L’art. 380 bis c.p.c. sotto la lente delle Sezioni Unite

Di Bruno Capponi -

In un giudizio di legittimità pendente dinanzi alla II sez. civ., il consigliere delegato formula la sintetica proposta di definizione accelerata ex art. 380 bis c.p.c.

Il ricorrente, munitosi di nuova procura speciale, chiede che il ricorso sia deciso dal collegio nelle forme ordinarie. Ma viene designato quale relatore proprio lo stesso magistrato che aveva formulato la proposta di definizione accelerata.

Il ricorrente chiede allora che il ricorso venga assegnato alle sezioni unite, perché «la composizione del collegio giudicante senza il consigliere estensore della proposta di decisione accelerata sarebbe l’unica soluzione compatibile con il principio di imparzialità del giudice». A quanto risulta dal provvedimento in rassegna, non ricorreva nessun’altra delle condizioni di cui all’art. 374 c.p.c.: l’unica ragione di rimessione al «collegio allargato della nomofilachia» è nella necessità di verificare sul campo il funzionamento di uno strumento nuovo che, svolgendo le funzioni di “filtro” prima proprie di un giudice collegiale (la sesta sezione), è destinato a ricevere una larga applicazione presso le varie sezioni della  suprema corte «con finalità deflattive del contenzioso». Tale “filtro” «assume una rilevanza centrale nel disegno del legislatore delegato e nell’organizzazione della Corte di cassazione».

Il provvedimento della Prima Presidente mostra encomiabile sensibilità, perché sarebbe riuscito facile rigettare la richiesta di rimessione alle sezioni unite ragionando soltanto sull’oggetto della causa o sull’esistenza di precedenti non conformi; ed è importante la presa d’atto che una questione di stretta procedura (troppo spesso giudicata di mero impaccio) diventa «di massima di particolare importanza» allorché si attingono garanzie irrinunciabili.

La verifica non è sulla norma, perché né l’art. 380 bis, né l’art. 380 bis.1 c.p.c. prevedono – allorché la parte, disattendendo il “consiglio” del giudice monocratico, chieda che il ricorso venga deciso – che relatore al collegio debba essere lo stesso magistrato delegato alla definizione accelerata. A differenza, per citare un esempio recente[1], dell’art. 630, comma 3, c.p.c. che, richiamando l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi 3, 4 e 5, veniva comunemente letto e applicato nel senso che lo stesso giudice dell’esecuzione poteva essere chiamato a far parte del collegio del reclamo avverso la pronuncia sull’estinzione[2];  ciò nonostante l’esigenza, più volte riaffermata dalla giurisprudenza costituzionale specie con riferimento al processo penale, che «la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie che egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza»[3].

Nel nostro caso, la norma è silente[4]. E sarebbe stato ragionevole se la prassi si fosse spontaneamente indirizzata nel senso di escludere il consigliere delegato dal collegio decidente: ma così non è andata. Evidentemente, all’interno della S.C. qualcuno pensa che l’identità del magistrato (prima proponente il commodus descessus e poi relatore al collegio, quasi a difesa della sua proposta) appartenga allo stesso modello di dissuasione/respingimento che ispira la misura – chiarissime in tal senso le valutazioni del Massimario, riportate in nota – laddove la dottrina si è generalmente espressa nel senso contrario, preoccupandosi appunto della questione pre-cognizione[5].

Il provvedimento della Prima Presidente chiede alle sezioni unite di verificare la legittimità di una prassi – ancora non consolidatasi – che estremizza il problema della pre-cognizione, chiamando il consigliere proponente non soltanto a comporre il collegio decidente, ma addirittura a farne parte in qualità di relatore. Sotto questo aspetto, il provvedimento sembra quasi una contaminazione dell’art. 374, comma 2 (richiamato nel testo) con l’art. 363 bis c.p.c. perché, alla prima occasione utile, è stata posta sul tappeto una «questione complessa» (cioè che presenta «gravi difficoltà interpretative») in grado di condizionare fortemente il futuro della nostra Cassazione perché «suscettibile di porsi in numerosi giudizi». Una sorta di rinvio pregiudiziale che fa onore al vertice della Cassazione, che col suo motivato provvedimento ha mostrato evidente consapevolezza del fascio di problemi sollevati dal nuovo istituto.

Problemi che non potranno certamente essere elusi dalle sezioni unite, perché per dare una risposta al quesìto sulla pre-cognizione occorrerà individuare la genuina portata della decisione accelerata. I modelli richiamati per comparazione dalla Prima Presidente – assieme al generico ma ripetuto riferimento alla giurisprudenza costituzionale – sono interni alla stessa riforma del 2022 (gli artt. 183 ter e quater c.p.c.) e sono di indubbia portata decisoria (in caso di accoglimento del reclamo, il giudizio prosegue dinanzi a magistrato diverso da quello che aveva emesso l’ordinanza reclamata); lo stesso termine “opposizione” (§ 4.3.) non viene utilizzato dalla norma bensì è stato coniato dalla dottrina allo scopo di esaltare l’idoneità della decisione accelerata a definire il giudizio di legittimità assieme alla necessità di un nuovo atto d’impulso (e addirittura di una nuova procura speciale!) per poter ottenere ciò che si era richiesto sin dall’inizio: la decisione del ricorso nelle forme ordinarie. Insomma, in poche sapienti battute la Prima Presidente mostra di avere piena contezza dei tanti problemi implicati; ciò fa sperare che il relatore alle sezioni unite sarà scelto tra quei tanti consiglieri che non si sono già espressi in scritti “dottrinali” (generalmente a difesa del nuovo modello, per una malintesa tutela della deflazione “costi quel che costi”).

Le sezioni unite dovranno interrogarsi anche sulla legittimità della scelta del legislatore delegato che, a norme ordinamentali invariate, ha finito per introdurre il giudice monocratico in cassazione: in un contesto, cioè, da tutti avvertito come la culla della collegialità e nel quale le stesse sezioni unite attingono l’apice della rappresentatività proprio grazie a una collegialità allargata. Il giudice unico che formula la sintetica proposta di definizione del giudizio di legittimità è un “giudice”? Lo sarebbe anche di fronte alla corte costituzionale, ove dubitasse della legittimità di una norma che è chiamato ad applicare nel formulare la sua “proposta” (cioè nel decidere)? Possibile che un nuovo organo decidente sorga, all’interno del supremo giudice civile, grazie a una normicina (di non eccelsa fattura) del codice di procedura?

Su tutte le questioni implicate ci siamo già espressi[6] e non vogliamo qui ripeterci; ci limitiamo a osservare che: (a) il giudice singolo opera, nella fase di definizione accelerata, in modo del tutto svincolato da un collegio, a differenza di quanto avvenuto finora per l’ordinanza opinata; (b) se il giudice singolo fosse latore di una mera “proposta”, il processo di legittimità non potrebbe estinguersi senza una chiara e formale manifestazione di volontà delle parti costituite[7]; (c) se una fase del procedimento non fosse esaurita (si tratta appunto della fase indicata in rubrica: “decisione accelerata”), non si spiegherebbe la necessità del rilascio di una nuova procura speciale; (d) il passaggio da una fase di definizione accelerata alla fase di decisione “ordinaria” è reso ancor più chiaro nella progressione dal premio (mancato raddoppio del contributo unificato) alle sanzioni (pesanti, nel loro complesso): chi intende contrastare il “consiglio” del giudice singolo sa che avrà davanti una strada in salita, come dimostra il caso estremizzato che ha dato luogo al provvedimento in rassegna; (e) mentre la rinuncia agli atti richiede un’esplicita manifestazione di volontà delle parti (art. 390 c.p.c.), nel contesto della decisione accelerata il semplice silenzio delle parti conduce all’estinzione: effetto quindi prodotto non altro che dal provvedimento del giudice monocratico, autorizzato a chiudere in rito il giudizio di legittimità per ragioni di rito, di rito/merito e di schietto merito; (f) quello stesso provvedimento continuerà a produrre effetti anche nel seguito del giudizio, se è vero che il collegio, laddove riscontri che il giudizio va definito “in conformità alla proposta”, applica (non “può applicare”) le sanzioni. Siamo dinanzi a un pronunciamento del giudice monocratico che neppure l’opposizione delle parti potrà risolvere, e che finisce per condizionare anche la decisione finale del collegio. Tale pronunciamento, comunque denominato, non può che essere una decisione.

L’art. 380 bis c.p.c. non si presenta come il miglior filtro interno tra quelli sinora sperimentati. Strumenti nati per finalità diverse (i quesìti di diritto dell’art. 366 bis c.p.c., abrogato dalla legge n. 69/2009) sono stati “convertiti” in regolatori del contenzioso pur essendo stati concepiti, sin dalla bozza Brancaccio-Sgroi del 1988, per facilitare (non la rottamazione bensì) la decisione dei ricorsi. Altri strumenti sono stati negletti (art. 360 bis c.p.c.), vuoi per insipienza del legislatore vuoi perché la stessa ondivaga giurisprudenza della Corte non è riuscita a chiarire la loro esatta portata[8]. Ma sull’art. 380 bis non possono esserci fraintendimenti: l’intento di respingimento e gli aspetti sanzionatori sono chiarissimi.

Se anche le sezioni unite, come auspichiamo, dovessero affermare il principio secondo cui il consigliere proponente non potrà far parte, men che mai in veste di relatore, del collegio giudicante, risulterà regolato un problema di estremismo giudiziario; ma resta la realtà di uno strumento errato nella forma e nei contenuti, che la suprema corte – che forse non meritava di essere sottoposta a una simile prova – dovrebbe rigettare come nei trapianti si rigetta il corpo estraneo: “frutto avvelenato” in grado di cambiare la percezione della Cassazione come organo di garanzia per le parti e di controllo effettivo della legalità delle decisioni dei giudici di merito.

L’auspicio è che la ricerca non sia finita, e che, come avvenuto per i quesìti di diritto, dopo un’applicazione breve nel tempo (che inevitabilmente farà vittime) si torni a riflettere su soluzioni alternative che liberino la Corte da un peso ingrato, contrastante con la sua storia e con la nostra migliore tradizione.

In conclusione, la questione sulla quale sono chiamate a pronunciarsi le sezioni unite è di grande rilievo, ma non è certo la sola rilevante nel contesto del nuovo procedimento accelerato. Una risposta conforme alle esigenze della nostra tradizione sarà soltanto un primo passo – si spera non l’ultimo, di certo non quello decisivo – verso una strada che, si auspica, possa condurre in un prossimo futuro verso soluzioni di maggior equilibrio.

[1] Corte Cost., 17 marzo 2023, n. 45, ha dichiarato illegittimo, per contrasto con l’art. 111, comma 2, Cost., l’art. 630, comma 3, c.p.c. nella parte in cui stabilisce che, contro l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo esecutivo ovvero rigetta la relativa eccezione è ammesso reclamo al Collegio con l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi quarto e quinto, c.p.c., senza prevedere che del Collegio stesso non possa far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato.

[2] Sul punto le perplessità non erano trascurabili, specie dopo l’introduzione dell’art. 186 bis disp. att. c.p.c.: v. per tutti Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, VIII ed., Milano, 2022, 2818 ss.

[3] Così la notissima Corte Cost. n. 155 del 1996.

[4] Il tema non viene affrontato né nel Protocollo sottoscritto il 1° marzo 2023 tra Corte di cassazione, Procura Generale, Avvocatura dello Stato e CNF né nella relazione tematica del Massimario n. 96 del 6 ottobre 2022, pure molto esplicita nell’affermare che «è necessario verificare nella applicazione concreta il successo di tale procedimento. Vi è, infatti, il rischio che la parte, giunta dinanzi alla Corte di cassazione, preferisca comunque chiedere la decisione e andare comunque avanti. Tuttavia, il nuovo rito accelerato prevede due importanti aspetti deflattivi: l’espresso richiamo dell’art. 96 c.p.c. in caso di decisione conforme alla proposta di definizione accelerata e, per altro verso, l’espressa esclusione dall’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato in caso di rinuncia della parte ad ottenere la decisione dalla Corte, successivamente alla valutazione preliminare di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza. Inoltre, l’aver previsto che l’istanza per chiedere la decisione debba essere sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale potrebbe concorrere al successo del nuovo strumento in esame. Infatti, la nuova procura speciale implica che la parte personalmente valuti i due aspetti deflattivi suindicati, tenendo conto dei vantaggi collegati alla rinuncia al ricorso (quali l’esenzione dall’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato) e le gravi conseguenze in caso di decisione conforme alla proposta preliminare (la condanna per responsabilità aggravata)».

[5] V., oltre al sottoscritto (da ultimo in Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, Napoli, 2023, 261 ss.), almeno Graziosi, Note sulla riforma del giudizio in cassazione nell’anno 2022, in www.judicium.it, 552 ss.; Giorgi, Riforma del processo civile in cassazione: unificazione dei riti camerali e procedimento accelerato, in www.giustizia.com, 14 ss.; Damiani, La riforma del giudizio di cassazione, in La riforma del processo civile, a cura di D. Dalfino, Padova, 2023, 275 ss.; Tiscini, Procedimento in cassazione per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e terzietà del giudicante. La questione alle Sezioni Unite, in www.judicium.it dal 2 ottobre 2023.

[6] V. ancora Legittimità, interpretazione, merito, cit.

[7] Anche nel linguaggio comune una proposta chiama un’accettazione, di norma espressa e non per facta concludentia. L’art. 390 c.p.c. richiede la forma scritta per la rinuncia al ricorso principale o incidentale, che deve provenire dalla parte personalmente e dal difensore o anche soltanto da quest’ultimo se «munito di mandato speciale a tale effetto». L’adesione alla rinuncia, di cui all’art. 391, comma 4, c.p.c., presuppone anch’essa un atto scritto.

[8] Tiscini, Il filtro in Cassazione nella giurisprudenza della Corte, in Riv. dir. proc., 2019, 1028 ss.