L’appello  riformato

Di Laura Salvaneschi -

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’atto di appello e il suo contenuto. – 3. La costituzione del convenuto e l’appello incidentale  – 4. L’abolizione del filtro e i presupposti per la trattazione orale. – 5. Il potere del presidente di designare un componente del collegio per la trattazione e l’istruzione della causa “se non ritiene di nominare il relatore e disporre la comparizione delle parti davanti al collegio”.  – 6. Segue: il rito davanti all’istruttore. – 7. Segue: il rito davanti al collegio. – 8. L’inibitoria e i suoi nuovi presupposti. – 9 Segue: il rito per la sua concessione. – 10. La rimessione della causa al primo giudice. – 11. La corte d’appello quale giudice di impugnazione del lodo e del reclamo avverso i provvedimenti cautelari degli arbitri.

1. Le modifiche del giudizio di appello introdotte dal d. lgs. 149/2022 destano più di una perplessità, tanto che alcune Corti d’appello si sono già orientate, almeno dal punto di vista organizzativo, a lasciare le cose immutate. Tra le novità più salienti portate dalla legge delega[1] c’era infatti, tra i tanti ritorni all’antico, anche l’idea di una trattazione monocratica affidata al consigliere istruttore, probabilmente legata alla convinzione che la collegialità piena che a partire dalle riforme degli anni ’90 del secolo scorso impegna costantemente tre giudici possa essere stata la causa del tracollo dei tempi d’attesa della decisione[2].

La diffidenza verso questa soluzione era stata già segnalata nel corso dei lavori preparatori[3], non fosse che perché il giudizio di appello, per come negli anni è diventato, differisce di molto da quello di primo grado dove la causa è istruita e, anche a causa del divieto di nova, non necessita nella prevalenza dei casi di istruttoria alcuna. Il fatto poi che presso alcune Corti d’appello, com’è per quella di Milano, i tempi siano divenuti del tutto ragionevoli anche con il modello a collegialità piena, vale a mostrare che la soluzione non sta sul piano delle norme, ma su quello organizzativo.

Probabilmente in ragione di queste sollecitazioni[4], il legislatore delegato ha immaginato una soluzione variegata, nelle intenzioni maggiormente flessibile[5], in cui la nomina del consigliere istruttore non appare come soluzione unica e obbligata, ma ha diramazioni che non risultano però del tutto cristalline. Queste note sono indirizzate all’analisi delle novità introdotte nel giudizio di appello, con l’occhio rivolto all’esigenza di funzionalità del giudizio, per vedere se le differenti prassi[6] cui le diverse corti d’appello si stanno indirizzando possano essere o meno confermate alla luce delle nuove norme.

2. Il primo tema da analizzare è quello della forma e del contenuto dell’atto di appello, alla luce del nuovo disposto degli articoli 342 e 434 c.p.c. Entrambe le norme indicano infatti che “L’appello deve essere motivato e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico” determinati requisiti su cui poi tornerò. Il quesito è quindi se gli appelli i cui motivi si presentino formulati in modo non chiaro, non sintetico e non specifico possano per questo essere dichiarati inammissibili.

La nuova legge torna e ritorna su questi requisiti, con abbinamenti non sempre uguali, ma sicuramente reiterati. Così l’art. 121 c.p.c. è stato modificato portando sia nel suo testo che nella sua rubrica i requisiti della chiarezza e della sinteticità degli atti di parte; gli art. 163 e 167 c.p.c. sono stati integrati con l’indicazione che l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda deve essere compiuta dall’attore in modo chiaro e specifico e che il convenuto deve nello stesso modo prendere posizione e formulare le indicazioni che sono tipiche della comparsa di risposta. La triade torna poi, seppure diversamente articolata nell’art. 366 c.p.c. con riferimento alla modalità di redazione del ricorso per cassazione. Accanto alle modifiche inserite in queste norme è stato poi riformulato l’art. 46 disp. att.  che, sotto la rubrica “Forma e criteri di redazione degli atti giudiziari”, dopo aver dettato specifiche disposizioni con riferimento ai documenti informatici, specifica al suo quinto comma che “il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo”.

Tornando all’atto d’appello, credo che chiarezza e sinteticità, ma anche specificità, quest’ultima nei limiti che si vedranno, non siano requisiti la cui richiesta è posta a pena di inammissibilità dell’atto e che anche l’ordine delle parole e delle interpunzioni vadano nel senso indicato.

Ricordo in proposito che la legge delega imponeva, alla lettera c) del comma 8, di “prevedere che, negli atti introduttivi dell’appello disciplinati dagli articoli 342 e 434 del codice di procedura civile, le indicazioni previste a pena di inammissibilità siano poste in modo chiaro, sintetico e specifico”. Quindi l’inammissibilità era riferita alle indicazioni previste sotto tale sanzione e non conteneva una indicazione generale. La norma attuativa specifica infatti che i requisiti poi numerati vanno indicati “in modo chiaro, sintetico e specifico”, chiarimento quest’ultimo che ha la struttura dell’inciso, posto tra la previsione della sanzione dell’inammissibilità, da cui è separato da una virgola, e i tre requisiti numericamente indicati nella seconda parte del primo comma. Il che significa, a livello strettamente letterale, com’era già nella legge delega, che ciò che deve essere indicato a pena di inammissibilità sono gli elementi di cui ai numeri 1-3, non altro. Certamente, quanto alla specificità, questa è l’unica delle tre indicazioni qualitative che possono riverberarsi sull’atto di appello, perché la mancata specifica indicazione delle censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado e delle violazioni di legge denunciate e della loro rilevanza può oggi tradursi in mancanza del motivo e in mancato rispetto dell’art. 342 c.p.c.[7]. La mancanza di specificità potrà poi anche riverberarsi, più che sull’ammissibilità, sul merito dell’appello, potendo colorarlo anche di quella manifesta infondatezza legata a censure aspecifiche che, in quanto tali, siano incapaci di dialogare con la pretesa erroneità della sentenza.

Tutto ciò significa che possono ancora ripetersi, con riferimento all’atto di appello, le parole che la Cassazione utilizzava prima della riforma per chiarire il significato della richiesta sinteticità e chiarezza espositiva del ricorso per cassazione. Secondo la Cassazione, compito delle parti, nel rispetto dei requisiti richiamati, è quello di offrire al giudice una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le proprie ragioni di critica. Tutto ciò con la specificazione che “tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata”[8]. Quindi l’inammissibilità non è di per sé predicabile, se non in casi estremi.

Quanto all’art. 46, disp. att., c.p.c., è norma che si pone su un piano diverso da quello ora in discussione, perché ha riguardo alla struttura informatica dell’atto e non al modo della sua esposizione.

Passando ad analizzare i requisiti posti dall’art. 342, comma 1°, numeri 1-3 c.p.c., il primo dato che salta all’occhio è che la parte è oggi chiamata a indicare, in modo chiaro, sintetico e specifico, “il capo della decisione di primo grado che viene impugnato” e che questa prescrizione sostituisce la previgente norma, laddove richiedeva “l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare”. Credo che su quelle due piccole parole “capo” e “parte” della decisione impugnata si potrebbe scrivere molto e che i nostalgici di modalità di scansione della sentenza impugnata diverse per l’appello e per la cassazione, in forza dell’esistenza solo per il primo di una norma qual è l’art. 346 c.p.c., potrebbero anche avere buon gioco per qualche ritorno al passato.

Non è questa però la sede per tornare su una questione tanto annosa e non era questa l’intenzione del legislatore, cui la legge delega non imponeva questa modifica, la cui portata non può dunque andare al di là della delega. Probabilmente l’intenzione era solo quella di temperare alcuni infausti esiti che aveva avuto la riformulazione dell’art. 342 c.p.c. operata nel 2012, che, anche superata la triste imposizione per l’appellante di redigere un vero e proprio progetto alternativo di sentenza rispetto alla pronuncia impugnata, mostrano ancora la loro tracce in molti atti d’appello che, nel timore dello spettro del giudicato interno, vengono ancora redatti con trascrizione integrale di larga parte, se non di tutta, la motivazione della sentenza impugnata. La modifica inserita nel primo comma dell’art. 342 c.p.c., sub n. 1 va quindi vista quale esigenza di corretta individuazione dell’unità strutturale della sentenza che si vuole impugnare, in correlazione con ciò che altrimenti passa in giudicato. Vale allora in proposito richiamare le conclusioni cui era giunta la Cassazione prima di questa riforma, richiedendo che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘revisio prioris instantiae’ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata”[9]. Questa indicazione rimane immutata a fronte della nuova formulazione della norma, che, nella sostanza, contiene una indicazione innovativa solo laddove specifica che le indicazioni richieste dall’art. 342 c.p.c. devono sussistere per “ciascuno dei motivi”, onerando così l’impugnante di specificazione reiterata.

Al di là della modifica di cui al richiamato n. 1, per il resto, le altre due indicazioni corrispondono a quelle di cui alla precedente formulazione, con mere variazioni formali che non alterano il significato precettivo della disposizione[10].

3. Poco è cambiato per quanto riguarda la posizione dell’appellato e la sua costituzione in giudizio. Manca in proposito una norma generale che specifichi quando si deve costituire il convenuto nel giudizio d’appello, com’è l’art. 166 c.p.c. con riferimento al giudizio di primo grado, essendo regolata la sola ipotesi della proposizione di appello incidentale. L’art. 343 c.p.c. chiarisce infatti che quest’ultimo si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta depositata almeno venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione, o dell’udienza fissata a norma dell’art. 349-bis, secondo comma. Se ne ricava con certezza che il convenuto che voglia proporre appello incidentale deve costituirsi in giudizio depositando la propria comparsa almeno venti giorni prima dell’udienza, secondo una regola che era già propria del sistema, ma esplicitata solo attraverso il rinvio alla disciplina del giudizio di primo grado. Modificata questa, il legislatore, volendo mantenere le regole previgenti proprie della proposizione dell’appello incidentale, ha dovuto invece inserire la specificazione richiamata. Se ne ricava anche, ma attraverso un’operazione deduttiva di mantenimento del precedente sistema, che il convenuto che non intenda proporre appello incidentale potrà costituirsi fino alla prima udienza senza incorrere in alcuna declaratoria di contumacia. Nel fare questa operazione di risistemazione normativa volta a chiarire che la fase introduttiva del procedimento d’appello non è mutuata da quella nuova di primo grado, il legislatore ha però dimenticato di modificare anche l’art. 347 c.p.c. che continua a disporre che la costituzione in appello avviene secondo le forma e i termini per i procedimenti davanti al tribunale, il che non è più vero con riferimento all’appellato che non è affatto tenuto a costituirsi in giudizio nel termine di cui al nuovo art. 166 c.p.c.[11].

Quanto poi al computo dei venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione o dell’udienza fissata a norma dell’art. 349-bis c.p.c., la disposizione riproduce con adattamento all’appello il meccanismo che era contenuto nell’abrogato art. 166 c.p.c., laddove disponeva che i venti giorni prima dell’udienza si dovessero calcolare a partire dall’udienza fissata in citazione in caso di sua conferma, oppure a partire dall’udienza differita dall’istruttore. Il termine di venti giorni per il deposito della comparsa di risposta con appello incidentale andrà quindi calcolato nello stesso modo in cui si calcolava il medesimo termine con riferimento alle preclusioni di primo grado, dall’udienza fissata in citazione, o, da quella eventualmente rinviata a cura della cancelleria, oppure dall’udienza differita di cui all’art. 349-bis, comma 2° c.p.c.

4. L’abolizione del filtro, o se si preferisce la sua modificazione, campeggia tra le linee guida che presiedono la riforma del giudizio d’appello, quale ennesima e triste ammissione che riforme da poco implementate nel nostro ordinamento non meritano di essere conservate, almeno nella forma e con le modalità previste al momento della loro introduzione. La legge delega, alla lettera e) del comma 8 dell’unico articolo richiedeva infatti di “prevedere, fuori dei casi in cui deve essere pronunciata l’improcedibilità dell’appello secondo quanto previsto dall’articolo 348 del codice di procedura civile, che l’impugnazione che non ha una ragionevole probabilità di essere accolta sia dichiarata manifestamente infondata e prevedere che la decisione di manifesta infondatezza sia assunta a seguito di trattazione orale con sentenza succintamente motivata anche mediante rinvio a precedenti conformi; modificare conseguentemente gli articoli 348-bis e 348-ter del codice di procedura civile”.

Si trattava dunque, come ognuno sa, di superare il meccanismo barocco previsto dai riformati articoli 348-bis e ter c.p.c. che legavano l’immediata declaratoria di inammissibilità dell’appello, pur sempre collegata allo svolgimento della prima udienza di cui all’art. 350 c.p.c., alla circostanza che l’impugnazione non avesse “una ragionevole probabilità di essere accolta”, con esclusione delle cause in cui l’intervento del pubblico ministrero è obbligatorio e di quelle in cui l’appello era proposto ai sensi dell’abrogato art. 702-quater c.p.c. Le diverse chiavi di lettura del presupposto di applicabilità del filtro, unitamente alla consapevolezza che una impugnazione connotata da manifesta infondatezza merita un esito di merito piuttosto che una declaratoria di inammissibilità, hanno quindi indirizzato verso una diversa via: quella di un percorso veloce verso la decisione di merito. E’ stato così anche abrogato l’art. 348-ter c.p.c. con quel meccanismo tortuoso che conduceva all’ordinanza di inammissibilità, capace di rendere ricorribile per cassazione direttamente la sentenza di primo grado, con esclusione del motivo di cui all’art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c. per il caso di doppia conforme.

Il nuovo art. 348-bis c.p.c. ha tradotto la direttiva disponendo che “Quando ravvisa che l’impugnazione è inammissibile o manifestamente infondata, il giudice dispone la discussione orale della causa secondo quanto previsto dall’art. 350-bis”. Quest’ultima norma a sua volta disciplina la decisione a seguito di discussione orale, affiancando ai casi descritti dall’art. 348-bis quelli regolati dal successivo art. 350, comma 3°, c.p.c. e quindi i casi di in cui “l’impugnazione appare manifestamente fondata”, o comunque quelli in cui il giudice ritenga opportuno il giudizio accelerato “in ragione della ridotta complessità o dell’urgenza della causa”.

Ne esce una disciplina che impone comunque lo sgravio accelerato delle corti d’appello dalle impugnazioni manifestamente infondate, con decisione di merito qual è quella di manifesta infondatezza, anche se, come si vedrà, l’iter presidenziale particolarmente accelerato è probabilmente destinato ad avere poca fortuna. Vale in proposito notare che il legislatore delegato nell’abrogare l’art. 348-ter c.p.c. ha voluto comunque conservarne due disposizioni, la prima delle quali è entrata a far parte del nuovo testo dell’art. 348-bis c.p.c. Il secondo comma di questa norma prevede infatti che se è proposta impugnazione incidentale, la via accelerata della decisione a seguito di discussione orale può essere seguita solo se i presupposti indicati dall’art. 348-bis, comma 1°, c.p.c. ricorrono sia per l’impugnazione principale che per quella incidentale, dovendo altrimenti procedersi alla trattazione di tutte le impugnazioni proposte contro la sentenza.

Questa disposizione, che replica l’abrogato secondo comma dell’art. 348-ter c.p.c. è però, da un lato, non allineata con le restanti parti del sistema, e, dall’altro, improvvida se il legislatore voleva, come pare, creare un rito super accelerato a fronte delle impugnazioni manifestamente infondate. Non è sistematicamente allineata con il corpo della restante disciplina proprio perché l’art. 350-bis c.p.c. non riserva la decisione a seguito di discussione orale alle sole ipotesi previste dall’art. 348-bis c.p.c., ma la estende, del tutto comprensibilmente, anche a quelle ben diverse previste dall’art. 350, comma 3°, c.p.c.  Letteralmente quindi si potrebbe andare a discussione orale ai sensi dell’ art. 348-bis c.p.c. solo nei casi in cui sia l’impugnazione principale che quella incidentale sono manifestamente infondate; non si potrebbe invece percorrere la stessa via laddove l’impugnazione incidentale non sia manifestamente infondata, ma appaia di ridotta complessità, o sottenda ragioni d’urgenza, o addirittura sia manifestamente fondata, nelle ipotesi cioè regolate dall’art. 350, comma 3°, c.p.c. Credo che questo disallineamento sistematico vada risolto integrando a livello interpretativo il secondo comma dell’art. 348-bis c.p.c. con la previsione per cui si provvede ai sensi del primo comma sia quando i presupposti ivi indicati ricorrono sia per l’impugnazione principale che per quella incidentale, sia nel caso in cui ricorrono per quest’ultima le ulteriori condizioni previste dall’art. 350, comma 3°, c.p.c., con ovvio riferimento della rubrica della norma per questi casi alla manifesta infondatezza del solo appello principale.

Ho detto poi che la disposizione è anche improvvida, almeno se si ritiene che l’art. 349-bis c.p.c. strutturi un rito super accelerato riservato alle impugnazioni manifestamente infondate, perché è del tutto evidente che il presidente della corte d’appello quando è chiamato a svolgere il compito riservatogli da quest’ultima norma dispone solo dell’atto di appello e non della comparsa di risposta contenente l’eventuale appello incidentale e non potrà quindi avvalersi della facoltà di spedizione diretta e accelerata della causa in decisione se non in pochissimi casi, che dovrebbero risolversi in quelli in cui l’appello principale è tardivo e quindi inammissibile, oppure nei casi in cui non vi sia possibilità di appello incidentale perché l’appellante è soccombente totale e non vi sono quindi statuizioni che legittimino l’appellato non ancora costituito, neppure in via ipotetica, alla proposizione dell’impugnazione incidentale. La riproduzione nel corpo dell’art. 348-bis c.p.c. della richiesta che anche l’appello incidentale sia affetto da manifesta infondatezza finirà quindi con l’impedire nella maggior parte dei casi che in questa fase processuale il presidente possa operare quel filtro che con larga probabilità il legislatore voleva nell’intenzione riservargli, a prescindere dalle difficoltà organizzative che questa selezione iniziale imporrebbe soprattutto con riferimento alle corti d’appello di maggiori dimensioni.

 

5. L’ultima considerazione delineata porta all’esame dell’art. 349-bis c.p.c., disposizione tutt’altro che chiara, che sembra lasciare aperta la possibilità che, nonostante la trattazione si svolga davanti all’istruttore, se nominato, come prevede il successivo art. 350 c.p.c., come richiesto dalla legge delega, a questa nomina si possa anche non si provvedere, consentendo così anche una trattazione collegiale.

L’art. 349-bis c.p.c., sotto la rubrica di “Nomina del giudice istruttore”, prevede che “Quando l’appello è proposto davanti alla corte d’appello, il presidente, se non ritiene di nominare il relatore e disporre la comparizione della parti davanti al collegio per la discussione orale, designa un componente di questo per la trattazione e l’istruzione della causa”. Il punto critico è dato dall’indeterminatezza della previsione, che non chiarisce se sia riferita a un potere discrezionale del presidente, eventualmente legato anche alle esigenze organizzative di cui parlavo in apertura, oppure di un potere legato alle sole ipotesi in cui la causa può essere decisa con discussione orale e, qualora si propenda per quest’ultima soluzione, quali siano le ipotesi rilevanti, nel senso cioè che le stesse siano limitate a quelle dell’art. 348-bis, comma 1° c.p.c., oppure debbano essere invece estese a quelle regolate dall’art. 350, comma 3°, c.p.c.

Sotto il profilo pratico, poi, si tratta di norma di difficile attuazione in quanto implica che il solo presidente sia chiamato al vaglio preliminare di tutti i fascicoli per operarne la suddivisione tra quelli che meritano una trattazione maggiormente complessa e quelli che possono essere portati a decisione immediata, compito che nelle corti d’appello maggiori non potrebbe comunque essere affidato, sul piano organizzativo, a una sola persona, neppure se adiuvata dagli addetti all’ufficio per il processo. E infatti, si è in proposito ipotizzato sia che l’applicazione della norma possa implicare una turnazione dei consiglieri della corte nello svolgimento di questa funzione, oppure, e al contrario, che possa essere completamente pretermessa, nel senso cioè o della nomina di default dell’istruttore senza alcun vaglio preliminare[12], oppure dell’applicazione dei modelli organizzativi in essere prima della riforma, con assegnazione del fascicolo e nomina del relatore e trattazione sempre collegiale[13].

Quanto al contenuto della previsione, dal punto di vista letterale si tratta di norma che pare indicativa di un potere discrezionale del presidente. Tuttavia, il rito previsto dall’art. 349, comma 1° c.p.c. è molto accelerato, perché il presidente deve con decreto[14] nominare il relatore e fissare direttamente l’udienza di discussione orale davanti al collegio, senza passare per la fissazione dell’udienza di trattazione[15]. Il che fa pensare che, invece, al di là dell’apparente discrezionalità, non possa che trattarsi dei casi di decisione immediata di cui all’art. 348-bis c.p.c.[16]. Se poi possano essere anche le ipotesi di cui all’art. 350, comma 3° c.p.c. è questione che merita in astratto una risposta positiva, pur con il rilievo che quest’ultima disposizione contiene una sottile distinzione lessicale tra le ipotesi in cui il rito accelerato è disposto ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., in cui il giudice “dispone la discussione orale”  e quelle in cui il giudice “può provvedere” ai sensi dell’art. 350, comma 3°, c.p.c. Si tratta in ogni caso di risposta positiva la cui applicazione pratica rimane comunque molto ridotta se estesa all’ipotesi di valutazione presidenziale, che è prevista in ogni caso, come già rilevato, in una fase processuale in cui l’appellato non è ancora costituito. Infatti, sia la ridotta complessità della lite che la manifesta fondatezza dell’impugnazione difficilmente possono valutarsi senza l’esame delle prospettazioni di entrambe le parti, non nota quanto a una delle due in questa fase del giudizio[17]. Quanto invece al riferimento all’urgenza della causa, è espressione che fa pensare all’inibitoria e a quel passaggio dalla decisione della stessa alla discussione orale previsto dall’art. 351, comma 4° c.p.c., che anch’esso è previsto in relazione a una fase processuale successiva che si svolge dopo la costituzione dell’appellato e il cui adattamento alla prima fase del giudizio non è comunque immediato.

La norma in esame, nella parte in cui prevede che non si tenga neppure la prima udienza e che venga fissata direttamente l’udienza collegiale per la discussione orale, non pare quindi destinata a frequente applicazione, me, prima di passare oltre, residuano ancora due nodi da sciogliere.

Il primo è se il riferimento alla discussione orale davanti al collegio è all’art. 281-sexies c.p.c. per così dire “puro” cioè con sola discussione orale, oppure a quel modello di udienza con discussione orale proprio delle cause collegiali, che è integrato anche dallo scambio di note conclusionali. In proposito, l’art. 350-bis c.p.c. non richiama espressamente l’art. 349-bis c.p.c., mentre al suo primo comma richiama invece l’art. 281-sexies c.p.c. senza correzione alcuna, ma, al suo secondo comma, quando si occupa della discussione orale davanti al collegio fissata dall’istruttore, impone anche lo scambio di note conclusionali antecedente alla data dell’udienza, come del resto fa l’art. 275-bis c.p.c. con riferimento alla cause collegiali di primo grado, lasciando aperto il dubbio rappresentato. In proposito, vale ricordare che la Relazione, per il caso di discussione orale disposta dal presidente, fa riferimento all’applicazione dell’art. 281-sexies c.p.c. in quanto richiamato dall’art. 350-bis c.p.c., il che, data la non chiara articolazione dei due primi commi di questa norma, l’uno che richiama semplicemente l’art. 281-sexies c.p.c., l’altro che impone lo scambio di note conclusive, non risolve il problema. Di regola, quando la causa è collegiale il modello decisorio con discussione orale implica anche lo scambio delle note conclusionali, come indicano l’art. 350-bis, comma 2° c.p.c. e anche l’art. 275-bis c.p.c. con riferimento al giudizio di primo grado. Tuttavia, in questo caso può anche pensarsi che il legislatore abbia voluto promuovere un percorso rapidissimo che si risolve nella sola discussione orale, com’è tipico dell’art. 281-sexies c.p.c. e com’era fino a fine febbraio nella tradizione della sentenza contestuale che poteva emanarsi in appello ai sensi dell’art. 351, comma 4°, vecchio testo c.p.c., nel cui ambito le note scritte erano una mera facoltà e non un passaggio necessario del procedimento. Dato il rito rapidissimo e il riferimento letterale al solo art. 281-sexies c.p.c., propenderei, non senza qualche incertezza, per questa seconda soluzione.

Il secondo tema è invece relativo al coordinamento del secondo comma dell’art. 349-bis c.p.c. con il primo. Infatti, il secondo comma della norma dispone che il presidente o il giudice istruttore possano differire con decreto la data della prima udienza fino a un massimo di quarantacinque giorni. Il dubbio non è evidentemente nella possibilità di differimento, che riprende un dato tipico del processo da citazione a udienza fissa dove consente al giudice di rinviare l’udienza fissata dall’attore, in questo caso dall’appellante, entro il termine ordinatorio indicato, ma nell’alternatività tra il presidente e il giudice istruttore. Infatti, mentre la previsione del differimento della prima udienza per opera dell’istruttore non crea dubbi, perché è all’istruttore che è affidata la trattazione della causa nella prima udienza, pur “se nominato”, la possibilità che sia anche il presidente a poter differire l’udienza stessa non è esente da criticità interpretative, in quanto fa pensare che il riferimento non possa che essere alle ipotesi in cui l’istruttore non sia nominato, ma, nonostante ciò, si debba svolgere una prima udienza di trattazione, senza che vi sia quindi il passaggio diretto a discussione orale.

Mi è chiaro che la norma può essere letta, come indicato dalla Relazione, nel senso che consente tanto all’istruttore, quando nominato, di differire la prima udienza di trattazione fissata in citazione, quanto al presidente di differire l’udienza stessa trasformandola direttamente in udienza di discussione orale davanti al collegio. Tuttavia, se questo era l’intenzione del legislatore, mi sembra che il sistema, così interpretato, non torni quanto a coordinamento tra le diverse disposizioni. Infatti, l’udienza fissata ai sensi dell’art. 349-bis, comma 2° c.p.c. è anche, ai sensi del precedente art. 343 c.p.c., l’udienza da cui decorre a ritroso il termine per l’appellato per proporre il proprio appello incidentale. Ciò significa che se si riferisce il potere del presidente di fissare l’udienza, anche rinviandola rispetto a quella indicata in citazione, all’udienza di discussione orale davanti al collegio e non alla prima udienza di trattazione, ci troviamo di fronte a un problema che non ha soluzione normativa. Nel fissare direttamente l’udienza collegiale di discussione orale, il presidente dovrebbe comunque tenere conto del termine a comparire perché dall’udienza fissata ai sensi dell’art. 349-bis decorre il termine per la proposizione dell’appello incidentale ai sensi dell’art. 343 c.p.c., il cui esame da parte del collegio ben potrebbe evidenziare la carenza delle caratteristiche per essere anch’esso sottoposto a rito accelerato, con conseguente necessità di tornare indietro alla nomina dell’istruttore per l’intera causa[18]. Questa opzione, però, oltre che essere macchinosa e antieconomica, perché implica che si duplichino le udienze passando da quella di discussione orale davanti al collegio alla prima udienza di trattazione davanti all’istruttore, non è prevista dal sistema e non consente quindi di spiegare l’alternativa di cui all’art. 349-bis c.p.c. che sia il presidente a disporre il rinvio della prima udienza.

Dovendo fare delle scelte funzionali a un andamento celere e razionale del procedimento d’appello, mi pare allora più logico pensare che quella che l’udienza di cui all’art. 349-bis, comma 2° c.p.c. sia l’udienza di trattazione, lasciando così aperta la possibilità di un percorso di trattazione collegiale. In questo modo, accanto al rito che va diretto all’udienza collegiale di discussione orale di cui all’art. 349-bis, comma 1° c.p.c., si legittimerebbe anche la possibilità alternativa di svolgere la trattazione davanti al collegio, soluzione quest’ultima che, come si vedrà, parrebbe avvalorata da altre disposizioni.

6. Prima di analizzare l’ipotesi da ultimo delineata, è però opportuno vedere cosa accade quando si procede con la nomina del consigliere istruttore. In proposito l’art. 350 c.p.c. dispone in primo luogo che quando giudice d’appello è il tribunale, il procedimento sia trattato dal giudice monocratico. Quando invece giudice di secondo grado è la corte d’appello, la trattazione della causa sia affidata all’istruttore, “se nominato”, rimanendo però la decisione collegiale, secondo lo schema tipico e antico del procedimento d’appello prima che l’art. 349 c.p.c. fosse abrogato.

Lasciando per il momento in sospeso l’inciso “se nominato”, gravido di interrogativi, quando il consigliere istruttore è nominato a lui spettano i compiti tipici della prima udienza di trattazione in appello, con verifica della regolare costituzione del giudizio, ordini di integrazione del contraddittorio ai sensi degli articoli 331 e 332 c.p.c., eventuale dichiarazione di contumacia dell’appellato, oppure ordine di rinnovazione della notificazione dell’atto di appello, nonché riunione di eventuali appelli separati ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

In questo caso, il “giudice” di cui al terzo comma dell’art. 350 c.p.c. è il consigliere istruttore, che, esaminate anche le difese di parte appellata, qualora ricorrano le ipotesi di inammissibilità o manifesta infondatezza dell’impugnazione principale ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c. dovrà disporre la discussione orale di cui all’art. 351-bis c.p.c.. Posto che siamo in una fase processuale in cui l’appellato si è costituito, salva la sua eventuale contumacia, opererà anche il secondo comma dell’art. 348-bis c.p.c. e l’istruttore potrà disporre la discussione orale solo quando anche l’eventuale impugnazione incidentale sia parimenti inammissibile o manifestamente infondata. Con indicazione del tutto condivisibile, il passaggio al rito celere è poi ampliato, con valutazione però discrezionale lasciata all’istruttore, anche alle ipotesi in cui l’impugnazione appaia manifestamente fondata, o comunque l’istruttore ritenga opportuna la trattazione orale in ragione della ridotta complessità della causa, o della sua urgenza. Anche se la previsione dell’art. 348, comma 2° c.p.c. non è in questo caso ripetuta, riterrei  che anche nelle ipotesi disciplinate dall’art. 350, comma 3° c.p.c. i presupposti per passare alla discussione orale debbano ricorrere sia per l’impugnazione principale che per quella incidentale, dato che se l’impugnazione incidentale non avesse le medesime caratteristiche che portano alla discussione orale l’intera causa andrebbe trattata con il rito ordinario, dovendo impugnazione l’principale e quella incidentale essere decise nell’ambito di un’unica sentenza.

Il punto critico di questa modalità decisoria che vorrebbe essere accelerata è però, in caso di nomina dell’istruttore, la previsione dell’art. 350-bis c.p.c. che dispone che l’istruttore “fatte precisare le conclusioni, fissa udienza davanti al collegio e assegna alle parti termine per note conclusionali antecedente all’udienza”. Parrebbe dunque che il consigliere istruttore debba far precisare le conclusioni davanti a sé per poi fissare la discussione orale davanti al collegio, con potenziale duplicazione delle udienze e perdita di quell’accelerazione che voleva ottenersi. Riterrei però che, nonostante la non perspicua disposizione normativa, possa applicarsi a questa fattispecie la regola propria dell’art. 1-ter della l. 24 marzo 2001, n. 89, che, nell’estendere ai procedimenti collegiali di primo grado la possibilità di decisione ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. ha espressamente disposto che l’istruttore fissi udienza collegiale sia per la precisazione delle conclusioni che per la discussione orale, pena l’aggravamento altrimenti di un rito sulla carta potenzialmente rapido.

Quando non provvede disponendo che la causa sia decisa a seguito di trattazione orale, il consigliere  istruttore potrà procedere nella stessa udienza al tentativo di conciliazione, ordinando, quando occorre, la comparizione personale delle parti. Il che significa che o le parti personalmente saranno sentite in una udienza in prosecuzione, oppure dovranno essere già state convocate, magari con provvedimento standardizzato, per la stessa prima udienza di trattazione. Infine, lo stesso istruttore provvederà all’ammissione delle prove eventualmente richieste, dando provvedimenti per l’assunzione delle prove ammesse davanti a sé, nei rari casi in cui residua in termini generali la possibilità di svolgimento di attività istruttoria nel giudizio di appello.

Data la nomina del consigliere istruttore è evidentemente del tutto ultronea la delega all’istruttore stesso, se nominato, per l’assunzione delle prove di cui al novellato art. 356, comma 1° c.p.c., posto che la delega è implicita nella sua stessa  nomina. Resta invece ferma la possibilità di rinnovazione davanti al collegio di uno o più mezzi di prova assunti dall’istruttore ai sensi della norma da ultimo richiamata qualora se ne ravvisi la necessità.

Quando l’istruttore non abbia provveduto a rinviare la causa a decisione celere mediante discussione orale, con scambio però di note scritte ai sensi dell’art. 350-bis, comma 2 c.p.c., all’esito delle attività di cui agli articoli 350 e 351 c.p.c., lo stesso istruttore dovrà mandare la causa in decisione con rito ordinario. Ciò significa, in analogia con quanto previsto per il primo grado, che dovrà fissare davanti a sé l’udienza di remissione della causa in decisione e assegnare alle parti, che però possono rinunciavi, tre termini perentori. Il primo non superiore a sessanta giorni prima dell’udienza per il deposito di note scritte contenenti la sola precisazione delle conclusioni; il secondo non superiore a trenta giorni prima dell’udienza per il deposito delle comparse conclusionali e il terzo, non superiore a quindici giorni, per il deposito di note di replica. La decisione è comunque riservata al collegio che deve depositarla nel termine ordinatorio di sessanta giorni.

7. Il punto più delicato mi sembra essere quello di determinare se, accanto al rito appena delineato, esista ancora la possibilità di procedere a trattazione collegiale senza nominare l’istruttore, legittimando così nella sostanza la prassi romana.

In proposito a me sembra che la risposta sia positiva, nonostante l’insieme delle norme che regolano il procedimento davanti alla corte d’appello sia davvero di difficile coordinamento, perché, comunque le si guardi, c’è sempre qualcosa che non torna e che potrebbe essere interpretato in un altro modo.

Ho già detto che il secondo comma dell’art. 349-bis c.p.c. dove fa riferimento alla possibilità per il presidente di rinviare fino a quarantacinque giorni la prima udienza, mi pare significare che, come l’istruttore quando è nominato, anche il presidente può differire l’udienza di trattazione nelle ipotesi in cui l’istruttore non sia stato nominato e che ciò pare configurare la possibilità di udienza di trattazione collegiale.

Questa indicazione si ricava non solo dall’art. 349-bis, comma 2° c.p.c., ma anche dalle norme successive. Come già rilevato, infatti, l’art. 350, comma 1° c.p.c. chiarisce che la trattazione dell’appello è affidata all’istruttore, “se nominato”. Dizione questa che lascia aperta la possibilità che la trattazione, se l’istruttore non è nominato, sia collegiale, come disponeva il vecchio testo dell’art. 350, comma 1° c.p.c. Per questa soluzione paiono deporre poi ulteriori dati esegetici, pur di fronte a un sistema normativo non chiaro.

L’art. 351 c.p.c. disciplina l’inibitoria nel senso che la pronuncia sia sempre data con ordinanza collegiale da pronunciarsi in prima udienza, lasciando aperta la possibilità che sia l’istruttore “se nominato” a dover sentire le parti, per poi riferire al collegio. Il giudice che provvede sull’istanza di sospensione della provvisoria esecuzione di cui all’art. 351, comma 1° c.p.c. è dunque sempre il collegio anche quando la prima udienza sia stata tenuta dall’istruttore. In questo caso, dovendosi creare un coordinamento tra istruttore e collegio, è ragionevole pensare che quest’ultimo provvederà con ordinanza da pronunciarsi fuori udienza e ad esito della stessa. Tuttavia, nel costruire questo sistema, il legislatore ha anche precisato che l’istruttore agisce come indicato “se nominato”, lasciando aperta la possibilità che l’istruttore possa dunque non essere stato nominato e che l’udienza sia quindi tenuta dal collegio[19], che deciderà in questo caso direttamente con la medesima ordinanza non impugnabile. Occorre poi considerare l’ultimo comma dello stesso art. 351 c.p.c. che prevede che dalla prima udienza la causa possa passare direttamente in decisione con trattazione orale. In questo caso, è stata aggiunta la previsione che “Davanti alla corte d’appello, se l’udienza è stata tenuta dall’istruttore il collegio, con l’ordinanza con cui adotta i provvedimenti sull’esecuzione provvisoria, fissa udienza davanti a sé per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale, assegnando alle parti un termine per note conclusionali”. Ancora una volta, si ipotizza dunque che la prima udienza davanti alla corte d’appello sia stata tenuta dall’istruttore, ma si lascia anche aperta la possibilità che l’udienza stessa non si sia svolta davanti all’istruttore, ciò che non può significare altro che il suo svolgimento davanti al collegio, non essendo ipotizzabile una ancora diversa modalità di trattazione.

Vi è poi l’art. 356 c.p.c., che dispone che “Davanti alla corte d’appello il collegio delega l’assunzione delle prove all’istruttore, se nominato, o al relatore e, quando ne ravvisa la necessità, può anche d’ufficio disporre la rinnovazione davanti a sé di uno o più mezzi di prova assunti dall’istruttore ai sensi dell’art. 350, quarto comma”. Fermo che la delega all’istruttore è un refuso perché l’istruttore è di necessità già insignito degli eventuali compiti istruttori attraverso la sua nomina, la delega al relatore ha senso solo per l’ipotesi, non per nulla prevista nel vecchio testo dell’art. 350, comma 1° c.p.c. in cui “Davanti alla corte d’appello la trattazione dell’appello è collegiale ma il presidente del collegio può delegare per l’assunzione dei mezzi istruttori uno dei suoi componenti”, a significare che, quando la trattazione è collegiale non occorre che l’intero collegio assuma le prove, ma è possibile la delega a uno solo dei suoi componenti, previsione quest’ultima che è stata espressamente conservata e integrata nel corpo dell’articolo 356 c.p.c.[20].

L’insieme delle norme in esame consente dunque di leggere l’intero articolo 350 c.p.c. come riferito anche al collegio quando l’istruttore non è nominato. In questo caso, sarà il collegio a svolgere le verifiche di cui al secondo comma e, dopo la costituzione dell’appellato, a poter optare per il rinvio della causa a udienza di trattazione orale sulla base di una valutazione di opportunità nata dalle difese di entrambe le parti, come previsto dal terzo comma dell’art. 350 c.p.c., che infatti fa riferimento generico al “giudice” senza specificare chi questi sia.

Allo stesso modo, il giudice di cui all’ultimo comma dell’art. 350 c.p.c. potrà essere il collegio, che dovrà provvedere anche agli incombenti ivi descritti, compresa l’eventuale ammissione delle prove. Quanto alla loro assunzione l’alternativa insita nel già richiamato disposto dell’art. 356 c.p.c. è che il collegio disponga l’assunzione davanti a sé delle prove ammesse, oppure deleghi l’assunzione al relatore.

Se si avallasse questa ipotesi, resterebbe aperto il dubbio se il collegio, rimandando la causa a decisione orale ai sensi dell’art. 350-bis, comma 1° c.p.c., debba disporre direttamente la sola discussione orale ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., come prevede il primo comma della norma stessa, oppure debba fissare lo scambio per note conclusionali come prevede invece il secondo comma per l’ipotesi di nomina dell’istruttore. Occorrerebbe poi estendere anche all’esito della trattazione collegiale la disciplina dell’art. 352 c.p.c., che fa espresso riferimento all’istruttore, questa volta senza quella ambigua formula “se nominato”.

Posto tutto ciò, nonostante l’ambiguità delle norme occorre cercare di trarre qualche conclusione, anche in relazione alle prassi che si stanno istaurando nelle diverse corti d’appello e alle loro ragioni.

Sicuramente la resurrezione del giudice istruttore è soluzione di compromesso rispetto all’introduzione di un giudice d’appello monocratico, voluta sul presupposto che il coinvolgimento di un’unica risorsa umana per il disbrigo di molti degli adempimenti precedentemente affidati al collegio, avrebbe consentito agli altri magistrati di occuparsi di altre controversie e di deflazionare i ruoli e i carichi di lavoro[21]. Tuttavia è vero che il giudizio di appello è andato storicamente distanziandosi da quello di primo grado e che le esigenze istruttorie sono nella maggior parte dei casi assenti o limitate, così che è anche possibile che all’atto pratico la nomina dell’istruttore invece che offrire una soluzione funzionale al buon andamento del processo,  crei invece problemi logistici[22] di non facile soluzione, oltre a rallentare quei tempi del procedimento[23] che si volevano invece accelerare.  Occorre allora valutare se le nuove regole del giudizio di appello consentano di mantenere ancora in vita anche lo schema della trattazione collegiale in uso prima dell’introduzione del nuovo rito di appello, oppure se le nuove disposizioni pongano solo l’alternativa secca tra la rimessione della causa a rito accelerato con fissazione diretta dell’udienza orale davanti al collegio e la trattazione davanti all’istruttore.

Pur con alcuni dubbi legati alla scarsa chiarezza normativa, credo che andrebbe favorita l’alternativa più lata, che non preclude la possibilità che il consigliere istruttore non venga nominato e la trattazione si svolga quindi davanti al collegio. In questo modo, oltre al rito bruciante di diretta rimessione della causa a discussione orale da parte del presidente senza fissazione della prima udienza di cui all’art. 349-bis, comma 1° c.p.c.,  che, a seguito delle difficoltà segnalate, non potrà avere grande utilizzazione, potrà aversi anche l’alternativa, che le norme esaminate paiono consentire, di una trattazione collegiale[24].

Lo scotto di questa lettura è la discrezionalità che ne nasce nell’operatività delle diverse corti d’appello, che hanno però dimensioni e caratteristiche tra loro diverse che potrebbero anche giustificare l’uso di diverse modalità operative[25]. Resta però il tema della conformità di questa lettura alle disposizioni della legge delega, che richiedeva di “prevedere che la trattazione davanti alla corte d’appello si svolge davanti al consigliere istruttore, designato dal presidente …”, disposizione quest’ultima che anche se non contiene una opzione di esclusività per la trattazione monocratica, può apparire vincolante, rendendo dubbia la possibilità in discussione.

8.La disciplina della sospensione della esecutorietà provvisoria della sentenza di primo grado è stata modificata sia quanto ai suoi presupposti che quanto alle modalità per la sua concessione.

Il nuovo testo dell’art. 283 c.p.c. attua la direttiva della legge delega che prescriveva che “la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata sia disposta sulla base di un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell’impugnazione, o, alternativamente, sulla base di un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti quando la sentenza contiene la condanna al pagamento di una somma di denaro”. Discostandosi in parte da questa indicazione, i presupposti della nuova inibitoria sono descritti in modo tale da consentire al giudice d’appello di accogliere l’istanza di sospensiva “se l’impugnazione appare manifestamente fondata o se dall’esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.

Appare di immediata evidenza che la prima novità è quella dell’alternatività di quei requisiti di fumus e periculum che prima dovevano coesistere ai fini dell’accoglimento della richiesta, alternatività per altro calibrata dall’inasprimento di entrambi i presupposti. I previgenti “fondati motivi” si sono infatti trasformati nella più forte esigenza di manifesta fondatezza dell’impugnazione, mentre i “gravi motivi”, sono stati sostituiti dalla necessità di un  “pregiudizio grave e irreparabile”. Va quindi valutato come questa indicazione si rifletta sulla previgente esigenza di esame complessivo dei requisiti per la concessione dell’inibitoria, che consentiva l’accoglimento della domanda sulla base di un equo bilanciamento degli stessi, da trattarsi come vasi comunicanti in cui la minor incidenza dell’uno poteva essere compensata con la maggiore dell’altro.

Pur nella chiara alternatività posta oggi dalla norma, non credo che questo tipo di valutazione complessiva sia superata, se non per le ipotesi in cui l’accoglimento dell’inibitoria si fondi su uno solo dei due presupposti presente nella sua massima espansione. Continueranno però a presentarsi situazioni in cui, soprattutto nella scala in cui può essere considerato “grave e irreparabile” il pregiudizio che subisce l’appellante che non vede sospesa la provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado, o anche l’appellato che vede concessa l’inibitoria, potrà concorrere all’esito positivo della domanda una valutazione bilanciata del fumus dell’impugnazione almeno potenzialmente fondata. Insomma, anche nel nuovo sistema il bilanciamento tra i due elementi potrà continuare a consentire di giungere a una pronuncia di accoglimento o viceversa di diniego che tenga conto di entrambi gli elementi[26] . Va poi considerato che se l’impugnazione appare “manifestamente fondata” il nuovo sistema consente al giudice di passare direttamente a discussione orale davanti al collegio, in modo tale che la pronuncia inibitoria avrà senso di essere, se lo avrà, solo per un periodo limitato[27].

Va poi notato che la norma attuativa differisce dalla delega nel riferimento alla condanna al pagamento di una somma di denaro, perché là era legata alla possibilità di insolvenza, mentre qui viene riferita al pregiudizio grave e irreparabile, che andrà dunque valutato sempre in quanto tale anche quando, “pur quando”, oggetto della condanna sia una somma di denaro, bene per definizione fungibile, la cui astratta possibilità di restituzione potrebbe far ritenere, in assenza del chiarimenti normativo, il pregiudizio su non irreparabile per definizione. La possibilità di insolvenza di una delle parti viene così sganciata dalla necessaria correlazione con il pagamento di una somma di denaro e potrà essere valutata anche con riferimento ad altre obbligazioni la cui esecuzione o mancata ecuzione possa portare all’insolvenza di una delle parti. Infine, il riferimento a “una delle parti” rende evidente che il giudizio non dovrà riguardare di necessità la parte che debba conseguire la prestazione, ma anche quella che la debba eseguire, imponendo la norma una valutazione complessiva della situazione delle parti.

In ogni caso l’inibitoria, sia essa concessa o rifiutata, rimane pronuncia priva di uno strumento di controllo, non essendo allo stessa estensibile quel reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. oggi invece riconosciuto anche nell’ambito delle sospensive in sede esecutiva. Il che significa che l’accuratezza con cui il legislatore si è peritato di delinearne i presupposti continuerà ad avere rilievo per così dire a colpo secco, cioè in unica valutazione da parte del giudice cui è affidata.

Il nuovo testo dell’art. 283 c.p.c. porta poi con sé anche un’altra modifica di rilievo, contenuta nel suo secondo comma, sempre in attuazione della legge delega. L’istanza di sospensiva, la cui proposizione era tradizionalmente limitata agli atti introduttivi del giudizio di appello, può infatti essere oggi proposta per la prima volta nel corso del giudizio d’appello, o anche riproposta dopo un suo iniziale rigetto, “se si verificano mutamenti nelle circostanze, che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità”. Il che significa che la sua proposizione per la prima volta in una fase del procedimento successiva all’appello principale o a quello incidentale, e anche che la sua riproposizione dopo una prima richiesta svolta all’interno dei medesimi mezzi, non sono libere, me dovranno basarsi su circostanze sopravvenute alla proposizione degli atti introduttivi, anche derivanti da novità incorse nel procedimento[28], che andranno altresì specificamente indicate nel ricorso cui la norma affida la proposizione o riproposizione in corso di causa.

Una volta ammessa la riproponibilità dell’istanza di sospensiva in corso di causa per mutamenti delle circostanze, sarei in dubbio nel negare la possibilità di una rivalutazione anche alla parte appellata, perché nel caso in cui si fossero verificati mutamenti nelle circostanze che evidenziassero che l’inibitoria non doveva essere concessa, si verificherebbe altrimenti una disparità di trattamento non giustificabile. In proposito è vero che le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge, non sono per regola generale dell’art. 177 c.p.c. né modificabili, né revocabili, ma è anche vero che qui sarebbero invocati quei mutamenti delle circostanze senza i quali l’istanza presentata in corso di causa non è neppure ammissibile. La soluzione negativa imporrebbe allora di spiegare perché la sospensiva negata con ordinanza non impugnabile ai sensi dell’art. 351, comma 1° c.p.c., possa essere poi nella sostanza revocata o modificata su istanza dell’appellante che riproponga la domanda a seguito del mutamento delle circostanze, mentre la sospensiva concessa con la medesima ordinanza non impugnabile non sia parimenti revocabile  o modificabile su istanza della controparte. Insomma, o la logica dell’art. 177 c.p.c. vale in entrambi i casi, il che è smentito dalla nuova norma che consente la proposizione o riproposizione dell’istanza per mutamento delle circostanze, oppure non vale con riferimento a questa particolare ordinanza non impugnabile in tutti i casi per espressa contraria indicazione normativa.

L’ultima novità contenuta nel testo dell’art. 283 c.p.c. è infine quella per cui il pagamento della sanzione pecuniaria che può essere comminata in caso di inammissibilità o manifesta infondatezza dell’istanza di inibitoria deve essere effettuato alla cassa delle ammende e non alla controparte.

9.La disciplina procedimentale dell’inibitoria è poi cambiata in considerazione delle diverse possibilità che si possono presentare quanto al rito del procedimento. Come ho già rilevato, l’art. 351 c.p.c. è una delle norme che consentono di pensare che l’udienza di trattazione non sia affidata di necessità in modo secco all’istruttore. Quest’ultimo infatti, se nominato, è l’organo davanti al quale si svolge la prima udienza e dovrà quindi sentire le parti in proposito, ma la pronuncia sull’inibitoria è sempre affidata al collegio. La norma nel suo primo comma si limita a dire che sull’istanza il giudice “provvede con ordinanza non impugnabile nella prima udienza”, ma la continuazione del medesimo primo comma chiarisce immediatamente che non sarà così nel caso, che si vorrebbe principale, in cui l’udienza è affidata all’istruttore, che non ha però in materia potere decisorio. Occorrerà allora pensare che la regola enunciata nella prima parte del primo comma riguardi i casi in cui giudice d’appello è il tribunale, oppure i casi, se li si voglia ammettere secondo quanto illustrato in precedenza, in cui la prima udienza sia ancora affidata a trattazione collegiale. Quando l’udienza sia invece tenuta dall’istruttore, la necessità di suo coordinamento con il collegio comporterà di necessità che il provvedimento sulla sospensiva sia assunto, contrariamente a quanto richiede la prima parte della norma, con ordinanza collegiale data fuori udienza, possibilità quest’ultima che non credo sia comunque da escludere anche nei casi in cui l’istruttore non è nominato, essendo in ogni caso probabile che all’esito dell’udienza il giudice riservi la decisione comunicandola poi in un tempo successivo.

Anche nel nuovo sistema rimane viva la possibilità di decisione anticipata sulla sospensiva, che, oggi come ieri, va chiesta con ricorso al presidente della corte e al tribunale quando questo giudica in funzione di giudice d’appello. La disciplina del sub procedimento che si instaura in questo caso è però adattata alla nomina dell’istruttore. Il presidente, o il tribunale, possono infatti in caso di eccezionale udienza pronunciare con decreto la sospensiva inaudita altera parte, dovendo in questo caso fissare udienza in camera di consiglio nel contraddittorio tra le parti, all’esito della quale confermare, modificare o revocare il precedente decreto. Per questa parte la norma risente di una fattura scarsa perché sono reiterate, senza alcuna necessità, per due volte  le parole “con ordinanza non impugnabile” e questa ripetizione fa perdere la chiarezza del precedente dettato, più perspicuo nell’indicare che l’udienza in camera di consiglio in cui viene rivalutata la pronuncia concessa senza l’audizione delle parti è quella stessa in cui le parti vengono invitate a comparire nel caso in cui il giudice ritenga di non poter pronunciare che nel contraddittorio delle parti. Se, invece, il presidente o il tribunale non ritengono che sussista l’urgenza capace di fare decidere sull’istanza di inibitoria immediatamente con decreto, il presidente ordina la comparizione delle parti davanti all’istruttore e il tribunale, quale giudice d’appello, la ordina invece davanti a sé. In proposito, infatti, quel “rispettivamente” è indicativo dell’alternativa che apre il terzo comma tra il presidente del collegio e il tribunale. Con riferimento al procedimento d’urgenza davanti all’istruttore non è reiterato l’inciso “se nominato” che caratterizza le altre disposizioni, così che non è dato capire che cosa accada nelle ipotesi in cui il presidente abbia nominato il relatore e fissato direttamente l’udienza di discussione orale, ipotesi la cui celerità potrebbe anche non assorbire l’esigenza di una previa decisione d’urgenza sulla sospensiva. Escluso che si debba comunque nominare l’istruttore ad hoc, credo si debba pensare o che l’udienza orale deve in questo caso essere fissata così in fretta da assorbire anche le ragioni di urgenza, con rigetto diretto dell’appello nel merito nel caso di manifesta infondatezza o suo accoglimento nel merito nel caso opposto di manifesta fondatezza e senza necessità dunque che sia sciolto il nodo della sospensiva, oppure, se non fosse possibile fissare una udienza orale davanti al collegio in termini così brucianti, che l’udienza stessa debba tenersi davanti al relatore o al presidente. Nel caso in cui sia nominato l’istruttore, posto che la decisione è comunque collegiale occorrerà un coordinamento successivo tra il giudice monocratico e il collegio, che, udita la relazione dell’istruttore, provvederà fuori udienza sulla inibitoria, fissando poi, quando non ricorrono i presupposti per il giudizio accelerato, l’udienza di trattazione nel rispetto dei termini a comparire.

Vi è poi la già richiamata possibilità di “passerella” dall’inibitoria alla decisione accelerata di cui all’art. 351, comma 4° c.p.c., attraverso cui la causa può passare in via diretta dalla prima udienza a quella di discussione orale disposta ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. Tuttavia se la prima udienza si è tenuta davanti all’istruttore, il collegio nel provvedere sulla sospensiva dovrà fissare udienza davanti a sé per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale, il che implica di necessità che le udienze siano comunque due, l’una davanti all’istruttore, l’altra davanti al collegio. Se si ammette invece che la trattazione possa essere anche collegiale, il collegio potrebbe anche disporre direttamente la trattazione orale davanti a sé alla stessa udienza, con risparmio dei tempi necessari al raggiungimento della decisione accelerata di merito. Resta aperto anche in questo caso il dubbio se lo scambio di note conclusionali, richiamato nella nuova parte del quarto comma dell’art. 351, sia necessario e precluda quindi di procedere ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. attraverso la fissazione di una udienza esclusivamente orale, cui sarebbe allora esclusivamente riferita la prima parte dell’art. 351, comma 4° c.p.c., oppure se si tratti di schema decisorio utilizzabile anche quando “l’udienza prevista dal primo comma” sia collegiale.

Inutile dire a questo punto che una maggiore chiarezza nella stesura di queste norme sarebbe stata doverosa.

10. Anche le ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado sono state ritoccate, in sintonia con la legge delega che sul punto prevedeva che gli articoli 353 e 354 c.p.c. andassero riformulati “riducendo le fattispecie di rimessione della causa al giudice in primo grado, ai casi di violazione del contraddittorio”. Seguendo questa direttiva è stato abrogato l’art. 353 c.p.c., facendo sì che il giudice d’appello che riformi la pronuncia declinatoria della giurisdizione del giudice di primo grado sia tenuto oggi a pronunciare direttamente nel merito. La disposizione è in linea con la progressiva diminuzione della centralità della questione di giurisdizione, di cui è sintomatica anche la riformulazione dell’art. 37 c.p.c. e parifica oggi la decisione declinatoria della giurisdizione a tutte le altre pronunce declinatorie di rito che, se riformate in appello, sono tradizionalmente affidate alle decisione sostitutiva del giudice superiore. E’ stato poi abrogato il secondo comma del previgente art. 354 c.p.c., ragione questa per cui il giudice d’appello non deve più rimettere la causa al primo giudice nel caso di riforma della sentenza che abbia erroneamente pronunciato sull’estinzione del processo a norma dell’art. 308 c.p.c.

Rimangono invece invariate, seppure è cambiata la formulazione lessicale della disposizione che dalla originaria strutturazione negativa passa a una più semplice positiva, le altre ipotesi in cui il giudice d’appello non provvedeva in via sostitutiva, ma era tenuto a rimettere la causa al giudice di primo grado. Così restano regolati come in precedenza i casi di nullità della notifica dell’atto introduttivo, erronea mancata integrazione del contraddittorio o estromissione di una parte, nullità della sentenza ai sensi dell’art. 161, comma 2° c.p.c., caso quest’ultimo maggiormente discusso in quanto non strettamente attinente al contraddittorio e quindi possibilmente destinato ad una abrogazione che è invece mancata[29].

E’ stata inoltre introdotta, all’interno del terzo comma dell’art. 354 c.p.c., la specificazione che le parti, quando il giudice d’appello dichiara la nullità degli atti compiuti in primo grado, o riconosce sussistente la giurisdizione negata dal primo giudice, sono rimesse in termini per il compimento delle attività che sarebbero precluse. Viene così tracciata una linea normativa per l’ipotesi, precedentemente discussa, di nullità dell’atto di citazione per vizi della vocatio in ius, che, a differenza del caso di nullità della sua notifica, non ha mai costituito ipotesi tipica di rinvio della causa in primo grado. In questo caso il giudice d’appello nel riconoscere la nullità dell’atto introduttivo e degli atti ad esso conseguenti deve infatti ordinarne la rinnovazione davanti a sé, rimettendo la parte in termini rispetto alle attività che non aveva potuto compiere a causa della predetta nullità. La norma ha contenuto assertivo quanto all’ammissione delle parti al compimento delle attività che sarebbero loro precluse e pone un automatismo, rendendo difficilmente reiterabile l’orientamento per cui il contumace che chiede di essere rimesso in termini è tenuto a dimostrare che la nullità della citazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo[30]. L’altro caso trattato con lo stesso regime riparatorio è quello della sentenza che riconosca la giurisdizione erroneamente declinata in primo grado, pur nella profonda differenza di presupposti. Nel nuovo regime del giudizio di primo grado, infatti, tutte le attività processuali si precludono prima della prima udienza di trattazione che costituisce lo spartiacque perché la causa possa essere rimessa in decisione in relazione alla questione del difetto di giurisdizione, così che le preclusioni inutilmente maturate dipendono da un atteggiamento negligente della parte che di per sé non dovrebbe giustificare la rimessione in termini. Tuttavia anche in questo caso vi è un automatismo, probabilmente voluto in sintonia con quanto avveniva in ragione dell’applicazione dell’abrogato art. 353 c.p.c., consentendo alle parti che avessero subito una errata declinatoria di giurisdizione di riiniziare da capo il procedimento, cosa che oggi possono fare solo direttamente davanti alla corte d’appello[31].

11. Da ultimo occorre spendere qualche parola sui casi in cui la corte d’appello è chiamata a decidere quale giudice dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, oppure quale giudice del reclamo conseguente al nuovo potere cautelare affidato agli arbitri dall’art. 818 c.p.c.

L’impugnazione per nullità non è un giudizio di appello e da questo differisce profondamente per struttura e funzione, comunque legata a motivi predeterminati e non sempre indirizzata a svolgere anche l’eventuale funzione rescissoria. Va da sé che i casi in cui in sede di impugnazione per nullità si dà vita all’istruzione della causa sono ancora più limitati di quanto avvenga davanti al giudice d’appello. Viene quindi spontaneo il quesito se il complesso rito precedentemente esaminato, che fa della nomina dell’istruttore una delle sue novità salienti si debba applicare anche in questa sede. A me sembra che la risposta debba essere negativa, posto che le regole che disciplinano il giudizio di appello non si sono mai applicate all’impugnazione del lodo, cui possono estendersi, in quanto impugnazione, alcune norme generali sulle impugnazioni, ma non le regole specifiche che riguardano il giudizio d’appello. Ciò significa che, non essendo stati variati gli articoli 828-830 c.p.c., se non per l’abbreviazione del termine lungo per impugnare il lodo, anch’esso portato a sei mesi in sintonia con quanto avviene per la sentenza, nulla dovrà variarsi con riferimento al suo procedimento.

Più delicato è il tema del reclamo di cui all’art. 818-bis c.p.c., introdotto come contrappeso della nuova regola che conferisce potere cautelare generalizzato degli arbitri. Nell’istituire una forma necessaria di controllo del giudice sull’operato cautelare degli arbitri, il legislatore è ricorso a una forma di controllo limitata, con espressa riduzione delle censure ammissibili. Il nuovo art. 818-bis cod. proc. civ. dispone infatti che “Contro il provvedimento degli arbitri che concede o nega una misura cautelare è ammesso reclamo a norma dell’art. 669-terdecies davanti alla corte d’appello, nel cui distretto è la sede dell’arbitrato, per i motivi di cui all’art. 829, primo comma, in quanto compatibili, e per contrarietà all’ordine pubblico”.

Un primo dato da tenere fermo è che si tratta di un controllo necessariamente limitato, non potendosi qui estendere la disposizione ampliativa dell’art. 829, comma 3°, c.p.c. che consente alle parti di conferire al giudice dell’impugnazione il controllo sul lodo anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia. Le ragioni di impugnazione non sono per loro natura disponibili dalle parti, a meno che, come in quel caso, non sia lo stesso legislatore a prevederlo e in materia di cautela arbitrale il sistema è volutamente costruito in modo tale da limitare l’ingerenza del giudice statuale nel giudizio arbitrale, senza alcun richiamo di quella facoltà lasciata alle parti dall’art. 829, comma 3°, c.p.c. con riferimento all’impugnazione del lodo. E’ dunque da rimarcare che un rimedio a critica libera qual è il reclamo cautelare diviene in questa sede strumento di censura a critica vincolata, il che ne altera in qualche misura la natura.

Quale sia la misura di questa alterazione è però punto controverso. Il reclamo cautelare è di regola uno strumento di impugnazione devolutivo e sostitutivo, che mira a una nuova decisione sulla domanda cautelare e questa sua natura mal si adatta a un rimedio a carattere limitato, in un contesto in cui vige la regola che il controllo del giudice statuale non deve mai estendersi a un riesame nel merito del provvedimento arbitrale, posto che tale riesame non è consentito neppure in sede di impugnazione del lodo[32].

Il tema della determinazione dei poteri del giudice del reclamo, divide già gli interpreti e non trova soluzione nell’art. 818-bis c.p.c. La nuova norma richiama in via generale l’art. 669-terdecies c.p.c., limitandosi a indicare una competenza specifica della corte d’appello, derogativa di quella generale, e a chiarire che i motivi sono limitati nel senso precedentemente indicato. La norma cautelare è richiamata nel suo complesso, senza esclusione delle disposizioni che conferiscono al giudice del reclamo il potere di conferma, modifica o revoca del provvedimento cautelare reclamato, consentendo così di leggere il sistema nel senso che la corte d’appello, una volta annullato il provvedimento cautelare arbitrale, potrà provvedere a sostituirlo, entrando inevitabilmente nel merito della cautela accordata, oppure rifiutata, dagli arbitri.

Esiste però una diversa lettura del nuovo sistema di controllo sul provvedimento cautelare arbitrale, che si pone con quella appena richiamata in netta antitesi. Si dice infatti, e lo si dice con l’autorevolezza di chi questa riforma l’ha anche pensata, che l’esclusività del potere cautelare conferito agli arbitri comporta che il reclamo sia stato costruito come impugnazione in senso stretto, senza alcun conferimento alla corte d’appello di poteri di carattere rescissorio. In questo modo, il rigetto del reclamo lascerebbe immutato il provvedimento reclamato, mentre il suo accoglimento lo annullerebbe, senza mai e in nessun caso sostituirlo[33]. Così i motivi di annullamento non ostativi all’esercizio del potere cautelare da parte degli arbitri, non potrebbero che portare alla riproposizione dell’istanza cautelare agli stessi arbitri, non essendo immaginabile una pronuncia sostitutiva da parte della corte d’appello in sede di reclamo che porterebbe a disattendere la volontà delle parti che hanno conferito il potere cautelare agli arbitri e non al giudice; quando invece il motivo di annullamento sia ostativo all’esercizio del potere cautelare degli arbitri, perché sia stata ad esempio ritenuta invalida la convenzione di arbitrato o invalidamente nominati gli arbitri, la domanda cautelare dovrebbe essere riproposta al giudice di primo grado, perché la pronuncia del provvedimento da parte di un soggetto  che aveva il potere di emetterlo costituisce il presupposto indispensabile per la sostituzione dello stesso in sede di impugnazione[34].

In altra sede[35] ho motivatamente aderito alla prima delle due impostazioni richiamate e, per brevità, non posso che rinviare a quello scritto, ove si esaminano anche altri profili legati a questa nuova funzione di giudice del reclamo attribuita alla corte d’appello.

[1] Cfr. Lettera l) del comma 8 dell’unico articolo della legge delega che richiedeva di “prevedere che la trattazione davanti alla corte d’appello si svolge davanti al consigliere istruttore, designato dal presidente, al quale sono attribuiti i poteri di dichiarare la contumacia dell’appellato, di procedere alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza, di procedere al tentativo di conciliazione, di ammettere i mezzi di prova , di procedere all’assunzione dei mezzi istruttori e di fissare udienza di discussione della causa davanti al collegio anche ai sensi dell’art. 281-sexies del codice di procedura civile, fermo restando il potere del collegio di impartire provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa e di disporre, anche d’ufficio, la riassunzione davanti a sé di uno o più mezzi di prova”.

[2] E in particolare di quel tempo vuoto, spesso di anni, che abbiamo visto intercorrere tra la prima udienza di comparizione e trattazione e l’udienza di precisazione delle conclusioni.

[3] Cfr. G. Costantino, La riforma della giustizia civile, Prospettive di attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, Bari 2022, 239, ove si evidenzia che “con comunicazione del 3 giugno 2021, prot. 18435 il Presidente della Corte d’appello di Roma aveva segnalato alla Ministra della Giustizia che ‘la riesumazione, dopo oltre venti anni, della figura del consigliere istruttore non sembra dare un contributo in tal senso, ed anzi appare incoerente rispetto agli sforzi compiuti in questi anni per ridurre i tempi del processo civile in appello, semplificandone le forme e responsabilizzando, attraverso l’attività di coordinamento dei presidenti di sezione e l’integrale trattazione collegiale, tutti i magistrati dell’ufficio”; G. Federico, Il giudizio di appello, in Questione giustizia 2021, 89 s.; A. Aniello, in Aa.Vv. La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. Tiscini, Pisa 2023, 484, testo e nota 3.

[4] Nell’intervento tenuto nel corso del Quarto seminario – La riforma della giustizia civile a cura di Magistratura democratica, tenuto a Roma il 2 marzo 2023, il Presidente della Corte d’appello di Roma, ha tenuto a ricordare l’iniziativa richiamata nella nota precedente, chiarendo altresì che per ragioni organizzative ben evidenziate il protocollo organizzativo della stessa Corte è nel senso di non procedere ordinariamente alla nomina del consigliere istruttore, ma di confermare il sistema in uso di assegnazione automatica dei fascicoli con nomina del relatore e scelta preferenziale verso il modello della discussione orale. La nomina del consigliere istruttore avviene invece con espresso provvedimento del Presidente solo ove ritenga che la causa abbia profili particolari che determinano la necessità di istruttoria.

[5] Si legge nella Relazione che “Si è inteso così assicurare la possibilità di adattare le forme del rito alle effettive esigenze dello specifico procedimento, in modo da privilegiare la snellezza e la celerità della decisione quando ciò sia opportuno, riservando modelli processuali più articolati alle cause il cui grado di complessità lo richieda”.

[6] Nell’intervento tenuto nel corso del seminario di cui alla nota 4, il Presidente della Corte d’appello di Ancona ha invece riferito che l’indicazione di quest’ultima Corte è nel senso della nomina del consigliere istruttore.

[7] Cfr. S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni in generale e sul giudizio d’appello, in corso di pubblicazione su Riv. dir. proc. 2023, fasc. 1, par. 3, testo e nota 16.

[8] Cfr. Cass., Sez. Un. 30 novembre 2021, n. 37552, che ha respinto l’eccezione di inammissibilità di un ricorso avverso una sentenza della Corte dei conti di quattordici pagine, fondato su un solo motivo ed articolato in oltre novanta pagine, in quanto il testo complessivo, benché caratterizzato da una eccessiva e non necessaria lunghezza e da una certa farraginosità dell’esposizione, consentiva di comprendere lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza le censure rivolte alla sentenza impugnata”.

[9] Cass., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199. Questa parte della motivazione è ripetuta nella recente sentenza delle Sezioni Unite 16 febbraio 2023, n. 4835.

[10] Così S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni in generale e sul giudizio d’appello, par. 7

[11] D’altra parte, seguendo la lettera delle norme, occorrerebbe ritenere che l’appellato debba costituirsi in giudizio con comparsa di risposta almeno settanta giorni prima dell’udienza ai sensi del combinato disposto degli articoli 347 e 166 c.p.c., in un sistema in cui il termine a comparire è dichiaratamente quello di novanta giorni e possa poi integrare la propria costituzione con l’appello incidentale fino a venti giorni prima dell’udienza, il che è talmente assurdo da indicare che si tratta solo di mancanza di coordinamento normativo.

[12] Sono le soluzioni ipotizzate nell’ambito del seminario richiamato alla nota 4 dalla Corte d’appello di Napoli, a livello però di varie alternative e senza esplicitazione di scelte già operative.

[13] Tendenza questa, come ricordato in apertura, seguita dalla Corte d’appello di Roma.

[14] Che il provvedimento di nomina del relatore o dell’istruttore abbia la forma del decreto è esplicitato dalla Relazione

[15] F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, Commentario breve agli articoli riformati del codice di procedura civile, Milano, 2023, p. 171.

[16] Che come già rilevato, posto che l’appellato non si è ancora costituito, si riducono alle ipotesi tradizionali di inammissibilità dell’appello e a quelle di manifesta infondatezza dell’appello proposto dall’appellante totalmente soccombente in primo grado, rispetto al quale non deve valutarsi la simmetria tra appello principale e appello incidentale ai sensi dell’art. 348-bis, comma 2° c.p.c..

[17] In proposito non è da escludersi che la valutazione di manifesta fondatezza dell’impugnazione possa farsi anche nel solo confronto tra una sentenza di primo grado particolarmente deficitaria e l’impugnazione, ma si tratterà di casi limite.

[18] Insomma, se la novità è quella di un rito super celere in cui si fissa direttamente l’udienza di discussione orale davanti al collegio ed è quella che il presidente può anche rinviare, si dovrebbe pensare che il presidente, ravvisata l’inammissibilità o la manifesta infondatezza del solo appello principale, fissi udienza di discussione orale davanti al collegio nominando il relatore. Ma poiché da quell’udienza decorre a ritroso il termine per la proposizione dell’appello incidentale ai sensi dell’art. 343 c.p.c., all’udienza ben potrebbe emergere che, invece, l’appello incidentale non ha le caratteristiche di cui all’art. 348-bis c.p.c., comportando ciò l’esigenza di tornare indietro. Meglio allora pensare che il primo comma dell’art. 349-bis regoli un rito molto accelerato a sé stante che non passa neanche attraverso la prima udienza di trattazione, ma che vi possa essere anche, quando questo rito sia stato escluso, una trattazione collegiale la cui udienza è fissata dal presidente e non dal giudice istruttore.

[19] Invero, se si ipotizza che la prima udienza possa tenersi solo davanti all’istruttore – oppure non essere tenuta affatto perché la causa va a immediata discussione orale – non ha alcun senso l’inciso finale aggiunto al primo comma dell’art. 351 c.p.c.

[20] Certamente, a fronte di norme così poco chiare è anche possibile ritenere che il legislatore abbia pensato al caso di discussione orale disposta ai sensi dell’art. 349-bis, comma 1° c.p.c. in cui il collegio si avveda poi, giunto all’udienza, della necessità di assunzione di una prova e, non avendo provveduto a nominare l’istruttore, voglia effettuare una delega che non costringa all’assunzione collegiale. Tuttavia l’art. 356 c.p.c. fa riferimento a tutte le ipotesi in cui occorra assumere o rinnovare una prova nel giudizio d’appello, e quindi anche a quelle in cui vi sia stata una decisione di ammissione delle prove stesse ai sensi dell’art. 350, comma 4° c.p.c., il che farebbe propendere per un’interpretazione maggiormente ampliativa di quella riferita alla sola ipotesi di diretta rimessione della causa a discussione orale.

[21] Così la Relazione tecnica agli Emendamenti governativi al Disegno di legge recante “Delega al governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina della risoluzione alternativa delle controversie” AS1662.

[22] Si tratta di uno dei temi critici sollevati dal Presidente del Tribunale di Roma nella relazione tenuta al seminario citato nella nota 4. Le udienze di trattazione collegiali cumulano in un’unica aula di udienza la trattazione di tutte le cause assegnate ai tre giudici relatori, mentre la nomina di un consigliere istruttore per ogni causa con trattazione separata necessita della disponibilità di più aule di udienza.

[23] Ad esempio, l’art. 350-bis c.p.c., se interpretato secondo la lettera del suo secondo comma implica una duplicazione di udienze tra la precisazione delle conclusioni davanti all’istruttore e una successiva udienza collegiale; il meccanismo dell’inibitoria quando la discussione avviene davanti all’istruttore implica il successivo coordinamento tra quest’ultimo e il collegio, nonché la previsione di un’udienza davanti all’istruttore per la discussione della sospensiva e, nel caso in cui emerga in quella sede la possibilità di andare direttamente a sentenza con il meccanismo di cui all’art. 281-sexies c.p.c. la previsione di una successiva udienza collegiale, laddove un’udienza di trattazione collegiale potrebbe cumulare in sé anche il meccanismo decisorio abbreviato.

[24] A favore della permanenza della trattazione collegiale A. Ferraro, Riflessioni a margine della riforma sul processo civile di appello, in Judicium

[25] In questo senso è stato l’intervento del referente dell’Ufficio legislativo intervenuto al seminario citato in nota 4, che, pur intervenendo a titolo personale, ha precisato che il legislatore delegato è partito dalla constatazione che le corti d’appello sono diverse l’una dall’altra e che anche le cause sono diverse l’una dall’altra e che, quindi, si è voluto dare ai presidenti la possibilità di adattare le forme del rito dell’appello alle varie differenze che ci sono sia tra corte e corte come moduli organizzativi che possono essere adottati, sia alle specifiche esigenze del singolo processo.

[26] In questo senso S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni in generale e sul giudizio d’appello cit., par. 7. Analogamente A. Ferraro, Riflessioni a margine della riforma cit.

[27] Che va dalla pronuncia con cui il collegio provvede sulla sospensiva alla successiva udienza orale che lo stesso collegio è tenuto a fissare con la medesima ordinanza ai sensi dell’art. 351, comma 4° c.p.c., oppure dalla pronuncia data nell’ambito dell’apposito procedimento descritto dai commi 2° e 3° della medesima norma e l’udienza collegiale parimenti fissata per la decisione della causa.

[28] Cfr. A. Ferraro, Riflessioni a margine della riforma cit. che fa l’esempio di una nuova CTU che abbia ribaltato l’esito della valutazione sulla cui base era stata resa la sentenza impugnata.

[29] Cfr. S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni in generale e sul giudizio d’appello cit., par. 9. Sui riflessi che la firma digitale ha in relazione a questo vizio della sentenza si veda A. Ferraro, Riflessioni a margine della riforma cit.

[30] Così S. Boccagna, Le nuove norme sulle impugnazioni in generale e sul giudizio d’appello cit., par. 9, nota 49 che richiama Cass., Sez. Un. 26 gennaio 2022, n. 2258 il cui indirizzo dovrebbe essere pertanto superato.

[31] Cfr. S. Boccagna, op. loc. cit.

[32] Nello stesso senso A. Briguglio, Il potere cautelare degli arbitri, introdotto dalla riforma del rito civile, e la inevitabile interferenza del giudice (“evviva il cautelare arbitrale!”, ma le cose non sono poi così semplici), in Judicium, par. 8.

[33] F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, Commentario breve agli articoli riformati del codice di procedura civile, Milano, 2023, p. 353.

[34] Così F.P. Luiso, op. loc. cit.

[35] Cfr. il mio scritto dedicato alla riforma dell’arbitrato in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc., 2023, fasc. 1