La trattazione nel processo ordinario di primo grado tra riforma Cartabia, intervento della Corte costituzionale e annunciato “correttivo”

Di Mauro Bove -

Sommario: 1. Premessa. – 2. Gli atti introduttivi. – 3. I poteri del giudice nelle c.d. verifiche preliminari. – 4.  La trattazione delle parti antecedente alla prima udienza. – 5. La prima udienza di comparizione. – 6. La superabilità delle preclusioni. – 7. Conclusioni.

 

1.Premessa

Nell’ipotesi più semplice il processo dichiarativo decide una controversia giuridica su un diritto soggettivo che l’attore afferma come esistente ed allo stesso tempo come leso a causa di una crisi di cooperazione con la controparte, che, in virtù di ciò, è chiamata in giudizio quale convenuta.

Questo è l’oggetto della domanda ed anche ciò che sarà oggetto del processo, della decisione e, quindi, del futuro giudicato sostanziale, almeno nell’ipotesi più semplice, ossia a prescindere dalle diverse complicazioni soggettive ed oggettive che si possono avere nel processo, tema che qui non tratteremo perché esso ci porterebbe troppo lontano.

Ma, per giungere a decidere sul diritto affermato dall’attore con la sua domanda è necessario conoscere delle questioni, che corrispondono agli elementi strutturali del diritto soggettivo, ossia, guardando alla sua fattispecie giuridicamente descritta nella norma generale ed astratta di riferimento, dal lato positivo si tratta dei suoi fatti costitutivi e dal lato negativo di ipotetici fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.

Peraltro, ciascuna di tali questioni emerge sempre come sintesi di una serie di profili in fatto e in diritto, per cui la sua cognizione, se si vuole il suo accertamento, nel processo esige prima la fissazione degli accadimenti verificatisi fuori del processo stesso e, poi, la lettura giuridica di essi.

È inevitabile, quindi, anche alla luce di quanto dispone l’art. 111, comma 1, cost., che la legge processuale disciplini nel percorso il modo ed i tempi per poter domandare, fare questioni ed articolare prova, sempre che questa sia necessaria. Ed, inoltre, è essenziale che siano ben chiari i limiti entro i quali anche il giudice può attivarsi d’ufficio, precisamente, posto che il principio della domanda pacificamente impedisce al giudice di stabilire quale possa essere l’oggetto della sua decisione, i limiti entro i quali il giudice può fare questioni ovvero disporre mezzi di prova.

Nostro compito in questa sede è descrivere il formarsi del tema da decidere, da conoscere e da provare nel giudizio di primo grado. Con attenzione certamente al merito del processo, ma anche ai suoi profili di rito, visto che il processo, in linea di principio e direi pregiudizialmente, ha ad oggetto innanzitutto sé stesso.

Peraltro, nel nostro dire si terrà conto ovviamente della legge attualmente in vigore, ma anche, e direi inevitabilmente, sia dello ius superveniens dovuto al recentissimo intervento della Corte costituzionale sull’art. 171-bis c.p.c. (con sentenza n. 96 del 3 giugno 2024) sia di quello che, al momento, si pensa che sarà la modifica legislativa dovuta ad uno schema di correttivo della riforma Cartabia approvato dal Consiglio dei ministri il 15 febbraio 2024 e quindi trasmesso al Parlamento per i relativi pareri il 6 marzo 2024[1].

2.Gli atti introduttivi

Quanto agli atti introduttivi poco o nulla è cambiato con la riforma Cartabia.

La domanda dell’attore e la comparsa di costituzione del convenuto sono innanzitutto rivolte all’individuazione dell’oggetto del processo, ossia ciò che sarà prima oggetto della decisione del giudice e quindi della cosa giudicata. In questo nulla è cambiato rispetto al sistema precedente.

Così, nell’ipotesi più semplice l’attore affermerà un diritto soggettivo e, a causa della sua lesione, chiederà una consequenziale forma di tutela. A sua volta il convenuto, se vuole, potrà a pena di decadenza nella comparsa di risposta tempestivamente depositata (oggi 70 giorni prima dell’udienza, la cui data è fissata nell’atto di citazione) proporre domanda riconvenzionale ai sensi dell’art. 36 c.p.c.

Inoltre, sempre a pena di decadenza, il convenuto dovrà attivarsi nel medesimo atto sia per rilevare eventuali eccezioni di merito e di rito a lui riservate sia, eventualmente, per dichiarare l’intenzione di chiamare in causa un terzo, chiedendo al giudice il necessario spostamento dell’udienza già fissata nella domanda dell’attore, al fine di consentire la citazione del terzo (articoli 167 e 269 c.p.c.).

Ogni altra attività può essere svolta in questi atti, ma non deve necessariamente essere svolta in essi. Così, come vedremo, in riferimento al merito altre questioni potranno essere sollevate successivamente, attengano esse ai fatti costitutivi del diritto in gioco ovvero ai fatti impeditivi, modificativi ed estintivi. Né al momento di questi atti cadono le c.d. preclusioni istruttorie, perché il legislatore non ha qui scelto l’idea che l’articolazione della prova debba, se così possiamo dire, andare di pari passo col domandare e col fare questioni, insomma con l’attività d’individuazione di ciò che è oggetto della decisione del giudice e di ciò che è oggetto della sua cognizione.

Inoltre, quanto al rito, è possibile che le relative eccezioni siano disciplinate in modo tale da dare al convenuto più tempo per rilevarle, senza considerare anche i poteri del giudice.

Ma, e sta qui la grande novità introdotta dalla riforma Cartabia, tra questi atti introduttivi e la prima udienza di comparizione si inserisce un importante spazio di attività, i cui protagonisti sono tutti i soggetti del dramma processuale: il giudice e le parti.

3.I poteri del giudice nelle c.d. verifiche preliminari

Emergono innanzitutto le previsioni di cui all’art. 171-bis c.p.c., in virtù delle quali il giudice compare sulla scena del processo prima che si arrivi all’udienza con quelle che sono definite come verifiche preliminari, che si collocano dopo la scadenza del termine di costituzione del convenuto, precisamente nel termine (canzonatorio) di 15 giorni[2]. Tale momento è previsto come doveroso, non lasciandosi al giudice, almeno nel disegno del legislatore, il potere di scegliere se celebrarlo o meno, idea questa anche confermata nel c.d. correttivo[3].

Ora, posto che il giudice non può mai incidere sull’oggetto della sua decisione, bensì solo, eventualmente, sull’oggetto della sua cognizione, bisogna distinguere tra le questioni che in questo rientrano, quelle che attengono al diritto in gioco (questioni di merito) e quelle che attengono al processo (questioni di rito).

Per quanto riguarda questa seconda categoria, alla quale poi essenzialmente il legislatore ha pensato in questa fase, la disciplina vigente opera una distinzione[4].

Ve ne sono di quelle che il giudice può rilevare e decidere subito e senza contraddittorio, adottando i provvedimenti consequenziali, i quali possono consistere nel disporre un’attività in sanatoria per una carenza processuale ovvero in un ordine di altro genere o comunque nel dare disposizioni di carattere processuale, che prescindono dal rilievo di una nullità formale o extraformale. Dal primo punto di vista si pensi, ad esempio, all’ordine di rinnovare la citazione (nullità dell’atto di citazione) o la sua notificazione (nullità della notificazione dell’atto di citazione) o di integrare il contraddittorio nell’ipotesi che ci si trovi di fronte ad un caso di litisconsorzio necessario o ancora all’ordine di cui all’art. 182 c.p.c. per sanare difetti di rappresentanza o di autorizzazione. Dagli altri punti di vista si pensi, ad esempio, all’ordine, fondato su una valutazione di opportunità, di chiamare un terzo ai sensi dell’art. 107 c.p.c. ovvero alla dichiarazione di contumacia del convenuto, che presuppone la valutazione di una corretta notifica della citazione[5].

Se ovviamente la scelta legislativa predilige il valore della rapidità, quanto essa possa essere discutibile è di palese evidenza, se si pensa che tutto ciò che le parti vorranno dire sulle diverse questioni in gioco troverà uno spazio di espressione solo, in ipotesi, dopo che il giudice abbia già provveduto[6], con la conseguenza, peraltro, che in alcuni casi l’argomentare successivamente al “già fatto” finisce per avere il sapore del parlare inutilmente. Né il problema sembra del tutto superato pur con l’aggiustamento che della norma in commento ha recentemente fatto la Corte costituzionale, del quale tra breve diremo.

Poi vi sono tutte le altre questioni processuali rilevabili (anche) d’ufficio, che il giudice può sollevare in questa sede, ma rinviando ogni decisione alla fase successiva alla trattazione tra le parti ai sensi dell’art. 171-ter c.p.c.[7]. Tra queste, oltre alle questioni non specificamente nominate nella norma in commento, ve ne sono anche due che finiscono per avere un trattamento singolare.

La prima riguarda la questione attinente all’eventuale presenza di una condizione di procedibilità, quale classicamente ormai, l’assoggettabilità della domanda pendente al previo esperimento della mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. n. 28/2010: il giudice, rilevando la questione, non dispone nulla, ma si limita a richiedere alle parti di trattarla nelle memorie integrative di cui all’art. 171-ter c.p.c., riservandosi di deciderla solo successivamente quando si arriverà all’udienza, situazione questa che mi sembra confermata nel c.d. correttivo. Ora, fermo restando che è sempre possibile che le parti, a fronte del rilievo del giudice si incamminino subito sulla strada della mediazione, senza aspettare gli esiti successivi[8], può essere discutibile questo trattamento che, per un verso, sembra poco giustificato a fronte del diverso trattamento riservato alle questioni di rito sopra individuate e, per altro verso, sembra dispendioso, visto che, secondo lo schema di gioco immaginato dal legislatore, le parti si troverebbe a trattare la causa prima che il giudice decida di rinviarle in mediazione, quando, invece, poteva forse essere più ragionevole eliminare l’incombenza data dalla condizione di procedibilità prima di ogni altra attività.

La seconda questione nominata a parte attiene all’eventuale passaggio al rito semplificato: il giudice può indicare alle parti questa possibilità e poi, disposta la trattazione, quando si arriva all’udienza magari fare la scelta annunciata. Ma, è evidente quanto a quel momento un passaggio al rito semplificato risulti abbastanza inutile, rilievo questo che, se può essere sconfortante, tuttavia non giustifica una riscrittura pretoria delle norme, immaginando magari un giudice che si inventa la soluzione di evitare il previo scambio delle memorie scritte, per verificare poi in udienza il da farsi[9].

Se entrerà in vigore il c.d. correttivo nei termini ad oggi noti questa situazione cambierà, visto che in esso si prevede la possibilità che il passaggio al rito semplificato sia disposto già nella fase delle verifiche preliminari, fissando il giudice l’udienza di cui al primo comma dell’art. 281-decies c.p.c., nonché il termine perentorio entro il quale le parti possono integrare gli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti. Peraltro, la cosa singolare è che questo passaggio non sarà più deciso con ordinanza non impugnabile, bensì col decreto di cui stiamo parlando, modifica che non è solo formale, implicando il fatto che poi, giunti all’udienza e quindi previo il contraddittorio con le parti, il giudice potrebbe ripensarci e così disporre di tornare al rito ordinario.

Insomma, il carrozzone del processo, anziché viaggiare verso la decisione di merito, si occupa più volte di stabilire su quale binario si debba condurre il viaggio!

Quanto alle questioni di merito, per tutte vale lo stesso meccanismo: il giudice può rilevarle in questa fase e, così, stimolare la (successiva) trattazione delle parti anche su di esse.

Residuano quattro rilievi interessanti.

Il primo attiene alla forma del provvedimento assunto dal giudice in questo contesto che è quella del decreto[10], scelta confermata anche nel c.d. correttivo. Ora, se pur non si può dimenticare che nell’art. 135 c.p.c. si esclude per esso la necessità di un supporto motivazionale, salvo diversa previsione di legge che qui non si dà, a me sembrerebbe irragionevole non tenere conto del fatto che il provvedimento in parola può avere contenuti assai diversi. Invero, un conto è che il giudice si limiti a confermare la data dell’udienza già fissata nell’atto di citazione ovvero a rinviarla per ragioni organizzative, altro è che il giudice col suo decreto risolva una questione processuale impartendo consequenziali ordini o anche rilevi d’ufficio questioni da sottoporre poi al contraddittorio con e fra le parti. Francamente credo che almeno nell’ipotesi in cui si risolve, ancorché provvisoriamente, una questione processuale quel decreto una qualche sia pur succinta motivazione la debba pur avere[11]. A meno che non si ritenga che la forma del provvedimento cambi a seconda del suo contenuto, dovendosi avere un’ordinanza quando il giudice, risolta una delle questioni di cui alla prima parte del primo comma dell’art. 171-bis c.p.c., impartisca gli ordini consequenziali, residuando la forma del decreto solo quando il giudice si limiti a confermare o differire la data dell’udienza.

Per essere franchi il testo della legge, visto nel suo complesso, quindi considerando anche le norme che sono richiamate dall’art. 171-bis c.p.c., potrebbe giustificare entrambe le soluzioni[12]. Ma, al di là dei formalismi che si preferiscano, una cosa a me sembra da tener ferma: se il giudice assume una qualche determinazione sul corso del processo, ipotizzandone aspetti di irritualità, i malcapitati non possono rinunciare, oltre che ad essere previamente ascoltati, anche al diritto di sapere le ragioni di quella determinazione.

Né, mi sembra, può soddisfare la posizione della Corte costituzionale[13], che recentemente ha ribadito come il provvedimento in parola sia sempre un decreto non motivato, affermando che ciò sarebbe giustificato sia dalla sua provvisorietà sia dalla salvezza del principio del contraddittorio, vuoi in base alle norme esplicite vuoi in base all’interpretazione costituzionalmente orientata che essa ha fissato.

L’impianto che, in riferimento alle questioni di cui alla prima parte del primo comma dell’art. 171-bis c.p.c., emerge dall’intervento dell’alta Corte è il seguente: 1) il giudice, rilevata una di quelle questioni, può, in virtù del suo potere di direzione del processo ex art. 175 c.p.c., fissare un’udienza ad hoc per sentire le parti, per poi adottare il relativo decreto; 2) se ritiene che la questione sia liquida, il giudice può adottare subito il relativo decreto; 3) in quest’ultima ipotesi le parti (ma anche una solo di esse) possono richiedere di essere ascoltate per indurre un ripensamento nel giudice; 4) peraltro, il giudice non ha l’obbligo di fissare quell’udienza di “ripensamento”, per cui, ove non dovesse dare corso alla richiesta, il contraddittorio sarà svolto nelle successive memorie integrative e poi all’udienza di trattazione.

È evidente come qui la Corte costituzionale abbia voluto legittimare prassi ed opinioni dottrinarie sulle quali torneremo tra breve. Ma è altrettanto vero, o almeno così a me sembra, che la soluzione offerta lascia delle perplessità.

Per un verso, essa potrebbe provocare problemi, ad esempio in riferimento all’incertezza della parte che, volendo chiedere un ripensamento al giudice prima di giungere all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., non sa come sarà la risposta alla sua istanza di fissazione di un’udienza ad hoc e allo stesso tempo si trova di fronte allo spettro degli incombenti termini di cui all’art. 171-ter c.p.c. Per altro verso, emerge una possibilità di contraddittorio del tutto lasciata alla scelta del giudice, il quale potrebbe concedere l’ascolto prima del decreto, ma potrebbe anche non farlo e poi, magari, continuare a non farlo anche a valle del decreto[14], perché, come dice la Corte costituzionale, qui non può emergere un obbligo processuale in capo al giudice.

Il secondo rilievo riguarda quelle eccezioni processuali per le quali il codice di rito ammette il rilievo anche d’ufficio, ma solo al primo momento utile. Si pensi classicamente ai profili d’incompetenza che il giudice può rilevare e per i quali l’art. 38 c.p.c. prevede ancora, come prima, il termine finale all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. Ovviamente l’interprete deve prendere atto della svista, per cui è possibile che il giudice rilevi una simile eccezione sia nella fase delle verifiche preliminari di cui all’art. 171-bis sia anche nella successiva udienza. Ma altrettanto ovviamente si dovrebbe riconoscere come questa doppia possibilità non sia ragionevole, visto che ormai l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. non rappresenta più il primo momento in cui il giudice compare sulla scena del processo.

Sembra che la cosa sarà superata col c.d. correttivo, il quale annuncia la novellazione dell’art. 38 c.p.c., prevendendosi l’eccezione d’ufficio solo nel decreto pronunciato nell’ambito dell’art. 171-bis c.p.c. Ma non so se tale modifica andrà in porto, visto che, volendo essa avere valenza generale, non vedo come potrebbe operare nel rito semplificato.

Il terzo rilievo è assai scontato, vale a dire: l’art. 171-bis non esclude l’operatività delle diverse regole che presiedono al rilievo delle eccezioni. Così, quanto alle eccezioni di merito c.d. in senso lato, se il giudice può rilevarle in sede di verifiche preliminari, ben può egli farlo successivamente. E quanto alle eccezioni di rito valgono le diverse regole in ipotesi vigenti per le diverse questioni[15]. Così, per fare un solo esempio, il giudice può anche rilevare prima dell’udienza la carenza d’integrazione del contraddittorio (art. 102 c.p.c.), ma, in mancanza, quel rilievo potrebbe anche sopraggiungere in una fase avanzata del processo.

Ma vi è di più, ossia: visto il sacrificio del principio del contraddittorio nel pronunciarsi in tale fase sulle questioni di rito di cui alla prima parte del primo comma dell’art. 171-bis c.p.c., non è escluso che il giudice rilevi la questione senza, però, assumere subito un provvedimento su di essa, pur potendolo in astratto assumere. Insomma, se in riferimento ad una serie di questioni esplicitamente indicate il giudice può rilevarle e decidere di conseguenza, dando ordini di attività alle parti, è anche possibile, non solo che il giudice non le rilevi in questa fase, mantenendo il potere di farlo in un momento successivo, ma anche che egli si limiti a rilevarle nelle verifiche preliminari, ma allo stesso tempo le lasci, se così possiamo dire, in sospeso fino all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., perché prima egli vuole conoscere le opinioni delle parti e magari verificare eventuali prove che queste potrebbero articolare in riferimento ad esse[16].

Né mi sembra che col c.d. correttivo questa flessibilità venga meno. È vero che nel disegno ideale della legge vi è la speranza che si arrivi all’udienza dopo aver ripulito il processo da alcune questioni di rito. Ma non vedo perché si dovrebbe arrivare a dire che non possa che essere così[17], per cui rilevate le questioni in gioco il giudice dovrebbe sempre risolverle e dare i consequenziali ordini in sanatoria. Peraltro una simile rigidità, non solo non mi sembra necessaria alla luce delle norme, ma non è neanche coerente con la necessaria affermazione per cui quelle questioni potrebbero anche non essere proprio rilevate in fase di verifiche preliminari, eventualità che non toglie certo al giudice la possibilità di rilevarle poi[18].

Insomma, dalla lettura complessiva dell’art. 171-bis c.p.c. ed anche valorizzando quell’inciso che a proposito delle questioni processuali immediatamente, ancorché provvisoriamente, risolvibili recita “quando occorre”, mi sentirei di proporre il seguente principio interpretativo: se le questioni processuali non nominate non possono mai essere risolte in fase preliminare, potendo esse solo essere rilevate e quindi sottoposte al successivo contraddittorio con le parti nelle memorie integrative[19], le questioni nominate, invece, possono essere risolte (provvisoriamente), ma possono anche essere solo rilevate, rinviando ogni determinazione ad un momento successivo. Insomma quell’inciso «quando occorre» potrebbe, non solo essere riferito alla valutazione dell’eventuale sussistenza del presupposto di una determinazione processuale,  ma anche essere inteso come fonte di un potere discrezionale del giudice, il quale, a seconda della difficoltà della questione nel caso concreto, potrebbe immediatamente risolverla (provvisoriamente) oppure preferire di dare corso prima ad un ampio contraddittorio con le parti, che si articoli in allegazioni ed offerta di prove secondo le regole di cui all’art. 171-ter c.p.c..

Non credo che contro questa proposta di flessibilità si possa obiettare che ormai la Corte costituzionale avrebbe risolto ogni problema con il suo recente intervento già sopra descritto. A parte il fatto che la garanzia del contraddittorio in questa sentenza è solo un po’ più “attenzionata”, ma non in modo veramente soddisfacente, resta il fatto che al giudice potrebbe non bastare la superficialità e la rapidità a cui deve comunque soggiacere in fase di verifiche preliminari. Senza considerare, poi, che per alcune questioni potrebbe essere utile anche una qualche produzione documentale, che è richiedibile solo nella successiva trattazione scritta ex art. 171-ter c.p.c.

Inoltre, io credo, la necessità di attuare pienamente il principio del contraddittorio dovrebbe erigersi ad impedimento in questa fase preliminare di ogni definizione in rito del processo. Insomma, credo che non si debba mai dimenticare la precisazione più volte fatta sopra secondo la quale l’eventuale soluzione di una delle questioni processuali nominate sia sempre qui solo provvisoria, senza poter giungere a conseguenze estreme, vale a dire definitive.

Mi spiego.

Se in sede di verifiche preliminari il giudice impartisce l’ordine di compiere una certa attività e a causa di ciò egli fissa una nuova prima udienza, rispetto alla quale si calcolano a ritroso i termini per le memorie di cui all’art. 171-ter c.p.c., si può affermare che poi ci dovrà essere un nuovo momento di verifiche preliminari e magari che poi ci potrà essere in esse l’accertamento del mancato rispetto di quell’ordine dato in precedenza, dovendone trarre le necessarie conseguenze?

Facciamo un esempio: il giudice, verificata la nullità della citazione o della sua notificazione, ordina all’attore la rinnovazione dell’atto viziato e, di conseguenza, fissa una nuova prima udienza, rispetto alla quale, a ritroso, si calcola il termine per la costituzione del convenuto (art. 166 c.p.c.) e, quindi, i successivi termini per memorie integrative (art. 171-ter c.p.c.). Si potrebbe dire che, a questo punto, entro i 15 giorni dalla scadenza del (nuovo) termine di costituzione del convenuto il giudice debba o possa svolgere una seconda volta le verifiche di cui all’art. 171-bis c.p.c.[20]: la cosa potrebbe essere dubbia. Ma ciò che a mio parere non deve essere dubbio è che il giudice, verificato in ipotesi l’inadempimento o il non corretto adempimento al suo ordine, non potrebbe incanalare il processo verso l’estinzione senza alcun contraddittorio. Magari egli potrebbe anche risolvere provvisoriamente altre questioni ovvero rilevare eccezioni, ma non può chiudere in rito il giudizio senza prima aver ascoltato l’attore.

Valutazioni analoghe valgono, ad esempio, quando ad essere inadempienti sono entrambe le parti: si pensi all’ordine d’integrazione del contraddittorio di cui all’art. 102 c.p.c. o all’ordine di chiamata del terzo ai sensi dell’art. 107 c.p.c.

Insomma, se la disciplina attuale non è chiara in ordine alla possibilità di un secondo momento di verifiche preliminari, io comunque non credo che esso, ove ipotizzabile, possa essere utilizzato per chiudere definitivamente la partita per un presunto vizio processuale in palese contrasto col principio del contradditorio.

E solo in parte diverso può essere il discorso se lo svolgiamo alla luce del c.d. correttivo nella formulazione che al momento si conosce, in virtù del quale si prevede che quel secondo momento di verifiche preliminari debba esservi 55 giorni prima della data della nuova udienza, che era stata in precedenza fissata dopo aver dato uno degli ordini di cui al primo comma dell’art. 171-bis c.p.c. Questa disciplina, se entrerà in vigore, imporrà quel secondo momento, ma, se in esso, come si evince anche dalla Relazione di accompagnamento, si potrà accertare se l’ordine in precedenza dato sia stato rispettato, nulla invece è detto per l’eventualità che tale accertamento dia esito negativo. Insomma, né nella disciplina né nella Relazione si giunge a prevedere o ipotizzare che in tale contesto il giudice possa o debba andare alla definizione del processo.

Ed, allora, a me sembra che, se in esso si potranno rilevare altre questioni e se magari si potrà anche rilevare come un precedente ordine non sia stato rispettato, giammai il giudice potrebbe correre verso una chiusura in rito del processo senza arrivare all’udienza dopo aver sentito gli interessati in modo pienamente disteso secondo le regole di cui all’art. 171-ter c.p.c.[21].

Né il più volte citato intervento della Corte costituzionale può cambiare le cose, perché l’eventuale, ma non garantito, ascolto delle parti nelle verifiche preliminari non potrebbe comunque essere sufficiente e la stessa Consulta riconosce esplicitamente come il decreto che in questa fase può essere adottato è sempre e solo un provvedimento provvisorio. Del resto, una chiusura in rito del processo, che giunga con sentenza o magari con l’ordinanza di cui all’art. 307, comma 4, c.p.c., non può aversi in una fase che è esplicitamente definita come “preliminare”, nella quale l’unico provvedimento che può essere adottato è il decreto indicato dall’art. 171-bis c.p.c., forma provvedimentale del tutto inadatta alla definizione del giudizio.

Inoltre, sempre questo intervento della Corte costituzionale conferma quanto detto anche nel momento in cui articola i possibili esiti della vicenda nell’eventualità che l’interessato non rispetti l’ordine in sanatoria impartito dal giudice col decreto ex art. 171-bis c.p.c. Dal dettato della sentenza emergono due ipotesi.

La prima: l’interessato non chiede che si attivi il contraddittorio in fase preliminare (si ipotizza a valle di un decreto già adottato, perché evidentemente prima nulla si può sapere delle intenzioni del giudice). Qui egli, se non rispetta l’ordine in sanatoria, lo fa a suo rischio, perché poi all’udienza ex art. 183 c.p.c. delle due l’una: se il giudice ci ripensa, buon per lui, ma in caso contrario il giudice adotta la conseguente sanzione processuale che ben può stare, a seconda delle situazioni, nella chiusura in rito del giudizio.

La seconda ipotesi: l’interessato chiede in fase preliminare che si attivi il contraddittorio, ma il giudice non dà corso positivo all’istanza. In tal caso, giunti all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., il giudice nel suo ripensamento potrebbe anche confermare la scelta già fatta prima, ma in tal caso egli non assumerà il provvedimento sanzionatorio, bensì darà per una seconda volta l’ordine in sanatoria, potendosi trarre le conseguenze sanzionatorie solo se e quando l’interessato non abbia rispettato l’ordine nel termine dato appunto in questa udienza.

Al di là di ogni altra considerazione, che pur sarebbe suscitata dall’inventiva della Corte costituzionale, a me comunque sembra che queste posizioni escludano una possibile definizione in rito del processo con un provvedimento assunto nella c.d. fase preliminare.

L’ultimo rilievo attiene al rapporto tra le verifiche preliminari in commento e la successiva attività processuale. Ora, per comprendere la disciplina si deve osservare come il punto di riferimento da avere presente sta innanzitutto nella data dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., perché è da questa data che decorrono, calcolati a ritroso[22] in virtù dell’art. 171-ter c.p.c., i termini delle tre memorie integrative di cui parleremo successivamente.

Quella data è stata ovviamente già fissata dall’attore nell’atto di citazione. Ma quella data, alla luce di quanto può accadere in virtù dell’applicazione dell’art. 171-bis c.p.c., può cambiare[23]. Così, se il giudice dispone attività processuali da svolgere immediatamente, egli ovviamente disporrà, quale conseguenza naturale, una nuova data di udienza[24]. Inoltre, anche se il giudice non dovesse dare alcun ordine processuale per le varie questioni che la prima parte del primo comma dell’art. 171-bis c.p.c. indicano, egli potrebbe comunque, per ragioni di organizzazione del suo lavoro, spostare l’udienza già fissata per un massimo di 45 giorni[25].

Per dare certezza in ordine all’individuazione di questo importantissimo momento del processo il legislatore ha persino disposto che il giudice in sede di verifiche preliminari debba comunque adottare un provvedimento in tal senso, anche se, per ipotesi, dovesse confermare la data dell’udienza già fissata nell’atto di citazione.

Tuttavia, c’è da notare come, almeno in base alla disciplina attualmente in vigore, la realtà delle cose potrebbe anche fare emergere situazioni singolari e disfunzionali, ciò per il semplice fatto che quel termine di 15 giorni assegnato al giudice per svolgere le attività di cui all’art. 171-bis c.p.c. è del tutto canzonatorio. Così, se nel caso concreto il giudice non dovesse dare segnali di fumo entro quel breve spazio temporale, decorrente dal termine ultimo per la costituzione tempestiva del convenuto, le parti cadrebbero nell’incertezza. Per esse, in mancanza di eventi successivi, resta validamente fissata la data dell’udienza indicata dall’attore nell’atto di citazione, per cui, consequenzialmente, le loro memorie integrative di cui all’art. 171-ter c.p.c. dovrebbero rispettare i termini calcolati a ritroso da quella data[26].

Ma, se quei segnali di fumo da parte del giudice potrebbero non levarsi mai, giungendosi così all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. dopo lo scambio di memorie scritte nei tempi sopra individuati, è pur vero che essi, invece, potrebbero levarsi tardivamente. Ecco che le parti potrebbero trovarsi di fronte ad un decreto del giudice col quale si fissa una nuova data dell’udienza, con o senza previo rilievo di questioni da parte sua o addirittura con ordini processuali dati in virtù delle tardive verifiche preliminari. Se il giudice ha rilevato questioni o dato ordini, la prima udienza sarà stata differita[27] e le parti allora dovranno recuperare, rispettando gli ordini del giudice ovvero riscrivendo memorie già scritte al fine di replicare alle questioni sollevate dal giudice, memorie che però non potevano non scrivere nella decorrenza degli originari termini, perché nessuno poteva garantire loro che il giudice dormiente restasse tale. Insomma, nessuno poteva garantire loro che non vi sarebbe stato alcun decreto o che, al limite, ve ne sarebbe stato uno in ritardo ma con la fissazione di una data dell’udienza spostata in avanti rispetto a quella prestabilita nell’atto di citazione.

Ma anche se il giudice non ha fatto alcuna questione e, tardivamente, differisce la data dell’udienza, le parti potrebbero riscrivere quelle memorie o anche lasciare quelle già scritte.

A meno che non si ritenga che, una volta depositata la prima memoria integrativa delle parti, il giudice non possa più confondere le acque con un suo tardivo decreto. Insomma, a meno che, sia pur presupponendo l’obbligatorietà delle verifiche preliminari, tuttavia si ipotizzi che vi sia una sorta di preclusione per il giudice, da far cadere al momento in cui comincia la trattazione tra le parti, ciò in virtù dell’esigenza di non creare complicazioni eccessive. In tal caso ogni rilievo da parte del giudice sarebbe rimandato all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

Una simile soluzione[28] potrebbe essere ragionevole, ma qui mi limito a porla come ipotesi di lavoro, perché non so quanto essa possa essere praticabile a fronte del testo dell’art. 171-bis c.p.c. attualmente ancora vigente.

Va solo aggiunto che tale ipotesi di lavoro sarà superata ove dovesse approvarsi il c.d. correttivo così come ora lo conosciamo, nel quale, per far fronte ai problemi sopra segnalati, si prevede che il giudice debba senz’altro pronunciare il decreto di fissazione dell’udienza, anche se dovesse confermare la data già fissata nell’atto di citazione e non rilevare alcuna questione, ed inoltre, e direi soprattutto, che i termini di cui all’art. 171-ter c.p.c. non decorrono fino a quando quel decreto non sia pronunciato. Così, come altri ha detto, le parti «non si troveranno più alle prese con il complicato tema dei termini che decorrono “da soli” e il dubbio su che cosa si debba fare se il provvedimento del giudice non arriva, oppure arriva quando già i termini per le memorie integrative stanno decorrendo»[29].

La modifica sarà senz’altro positiva, ancorché residuerà un problema pratico.

Invero, se i termini per le memorie integrative sono sempre calcolati a ritroso rispetto all’udienza fissata, l’eventuale ritardo del giudice nell’adottare il detto decreto non potrebbe intaccarli, ma neanche potrebbe strozzare i tempi di lavoro delle parti. Insomma, in teoria quel decreto dovrebbe arrivare nei 15 giorni dopo la scadenza del termine di cui all’art. 166 c.p.c., per cui le parti, dovendo depositare la prima memoria 40 giorni prima dell’udienza, hanno 15 giorni per scriverla dopo aver conosciuto il decreto del giudice. Ed allora: che succede se quel decreto giunge, invece che nei 15 giorni, più tardi ed in esso, non sollevandosi alcuna questione, ci si limita solo a fissare l’udienza? Può a questo punto il giudice confermare la data già fissata nell’atto di citazione, sottraendo così giorni di lavoro agli avvocati delle parti?

Io avrei grossi dubbi e credo che il giudice ritardatario dovrebbe sempre spostare la data dell’udienza[30].

 

4.La trattazione delle parti antecedenti alla prima udienza

La trattazione deve svolgersi in memorie scritte prima di giungere all’udienza di comparizione, ipotizzandosi una sua tendenziale completezza, quindi il divieto di riaperture successive. Fermo restando che verificheremo il limite in cui tale idea può trovare applicazione, analizziamo per il momento la disciplina delle attività ammesse prima della comparizione delle parti.

Si tratta di comprendere il contenuto dell’art. 171-ter c.p.c.

Per dare un ordine all’analisi distinguiamo tra merito e rito e, poi, dal primo punto di vista distinguiamo a seconda che l’attività processuale sia di necessaria ammissione, in quanto derivante dall’attuazione del principio del contraddittorio, ovvero sia prevista dalla legge solo per la scelta operata dal legislatore, il quale ben avrebbe potuto fare una scelta diversa. Inoltre distinguiamo tra l’attività del domandare e del fare questioni da quella inerente alla prova.

Partiamo dalla prima memoria, per la quale la norma prevede, non preclusioni istruttorie, bensì la necessità di svolgere a pena di decadenza, rispetto al domandare e al questionare, una duplice serie di attività.

Nel primo ambito troviamo le attività rese necessarie dalla dialettica del contraddittorio, lasciando da parte eventuali complicazioni derivanti dalla chiamata di un terzo. Ribadendo la scelta fatta all’inizio del nostro dire, si terranno volutamente fuori dal discorso le problematiche che possono emergere nel caso di complicazioni soggettive, e magari anche oggettive, del processo, ipotizzando il gioco più semplice a tre, perché altrimenti dovremmo allungare troppo queste riflessioni, trattando di un tema che meriterebbe una approfondita analisi a sé. Insomma, è qui necessario declinare il principio del contraddittorio tra le parti ed anche rispetto alle questioni di merito sollevate dal giudice nel provvedimento di cui all’art. 171-bis c.p.c.

L’attore può innanzitutto proporre un’ulteriore domanda, rispetto a quella originaria, quando la sua attività sia giustificata dalla difesa assunta dal convenuto nella comparsa di risposta depositata 70 giorni prima dell’udienza. E’ possibile che egli chieda l’accertamento con forza di giudicato di una situazione giuridica che, essendo parte della fattispecie costitutiva del diritto da lui già fatto valere nell’atto di citazione, egli aveva inizialmente appunto solo allegato come elemento costitutivo del diritto affermato: l’attore, così, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., trasforma una questione già rientrante nell’oggetto della cognizione del giudice, in causa, quindi facendola a questo punto rientrante nell’oggetto della sua decisione e del futuro giudicato.

Inoltre l’attore può proporre propriamente quella che si definisce reconventio reconventionis, ossia una domanda che sia conseguenza della strategia difensiva avversaria. Certamente, ad esempio, a fronte dell’eccezione di novazione da parte del convenuto l’attore può pretendere la prestazione derivante dal nuovo contratto o, a fronte dell’eccezione di nullità del contratto speso dall’attore per fondare un’azione di adempimento, questi può pretendere la restituzione della prestazione già da lui eseguita.

Ma vi sono anche casi dubbi, ossia ipotesi nelle quali l’ulteriore domandare dell’attore, probabilmente in aggiunta o a volte anche in sostituzione della domanda originaria, pur non presentandosi propriamente come conseguenza della difesa del convenuto, sia tuttavia giustificato da questa. Ciò accade, ad esempio, quando l’attore, avendo agito per pretendere il corrispettivo della prestazione contrattuale resa, a fronte dell’eccezione di nullità del contratto pretenda l’ingiustificato arricchimento ovvero l’ipotesi in cui l’attore, avendo chiesto l’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c., a fronte delle difese del convenuto pretenda di essere riconosciuto proprietario in virtù della qualificazione del contratto allegato, non più come preliminare, bensì come contratto di compravendita ovvero ancora il caso in cui l’attore, avendo agito per danni derivanti da incidente stradale contro un soggetto qualificato come proprietario dell’autoveicolo, a fronte delle difese di questi, lo qualifichi come conducente.

In queste ipotesi si potrebbe anche ritenere che l’attività dell’attore rientri propriamente nel c.d. ius poenitendi, giustificato nei primi due casi perché la domanda nuova comunque atterrebbe alla stessa vicenda della vita e nel terzo caso perché in realtà non si tratterebbe tanto di una domanda nuova, bensì di una modificazione della domanda originaria, che resterebbe appuntata sempre allo stesso diritto.

Fermo restando che comunque queste attività sono ragionevolmente da ammettere, a me sembra che esse siano meglio giustificabili se le si fondano sul principio del contraddittorio, insomma sull’idea per cui l’attore può rispondere, anche ulteriormente domandando, a fronte della strategia difensiva assunta dal convenuto nella comparsa di risposta. Del resto, come vedremo, in questa memoria l’attore può attivarsi per la chiamata di un terzo, con la quale si potrebbe anche avere la proposizione di una domanda alternativa nei confronti del chiamato e ciò «se l’esigenza è sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta». Insomma, l’attore, che pur avrebbe potuto fin dall’inizio citare due convenuti e proporre nei loro confronti domande alternative, può, invece, agire inizialmente solo contro uno e poi aggiungere l’ulteriore domanda contro l’altro, che, si badi, non è propriamente conseguente alla difesa del convenuto, ma su questa comunque si basa. Ed, allora, se questa attività, la cui esigenza deriva dalla difesa del convenuto, può aversi coinvolgendo un’ulteriore parte, perché mai essa non potrebbe ammettersi contro lo stesso ed originario convenuto?

Ma non è questa l’idea più diffusa, la quale, invece di giocare sulla dialettica del contraddittorio, ne prescinde, preferendo allargare i confini dell’ammissibile modificazione della domanda pura e semplice, prima prevista nella prima memoria della coda scritta disciplinata dal previgente art. 183 c.p.c. ed oggi prevista nell’ultimo inciso della prima frase dell’art. 171-ter n. 1 c.p.c. ove recita «nonché…modificare le domande»[31].

Tuttavia, credo che la differenza pratica tra le due prospettive, se prima emergeva, oggi potrebbe non emergere più. Non si deve dimenticare come alla luce del precedente sistema la reazione dell’attore domandando dovesse collocarsi nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., potendosi avere la modificazione della domanda successivamente nella prima memoria della coda scritta. Questo iato temporale ha portato a far travalicare il concetto di emendatio nell’area della mutatio libelli, almeno in certi casi. Ma, con la riforma Cartabia entrambe quelle attività dell’attore sono inserite nella prima memoria integrativa di cui all’art. 171-ter c.p.c. Ed allora io spero che di quel travalicamento non vi sia più bisogno e che si possa tornare ad un concetto di emendatio libelli che sia rispettoso dei criteri propri all’individuazione dei diritti, abbandonando l’incerta perimetrazione data dalla c.d. “vicenda della vita”.

In secondo luogo sempre le esigenze di contraddittorio giustificano ogni ulteriore questione che possa fare l’attore a fronte della difesa avversaria. Così, ad esempio, a fronte della domanda riconvenzionale proposta dal convenuto nella comparsa di risposta tempestivamente depositata l’attore può rilevare ogni tipo di eccezione, anche in senso stretto. Ovvero a fronte delle eccezioni rilevate dal convenuto, l’attore può controdedurre: si pensi classicamente all’ipotesi in cui, avendo il convenuto, sempre in detta comparsa, rilevato l’eccezione di prescrizione avverso la domanda dell’attore, questi controdeduca fatti interruttivi di essa.

Peraltro, questo potere, che riguarda entrambe le parti, di allegare nuovi fatti e così fare nuove questioni, fondato sulla dialettica del contraddittorio, può anche emergere a fronte della spendita da parte del giudice dei suoi poteri d’ufficio. Si pensi, per fare un solo esempio, all’eventualità che il giudice rilevi una nullità c.d. di protezione, dalla cui trattazione deriva la rilevanza di fatti come l’essere il convenuto un consumatore e l’essersi avuta una specifica trattativa sulla clausola “incriminata”.

Infine, riprendendo un accenno già fatto, sempre in questa prima memoria l’attore deve attivarsi per la chiamata di un terzo ai sensi dell’art. 106 c.p.c., ove il suo interesse nasca appunto dalla difesa del convenuto. Se questi abbia contestato di essere il vero legittimato passivo, l’attore può attivarsi per chiamare in causa colui che è stato indicato come tale. Se il convenuto ha proposto una domanda riconvenzionale, l’attore, se vi sono le condizioni, può chiamare in garanzia un terzo. Peraltro, a questo momento la detta chiamata non ha un seguito, per cui, mentre il chiamato su istanza del convenuto partecipa alla trattazione di cui qui si sta parlando, perché a quella istanza, contenuta nella comparsa di risposta del convenuto, si dà corso prima, invece il terzo che si vorrebbe coinvolgere su istanza dell’attore sarà eventualmente chiamato all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., con tutte le complicazioni che ora non è il caso di affrontare.

Restando ancora all’analisi della prima memoria disciplinata dall’art. 171-ter c.p.c., la norma prevede pure la possibilità di andare oltre la dialettica del contraddittorio, consentendo alle parti di svolgere precisazioni e modificazioni di domande e conclusioni. Questo è quello che comunemente è chiamato esercizio di uno ius poenitendi.

Ma quali attività rientrino in questo ambito può essere assai discutibile e la riforma Cartabia non porta alcuna novità rispetto alle discussioni precedenti. Così, senza approfondire temi tanto dibattuti da molto tempo, sinteticamente si ricorda solo quanto segue.

È certo che si possano allegare circostanze di fatto che rientrano nelle questioni già poste, attengano ai fatti costitutivi del diritto in gioco ovvero ai fatti impeditivi, modificativi ed estintivi: queste sono le precisazioni.

Altrettanto certo è che si possano rilevare eccezioni in senso lato, quindi tra quelle che non siano riservate solo alle parti.

I dubbi nascono soprattutto a fronte del concetto di modificazione della domanda, perché può essere discutibile il come distinguerla dal mutamento. Il problema è: quando modificare la qualificazione giuridica dei fatti allegati ovvero allegare nuovi fatti costitutivi implica una modifica della domanda e quando, invece, emerge l’affermazione di un diritto diverso da quello in precedenza affermato e, così, emerge una mutatio libelli che dovrebbe essere vietata?

Si torna ancora al problema già sopra accennato.

È nota la distinzione tra diritti autoindividuati e diritti eteroindividuati. Ma essa può rappresentare solo il punto di partenza di un’indagine per nulla semplice. Così è opinione diffusa che allegare un fatto costitutivo ulteriore in riferimento ad un diritto di proprietà su un dato bene rientri nella semplice modifica della domanda. Come è ragionevole pensare che, chiesto l’annullamento ovvero l’accertamento della nullità di un contratto per un dato motivo, l’allegazione di un ulteriore motivo di annullamento o di nullità rientri nell’esercizio dello ius poenitendi.

Ma, altro è chiedersi se si tratti di semplice emendatio libelli ovvero si travalichi nella sua mutatio ove ad esempio: 1) si alleghi la responsabilità extracontrattuale dopo aver speso quella contrattuale o viceversa, 2) si chieda l’accertamento della proprietà per la stipula di un contratto definitivo dopo aver esercitato l’azione di cui all’art. 2932 c.c. 3) si pretenda l’arricchimento senza causa dopo aver esercitato l’azione di adempimento contrattuale, 4) si fondi la pretesa richiesta su una norma giuridica diversa da quella originariamente spesa, 5) si azioni un’impugnativa negoziale diversa da quella che aveva formato oggetto della domanda originaria.

Mi fermo qui, perché gli esempi potrebbero continuare. Ma mi fermo qui anche nella trattazione del problema, perché la sua soluzione non riceve dalla riforma Cartabia alcuno stimolo diverso ed ulteriore rispetto alla normativa precedente, a fronte della quale si ponevano gli stessi problemi che si dovranno affrontare pure con l’applicazione della nuova normativa.

Mi limito solo a ribadire ancora quanto ho detto sopra e cioè che diverse tra le attività indicate sono a mio parere possibili, ma non in quanto rappresentino una modificazione della domanda, bensì in quanto (e solo in quanto) siano giustificate dalla dialettica del contraddittorio.

Chiarito il contenuto della prima memoria, c’è da dire che nella seconda si hanno attività di trattazione in risposta a quanto sviluppato nella prima memoria mentre nella terza si tratta di replicare a quanto emerso nella seconda. A tale proposito c’è solo da rilevare come il c.d. correttivo apporti un chiarimento, che pur si poteva fare in via interpretativa, specificando che le nuove eccezioni ammesse in replica alle attività svolte nella prima memoria potranno essere sia quelle sollevate avverso le domande proposte sia quelle avverso le nuove eccezioni svolte. La quale cosa, più ampiamente, deve significare che il potere di replica è ampiamente da intendere a fronte di ogni questione fatta nella prima memoria, anche se essa attiene ai profili della domanda originaria proposta dall’attore.

Passando alle articolazioni istruttorie è evidente come il legislatore, in fondo ripetendo, ancorché mutando ciò che c’è da mutare, lo schema della normativa previgente che era applicabile dopo l’udienza, abbia collocato le c.d. preclusioni istruttorie al momento della seconda memoria di cui all’art. 171-ter, scelta confermata anche dal fatto che nella terza memoria sono possibili solo indicazioni di prova contraria.

Ma qui bisogna stare attenti nel comprendere il contenuto della terza memoria.

Per essa la norma parla di «indicare la prova contraria». Ora, il concetto di prova contraria ha una duplice valenza. In primo luogo vi rientra la possibilità di articolare prova avverso altre prove offerte o richieste dalla controparte su un dato fatto in precedenza allegato. In secondo luogo in quel concetto rientra anche la possibilità di allegare un fatto incompatibile con quello affermato da controparte e quindi articolare prova su questo, perché se esso è accertato come vero è di conseguenza accertata come falsa l’allegazione avversaria.

Ma la terza memoria serve anche per replicare alle eccezioni nuove rilevate nella seconda memoria. Quindi è qui possibile allegare e provare un fatto ulteriore che è diventato rilevante a causa delle questioni che siano emerse nella seconda memoria. Se, ad esempio, il convenuto ha nella seconda memoria eccepito la prescrizione avverso la domanda ritualmente proposta dall’attore nella prima memoria, questi potrà nella terza memoria anche allegare fatti interruttivi della prescrizione e quindi articolare prova su di essi.

Inoltre, se nella terza memoria accade una cosa come quella appena vista, il convenuto dovrà pure avere la possibilità di controprovare in riferimento a quei fatti interruttivi della prescrizione. Ma in tal caso evidentemente il gioco non finisce con la terza memoria e si riaprirà all’udienza[32]. Come, del resto, sempre all’udienza la parte interessata potrà sollevare questioni di ammissibilità e rilevanza in riferimento alle istanze istruttorie ritualmente fatte nella terza memoria di cui all’art. 171-ter c.p.c.

Rispetto alla trattazione della causa residua una domanda: esiste una barriera preclusiva per la specifica[33] contestazione di cui all’art. 115 c.p.c.? Vanamente si cercherebbe la risposta nella legge[34], per cui è necessario ricavarla sistematicamente dallo scopo del meccanismo disciplinato nel citato articolo di legge.

Se questo sta nell’assolvere la parte interessata dall’onere di provare il fatto da lei affermato, evidentemente la controparte avrà l’onere della contestazione entro il termine ultimo previsto dalla legge per poter articolare prova. Così, tendenzialmente, i fatti affermati dalle parti negli atti introduttivi (atto di citazione e comparsa di risposta) dovranno essere contestati nella prima memoria di cui all’art. 171-ter c.p.c, mentre i fatti allegati in questa memoria ovvero anche successivamente, nei limiti che vedremo possibili, dovranno essere contestati nella prima difesa utile.

Se si ammette che una parte possa contestare i fatti affermati dalla controparte in un momento in cui questa non ha più, a termini di legge, la facoltà di articolare prova, ragionevolmente si possono ipotizzare solo due soluzioni alternative: o si ammette, di conseguenza, la riapertura del potere di articolare prova in capo alla parte che fin dall’inizio vedeva caricato su di sé l’onere della prova di quel certo fatto oppure si ritiene che la contestazione tardiva provochi un’inversione dell’onere della prova. A me sembra più ragionevole questa seconda soluzione, perché meno dispendiosa e più rigorosa a fronte di un comportamento processuale sbagliato, potendo a questo punto la parte indisciplinata fare ben poco, essendo già caduta la mannaia delle preclusioni istruttorie.

Per concludere poche parole sulla trattazione delle parti rispetto alle questioni di rito rilevate dal giudice nel provvedimento di cui all’art. 171-bis. Ci si chiede: in quale memoria le parti devono difendersi su di esse? Io direi che vale quanto già abbiamo detto in riferimento alle questioni di merito, che pur il giudice può aver rilevato in sede di verifiche preliminari. Insomma, a fronte di ogni questione rilevata dal giudice prima dell’operatività dell’art. 171-ter c.p.c. direi che il luogo corretto delle repliche di parte stia nella prima memoria da questo articolo disciplinata.

 

5.La prima udienza di comparizione

Alla prima udienza di comparizione la riforma Cartabia torna a scommettere sull’utilità di sentire liberamente le parti per chiarire i termini della controversia e magari tentare una conciliazione. A questo fine le parti sono obbligate a comparire personalmente.

Ciò premesso, però, potrebbe essere dubbio il come, per così dire, mettere in ordine le varie attività che potrebbero aversi in tale udienza. Invero qui si contemplano: 1) l’interrogatorio libero delle parti, 2) l’immediata rimessione in decisione della causa ai sensi dell’art. 187 c.p.c., magari anche per la presenza di una questione liquida (di rito o di merito) idonea a definire il processo, 3) l’autorizzazione a chiamare il terzo richiesta in precedenza dall’attore, 4) l’adozione di provvedimenti istruttori.

Se certamente l’adozione di provvedimenti istruttori è l’ultima attività da considerare, per il resto non credo che in questo ambito vi siano regole del tutto certe ed anzi ritengo che vi siano spazi da lasciare alla valutazione del giudice di caso in caso. Ciononostante, provo ad ipotizzare qualche linea-guida, in base a principi generali e guardando al testo dell’art. 183 c.p.c.

Innanzitutto a me sembra che nel rapporto tra l’interrogatorio libero, che mira anche al tentativo di trovare una soluzione negoziata, e la considerazione delle questioni di merito il giudice debba prediligere prima la celebrazione di quello, perché se si trovasse un accordo la necessità di fare ogni altra cosa sarebbe superata. Anche se la previsione dell’interrogatorio libero è contenuta nel terzo comma della norma in commento, ossia dopo la posizione dell’alternativa tra l’applicare l’art. 187 e il procedere alla chiamata del terzo, a me sembrerebbe ragionevole, sia nell’interesse delle parti sia nell’interesse generale alla miglior gestione del servizio giustizia, calibrare diversamente l’ordine delle cose, perché, ripeto, il raggiungimento dell’accordo chiuderebbe la partita, non solo nel giudizio di primo grado che ora stiamo ipotizzando come pendente.

Peraltro, se si vuole, un piccolo appiglio a sostegno di questa soluzione potrebbe venire anche dal fatto che l’art. 183 c.p.c. si apre proclamando il solenne principio per cui le parti devono comparire personalmente a tale udienza, rischiando di essere sanzionate in caso di mancata cooperazione. Né si fanno distinzioni, cosa curiosa se dovesse ritenersi che tendenzialmente la prima attività da svolgere non fosse quella di ascoltarle liberamente, perché, invero, non si capisce a quale scopo dovrebbero esse comparire se poi la causa dovesse trovare subito una rimessione in decisione oppure essere rinviata per consentire la chiamata di un terzo.

Altro è il discorso quando si hanno sul tappeto questioni di rito.

Si potrebbe ritenere che la valutazione di queste sia sempre pregiudiziale allo svolgimento del dialogo libero con le parti[35]. Oppure si potrebbe distinguere a seconda delle diverse situazioni processuali, magari tracciando la linea di confine tra quelle per le quali il giudice abbia già dato un ordine in sanatoria in sede di verifiche preliminari e le altre, affermando che, se nei casi del primo gruppo il giudice, arrivati all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., debba innanzitutto verificare che il suo ordine sia stato rispettato, applicando la conseguente sanzione processuale in caso contrario[36], per le altre questioni, invece, il giudice dovrebbe posporre ogni valutazione su quelle già rilevate, da lui stesso ai sensi dell’art. 171-bis ovvero dalle parti nelle memorie di cui all’art. 171-ter, ovvero ogni possibile rilievo d’ufficio per quelle non ancora rilevate prima. O ancora si potrebbe distinguere a seconda delle diverse questioni, a prescindere dalla situazione processuale verificatasi su di esse, ipotizzando che la rilevanza di alcune impedisca lo svolgersi dell’interrogatorio libero, mentre per altre le si potrebbe anche posporre.

Il tema, forse più teorico che pratico, è troppo complesso per poter essere trattato in questa sede. Mi permetto solo di notare come per diverse tra le ipotesi in cui il giudice abbia già impartito l’ordine in sanatoria in sede di verifiche preliminari sia difficile ipotizzare che si tenti la conciliazione tra le parti mettendole temporaneamente da parte. Si pensi solo agli ordini di cui agli articoli 164, 182, 291 o 102 c.p.c.

A parte questo problema, forse, ripeto, più spinoso in astratto che in concreto, riprendendo il rilievo per cui le parti sono obbligate a comparire personalmente, si segnala come il loro comportamento poco collaborativo possa essere valutato quale argomento di prova, sempre, ovviamente, che almeno una parte si sia comportata bene, perché ove entrambe violassero la previsione non si avrebbe nessuna parte che potrebbe avvantaggiarsi della scarsa diligenza dell’altra.

Questa previsione, che potrebbe anche essere impegnativa per persone non abituate ad andare di fronte ai giudici e magari anche in difficoltà pratiche che possano rendere la cosa difficile, è peraltro attutita in due modi.

Innanzitutto, in analogia a quanto previsto nell’art. 185 c.p.c., sembra che le parti possano farsi rappresentare, magari anche dai loro stessi avvocati. L’affermazione, per la verità, potrebbe essere discutibile, perché si potrebbe ritenere che il regime facilitato possa valere solo quando la comparizione personale delle parti non è obbligatoria per legge. E un’interpretazione così rigida potrebbe anche essere avvalorata dal rilievo per cui il d.lgs. n. 28/2010 oggi prevede (all’art. 8) la necessaria presenza personale delle parti, facendo salva la possibilità di queste di farsi rappresentare solo in presenza di giustificati motivi.

Però è anche vero che è preferibile sostenere l’interpretazione meno rigida, almeno fino a quando essa non sia esplicitamente esclusa dalla legge, perché un divieto di rappresentanza sostanziale, se è irragionevole in mediazione, è bene che non sia alimentato nel processo.

In secondo luogo, si tenga presente che le parti potrebbero anche parlarsi tra di loro e confrontarsi col giudice pure da remoto, in virtù dell’art. 127-bis c.p.c., strumento che è bene sia utilizzato dal giudice che voglia facilitare in ogni modo un dialogo più informale.

Analizzando strutturalmente questa attività, è evidente come qui emerga una sorta di dialogo libero tra le parti ed il giudice con una duplice finalità: la prima, e forse pregiudiziale[37], sta nel cercare una soluzione negoziata per le parti e la seconda sta nel cercare di chiarire i fatti di causa, cosa utile essenzialmente ove la soluzione negoziata fallisca.

Sul primo aspetto c’è da dire che la previsione di un obbligo di legge generalizzato, peraltro privo di sanzione e comunque inattuabile ove sia in gioco un diritto indisponibile, è del tutto irragionevole, perché non consente al giudice di fare una valutazione di opportunità sul tentativo legato alle circostanze del caso concreto. Inoltre, ancor più irragionevole esso appare ove le parti abbiano già provato a svolgere un tentativo di dialogo prima del processo, perché reso obbligatorio dalla normativa sulla mediazione o sulla negoziazione assistita o anche perché di fatto svolto, come l’esperienza forense ha sempre dimostrato. Invero, ha senso prevedere la possibilità per il giudice di inviare in mediazione delegata le parti quando la causa ha un certo grado di maturazione o comunque in base a valutazioni legate al caso singolo. Ma previsioni di obblighi generali, peraltro in ipotesi da rispettare all’inizio del processo, è scelta legislativa del tutto priva di senso, anche se nel paradigma attuale si arriva all’udienza ex art. 183 c.p.c. dopo che le parti hanno già svolto la trattazione della causa.

Sull’interrogatorio libero in senso proprio c’è da rilevare come la legge specifichi l’inciso «sulla base dei fatti allegati». La previsione è assai importante perché rende chiaro come in questa sede non siano possibili nuove allegazioni di fatti, attività ormai preclusa, salve le eccezioni che poi vedremo. Quindi il giudice potrà chiedere chiarimenti solo su fatti che già risultano dalle carte: siano essi stati propriamente allegati dalle parti, ossia resi oggetto di loro affermazioni formali negli atti introduttivi ovvero nelle memorie di cui all’art. 173-ter c.p.c., ovvero risultino dalle carte e siano ritualmente utilizzabili (c.d. fatti avventizi).

Proseguendo nell’illustrazione di questa udienza, ove, evitata l’immediata chiusura in rito del processo, il tentativo di conciliazione non riesca, emerge il problema del rapporto tra l’immediata rimessione in decisione ex art. 187 c.p.c. e l’autorizzazione dell’attore alla chiamata in causa di un terzo. Se mal non intendo, mi sembra che l’opinione più diffusa tra i commentatori della riforma ritenga che il giudice debba prima valutare l’eventuale ed immediata maturità della causa, magari anche sulla base di una questione liquida idonea a definire il giudizio (art. 187 c.p.c.), optando per questa scelta in caso affermativo, senza dare corso alla chiamata del terzo[38].

La proposta interpretativa certamente ricalca la lettera del comma 2 dell’art. 183 c.p.c. Peraltro, essa si rafforza anche per il fatto che la nostra giurisprudenza ritiene che l’esigenza di una più rapida definizione dei processi debba prevalere sull’applicazione dell’art. 106 c.p.c.

Io credo che tale soluzione potrebbe anche essere sostenibile, ma a condizione che nel caso concreto la si misuri con i diversi valori in campo.

Mi spiego.

Guardando alla prospettiva dell’attore ed alla sua classica richiesta di chiamata del terzo per comunanza di causa, giustificata dalla c.d. contestazione della legittimazione passiva proveniente dal convenuto, non si deve dimenticare che il coinvolgimento del presunto “vero legittimato” potrebbe essere assai importante per l’attore, che vuole evitare possibili inconvenienti derivanti dalla normale operatività delle regole sui limiti soggettivi della cosa giudicata.

Ed, allora, delle due l’una: o si dà, in ogni caso, prima corso alla chiamata del terzo stimolata dall’attore oppure nel caso concreto si deve valutare se l’esito ipotizzato della lite possa entrare in conflitto con la giusta aspirazione dell’attore ad un’efficace utilizzo di tutti gli strumenti che la legge gli offre, quindi anche quello disciplinato nell’art. 106 c.p.c. La prima soluzione ha il pregio di semplificare il quadro, ma potrebbe pregiudicare l’attuazione del principio della ragionevole durata del processo. La seconda soluzione potrebbe essere la più giusta, ma essa sconterebbe il rischio sempre insito nella valutazione del giudice di caso in caso.

Personalmente preferirei la prima soluzione, perché più tranquillizzante, ma non nascondo che essa non è necessitata alla luce della legge.

Superata questa complicazione, il giudice si trova veramente di fronte all’alternativa tra l’andare subito in decisione in virtù dell’art. 187 c.p.c. e il disporre in ordine alle istanze istruttorie presentate.

È evidente come, celebrandosi questa udienza dopo che le parti hanno ampiamente parlato e per esse siano sostanzialmente maturate tutte le preclusioni, per cui, salvo eventi sopravvenuti di cui vedremo, è già chiaro sia il tema da decidere e conoscere sia il quadro probatorio, il successo della riforma dipende da quanto i giudici riusciranno a giungere a codesta udienza veramente preparati, obiettivo per il quale in fondo è stato previsto nell’art. 171-bis c.p.c. che sta al giudice l’ultima parola sulla data dell’udienza, che lui può spostare, rispetto a quella fissata nell’atto di citazione dall’attore, anche se la scelta non è giustificata da rilievi processuali effettuati.

Ma questo aspetto prescinde sostanzialmente dalla disciplina del processo ed attiene alla capacità di lavoro dei singoli giudici e degli uffici in cui operano. Rimaniamo, allora, per il momento alla descrizione delle attività possibili in questa udienza.

Nell’ipotesi più complicata, oltre al fatto che la trattazione potrebbe anche avere un’ulteriore coda come abbia visto sopra e come ancora vedremo poi, ad esempio per l’eventualità che il giudice rilevi solo all’udienza questioni ulteriori[39], il giudice si occuperà essenzialmente del problema delle prove e quindi egli: 1) deciderà sulle istanze istruttorie delle parti, accogliendole o rigettandole; 2) disporrà d’ufficio l’assunzione di mezzi di prova, dando alle parti un doppio termine perentorio al fine di indicare controprove nonché replicare, attività alle quali il giudice risponderà con una seconda ordinanza; 3) fisserà il calendario delle udienze successive, a cominciare da quella per l’assunzione dei mezzi di prova ammessi, da celebrarsi entro 90 giorni, fino a quella di rimessione in decisione, indicando gli incombenti che verranno espletati in ciascuna di esse.

Insomma il giudice deciderà i termini di un programma di lavoro istruttorio, anche se qui non potremo avere rigidità, perché ben è possibile che il programma subisca deviazioni sia per la riapertura della trattazione nei casi che vedremo sia anche, ferme restando le questioni e le prove già emerse nel processo, per l’eventualità che ad esempio il giudice rinvii le parti in mediazione c.d. delegata.

6.La superabilità delle preclusioni

Ogni regola di preclusione è superabile per due ragioni, sulle quali nulla ha inciso, né avrebbe potuto, la riforma Cartabia.

La prima attiene alla dialettica tra le parti, ma soprattutto a quella tra queste ed il giudice, in virtù della certa regola, ancorché non scritta, per cui il principio del contraddittorio prevale sul principio di preclusione. Così, per fare un solo esempio, è ovvio che se il giudice esercita in ritardo il suo potere di rilevare questioni ovvero di qualificare giuridicamente la fattispecie, rimanendo nei limiti della domanda (iura novit curia), le parti potranno allegare fatti ulteriori che a questo punto diventano rilevanti. Si torni sempre all’esempio già fatto dell’eccezione di nullità rilevata dal giudice, dalla quale può derivare la necessità di trattare una serie di questioni consequenziali aventi profili in fatto ed in diritto.

La seconda possibilità di superamento deriva dall’eventualità che al di fuori del processo sopravvengano delle novità rilevanti per la lite che ne è oggetto: può accadere un fatto che non esisteva quando sono maturate le preclusioni ovvero sopraggiungere una norma giuridica nuova e rilevante nella controversia, magari anche derivante da una sentenza della Corte costituzionale.

Anche qui non si può fare altro che riaprire la trattazione, scelta ragionevole se si pensa che in caso contrario si dovrebbe anticipare irrazionalmente ed eccessivamente il momento a cui ancorare il referente temporale del giudicato.

Su questi principi di carattere sistematico, abbiamo detto, non ha inciso la riforma Cartabia. Ma la diversa disciplina della fase decisoria in essa contenuta suscita un dubbio. Ci si chiede: qual è il momento ultimo per poter allegare fatti nuovi? O, se si vuole, a quale momento va ancorato il riferimento temporale della cosa giudicata?

In precedenza la risposta era certa, affermandosi che quel momento stesse nell’udienza di precisazione delle conclusioni.

Oggi a me sembra che, mutadis mutandis, quel momento debba sempre essere collocato nell’ambito dell’attività di precisazione delle conclusioni, anche se è cambiata la disciplina della fase decisoria in tribunale. Così, sia guardando alla decisione collegiale (art. 189 c.p.c.) sia guardando a quella monocratica (art. 281-quinquies c.p.c.), io credo che il momento ultimo per allegare fatti nuovi stia nella prima memoria di cui all’art. 189 c.p.c. e non nell’udienza di rimessione della causa in decisione[40], che rappresenta solo un momento di passaggio sostanzialmente vuoto di attività.

7.Conclusioni

In conclusione sarebbe inutile continuare a ripetere quanto detto in tantissime occasioni da persone di buona volontà ossia che le ripetute riforme del processo civile sono inutili e dannose. La politica non ascolta e se lo fa liquida le critiche come una sorta di “pianto greco”.

Certo, ne fanno le spese i cittadini, ma di questo spesso ci si dimentica.

Andando oltre il “pianto greco”, mi restano da rilevare solo un paio di cose. La prima: il disegno della legge potrebbe anche avere una logica, nel momento in cui si aspira a giungere all’udienza di prima comparizione e trattazione con un processo che, per un verso, sia ripulito dalle questioni processuali o almeno da quelle che potremmo definire di primo impatto, e, per altro verso, abbia già (tendenzialmente) chiaro su cosa bisogna decidere, che cosa conoscere e quali siano gli strumenti da usare, in ipotesi, a tale fine.

Ma poi il modo in cui si vuole attuare il disegno è frettoloso ed in fondo pecca di astrattismo.

Pecca di astrattismo perché sembra che non si facciano i conti con la realtà degli uffici giudiziari e con la loro capacità di rispondere alla domanda di giustizia. Qui il legislatore processuale si comporta come quei sindaci che, immaginando città trasformate in giardini paradisiaci, chiudono al traffico gran parte degli spazi, ma senza provvedere a costruire parcheggi posti al perimetro di quei (sognati) paradisi.

A tal proposito spesso tra gli interpreti emerge la speranza che ad ogni esigenza risponda l’Ufficio per il processo, ma non so se sarà così ed in fondo, anche se lo sarà, non so quanto sia giusto che questa sia la soluzione.

Quanto alla frettolosità, che poi è anche causa di ripensamenti continui, il difetto sta diventando drammatico. Si pensi a questo nuovo istituto che emerge dall’art. 171-bis c.p.c.: quanti problemi crea, in fondo più di quanti ne vorrebbe risolvere?

A tal proposito mi viene da fare la seconda ed ultima riflessione, che si riferisce al recente intervento della Corte costituzionale più volte sopra citato. Certo, è apprezzabile lo sforzo di salvare il salvabile, obiettivo che poi in fondo è centrato anche riconoscendo la bontà di prassi ed opinioni dottrinarie emerse.

Ma, mi domando: è corretto che per realizzare l’obiettivo si inventino norme giuridiche? Si pensi a quella cervellotica distinzione per cui il mancato rispetto dell’ordine in sanatoria impartito dal giudice col decreto in fase preliminare porterà poi, giunti all’udienza ex art. 183 c.p.c., alla chiusura in rito del processo solo se l’interessato non abbia stimolato prima il giudice a concedere il contradditorio, dovendosi, invece, in caso contrario ribadire l’ordine, per dare all’interessato una seconda possibilità, ma questa volta a valle di una dialettica che non è riuscito ad avere prima.

Qui è evidente come la Corte costituzionale costruisca norme che non esistono.

Si apprezza lo sforzo e ciò che lo anima, ma francamente non so quando ci si fermerà in queste derive. Insomma, in tutta franchezza non so quando ci si fermerà in questa ossessiva corsa a legiferare inutilmente e senza criterio, quando si capirà che la complessità del reale va governata trovando ordinazioni lineari, ragionevoli e con un po’ di stabilità, evitando di scrivere frettolosamente norme che sono esse stesse fattori di moltiplicazione di quelle complicazioni.

 

 

[1]  Sul quale vedi a prima lettura proprio in riferimento ad alcuni dei temi che tratteremo SALVANASCHI, Luci e ombre nello Schema di decreto legislativo correttivo e integrativo delle disposizioni processuali introdotte con la riforma Cartabia, in www.judicium.it 4 aprile 2024.

[2]  Si segnala come l’istituto sia stato di recente salvato da una denuncia di eccesso di delega in C. cost. 3 giugno 2024 n. 96, nel cui § 6.1 si legge: «se effettivamente l’art. 1, comma 5, della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio ordinario di cognizione di primo grado. Infatti, la previsione ad opera della legge delega di uno scambio di memorie tra le parti prima della celebrazione dell’udienza sarebbe stata inutile o addirittura dannosa per l’auspicata concentrazione processuale senza un previo intervento del giudice. (…) In definitiva, una norma come quella espressa dall’art. 171-bis cod. proc. civ. è riconducibile al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 5, lettera i), della legge n. 206 del 2021, che demanda al Governo l’introduzione di norme funzionali ad “adeguare le disposizioni sulla trattazione della causa ai principi di cui alle lettere da c) a g)” costituendone un naturale sviluppo in quanto coessenziale alla realizzazione del meccanismo del deposito delle memorie prima dell’udienza».

[3]  SALVANESCHI, op. cit., § 2.

[4]  Che potrebbe essere più o meno ragionevole, ma che comunque è stata salvata di recente da C. cost. 3 giugno 2024 n. 96: vedi nel § 5.2. Su di essa vedi per tutti LUISO, Diritto processuale civile, II, Milano, 2023, 30 ss.

[5]  Si aggiunga solo che, se il convenuto è nella situazione di essere dichiarato contumace quando sono scaduti i termini di cui all’art. 166 c.p.c., è anche vero che, ove egli dovesse costituirsi successivamente, ma prima dell’adozione del provvedimento del giudice, questi non potrebbe dichiararne la contumacia. Resta, ovviamente, il fatto che così facendo il convenuto ha bruciato la possibilità di compiere quelle attività che ai sensi dell’art. 167 c.p.c. devono essere svolte a pena di decadenza nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, che, peraltro, non sono poche o irrilevanti, non potendo più egli: proporre domanda riconvenzionale, rilevare eccezioni di merito e di rito riservate alla parte, attivarsi per la chiamata di un terzo ai sensi dell’art. 106 c.p.c. In tutto ciò il c.d. correttivo nulla cambia. Né in esso si affronta il problema più grave della contumacia dell’attore, dovendosi ancora aspettare che il convenuto chieda la continuazione del giudizio, probabilmente nella prima memoria di cui all’art. 171-ter c.p.c.

[6]  Sul grave sacrificio del principio del contraddittorio vedi MENCHINI, MERLIN, Le nuove norme sul processo ordinario di rimo grado davanti al tribunale, in Riv. dir. proc., 2023, 578 ss., spec. 588-589.

[7]  Riprendendo un accenno già fatto, si ribadisce che C. cost. 3 giugno 2024 n. 96, nel salvare la distinzione tra le due categorie di questioni processuali, ha detto nel § 7: «Tale diversa regola processuale (…) appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti volti alla corretta instaurazione del contraddittorio (…) ovvero alla sanatoria di vizi degli atti introduttivi e il rilievo d’ufficio di altre questioni ad opera dell’autorità giudiziaria, hanno sui tempi di svolgimento del giudizio, sui quali sono suscettibili di incidere, dilatandoli, solo i primi, comportando, di regola, un differimento dell’udienza di trattazione. Vi è, poi, che i provvedimenti emessi a seguito delle cosiddette “verifiche preliminari” si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti. Il che impedisce di ritenere integrata un’ingiustificata disparità di trattamento ridondante in una violazione dell’art. 3 Cost., poiché, come questa Corte ha costantemente affermato, una violazione del principio di eguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondono situazioni non assimilabili».

[8]  Questa scelta potrebbe essere ragionevole, ma bisogna farla considerando che comunque i termini per svolgere le memorie integrative di cui all’art. 171-ter c.p.c. correranno anche in pendenza della mediazione, non determinando alcunché su di essi la proposizione della domanda di mediazione. Insomma, per un verso tale opzione fa guadagnare tempo, ma, per altro verso, il buon esito della negoziazione può essere, per così dire, disturbato dagli scritti difensivi, inevitabilmente dai contenuti antagonistici, che nel mentre devono farsi in giudizio.  A meno che non si ipotizzi che il giudice, in una simile situazione, faccia uso del suo potere discrezionale di differire comunque la data dell’udienza: in tal caso non si tratterebbe di adottare l’ordine in sanatoria di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 28/2010, visto che la questione della procedibilità della domanda il giudice la potrà risolvere solo in prima udienza, ma di far slittare quella udienza per ragioni organizzative ed anche in virtù, se si vuole, del generale potere di direzione del processo attribuito al giudice dall’art. 175 c.p.c. Questa opzione rappresenta comunque una forzatura, anche perché in teoria lo spostamento dell’udienza dovrebbe stare nei termini di 45 giorni (chiaramente insufficienti per aspettare l’assolvimento della condizione di procedibilità). Ma, se si accetta la forzatura in nome della flessibilità, essa potrebbe anche essere maggiormente praticabile dopo che la Corte costituzionale, col recente intervento che approfondiremo, ha attribuito al giudice il potere di organizzare un’interlocuzione con le parti in sede di verifiche preliminari.

[9]  È quanto ha praticamente “inventato”, Trib. Bologna 23 giugno 2023, in Giur. it. 2023, 2105.

[10] DORO, Introduzione e trattazione del nuovo giudizio ordinario di cognizione nella riforma Cartabia, in Dirittogiustiziaecostituzione.it 2023, § 3, il quale esplicitamente afferma che il giudice emette comunque un decreto, a prescindere dal suo contenuto.

[11]  Conformemente AA, Diritto processuale civile, II, a cura di G. Ruffini, Bologna 2024, 82.

[12]  Comunque nel suo recente intervento Corte cost. 3 giugno 2024 n. 96 ha affermato che qui si ha un decreto, a prescindere dal suo contenuto: vedi nel § 5.2.

[13]  Nella già citata sentenza 3 giugno 2024 n. 96.

[14]  Sulle diverse conseguenze da trarre all’udienza di comparizione ex art. 183 c.p.c. dalle diverse situazioni che si verificano in tale contesto torneremo tra breve.

[15]  Ciò è ricordato e ribadito anche da C. Cost. 3 giugno 2024 n. 96: vedi § 5.3. In dottrina basti il rinvio a LUISO, op. cit., 31 e BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2023, 64.

[16]  Nello stesso senso MENCHINI, MERLIN, op. cit., 589, cui aderisce ROMANO, Una censurabile applicazione dei nuovi artt. 171-bis e 171-ter c.p.c., in Giur. it. 2023, 2105 ss., spec. 2107. L’alternativa potrebbe essere data da un’attivazione di previo contraddittorio con le parti, mediante memorie scritte (proposta in COSSIGNANI, Riforma Cartabia. Le modifiche al primo grado del processo di cognizione ordinario, in Giustiziainsieme.it 22 febbraio 2023, § 2.4) o celebrando una sorta di udienza preliminare nella quale sentire le parti (proposta ad esempio in BIAVATI, Argomenti di diritto processuale civile, Bologna 2023, 324), per poi provvedere e magari, a causa di ciò, spostare anche l’udienza di prima comparizione. La soluzione non è prevista, ma non è neanche vietata ed anzi essa è stata poi valorizzata dal recente intervento della Corte costituzionale qui più volte richiamato. C’è anche da dire che, pur ammettendola, essa sarebbe praticabile in situazioni di media complicatezza, perché in quella udienza preliminare non si potrebbe certo avere un confronto ampio quanto ampio può essere quello che si sviluppa nelle memorie di cui all’art. 171-ter c.p.c. Così, in base ad una valutazione del giudice, potremmo avere quattro possibilità: 1) non fare alcun rilievo preliminare, 2) farlo e provvedere inaudita altera parte, 3) farlo e provvedere dopo aver ascoltato le parti in un’udienza preliminare fissata ad hoc, 4) farlo e offrire la questione alla dialettica delle parti secondo i canoni di cui all’art. 171-ter c.p.c., per poi provvedere all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

[17]  SALVANESCHI, op. cit., § 4.

[18]  Affermazione che inevitabilmente deve fare anche SALVANESCHI, op. cit., § 5, la quale dice che comunque, giunti all’udienza, dopo aver quindi svolto la trattazione, si rischia di «ricominciare tutto da capo come nel gioco dell’oca», potendo (ed anzi dovendo) il giudice rilevare quelle questioni che avrebbe potuto affrontare nelle verifiche preliminari, ma che non ha sollevato. Ecco allora che rispunta sempre il solo e vero problema, che attiene all’organizzazione del lavoro del giudice, alla cui maggior efficienza con queste riforme si spera di contribuire soprattutto con l’Ufficio del processo.

[19] Un’idea esattamente opposta è sostenuta da qualche giudice di merito, che ritenendo non tassativo l’elenco contenuto nella prima parte del primo comma dell’art. 171-bis c.p.c., giunge persino a decidere questioni processuali nella fase delle verifiche preliminari: vedi Trib. Roma 26 febbraio 2024 in applicazione dell’art. 426 c.p.c. e Trib. Palermo 24 marzo 2024 in applicazione dell’art. 39 c.p.c. Al di là dei buoni propositi di evitare uno spreco di tempo, che a volte nei casi concreti possono apparire ragionevoli, direi che il principio generale che si vorrebbe affermare in ordine alla non tipicità dei casi elencati nella norma possa essere pericoloso.

[20] Così ad esempio DELLE DONNE, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. Tiscini, Pisa, 2023, 292; COSSIGNANI, op. cit., § 2.4; ROTA, La fase introduttiva e di trattazione pre-udienza, in Manuale breve della riforma Cartabia, a cura di L. Passanante, Milano 2024, 79 ss., spec. 94.

[21]  Idea opposta è invece sostenuta da SALVANESCHI, op. cit., § 3, la quale, però, rileva anche come il sistema può funzionare, già ora ed a maggior ragione in futuro, solo se si istituzionalizza una interlocuzione tra il giudice e le parti, per mezzo di memorie scritte o celebrando una udienza informale, il tutto fondandosi sul potere di direzione del giudice di cui all’art. 175 c.p.c. Ma, a me sembra, anche in questa eventualità comunque non si potrebbe andare in questa fase alla decisione in rito della causa.

[22]  Ciò vuol dire che se un termine scade in un giorno festivo o di sabato, esso va anticipato al giorno antecedente, fermi restando gli altri, senza che, quindi, si abbia un effetto a catena: vedi DORO, op. cit., § 4.

[23]  Quella data potrebbe cambiare anche a prescindere dalle vicende ora descritte ed essere addirittura anticipata: è il caso previsto nell’art. 163-bis, comma 2, c.p.c., che prevede un’istanza in tal senso da parte del convenuto. In questa, non certo frequente ipotesi (potrebbe essere interessato l’opposto in un procedimento per ingiunzione, avendo l’opponente fissato un’udienza assai lontana, magari perché il decreto pronunciato inaudita altera parte non è ancora titolo esecutivo), si precisa che i termini di cui all’art. 171-ter c.p.c. sono da calcolare a ritroso a far data dall’udienza così fissata.

[24] Ma certamente non tutti i rilievi che il giudice sollevi comportano la necessità di fissare una diversa prima udienza: si pensi al caso della dichiarazione di contumacia del convenuto, posta la corretta notifica dell’atto di citazione (vedi, ad esempio, DELLE DONNE, op. cit., 291).

[25] Sembra, invece, che il riferimento alla data dell’udienza fissata nell’atto di citazione, ai fini del calcolo dei termini a ritroso per le memorie integrative, non cambi ove il giudice, che non tiene udienza in quel giorno, la rinvii all’udienza immediatamente successiva da lui tenuta (art. 168-bis, comma 4, c.p.c.): vedi sul punto DORO, op. cit., § 4; ROTA, op. cit., 97, nt. 46.

[26]  Insomma, il decreto del giudice potrebbe anche non arrivare mai. Poco male: la scansione temporale delle attività successive agli atti introduttivi è certa e si calcola avendo a riferimento la data di udienza fissata dall’attore. Così, per tutti, TRISORIO LIUZZI, La fase introduttiva del giudizio civile di primo grado dinanzi al tribunale, in Il giusto processo civile 2023, 25 ss., spec. 42; DORO, op. cit., § 3.

[27]  Il differimento dell’udienza è certamente inevitabile quando il giudice rileva una delle questioni di cui alla prima parte del primo comma dell’art. 171-bis c.p.c., per le quali dà un ordine consequenziale. Ma quel differimento, anche se la cosa non è certa, deve essere ragionevolmente disposto anche quando il giudice rileva altra questione processuale da sottoporre al contraddittorio con e fra le parti, perché, invero, queste non possono vedersi decurtati giorni di lavoro per organizzare una difesa a fronte di quelle questioni.

[28]  Tratta da uno spunto ripreso in CAPPONI, Note sulla fase introduttiva del nuovo rito di ordinaria cognizione, editoriale in Giustizia civile.com 2022.

[29]  SALVANESCHI, op. cit., § 5. A proposito di tale modifica chiarisce lo scopo la Relazione di accompagnamento, nella quale si legge: «La modifica ha anche lo scopo di eliminare ogni dubbio circa il fatto che in sede di verifiche preliminari il giudice deve in ogni caso emettere un provvedimento di conferma o differimento dell’udienza, anche se non adotta uno dei provvedimenti relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio e in precedenza descritti. Ciò in quanto una volta scaduto il termine di 15 giorni le parti devono poter avere contezza del fatto che le verifiche preliminari sono state effettivamente svolte e quindi il processo può procedere nelle sue fasi successive: il deposito delle memorie integrative e l’udienza di comparizione delle parti. In mancanza di un provvedimento espresso, infatti, le parti resterebbero sempre esposte al dubbio circa l’esito delle verifiche, non potendo sapere se queste sono state svolte con esito positivo o, al contrario, non sono state ancora effettuate dal giudice, e non sarebbero quindi messe in condizione di sapere se nel frattempo decorrono i termini per il deposito delle memorie si cui all’art. 171-ter. Esse sarebbero quindi verosimilmente indotte a depositare comunque le note, per non rischiare di incorrere in decadenze, con la conseguenza che una successiva – per quanto tardiva – pronuncia del decreto renderebbe inutile l’attività svolta e potrebbe vanificare eventuali strategie processuali articolate dalle difese: eventi, questi, che determinerebbero un inutile appesantimento del processo e maggiori oneri per le parti e i loro avvocati».

[30]  Così anche in AA, Diritto processuale civile, II, cit., 83.

[31] A partire da Cass. (S.U.) 15 giugno 2015, n. 12310, in Foro it. 2015, I, 3190, con nota di MOTTO, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale. Sul tema vedi, fra gli altri, MERLIN, Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel giudizio di primo grado, in Riv. dir. proc. 2016, 816 ss.; D’ALESSANDRO, L’oggetto del giudizio di cognizione. Tra crisi delle categorie del diritto civile ed evoluzioni del diritto processuale, Torino 2016, 230 ss. e per una sintesi adesivamente esposta della giurisprudenza anche DORO, op. cit., § 4, testo e nt. 15. Per un’isolata critica vedi, se vuoi, BOVE, Individuazione dell’oggetto del processo e mutatio libelli, in Giur. It. 2016, 1607 ss.

[32]  Così, fra gli altri, AA, Diritto processuale civile, II, cit., 88.

[33]  Su questo aggettivo si potrebbe aprire una lunga parentesi. Qui basti solo rilevare come si possa pretendere una specifica contestazione dell’allegazione avversaria solo se questa sia stata a sua volta specifica. Facendo l’ipotesi basica, assunta dal punto di vista del convenuto che si difende a fronte dell’attacco dell’attore, l’onere del convenuto è esigibile in termini di specificità solo se le allegazioni dell’attore lo siano altrettanto. A ciò dovrebbe servire l’aggiunta che con la riforma Cartabia si è voluta inserire nel n. 4 del terzo comma dell’art. 163 c.p.c., in virtù della quale nell’atto di citazione l’attore deve esporre i fatti in modo chiaro e specifico, a cui fanno eco il primo comma dell’art. 167 c.p.c., per cui il convenuto deve prendere posizione su quei fatti in modo chiaro e specifico e, quindi, l’art. 115, comma 1, c.p.c., nel quale in termini generali (ossia in relazione ad ogni parte del processo) si fissa la sanzione processuale, derivante appunto dalla mancata contestazione specifica delle altrui allegazioni.

[34]  MENCHINI, MERLIN, op. cit., 583; REALI, La fase introduttiva e della trattazione, in La riforma del processo civile, a cura di D. Dalfino, Il Foro italiano. Gli speciali, Padova, 2022, 93 ss., spec. 116.

[35] Così MENCHINI, MERLIN, op. cit., 601; AA, Diritto processuale civile, II, 90, 96; MOROTTI, L’udienza di prima comparizione e trattazione, in Manuale breve della riforma Cartabia cit., 101 ss., spec. 102.

[36]  Fatte salve le distinzioni che abbiamo visto avere indicato C. Cost. 3 giugno 2024 n. 96.

[37] BUONCRISTIANI, Il processo di primo grado. Introduzione, preclusioni, trattazione e decisione, in Il processo civile dopo la riforma, a cura di C. Cecchella, Bologna, 2023, 49 ss., spec. 63

[38]  LAI, Le nuove regole per l’introduzione della causa nel rito ordinario di cognizione, in www.judicium.it 2023, § 5; DORO, op. cit., § 5; MOROTTI, op. cit., 102.

[39] BUONCRISTIANI, op. cit., 61

[40]  Così, invece, altra opinione espressa ad esempio da MENCHINI, Diritto processuale civile, I, Torino, 2023, 449.