell’amministrazione procedere «alla valutazione in concreto della convenienza a partecipare al procedimento di mediazione, provvedendo, ove non intenda intervenire, a formalizzare con specifico atto la scelta operata sulla base della propria discrezionalità e, ove ritenuto opportuno, comunicando tale scelta all’organismo di mediazione»[71]. Appare questo l’atteggiamento sicuramente più rispettoso del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., giustificandosi in caso di contegni diversi il rigoroso atteggiamento che la giurisprudenza assume in ordine all’immotivato e ingiustificato rifiuto di partecipare ad un procedimento i cui costi e tempi appaiono sicuramente più contenuti rispetto a quelli del giudizio ordinario.

Infine, va rilevato che quanto finora osservato sull’attenta ponderazione della scelta della p.a. di rimanere inerte,  pur in assenza dei presidi speciali introdotti dal d.lgs. n. 149/2022 per la mediazione, valgono altresì in sede di applicazione della procedura di negoziazione assistita. Fin dall’introduzione dell’istituto, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 162/2014, la mancata risposta o il rifiuto dell’invito a negoziare possono essere valutati dal giudice ai fini delle spese del giudizio, in punto di concessione della provvisoria esecutività al decreto ingiuntivo e nella valutazione della condanna per responsabilità aggravata di cui all’art. 96. La Riforma, tuttavia, richiamando espressamente i soli primi tre commi di questt’ultima disposizione, ha escluso che tale contegno possa costituire titolo per l’ulteriore condanna contemplata dal quarto comma, ovvero del «pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000».

 7. Conclusioni.

L’ultima Riforma opera nel senso fugare i timori e i sospetti che hanno caratterizzato l’atteggiamento dei pubblici funzionari con peculiare attenzione rispetto alle soluzioni conciliative della lite maturate in sede giudiziaria o a seguito di mediazione. Come più volte rilevato, rimane sullo sfondo la negoziazione assistita per la quale, salvo i singoli profili disciplinati, trovano sostanzialmente applicazione insegnamenti e principi già formatisi in ordine alle transazioni concluse dall’Amministrazione.

Sicuramente l’avvenuta tipizzazione delle condotte che integrano la colpa grave costituisce un elemento di maggior sicurezza  e andrebbe esteso ad altri campi – e primi tra tutti alla negoziazione assistita – posto che, come ha sottolineato anche di recente la Corte costituzionale, «[…] l’incertezza della sua effettiva declinazione affidata all’opera postuma del giudice costituisce uno degli aspetti più temuti dagli amministratori»[72]. Quest’ultimo arresto offre, peraltro ulteriori formidabili spunti di miglioramento della disciplina volti a garantire un maggiore dinamismo nella cura degli interessi pubblici da parte delle amministrazioni pubbliche e ad allontanare sempre il più comportamenti ispirati alla c.d. «burocrazia difensiva».

Il giudice delle leggi suggerisce, in particolare, di «vagliare con attenzione […]» l’introduzione in via generale «di un limite massimo oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non viene addossato al dipendente pubblico, ma resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse esso agisce»[73], come pure di meglio dettagliare il potere di riduzione, anche contemplando «fattispecie obbligatorie normativamente tipizzate nei presupposti». Con proposta innovativa e potenzialmente molto efficace, inoltre la Corte suggerisce un «rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni»[74].

Il passo più importante da compiere però è culturale e rimane affidato alla volontà dei singoli, chiamati – nonostante la crescente «fatica nell’amministrare»[75] – ad orientarne l’azione con la consapevolezza e il coraggio che l’attuale congiuntura economico sociale impone.

[1] Basti pensare che dal Rapporto Istat del 22 maggio 2024 risulta che il 39% dei processi pendenti nel 2023 riguardava «cause relative a rapporti con le pubbliche amministrazioni». Il rapporto rappresenta altresì che, a fronte di una generale soddisfazione dei cittadini rispetto al sistema giudiziario (54,2%) la percentuale di insoddisfatti nel caso di contenziosi con la Pubblica Amministrazione  si assesta sul 66,6%. Cfr. Istat, Report: cittadini e giustizia civile, anno 2023, disponibile all’indirizzo https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/05/REPORT-GIUSTIZIA-CIVILE-1.pdf.

[2] Le transazioni degli enti pubblici, in Arch. dir. pubbl., 1936, p. 64 ss. Sul tema specifico della transazione, vedi da ultimo, il contributo monografico di  A. Cassatella, La transazione amministrativa, Napoli, 2020.

[3] Così limpidamente C. Cost., 16 luglio 2024, n. 132, , sulla quale, per tutti F. Cintioli, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 2024, 122 e ss. Non è possibile in questa sede affrontare funditus l’argomento dell’evoluzione dell’azione ammnistrativa come pure i confini di quella non autoritativa, nè approfondire l’ambito di applicazione oggettivo degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie con la p.a.; su questo secondo punto, pertanto, si rimanda a F. Martines, La giustizia informale nei rapporti di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2017, passim, spec. 88 e ss.;  per una sintesi ragionata e chiara a M. Salvatorelli, La parte pubblica in mediazione e negoziazione assistita: riflessioni generali. Il ruolo della Avvocatura dello Stato, in Rass. Avv. Stato, n. 2/2017, 4 e ss., nonché a S. De Felice, Le A.D.R. (alternative dispute resolution) nei confronti della pubblica amministrazione, in www.giustamm.it, 2004; .; C. Volpe, Mediazione e giudizio amministrativo, in www.giustamm.it, 2018, oltre ai singoli contributi che verranno citati nel prosieguo della riflessione. Più in generale sull’evoluzione che caratterizzato l’agere amministrativo, cfr. F. Patroni Grippi, Una giustizia amministrativa in perenne trasformazione: profili storico-evolutivi e prospettive in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, p. 115 ss. In argomento, ex multis, A. Travi, Nuovi fermenti nel diritto amministrativo verso la fine degli anni ’90, in Foro it., 1997, V, 168; S. Civitarese Matteucci, Regime giuridico dell’attività amministrativa e diritto privato, in Dir. pubbl., 2003, II, 405; Id., La funzione amministrativa e il diritto privato, in S. Civitarese Matteucci – G. Gardini (a cura di), Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa (Atti dell’incontro di studio, Pescara, 30 maggio 2003), Bologna, 2003, 35; J. Polinari, La possibile deflazione delle controversie amministrative. Transazione e altri mezzi di prevenzione e/o risoluzione. Premesse ad uno studio sull’arbitrato nel diritto amministrativo, in Rass. Avv. Stato, 4/2010, 268 e ss.

[4] L’intenzione palesata anche nella Relazione illustrativa alla novella del 2015 (i.e. l. 11 febbraio 2005, n. 15) è stata quella di «sottoporre l’agire della p.a. al diritto comune non solo quando l’amministrazione avesse agito iure privatorum, ma anche quando avesse operato nell’esercizio della funzione pubblica, ponendosi sempre in una situazione di piena parità col cittadino. In questo modo, tale precetto avrebbe relegato l’attribuzione di poteri unilaterali ed esorbitanti rispetto al diritto comune soltanto a casi eccezionali», così, R. Tuzzi, Il potere transattivo della pubblica amministrazione nella risoluzione alternativa delle controversie: spunti per una rinnovata lettura anche attraverso il prisma della responsabilità amministrativo-contabile, in Riv. Corte conti, 2021, 30.

[5] Per la considerazione degli accordi verticali e, nella prospettiva dell’A. anche orizzontali, quale espressione della naturale capacità della P.A. di mediare nel proprio operato tra interessi pubblici e privati, S. Tarullo, Mediazione e negoziazione assistita nelle controversie con la P.A.: modelli a confronto, in Dir. e proc. amm., 4, 2021, p. 883 ss. che riflette sull’utilizzo della mediazione e della negoziazione anche «in tutte le controversie proponibili innanzi al Tar».

[6] A titolo di esempio, si prendano in considerazione la procedura prevista in materia di servizi di pubblica utilità, di cui all’art. 2 l. 14 novembre 1995; le procedure di conciliazione in materia di lavoro svolte presso la Direzione provinciale del lavoro previste dall’art. 65-bis d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, la conciliazione paritetica in materia di telecomunicazioni, disciplina dall’art. 11 l. 31 luglio 1997, n. 249, nonché – pur con le peculiarità del caso – la procedura di accordo bonario di cui all’art. 240 del codice degli appalti.

[7] Quanto al primo, l’art. 1 stabilisce, al comma 4, esso costituisce «criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per […] valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti». Quanto al principio della fiducia, il nuovo codice dei contratti stabilisce che esso «favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato» (art. 2, comma 2).o

[8] Così, tra le tante, Trib. Roma, ord. 10 marzo 2016.

[9] G. Greco, Contratti e accordi della pubblica amministrazione con funzione transattiva (appunti per un nuovo studio), in Dir. amm., 2005, p 223 e ss.

[10]  Per tutti, F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2004, 1201, spec. 1205; G. Costantino, Il processo civile tra riforme ordinamentali, organizzazione e prassi degli uffici (una questione di metodo), in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 77 ss., spec. 86.;.

[11] Il Piano presentato dal Governo il 30 aprile 2021, infatti, ha programmato e poi attuato l’azione riformatrice in materia di giustizia non soltanto intervenendo sulle regole del processo, bensì affiancando alla direttrice definita «endoprocessuale», altre due linee, «inscindibili e complementari», destinate ad incidere sulla «dimensione extraprocessuale». Nel disegno complessivo, il primo tipo di interventi costituisce, dunque, il punto di arrivo di un disegno di riformatore più ampio volto ad incidere tanto sull’organizzazione complessiva degli uffici giudiziari, quanto, per quanto qui specificamente attiene –  sull’accesso alla giurisdizione, anche “calmierandolo”, ossia favorendo (e ben più spesso imponendo) filtri all’accesso.

[12] Con l’introduzione innanzitutto dell’istituto della mediazione per la risoluzione delle liti civili e commerciali di cui al d.lgs. n. 28/2010 e ss.mm, e dell’arbitrato c.d. endoprocessuale e la negoziazione assistita da avvocati con la l. n. 62/2014.

[13] Sulle Adr nel contesto riformato cfr. G. Miccolis, Le nuove norme in tema di mediazione e negoziazione assistita, in Riv. dir proc. 2023, p. 1058 ss.; D. Dalfino (a cura di), La nuova giustizia complementare, Gli speciali del Foro it., Roma 2023; A. Tedoldi, Le Adr nella riforma della giustizia civile, in Questione Giustizia, 2023, p. 1 ss.; E. Dalmotto, La negoziazione assistita nell’ultima riforma della giustizia civile, in Giur. it., 2023, p. 736 ss.; M. Lupano, La riforma della mediazione civile, ivi, p. 730 ss. nonché i commenti alle disposizioni riformate contenuti nelle opere generali, i.e. F. Costinel Malatesta in R. Tiscini (a cura di), La riforma Cartabia del processo civile – Commento al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pisa, 2023; Bologna, 2023; Carratta, Le riforme del processo civile, Torino, 2023, 279 ss.; Napoleoni, La mediazione civile e commerciale, in Il processo civile dopo la riforma. D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a cura di C. Cecchella, Bologna, 2023, 529 ss., spec. 546; C. Vanz, Le novità in materia di mediazione e negoziazione assistita, in Il processo civile dopo la riforma Cartabia, a cura di A. Didone – F. De Santis, Padova, 2023, 645 ss.; L. Biarella, Giustizia civile, la riforma Cartabia punta sulle alternative al contenzioso in aula, in La riforma del processo civile, a cura di G. Finocchiaro, Milano, 2023, 11 ss.

[14] Alle ipotesi di ADR obbligatorie già previste, il d.lgs. n. 149/2022 ne ha aggiunte di ulteriori. Cosicché sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 modificato dalla medesima fonte, chi – a partire dal 1° marzo 2023 – intenda esercitare un’azione relativa anche a contratti di associazione in partecipazione, di consorzio, di franchising, d’opera, di rete, di somministrazione, di società di persone e di subfornitura dovrà tentare la mediazione ovvero, per le materie di competenza, optare per le ADR considerate equipollenti (c. 3). La riflessione non coinvolge l’arbitrato – pure inciso dalla c.d. riforma Cartabia – che nella sua forma rituale è rimedio equipollente e non alternativo alla tutela giurisdizionale.

[15] Il novellato capo II bis del D.gls 28/2010 prevede l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nell’ambito delle ipotesi di mediazione obbligatoria quando è raggiunto l’accordo; analogamente a dirsi per le negoziazioni assistite ai sensi dei novellati artt. 11-bis/11-undecies, in cui si regola analiticamente il patrocinio a spese dello Stato nelle controversie per le quali l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita sia condizione di procedibilità e la procedura si concluda con la conciliazione. Inoltre, per la sola mediazione, vengono estesi i benefici fiscali con la previsione esenzione dall’imposta di bollo, e da ogni spesa, tassa o diritto relativi a tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione; dell’esenzione dall’imposta di registro entro il limite di valore di centomila euro per il verbale contenente l’accordo di conciliazione (art. 17, d.lgs. n. 28/2010). L’art. 20 del D.lgs. n. 28/2010 novellato infine prevede un credito d’imposta in favore delle parti e degli organismi di mediazione e riconosce in caso di mediazione obbligatoria o demandata, un credito di imposta del compenso del proprio avvocato; nonché in caso di conclusione di un accordo di conciliazione successivamente all’introduzione del giudizio, un credito di imposta per il contributo unificato versato per il giudizio estinto, nel limite di quanto versato e fino ad un importo massimo di 518 euro.

[16] Cfr., in termini, G. Sabato, Conciliazione e pubblica amministrazione. Opportunità e zone d’ombra, in Giorn. Dir. Amm, 2022, 185.

[17] Corte cost., 20 novembre 1998, n. 371, che, a seguito di diverse questioni rimesse dalla magistratura contabile, ha giudicato costituzionalmente legittima la limitazione della responsabilità erariale alla sola “colpa grave” con esclusione dunque della colpa lieve, ritenendo ragionevole la scelta del Legislatore «di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzia nello svolgimento dell’attività amministrativa». Di «burocrazia difensiva» la Corte discorre nell’ultima sentenza sul tema, ossia in C. Cost. n. 132/2024, cit.

Sul tema, cfr. M. Cafagno, Contratti pubblici, responsabilità amministrativa e “burocrazia difensiva”, in Dir. economia, 2018, 625 ss; Id., Risorse decisionali e amministrazione difensiva: il caso delle procedure contrattuali, in Dir. amm., 2020, 35 ss; M. Delsignore e M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 61 ss.

[18] Nel testo originario il la vigenza era individuata al 31 luglio 2021, poi differita al 31 dicembre dello stesso anno in sede di conversione. Successivamente, il d.l. 31 maggio 2021, n. 77, coordinato con la l. 29 maggio 2021, n. 108 – con cui il Parlamento ha approvato il Piano nazionale di ripresa e resilienza, – ha prolungato il termine al 30/06/2023. Con il D.L. 22 aprile 2023 n. 44, convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2023, n. 74, il termine è stato prorogato fino al 30 giugno 2023 e, successivamente con l’art. 8, c. 5 bis, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito, con modificazioni, nella l. 23 febbraio 2024, n. 18 al 31 dicembre 2024. Ha giudicato ragionevole e conforme a Costituzione tali disposizioni la Corte costituzionale, da ultimo, con la sentenza n. 132/2024, cit. Sul tema, tra i contributi più recenti, F. indelicato, l’evoluzione della responsabilità amministrativa: dalla provvisoria legittimità costituzionale dello scudo erariale alle possibili riforme della corte dei conti, in www.judicium.it del 4 settembre 2024; L. Sambucci, Le limitazioni alla responsabilità contabile e al controllo concomitante della corte dei conti ovvero “buio e controbuio”: se il legislatore gioca d’azzardo con le riforme amministrative, in Nomos, 2023, 1 e ss.

[19] Fugate, come detto, da C. Cost. n. 132/2024 cit., anche con riferimento all’ampissimo periodo di vigenza. In senso critico, cfr.  L. Sambucci, Le limitazioni, cit., spec. 37 ss.; R. Tuzzi, Il potere transattivo, cit. 33 che riporta la posizione degli organi di vertice della magistratura contabile e avanza, sulla scorta di precedenti specifici (fr. Corte cost. 8 ottobre 2001, n. 340), dubbi di legittimità costituzionale sulla limitazione della responsabilità al solo dolo.

[20] Cfr. C. cost., 20 novembre 1998, n. 371, cit. La necessità che, in generale, la disciplina in tema di responsabilità amministrativa costituisca fonte di stimolo e non di disincentivo per l’azione dei funzionari pubblici è stata recentemente ribadita dalla Consulta con le ordinanze nn. 167 e 168 del 2019.

[21] C. Cost., 16 luglio 2024, n. 132, cit.

[22] Osserva ancora M. Salvatorelli, cit., 7 «Per accennare a uno solo tra i tanti problemi (che il legislatore non sembra a suo tempo essersi posto), per l’ente pubblico che intenda agire in una materia per la quale è prevista la mediazione obbligatoria si pone il problema della scelta della struttura cui rivolgersi: scelta che comporta l’impegno di fondi pubblici e impone quindi obblighi contabili che potrebbero giungere ad- dirittura alla necessità dello svolgimento di una procedura selettiva per l’individuazione della struttura». Al contrario numerose sono le disposizioni specifiche non applicabili alla p.a. Osserva M. Salvatorelli, La parte pubblica, cit., 3, come basti pensare «alla presenza di norme “premiali” con riflessi tributari per le parti che si accordano; agli obblighi relativi alla informazione che il difensore deve fornire alle parti assistite; a quelle disposizioni che presuppongono la iscrizione del difensore stesso all’albo professionale, per comprendere che siamo in presenza di previsioni evidentemente non applicabili alle parti pubbliche e ai loro difensori».

[23] Disponibile all’indirizzo, https://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/29361.pdf

[24] Richiamando, altresì, le conseguenze normative della mancata partecipazione all’epoca previste, ivi, p. 6 ss.

[25] Ibidem, 9 s.

[26] Dalle statistiche raccolte annualmente dal Consiglio nazionale forense ai sensi dell’art. 11 della l. n. 162/2014, e a partire dalla sua entrata in vigore, non costa la conclusione di accordi di negoziazione assistita di cui sia parte la p.a. Anche in dottrina il tema suscita sostanziale disattenzione, cfr. in ogni caso  M. Rubino-Sammartano, Lo strumento della negoziazione assistita a disposizione per evitare il contenzioso, in Riv. trim. appalti, 2019, p. 1017 ss.

[27] Il riferimento alle controversie del lavoro era già previsto dal d.l. n. 132/2014 ma espunto in sede di conversione dalla l. n. 162/2014. In ragione dell’art. 2-ter l’accordo di negoziazione assistita avrà validità pari a quella degli accordi stipulati innanzi alle Direzioni territoriali del lavoro (art. 411 c.p.c.), a quella delle conciliazioni stipulate dinanzi ai sindacati (412 ter c.p.c.) nonché pari ai lodi irrituali di lavoro degli artt. 412 ss. c.p.c.

[28] Sulla negoziazione assistita in materia di lavoro tra i contributi più recenti cfr.  cfr. M. Bove, Modifiche processuali per le liti di lavoro nella riforma Cartabia, in Il dir. proc. civ. it. e comp., 2024, 465 ss. ; A. Giuliani, Nuove prospettive di disponibilità e tutela dei diritti del lavoratore nella negoziazione assistita ex art. 9 del d.lgs. n. 149/2022, in Var. dir.lav.,  2024, 209 ss.; P. Licci, La negoziazione assistita per le controversie di lavoro, in Giust. civ., 2023, 243 ss.

[29] Istituita con d.m. Giustizia, 12 marzo 2021. la Relazione finale e le proposte formulate sono consultabili all’indirizzo https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LUISO_relazione_finale_24mag21.pdf

[30] Ivi, p. 25.

[31] In questo secondo caso rimanendo più fedele ai lavori della Commissione Luiso che ai criteri di delega.

[32] Lo «Schema di decreto legislativo correttivo in materia di mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita»,  Atto Governo n. 213, attualmente all’esame delle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato, ovvero il cd. Correttivo ADR, modifica la disposizione soltanto in mediante la correzione di un refuso riguardante l’errata citazione, ad opera del testo vigente, dell’articolo 1 «comma 01.bis», invece che «comma 1.1.» della legge 14 gennaio 1994, n.20;

[33] Più nel dettaglio, l’art. 1, c. 2 del T.U. recita «Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI».

[34] I primi (art. 3, lett. d, d.lgs. n. 50/2016) hanno una veste societaria, o comunque di diritto privato, e svolgono funzioni amministrative; quindi, sono chiamati e a svolgere compiti di interesse pubblico e sono pertanto sottoposti ai principi del procedimento amministrativo. Le seconde (art. 5 d.lgs. n. 50/2016), viceversa, sono soggetti tradizionalmente pubblici che sempre più spesso operano mediante strumenti negoziali e sono assoggettate alla disciplina del fallimento (cfr. Cass. 22 febbraio 2019, n. 5346). La felice definizione riportata nel testo è di R. Tuzzi, Il potere cit., 34. Sulle questioni relative alla delimitazione del novero delle società pubbliche, si rinvia, tra gli altri, a S. Screpanti – V. Turchini, Le società a partecipazione pubblica, in L. Torchia (a cura di), La dinamica del diritto amministrativo, Bologna, 2017, 123 ss.; F. Fimmanò, A. Catricalà, R. Cantone (a cura di) Le società pubbliche: fenomenologia di una fattispecie, Napoli, 2020, e, da ultimo, a Aa.Vv., nonché da ultimo, A. Buscema (a cura di), Le società pubbliche, Milano 2023.

[35] Cfr., testualmente, Cons. Stato, Sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660: che prosegue «l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica». In termini, Cons. Stato 11 luglio 2016, n. 3043.

[36] Contra, G. Sabato, op.loc. cit. il qualie ritiene che l’elenco legislativo non tolleri estensioni; cfr. altresì F. Mara, Mediazione e pubblica Amministrazione dopo la riforma Cartabia, in La nuova giustizia complementare, cit., 103,.

[37] Si v. l’art. 73, comma 1, R.D. 18 novembre 1923, n. 244 che riferisce di «agenti funzionari […] i quali per il servizio loro affidato, hanno gestione di pubblico denaro o di qualunque altro valore o materia».

[38] La Circolare specifica, tuttavia, che le funzioni di rappresentanza in parola possono essere oggetto di delega a dipendenti di qualifica non dirigenziale, purché dotati di comprovata e particolare competenza nella materia del contenzioso, anche con particolare riferimento alla specifica controversia. Per un’analisi approfondita della delega di funzioni e dei poteri concretamente esercitabili dal delegato in questo contesto, cfr. F. Mara, Mediazione e pubblica amministrazione, cit., 105.

[39] Tra le tante, cfr. Corte dei conti, Sez. Umbria, Deliberazione n. 123/2015/PAR; Id., Sez. Liguria, deliberazione 5/2014.

[40] In questo senso J. Polinari, La possibile deflazione, cit., 282 che argomenta ex artt. 48, 107 e 42 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 «testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» per la competenza generale delle Giunte non essendo espressamente menzionata tra le attribuzioni del Consiglio di cui all’art. 42 del TUEL. Così anche Cass. 2 febbraio 2005, n. 2072, nel vigore della l. 8 giugno 1990 n. 142. A tal proposito, G. Sabato, cit., 192 ritiene lacunosa la disciplina, ove manca di riferire dell’organo o del soggetto per così dire “rappresentato” ovvero – ipotesi frequente là dove si tratti di enti territoriali – agli organi competenti a deliberare nella materia oggetto del contenzioso: si pensi, ad esempio, al consiglio comunale.

[41] Cfr., ex plurimis, Cass. 9 novembre 2018, n. 28753: «La disciplina del negozio concluso da un rappresentante senza poteri si applica anche alla rappresentanza organica degli enti pubblici, poiché l’organo competente ad esprimere la volontà dell’ente può procedere alla ratifica del contratto sottoscritto dal “falsus procurator”, per la quale è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, trattandosi di un contratto della P.A».

[42] Cfr. C. Cass. 15 febbraio 2022, n. 4937.

[43] La conclusione raggiunta risulta conforme all’orientamento della giurisprudenza contabile in materia di transazione secondo il quale il negozio concluso «non costituisce un elemento interruttivo del nesso causale fra un precedente comportamento illecito che abbia causato le pretese di soggetti terzi, oggetto di un bonario componimento, e il danno erariale conseguito per le finanze dell’amministrazione». Cfr., ex multis, Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 5 giugno 2003, n. 490; Corte conti, Sez. centr. app., 17 luglio 2007, n. 204/A.

[44] Il discorso è condotto rispetto alla normativa ordinaria applicabile in base all’art. 1 della n. 20/94, atteso che – come già rilevato supra nel testo – nel regime di eccezionalità previsto dall’art. 21 del decreto semplificazioni, la responsabilità del pubblico agente è limitata alle condotte commissive dolose, risultando predicabile una responsabilità per colpa grave per i soli «danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

[45] Cfr. L. Balestra, Responsabilità per danno erariale e prerogative della corte dei conti, in Riv. Corte conti, 2019, 4, 21, che rinvia a Corte conti, Sez. riun., 21 maggio 1998, n. 23.

[46] Tra le più chiare in questo senso, Corte dei conti, Sez. III centr., 10 settembre 2010, n. 523/A.

[47] Cfr., A. Ciaramella, La sopravvivenza normativa della colpa grave nella responsabilità erariale, in Dirittoeconti.it del 24 gennaio 2020.

[48] Corte dei conti, Sez. reg. Puglia, 3 aprile 1997, n. 16

[49] Corte dei Conti, Sez. II, 26 giugno 2002, n. 212/A; Id, Sez. I, 31 maggio 2002, n. 173/A

[50] Cfr., Corte dei Conti Trentino-Alto Adige,n. 22 del 30/04/2008. In termini, R. Tuzzi, cit., 36 ss.; J Polinari, La possibile deflazione, cit. 228 ss.

[51] Richiamo ricorre anche nella giurisprudenza contabile, cfr. Corte conti, sez. I, 24 ottobre, n. 83: «Poichè per l’imputazione del danno ai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non è sufficiente una qualsivoglia condotta antidoverosa ma occorre che essa sia connotata da “intensa negligenza”, un criterio orientativo utile ai fini della graduazione della colpa è reperibile nell’art. 2 l. n. 117 del 1988 sulla responsabilità dei magistrati che definisce colpa grave “la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile” e nell’art. 5 comma 3 d.lg. n. 472 del 1997 che, in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie più dettagliatamente prevede che “la colpa è grave quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di obblighi elementari”», in Riv. Corte Conti, 2000, 276. Corte dei Conti Molise, 28 aprile 1997, n. 226 Nel medesimo senso A. Tedoldi, Le Adr, cit. 22.

[52] Cass. civ., 18 marzo 2008, n. 7272, in Foro It., 2009, 1, 9, 2496.

[53] Corte dei Conti Calabria, 3 giugno 2022, n. 119, in materia di transazione

[54] Cfr., da ultimo, Cons. Stato, 28 giugno 2022, n. 5389 «Nella valutazione della responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti, il giudizio si svolge con una larga discrezionalità da parte dell’Amministrazione sull’apprezzamento della gravità delle infrazioni addebitate e della conseguente sanzione da irrogare, non potendo il giudice amministrativo sostituirsi all’Amministrazione medesima in ordine alla valutazione dei fatti contestati, ma tale principio trova un’importante deroga nei limiti in cui la valutazione stessa contenga un travisamento dei fatti, ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente».Inizio moduloFine modulo

[55] Che peraltro si pone in contrasto con la più̀ accreditata teoria della natura extracontrattuale della responsabilità̀ amministrativo-contabile seguita dalla dottrina.

[56] G. Gargiulo, Aspetti critici della riforma della responsabilità erariale, in Il diritto amministrativo, del 6 luglio 2022, p. 2.

[57] Che, al contrario, non necessariamente vale ad escludere la responsabilità. Cfr. Corte dei Conti, 21 gennaio 2008, n. 215, che ha ritenuto sussistente la colpa grave di Consiglieri comunali che, pur disponendo di elementi informativi che univocamente evidenziavano la convenienza per l’ente di una proposta di transazione formulata dalla controparte ed approvata dalla Giunta municipale, si erano rifiutati di deliberare immediatamente il conseguente riconoscimento del debito fuori bilancio, addivenendo a transazione solo dopo due anni. Non sono state accolte nel caso di specie le controdeduzioni della difesa fondate sul vantaggio economico connesso alla temporanea disponibilità di somme di denaro nelle casse dell’Ente.

[58] Corte dei Conti Molise, 27 marzo 2000, n. 25

[59] Cfr. Corte conti, reg. Sicilia, 23 luglio 2013, n. 2719.

[60] C. Conti, sez. contr. Lombardia, parere n. 26/2008; in termini analoghi anche la Sez. contr. Piemonte, nel parere n. 20/2012.

[61] A. Tedoldi, Le Adr nella riforma della giustizia civile, in Questione Giustizia, 2023, p. 22.

[62] Nel testo previgente le conseguenze della mancata partecipazione al procedimento di mediazione risultavano disciplinate dal c. 4.bis dell’art. 8 del d.lgs. n. 28/2010, come novellato nel 2015. La disposizione abrogata statuiva nel senso che «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».

[63] Cfr., con riferimento al previgente art. 8, c. 4-bis, Trib. Torino, 23 marzo 2021, secondo cui la condanna al versamento dell’importo a favore dello Stato prescinde dall’esito del giudizio e trova giustificazione nella violazione di quello che è ormai un principio immanente dell’ordinamento giuridico, e cioè che la partecipazione alla mediazione è un valore in sé, a prescindere dal merito e quindi dal convincimento di non dover incorrere nella soccombenza.

[64] A tenore del quale «Nei casi di cui al comma 2, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto, può altresì condannare la parte soccombente che non ha partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione».

[65] Tra le tante Corte dei conti, Veneto, 20 settembre 1997,  n. 71/1997.

[66] Val la pena di ricordare che, senza previa denuncia di una potenziale fattispecie dannosa, la procura della Corte dei conti non può attivarsi. Cfr., ex multis, J. Bercelli, L’obbligo di denuncia di danno erariale dopo il d.l. semplificazione del 2020, in Dir. e proc. amm., 2021, II, 335 ss.

[67] A livello generale, sono l’art. 20 T.U. Imp. Civ. Stato e l’art. 53 T.U. delle Leggi sulla Corte dei conti (D.P.R. 10.01.1957, n. 3) ad imporre l’obbligo di segnalazione ai dipendenti delle Amministrazioni statali, concentrandolo in capo agli organi di vertice di ciascuna Amministrazione: i dirigenti, capi servizio o il Ministro per i comportamenti illeciti dei direttori generali, o i funzionari, nell’ambito degli Enti Locali dove non vi sia personale dirigente.

[68] L’obbligo di informazione del P.M. sussiste anche nel caso di arresto o di fermo o di misura cautelare in carcere adottata nei confronti di un agente pubblico per un fatto produttivo di pregiudizio per l’Erario (c. 3 bis)

[69] Attesa la lacunosità del dell’art. 20 T.U. Imp. Civ. Stato, che si limita sinteticamente a prescrivere la doverosa indicazione di «tutti gli elementi raccolti per l’accertamento della responsabilità e per la determinazione dei danni» la Procura Generale della C.  Conti, con circolare del 27 maggio 1996, ha individuato nel dettaglio gli elementi essenziali della denuncia. Per maggiori ragguagli sul punto, non strettamente rilevante, in questa sede, cfr. Bercelli, L’obbligo di denuncia di danno erariale dopo il d.l. semplificazione del 2020, in Dir. e proc. amm., 2021, p. 335 ss.

[70] Così, Trib. Roma, 17 Dicembre 2015; cfr, in termini analoghi, Trib. Torino, 23 marzo 2021.

[71] Ivi, p. 9.

[72] Con la più volte richiamata sentenza n. 132/2024.

[73] Cui, prosegue la Corte «può accompagnarsi anche la previsione della rateizzazione del debito risarcitorio. L’opportunità del cosiddetto “tetto” non può essere esclusa in ragione dell’esistenza del menzionato potere riduttivo, dal momento che il primo, fissato ex ante dal legislatore, varrebbe obbligatoriamente per tutti, mentre il secondo è fisiologicamente rimesso ad un apprezzamento discrezionale ex post del giudice contabile».

[74] La Corte suggerisce ulteriormente è «l’incentivazione delle polizze assicurative (che, allo stato attuale, non sono obbligatorie), incentivazione, peraltro, cui ha già fatto ricorso, come rammentato, il nuovo codice dei contratti pubblici.

Ancora, come già osservato, potrebbe essere vagliata una eccezionale esclusione della responsabilità colposa per specifiche categorie di pubblici dipendenti, anche solo in relazione a determinate tipologie di atti, in ragione della particolare complessità delle loro funzioni o mansioni e/o del connesso elevato rischio patrimoniale».

[75] In questo senso efficacemente ancora Corte cost., ult. cit.