L’ANVUR e i Maestri del diritto.

Di Antonio Briguglio -

Cos’è un Maestro? In ambito accademico ed in particolare giuridico (ma forse si può ammettere l’estensione definitoria, pur abborracciata, che segue ad altre aree del sapere “umanistico”) non è certo colui che è riconosciuto per tale da un notevole numero di allievi grati e devoti, perché altrimenti si rischierebbe il noto e perverso paradosso del confondere il maestro con il barone e dell’attribuire quarti di nobiltà accademica a chi abbia messo in cattedra il maggior numero possibile di grulli. È invece uno al quale più o meno numerosi allievi sono grati specialmente per gli errori evitati ed i suggerimenti più che per la carriera assecondata. È uno al quale i più giovani, anche se non allievi diretti o indiretti, si sentono in dovere di richiedere pazienti e disvelatrici letture in anteprima o semplicemente consigli scientifici. È uno che a poco a poco, ed al 90% grazie alle opere pubblicate, è divenuto senza troppe scorciatoie possessore di uno status e di una auctoritas spendibili anche e specialmente presso “quelli delle altre materie (giuridiche o perfino non giuridiche)”, nonché, in modo direttamente proporzionale al carattere pratico della disciplina coltivata, altresì spendibile presso la magistratura ed il foro (o perché no e nei congrui casi presso il notariato). Quanto al versante internazionalistico le valutazioni di “magistralità” sono da tempo ed abitualmente apprezzate, ma anche assai complicate e dense di equivoci e perfino di fuffa in ambiti scientifici ove le lingue nazionali ancora e per forza di cose resistono alla debordante koiné anglica. Senza poter qui minimamente affrontare il tema, basti pensare al fenomeno per cui Fabrizio De André resta un indiscusso Maestro da noi, ma in Finlandia è pressoché indistinguibile da una marca di pelati. Ed insomma vi sono e vi saranno ancora per un po’ di tempo autentici maestri del diritto a vocazione e rinomanza anche internazionale ed altrettanto autentici maestri a vocazione e rinomanza puramente interna.

In guisa di complemento, descrittivo più che definitorio, va soggiunto che si consegue meritoriamente l’appellativo di maestro, con ogni inerente relativismo ed opinabilità, grazie alla communis opinio; astretto dunque l’interessato a giovarsi dei giudizi e delle valutazioni anche di coloro che detengono un centesimo delle sue doti. Ma tosto che il titolo sia conseguito – scritto non in elenchi ministeriali ma nell’aere vago della collettiva coscienza di una societas culturale – il maestro dovrebbe idealmente rispondere, anche nel mantenere il proprio standing, soprattutto a sé medesimo ed al suo nome e non ai Beckmesser burocratici o ministeriali, così come il grandissimo strumentista non risponde più alla pletora di critici musicali ed il grandissimo chef non risponde più alle guide specializzate dalla Michelin in giù.

Ora, è fin troppo ovvio che veri maestri lo si diventa a poco e ad una certa età. E ciò massimamente nelle nostre materie giuridiche dove vale l’esatto contrario di ciò che vale per i tenori o per i toreri; e – se vogliamo essere più plausibili nella comparazione – di ciò che vale per i matematici puri o per i fisici teorici. Posto infatti che l’invecchiamento cerebrale comincia comunque, per tutti e per apoptosi cellulare, già intorno ai trent’anni (e cioè nel momento della vita in cui all’uomo delle caverne il cervello serviva ormai a poco visto che era stato già dilaniato dalle belve) la fisica teorica o la matematica hanno assoluta necessità dei freschi lampi della genialità giovanile e cioè di giovani o giovanissimi cervelli conformati in modo pressoché sovrumano fin dalla nascita. Al diritto invece – checché ne pensino alcuni giuristi (che però non sono in proposito né terzi né imparziali) – la genialità è quasi nefasta, giovandogli invece una buona dose quantitativa di normalissima intelligenza, la cui virtù è però decuplicata per ogni anno di intenso contatto con la esperienza giuridica teorica e soprattutto pratica (sicché di regola, ed oggi che si vive di più ma l’universo giuridico si è maledettamente complicato, l’intuizione del giurista trentenne o quarantenne può essere acuta ed ammirevole, ma davvero affidabile e feconda è soprattutto quella del giurista ultrasettantenne). Su questa base, maturata nel tempo, carattere, capacità relazionali, carisma, retorica, uso insieme originale e chiaro del linguaggio, abilità nel convincere gli altri, fortuna ecc. fanno il resto, sempre però attraverso il necessario trascorrere dei decenni.

Altresì ovvio è dunque che sebbene vi siano, in ambito giuridico, maestri autentici tuttora in ruolo, e vi siano egregi fuori ruolo ai quali con tutta la buona volontà l’appellativo di maestro non spetta, la maggior parte dei maestri sia ormai fuori ruolo e viva da fuori ruolo una serena e lunga terza età accademico-scientifica mercé il fortunato e notevole allungamento della nostra vita media e soprattutto della nostra vita media decentemente operativa.

Cosa fanno, cosa possono e non possono fare e che cosa è utile che facciano i maestri fuori ruolo?

Se ne hanno voglia, e come spesso accade, continuano indefessamente a scrivere ed a partecipare al dibattito scientifico come se fossero ragazzini, a volte con minore originalità e freschezza ma sempre con maggiore (e più utile a tutti) ponderazione di quando erano ragazzini. Se non ne hanno voglia scrivono poco o non scrivono per niente, ma siccome il rispetto diffuso lo hanno meritato per ciò che hanno scritto in precedenza il medesimo rispetto prosegue ed accresce l’attenzione generale per quel poco che scrivono.

Non tengono più corsi di insegnamento ufficiali, il che è inevitabile non potendosi trasformare in radicale ossimoro il loro essere fuori ruolo; ma sono comunque benemeriti i vari accorgimenti secundum o praeter legem che le istituzioni accademiche sovente adottano per consentire finché possibile un loro continuativo apporto didattico.

Non possono più far parte di commissioni concorsuali; ed è cosa assai negativa soprattutto oggi che l’alternativa è rappresentata da una frotta di commissari neopromossi al soglio carrieristico che si trovano, con imbarazzo palese o più spesso con saccente protervia, a giudicare candidati appena il giorno prima loro concorrenti.

Possono naturalmente – ed è fra le loro attività più proficue che nessuno può impedire o condizionare a pena di palese incostituzionalità – liberamente seguitare nella funzione di consiglio, supporto, guida degli studiosi più giovani, vuoi nel dialogo privato ed interpersonale, vuoi in pubblico quando moderano o presiedono congressi, seminari e dibattiti vari; ruolo quest’ultimo nel quale il maestro riconosciuto è per forza di cose indispensabile al pari di una valletta nei telequiz dagli anni ‘50 agli anni ‘70, perché nessuno che non abbia l’esperienza ed il fascino di un maestro può fare, con pochi tratti di pennello, da collante fra una relazione e l’altra e stimolare l’attenzione dell’uditorio, né tanto meno apportare lustro all’evento congressuale.

Un’altra veste è parsa fino ad ora imprescindibile per i maestri anche se da svariati anni fuori ruolo ed è quella di direttore o membro della direzione o del comitato di direzione o scientifico di riviste giuridiche che vogliano affermarsi come riviste di prestigio. Se il maestro di turno interpreta quel ruolo ad ostentationem, è ancor qui e comunque questione di positivo lustro per la rivista. Se lo svolge proattivamente, chi meglio di lui, almeno di norma, può suggerire temi, indirizzare le linee editoriali, evitare che si pubblichino sciocchezze ecc. (certo non i revisori oggi così di moda, sovente annoiati e/o frettolosi e comunque meno esperti). Ma più prosaicamente: è dato di comune esperienza quello secondo cui le riviste preferiscono – e pour cause – autoillustrarsi ma specialmente attrezzarsi sul piano della effettiva qualità scientifica cooptando in direzione insigni giuristi spesso fuori ruolo, piuttosto che neo-associati nella Uni-Telematica di Peretola (con tutto il rispetto per gli associati, per le università telematiche e per Peretola ove le università telematiche non tarderanno ad allignare).

Il recente Regolamento ANVUR “per la classificazione delle riviste nelle aree Cun 8a, 10, a,a,12,13,14”, approvato con delibera del Consiglio Direttivo n. 306 del 21 dicembre 2023, va in palese controtendenza.

L’ANVUR naturalmente non giunge ad imporre alle nostre riviste giuridiche (né certo potrebbe, in disparte dalla problematica base normativa primaria dei poteri regolamentari in questi anni variamente esercitati dal Ministero di riferimento e per esso dall’ANVUR, su cui vedi perspicui cenni nella bella relazione di A. PANZAROLA, La classificazione delle fonti e il ruolo delle società scientifiche, ora in DPCIeC, 1-2024) l’epurazione di una quota di fuori ruolo dalle direzioni (saremmo quasi a livello del PCUS che tenta di spiegare a Shostakovich come si compone una sinfonia), ma postula un aut aut. Secondo l’art. 11, c. 1 e 3 del Regolamento vi è – ai fini del conseguimento e del mantenimento della collocazione della rivista in “classe A” (donde le note rilevanti, ed a volte di fatto irrinunciabili, conseguenze accademico-concorsuali, sempre burocraticamente sancite dall’alto, e editoriali) – la condizione che “gli organi editoriali – comunque denominati – dotati di documentate responsabilità decisionali con riferimento agli indirizzi scientifici della Rivista e alle scelte relative alla pubblicazione dei contributi” non annoverino “più del 20% di componenti accademici in quiescenza” vale a dire di professori fuori ruolo (ovvero – bontà loro! – “in casi eccezionali e con adeguata motivazione” avallata dagli stessi organi interni dell’ANVUR “fino a un massimo del 40%”).

Quindi – ed a non voler fare esempi e nomi attuali – una rivista giuridica qualsivoglia, molti decenni or sono, e se decenni or sono vi fossero stati l’ANVUR ed i suoi miopi regolamenti (la miopia, è bene osservarlo, ha tante epifanie e non si estrinseca solo con gli eccessi di “quote rosa”), avrebbe dovuto dire a Massimo Severo Giannini “scusi professore ma, fatti i conti delle percentuali, in direzione c’è posto solo per il prof. Sandulli” o viceversa. Oppure i colleghi di un comitato di direzione rispondere a Salvatore Satta o a Gastone Cottino, i quali con garbo avessero espresso il desiderio di essere cooptati, non già: “figurati è un onore per tutti noi”, ed invece: “scusaci tanto, purtroppo abbiamo esaurito la quota dei fuori ruolo”.

Ma che davero? come si dice nella Capitale, o siamo forse su “Scherzi a parte”? (considera con toni più alti – forse perfino sproporzionatamente alti – del tutto inappropriata la disposizione, nell’ambito di una più complessa ed argomentata analisi critica dell’attuale sistema di valutazione delle riviste giuridiche, A. PANZAROLA nel saggio sopra citato).

E se qualche pensosa voce si leverà a discorrere di alternanza, turnazione, “largo ai giovani” et similia attesterà, dietro alla miopia della disposizione regolamentare in sé, anche la incongruenza della sua pretesa ratio, perché non vi è davvero bisogno di spiegare a persone dotate di un minimo di senso comune e raziocinio come quegli slogan, in disparte dalla loro maggiore o minore apprezzabilità in altri contesti, in questo contesto risultino totalmente inconferenti.

Simili “prescrizioni” non meritano nemmeno di essere violate, bensì benevolmente prese in giro e cioè aggirate in nome della dignità che la comunità scientifica dei giuristi (quella vera) preserva ed intende preservare.

L’abbrivio lo dà a ben vedere lo stesso art. 11 del Regolamento, ove al comma 1 si dice che sono “esclusi” dal computo cogente delle percentuali (80 % in ruolo, 20% fuori ruolo) “gli organi con mere funzioni di garanzia del prestigio della Rivista” purché “non attivamente coinvolti nelle procedure di selezione e pubblicazione degli articoli”. Come dire: mettete pure una schiera di attempati maestri in un elenco ad pompam chiamandolo “Comitato d’onore” o “Comitato dei garanti” o sbrigliando ulteriormente la fantasia denominante, purché però riservate loro “mere” (spiacevolissimo aggettivo – ndr) funzioni di garanzia senza far loro toccare palla quanto alla concreta vitalità scientifica del periodico. Immagino che molte delle nostre riviste, al sano scopo di non escludere d’emblée alcun maestro vero sol perché fuori ruolo, si orienteranno in tal modo confidando sull’ovvia circostanza che nessuno può star lì a sindacare cosa fa davvero il fuori ruolo per la rivista e quanto intensamente partecipa o non partecipa alle diuturne fatiche della rivista. Ma, se fossi un anziano maestro vero, difficilmente digerirei di essere formalmente declassato, perfino sul retro di copertina di una rivista a me cara e possibilmente da me perfino fatta nascere, al rango di generale in pensione invitato in terza fila alla parata.

Preferirei insomma escamotage più drastico: in copertina o sul retro di copertina della rivista qualsivoglia, specie se prestigiosa ed intenzionata a restare tale, figuri intonso, maestri fuori ruolo compresi ed intoccabili, l’elenco dei direttori o dei componenti della direzione o del comitato direttivo ecc., con i consueti caratteri a stampa se possibile anzi lievemente ingranditi. In basso a destra o a sinistra, in grigio topo e caratteri miniaturizzati quali fossero quelli delle condizioni generali di una vendita di aspirapolvere, si abbia cura di scrivere “Direzione ai sensi dell’art. 11 Regolamento ANVUR – delibera Cons. dir. n. 306/2023” e di seguito un elenco di cirenei calibrato alla bisogna in modo che il tutto risulti, nella “considerazione globale” degli organi direttoriali richiamata espressamente dal c. 3 dell’art. 11, rigorosamente rispettoso del Regolamento.

La prima sarà per i lettori, in guisa di clandestini patrioti mazziniani, la autentica “direzione”, la seconda un elenco di attuali utili comparse: ad majora!

Ne sortirebbe così, mutatis mutandis, la soddisfazione che provai da giovanissimo in un Ateneo meridionale allora assai rinomato.

Ivi era immancabilmente preside della Facoltà di Giurisprudenza un autentico ed indiscusso Nume, con evidenti benefici in termini di prestigio per tutti i colleghi, i quali manco a dirlo ne rinnovavano periodicamente l’elezione senza pensarci sopra. Sennonché, ad un tratto, una normativa, tuttora in vigore ed anch’essa ispirata al più pretto burocratese, defenestrò formalmente il Nume, come tutti i professori a tempo definito sul territorio nazionale, riservando solo a quelli a tempo pieno pressoché ogni carica accademica e restringendo perniciosamente, specie ma non solo nei piccoli atenei, le libere facoltà di scelta del corpo docente in ordine al manovratore (bastava invece fare alla tedesca con un manager pubblico reclutato per concorso quanto agli adempimenti burocratici e l’accademico di prestigio e degno della fiducia dei colleghi per le funzioni di indirizzo e rappresentanza; oppure rimettere tutto al caso per caso, ed ad un corpo docente in fin dei conti non proprio sprovveduto la opzione di un “tempopienista” che fosse anche adeguatamente prestigioso ed autorevole ovvero di un autorevole maestro “a tempo definito” e però sicuramente idoneo e disposto anche agli impegnativi e spesso noiosi oneri pratici della carica, perché consapevole della massima secondo cui solo chi non fa niente non ha mai tempo di fare niente).

Il Nume, che possedeva anche un bel caratterino e soprattutto era diventato Nume inoppugnabilmente grazie al fulmine del suo pensiero ed alla improba fatica del suo essere prolifico ed acutissimo scrittore di cose giuridiche, non aveva alcuna intenzione di abbandonare per norma di legge la stanza della presidenza, in realtà un grande salone invaso di sole che aveva in larga parte personalmente arredato a sue spese. Si corse dunque ai ripari approntando, per il pur degnissimo nuovo preside formale, un localino decente a forza di tramezzi in cartongesso e sacrificio di uno stanzino delle scope. Il sig. S…ò, indimenticato capo-bidello, il quale conservava l’allure del croupier a St. Vincent che era stato in gioventù, fece buon viso a cattivo gioco quanto alle scope e si abituò a salutare ogni mattina per due volte “buongiorno Signor Preside”. E tutti noi altri dal più giovane al più anziano seguitammo a fare anticamera, per ogni necessità, davanti alla soleggiata stanzona del Nume, considerandola come “la Presidenza” e lui come il vero Preside.