Le novità del decreto correttivo alla riforma Cartabia sul procedimento semplificato di cognizione

Di  Roberta Tiscini -

SOMMARIO: 1.Considerazioni introduttive. – 2.Novità sull’ambito di applicazione e sulla fase introduttiva. – 3.Segue: Ulteriori modifiche intorno all’ambito di applicazione. – 4.Novità in tema di preclusioni. – 5.Novità nella fase della trattazione. – 6.Le novità nella fase decisoria. – 7.La conversione del rito da ordinario in semplificato. – 8.Segue. Conversione del rito, contraddittorio e profili procedimentali. – 9. Segue: La decisione sulla conversione.

 

 

1.Considerazioni introduttive.

 

E’ lunga la distanza che separa il rito sommario di cognizione degli artt. 702 bis ss c.p.c. dal semplificato degli artt. 281 decies ss c.p.c. (troppa!). Si è partiti da un procedimento che avrebbe dovuto essere “sommario” per affiancare quello ordinario a cognizione piena (così seguendo la logica che aveva ispirato nel codice del 1865 la dualità “rito sommario-rito formale”) pensando al sommario per le cause semplici e all’ordinario per le cause complesse, con una distinzione evidenziabile soprattutto in punto istruttorio (ma non solo). Nel tempo, la sommarietà – nella vigenza degli artt. 702 bis ss c.p.c. – si è andata perdendo, sulla scia di una prassi applicativa che ha sempre più evidenziato come non di vero rito sommario si trattasse, bensì di modello semplificato nelle forme (ancorché nel rispetto del contraddittorio), ma a cognizione piena.

Sulla base di questo dato – che si poteva dare per acquisito – la riforma Cartabia (d.lgs. n. 149/2022) ha ricollocato topograficamente all’interno del codice la disciplina del procedimento e lo ha rinominato (da “sommario” in “semplificato”). In realtà, non si è mancato di evidenziare da subito come la novella abbia fatto di più, oggi il procedimento semplificato degli artt. 281 decies ss. c.p.c. finendo per non distinguersi di molto da quello ordinario, e figurando rispetto a quell’ultimo null’altro che una diversa fase introduttiva. A guardare in filigrana la dinamica, infatti, i due modelli sono (quasi) perfettamente sovrapponibili nella fase decisoria ed in quella istruttoria. La più significativa differenza sta invece nell’introduzione e trattazione della causa: mentre il rito ordinario si contraddistingue per il passaggio dalle verifiche preliminari (art. 171 bis c.p.c.) alle memorie integrative (art. 171 ter c.p.c.), un tale passaggio manca nel modello semplificato (al punto da ritenere che quest’ultimo valga quale fuga dalle più stravolgenti novità del rito ordinario).

E’ intento di queste brevi riflessioni evidenziare ciò che vi è di nuovo sul tema alla luce, non solo del decreto correttivo in fase di approvazione – destinato ad apportare modifiche al d.lgs. n. 149/2022 – ma anche della recentissima sentenza di costituzionalità sull’art. 171 bis c.p.c. (Corte cost. 3 giugno 2024 n. 96).

Le novità proposte sono scindibili in due categorie:

a)Quelle sul modello semplificato in sé, id est modifiche agli artt. 281 decies c.p.c.

b)Quelle legate alla conversione del rito da ordinario in semplificato (la cd. passerella) che dipendono dagli incisivi interventi sull’art. 171 bisp.c.

Cominciando da quelle sub a), sarà bene procedere con ordine con riferimento alla successione tra le diverse fasi processuali: ambito di applicazione/fase introduttiva-trattazione/istruzione probatoria-decisione.

 

 

2.Novità sull’ambito di applicazione e sulla fase introduttiva

 

Una prima novità interessa l’ambito di applicazione, quanto alla definizione dei confini di facoltatività del rito (comma 2 art. 281 decies c.p.c.).

Questo il nuovo art. 281 decies c.p.c: “Art. 281 decies c.p.c.

Ambito di applicazione

Quando i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruzione non complessa, il giudizio è introdotto nelle forme del procedimento semplificato.

Nelle sole cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudizio può essere introdotto nelle forme del procedimento semplificato anche se non ricorrono i presupposti di cui al primo comma.

Le disposizioni di cui al primo e al secondo comma si applicano anche alle opposizioni previste dagli articoli 615, primo comma, 617, primo comma, e 645”.

La riformulazione del comma 2, negli intendimenti del decreto correttivo, dovrebbe appianare i dubbi interpretativi sollevati dalla precedente versione (varata con il d.lgs. n. 149/2022). Tuttavia, a ben vedere, pure quello modificato non è un testo a tenuta stagna, non sciogliendo esso le incertezze pregresse. Resta ferma (sia nel primo che nel secondo comma) l’esigenza di lasciare al giudice un’ampia discrezionalità nel valutare quale rito preferire, rimettendo a quest’ultimo un potere valutativo sulla convertibilità che conferma quanto poco stringenti siano i confini dell’obbligatorietà; è quindi tuttora piuttosto nebuloso individuare la linea di confine tra obbligatorietà e facoltatività (vizio che affonda le sue origini in una tutt’altro che trasparente legge delega).

Anche se la disposizione non lo esplicita, si può presumere che spetti all’attore – al momento di proporre la domanda – valutare quando la causa è semplice. Il fatto è che egli non conosce al completo i termini della lite, in mancanza delle difese del convenuto (se orientate su fatti controversi o pacifici, con prove solo documentali o anche costituende). Né può bastare la linea difensiva articolata dall’attore stesso per vincolare il giudizio entro i confini della lite “semplice”. Un esempio per tutti. Quand’anche “la domanda [sia] fondata su prova documentale”, nulla impedisce al convenuto di costituirsi articolando una complessa difesa (con plurime richieste istruttorie) sì da giustificare la scelta del giudice verso la conversione del rito.

È indubbio che il testo dell’art. 281 decies comma 1 c.p.c. voglia esplicitare la natura di procedimento pensato per cause “semplici”, che non richiedono una complessa indagine istruttoria, data la facile ricostruzione in punto di fatto (o addirittura cause fondate su fatti pacifici). Tuttavia, che si tratti di causa “semplice” – nei termini dell’assenza del tutto di istruttoria o di una istruttoria non complessa – è questione non inchiodante a priori, bensì valutabile ex post, una volta che sul tavolo del giudice si sia riversata l’intera (o quasi) materia del contendere; una volta cioè che il convenuto si sia costituito (e non si sia avvertita la necessità o possibilità di coinvolgere terzi).

Si può quindi ritenere che, quand’anche la riforma Cartabia – pure nella sua originaria versione – confermi l’esigenza di destinare questo rito alle cause semplici (così collocandosi sulla scia segnata dal procedimento sommario di cognizione) essa non offra un contributo effettivo per rendere stringenti i confini del rito entro ambiti predefiniti; a ben vedere, dunque, l’“obbligatorietà” (ammissibile solo per una certa tipologia di cause) resta un miraggio. Sicché, quanto al ruolo delle parti nell’introdurre il giudizio, all’onere posto a loro carico nel decidere le modalità procedimentali, ai poteri del giudice di disporre la conversione, non si può negare a quest’ultimo un ampio margine valutativo (pure quando l’opzione per il modello semplificato è apparentemente obbligata).

E’ indubbio, la valutazione circa i requisiti per l’uso delle forme semplificate è subordinata all’esercizio di un potere ufficioso, il quale è cosa ben diversa rispetto all’aprioristica scelta in favore dell’esclusività del rito, del tipo di quella del d.lgs. n. 150/2011 (l’unica che avrebbe potuto delineare una vera “obbligatorietà”). E’ obbligatorio il rito quando è la legge a definirne i confini vincolandoli a una delimitazione per materia (in base, ad esempio, alla competenza per materia del giudice adito); di contro, in questo caso, i parametri su cui misurare la semplicità della causa sono rimessi ad un’indagine che ruota attorno alle difese delle parti, non solo dell’attore – che introduce la domanda nelle forme semplificate – ma anche del convenuto che ben può dirottare il rito verso un’inaspettata complessità nel caso in cui articoli plurime difese (si pensi all’ipotesi in cui l’attore agisca per il pagamento di un credito e il convenuto deduca in compensazione un controcredito, ovvero denunci una intervenuta cessione o una clausola di garanzia).

Che non vi sia una definizione inchiodante a priori circa i confini del rito è confermato dalla descrizione dell’ambito della “facoltatività”, così come innovato dal decreto correttivo (comma 2 art. 281 decies c.p.c.).

Dando per buona l’“esclusività” nei termini di cui si è detto – in linea con i contenuti della legge delega – l’art. 281 decies comma 2 c.p.c. immagina uno spazio entro cui il rito semplificato è facoltativo entro la competenza del giudice monocratico (“Nelle sole cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudizio può essere introdotto nelle forme del procedimento semplificato anche se non ricorrono i presupposti di cui al primo comma”). E’ questo il testo derivante dalla modifica apportata dal decreto correttivo allo scopo di chiarire i dubbi sollevati dalla precedente formulazione del d.lgs. n. 149/2022[1]. Secondo la Relazione illustrativa al decreto correttivo “la modifica apportata al secondo comma è volta a chiarire che la causa, quando è di competenza del tribunale in composizione monocratica, può sempre essere introdotta nelle forme del rito semplificato, anche se non è di pronta soluzione ai sensi del primo comma”. Tuttavia, anche qui l’ambito applicativo non può davvero svincolarsi dai contenuti – semplici o complessi – della lite.

Cominciamo col dire che, consentire l’uso del modello semplificato pure quando la controversia sia complessa (rectius, non sia semplice) significa porre nelle mani dell’attore un (eccessivo e indisturbato) potere di scegliere il rito. Se così fosse, quest’ultimo disporrebbe di una potente arma per individuare la dinamica processuale senza che il convenuto possa utilizzare altrettanti strumenti per contraddire la scelta. Se infatti il criterio che conduce verso la “facoltatività” fosse davvero non la semplicità della lite (in quest’ultimo caso il rito semplificato si imporrebbe come obbligatorio in virtù del comma 1 art. 281 decies c.p.c.), bensì una libera valutazione dell’attore che introduce la domanda – anche in presenza di causa complessa – finirebbe per essere del tutto arbitraria l’opzione dell’attore senza che né il convenuto né il giudice possano condurre verso soluzioni opposte. In realtà, le cose non stanno così. Valutando complessivamente il procedimento, è chiaro come permanga tuttora in capo al giudice il potere di convertire il rito anche nel caso del comma 2 art. 281 decies c.p.c., “quando, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, ritiene che la causa debba essere trattata con il rito ordinario” (art. 281 duodecies primo comma secondo periodo c.p.c.). Sicché, ove la causa sia complessa e ciò nonostante sia stata introdotta nelle forme semplificate per scelta dell’attore, il giudice conserverebbe ugualmente il potere (discrezionale) di disporre la conversione quando – per ragioni insindacabili – ritenga preferibile optare per la decisione con modalità ordinarie.

Vi è poi l’ipotesi della causa complessa in punto di diritto, ma semplice in punto di fatto. Nella descrizione dei confini dell’obbligatorietà, l’art. 281 decies comma 1 c.p.c. focalizza l’attenzione su una semplicità di tipo fattuale (nel senso che la causa deve essere fondata su fatti facilmente accertabili, con un’istruttoria semplice, possibilmente solo documentale, o ancora meglio su fatti pacifici). Nulla si dice per l’ipotesi in cui la causa sia semplice in relazione alla quaestio facti, ma complessa per la quaestio iuris. A voler essere rigorosi, questa dovrebbe pur sempre rientrare nella casistica che vede il modello semplificato come esclusivo; tuttavia, nella vigenza del procedimento sommario di cognizione, il problema della causa semplice in punto di fatto e complessa in punto di diritto era stato considerato, non ponendosi limiti alla possibilità anche in tale situazione di convertire il rito; opzione confermata dall’introduzione dell’art. 183-bis c.p.c. che espressamente consentiva la conversione (in direzione opposta, da ordinario in sommario), tenuto conto non solo della semplicità sul piano istruttorio, ma anche della maggiore o minore complessità (in diritto). La medesima opzione può restare ferma anche adesso, ammettendosi la conversione del rito (nelle cause fattualmente semplici, ma complesse in diritto) alla luce dell’art. 281 duodecies comma 1 seconda parte c.p.c., quando il giudice valuti non solo l’”istruzione probatoria”, ma anche la “complessità in diritto”, non diversamente da come era in precedenza, a nulla rilevando a tal proposito l’intervenuta abrogazione dell’art. 183 bis c.p.c.

Vi è di più. La novella apportata dal decreto correttivo all’art. 171 bis c.p.c. – su cui mi soffermerò nel prosieguo[2] – non aiuta nell’individuare i confini di operatività del rito. Si tratta infatti di novità che, allo scopo di favorire la conversione da giudizio ordinario in semplificato, arretra il potere del giudice di disporre tale conversione al momento delle verifiche preliminari (art. 171 bis c.p.c.)[3]; momento in cui la materia del contendere è tutt’altro che definita, sia in punto di attività assertiva, sia in relazione a quella asseverativa. Si consente così che il giudice valuti la sussistenza delle condizioni per ritenere la causa “semplice” (e perciò per convertire il rito da ordinario in semplificato) molto prima che i termini della semplicità siano compiutamente delineati in relazione all’oggetto del giudizio. Il che conferma la discrezionalità del giudice, la quale se sussiste nel passaggio da rito ordinario in semplificato, non può mancare in direzione opposta (da semplificato in ordinario).

 

 

3.Segue: Ulteriori modifiche intorno all’ambito di applicazione.

 

In relazione all’ambito di applicazione, la novella del decreto correttivo chiarisce alcuni dubbi precedentemente lasciati aperti. In primo luogo si esplicita che “le disposizioni di cui al primo e al secondo comma si applicano anche alle opposizioni previste dagli articoli 615, primo comma, 617, primo comma, e 645” (art. 281 decies ultimo comma c.p.c.).

Il decreto correttivo scioglie un profilo problematico postosi all’indomani dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, ma non diversamente evidenziato anche a valle dell’introduzione del procedimento sommario degli artt. 702 bis ss c.p.c.: se il modello semplificato (già sommario) possa trovare spazio nei giudizi pienamente cognitivi a struttura oppositoria, giudizi solitamente condotti nelle forme del rito ordinario di cognizione e della cui compatibilità con il modello semplificato si può discutere. Il tema era già stato risolto nel senso estensivo nella vigenza degli artt. 702 bis ss c.p.c.,, ancorché in quella sede la struttura “sommaria” del procedimento – quantomeno per il nomen – induceva a dubitare della relativa applicabilità ai giudizi oppositori (spesso chiamati – come per il decreto ingiuntivo – a recuperare la pienezza della cognizione, dopo una prima fase sommaria[4]).

Nella riformulata veste del rito semplificato – in cui nessun dubbio può più nutrirsi intorno al fatto che si tratti di processo pienamente cognitivo – analoghi sospetti di incompatibilità, pur non avendo motivo di porsi, sono stati sollevati da più parti. Nell’aggiungere un ultimo comma all’art. 281 decies c.p.c. – secondo cui “le disposizioni di cui al primo e al secondo comma si applicano anche alle opposizioni previste dagli articoli 615, primo comma, 617, primo comma, e 645”, – ogni dubbio è fugato nel senso della piena compatibilità del modello semplificato, ma con qualche ulteriore precisazione.

La norma non cita l’opposizione di terzo all’esecuzione, ma non vi sono ragioni per non estendere la medesima disciplina a tale giudizio, come pure a tutti quelli dotati di struttura oppositoria, salvo che esigenze di specialità non conducano verso un rito diverso ed esclusivo. Così ad esempio nell’opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di crediti di lavoro, in cui prevale la specialità del rito laburistico (quale procedimento esclusivo per la tutela di quei diritti), con la conseguente costruzione dell’opposizione nelle sole forme degli artt. 414 ss c.p.c.

Rinviando alle “disposizioni di cui al primo e al secondo comma”, l’art. 281 decies comma 3 c.p.c. è chiaro nel consentire l’uso del modello semplificato nei limiti in cui si tratti di “causa semplice”, nei termini della obbligatorietà/facoltatività descritte dallo stesso art. 281 decies commi 1 e 2 c.p.c.

Il decreto correttivo interviene poi su alcuni difetti di coordinamento, sia nel procedimento di divisione a domanda congiunta, in caso di opposizione avverso il progetto di divisione disposto dal notaio, modificando l’art. 791 bis c.p.c. – il quale continuava a rinviare al rito sommario di cognizione degli artt. 702 bis ss c.p.c. – sia nell’art. 181 disp. att. c.p.c., in relazione alla divisione del bene indiviso davanti al giudice dell’esecuzione, secondo cui “al procedimento si applicano le disposizioni di cui agli articoli 281 undecies e seguenti del codice[5]. Sono queste ipotesi di applicazione del rito semplificato “in via esclusiva” (come nel d.lgs. n. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei riti), con conseguente disapplicazione della disciplina sulla conversione da semplificato in ordinario (stabilisce infatti l’art. 791 bis comma 4 c.p.c. che “non si applicano [le disposizioni] di cui al primo comma dell’art. 281 duodecies”). Quanto alla conversione da rito ordinario in semplificato dell’art. 171 bis c.p.c., l’esclusività del modello semplificato nel caso in esame induce a ritenere non applicabile la relativa disciplina, salvo che non si debba così riparare all’errore introduttivo commesso nell’aver individuato il rito ordinario, quale modello processuale utilizzabile, in luogo di quello semplificato.

Sempre con riferimento all’ambito di applicazione, il decreto correttivo espressamente prevede che il semplificato degli artt. 281 decies ss c.p.c. sia l’unico modello applicabile nelle azioni di classe ex art. 840 ter c.p.c. Il vecchio testo continuava ad evocare gli artt. 702 bis c.p.c., ma, pur essendo evidente il difetto di coordinamento (e dunque l’estensione anche in questo caso degli artt. 281 decies ss c.p.c.), non era mancato chi aveva ipotizzato una sopravvivenza dell’abrogato giudizio sommario solo in tale ipotesi (ben venga dunque l’intervento correttivo ad eliminare il citato difetto di coordinamento). Non è contemplata espressamente (come invece accade nel giudizio di divisione) la disapplicazione dell’art. 281 duodecies comma 1 c.p.c. quanto alla convertibilità del rito. Tuttavia, valgono – seppure analogicamente – le considerazioni già svolte proprio in relazione al giudizio di divisione, nonché a tutti gli altri casi di esclusività che ignorano la “passerella” da rito semplificato in ordinario (e tutto sommato anche quella in direzione opposta).

Due ulteriori modifiche intorno alla fase introduttiva. La prima. Vi è una precisazione – piuttosto formale – apportata dal decreto correttivo, stando alla quale la fissazione dell’udienza di comparizione è effettuata dal giudice “istruttore”. Rileva in proposito la Relazione illustrativa che “lo scopo perseguito è quello di chiarire – anche in questo caso alla luce degli interrogativi posti dai primi lettori della riforma – che anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale l’istruttoria, in forza delle disposizioni generali sul processo di cognizione, è demandata al giudice istruttore il quale, quando la causa è matura per la decisione, riferisce al collegio in camera di consiglio”. La novella si coordina con la modifica della decisione collegiale nelle modalità dell’art. 275 bis c.p.c. (art. 281 terdecies c.p.c.) su cui tornerò a breve[6].

La seconda. Nell’indicare il contenuto del ricorso – richiamando gli elementi della citazione, ed in particolare il n. 2 art 163 c.p.c. – deve ritenersi estendibile all’atto introduttivo di rito semplificato anche l’aggiunta apportata al n. 2 art. 163 c.p.c. dal decreto correttivo, secondo cui la citazione deve contenere anche, ex latere del convenuto, “l’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi”.

 

 

4.Novità in tema di preclusioni.

 

Intorno al regime delle preclusioni, vi sono due novità, l’una desumibile per implicito in conseguenza di altre modifiche, l’altra evincibile dal combinato disposto di alcune norme.

La prima riguarda il maturare delle preclusioni implicite. Ci si è interrogati – sia nel procedimento sommario di cognizione, sia in quello nuovo degli art. 281 decies ss c.pc. – se sia contemplabile una preclusione implicita in punto di richieste istruttorie, essendo il parametro della “semplicità della lite” – che rende la causa compatibile con il modello semplificato – da misurare proprio sul piano probatorio (di cui il giudice dovrebbe avere contezza in limine litis per comprendere se confermare il rito semplificato o convertirlo in ordinario). Vi è una certa resistenza ad immaginare il maturare di preclusioni implicite quando la legge non le prevede espressamente. Tuttavia, nel caso qui in esame – maiori causa alla luce del decreto correttivo – a suo favore milita la nuova tempistica imposta per la conversione del rito da ordinario in semplificato, la quale è collocata ora al momento delle verifiche preliminari dell’art. 171 bis c.p.c. (tema su cui tornerò a breve[7]), e quindi in una fase anteriore all’articolazione delle richieste istruttorie (nel rito ordinario, agganciata alle memorie integrative dell’art. 171 ter c.p.c.), momento in cui è fisiologicamente complicato per il giudice valutare la semplicità della lite. Sicché, delle due l’una: o le parti – responsabilizzate dall’interesse a favore/contro la conversione – svolgono attività assertive o asseverative ulteriori rispetto a quelle di cui sono onerate per il maturare di barriere preclusive (esplicite), tali da indurre il giudice a valutare la sussistenza delle condizioni per la convertibilità (di qui la preclusione implicita), oppure è probabile che il giudice stesso non possa in concreto assumere alcuna decisione, non disponendo di strumenti adeguati per ritenere la lite “semplice/complessa”.

L’altra novità riguarda l’art. 38 c.p.c., sul rilievo dell’incompetenza. Il decreto correttivo – in accoglimento di talune precedenti osservazioni critiche – interviene sulla disposizione anticipando la preclusione per il rilievo d’ufficio dell’incompetenza per materia, per valore e per territorio inderogabile “con il decreto previsto dall’articolo 171 bis”. Si impone così al momento delle verifiche preliminari un’attività altrimenti destinata all’udienza (il che conferma la linea di tendenza, evidente nella novella, nel senso di collocare nelle verifiche preliminari taluni adempimenti olim riservati all’udienza, in tutto vantaggio della celerità del rito, ma a scapito della struttura di fondo del modello semplificato, su cui tornerò[8]).

La modifica non mi pare compatibile né con le caratteristiche del rito ordinario, né con quelle del semplificato. Quanto al rito ordinario, pur volendo immaginare il “rilievo” d’ufficio dell’eccezione con il decreto dell’art. 171 bis c.p.c., non si può in tale sede (in cui il giudice dialoga solo con sè stesso) costruire anche la discussione su di essa, quanto meno per l’impossibilità di acquisire le “sommarie informazioni” che ne costituiscono il fondamento istruttorio.   Quanto al rito semplificato, non si può applicare alla lettera la disciplina dell’art. 38 c.p.c. – nella parte in cui individua la barriera preclusiva con riferimento all’art. 171 bis c.p.c. – per il solo fatto che quella delle verifiche preliminari è una fase procedimentale esclusiva del giudizio ordinario; il che pregiudica la convinzione nel senso di attribuire alla disposizione una portata generale (peraltro confermata dalla collocazione nel libro I del codice di rito). Si pone così un problema che investe direttamente l’art. 38 c.p.c.: occorre chiedersi se davvero quest’ultimo conservi il ruolo di regola generale estendibile oltre il giudizio ordinario, tenuto conto del fatto che oggi la disposizione, con il richiamo all’art. 171 bis c.p.c., contempla una fase processuale per il rilievo ufficioso che è caratteristica esclusiva di quest’ultimo.   Nel semplificato – volendo restare fedeli all’idea di una esportabilità in questa sede dell’art. 38 c.p.c. – l’unica lettura possibile è quella che riconduce alla prima udienza la preclusione per il rilievo ufficioso dell’eccezione di incompetenza per materia, valore e territorio inderogabile, così leggendo il testo della disposizione – come novellato dal decreto correttivo – in maniera non dissimile dalla sua versione ante correzione.

 

5.Novità nella fase della trattazione.

Due sono le novità nella trattazione, una che vale quale precisazione di una inesattezza già evidenziata (e modificabile pure per via interpretativa), l’altra più incisiva, in conseguenza di non poche critiche mosse al testo originario dell’art. 281 duodecies c.p.c.

La prima novità riguarda l’attività che si può svolgere in udienza quale espressione della garanzia del contraddittorio. L’art. 281 duodecies c.p.c. stabilisce oggi che alla prima udienza “a pena di decadenza, le parti possono proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dalle altre parti”. Si aggiunge il potere di proporre non solo eccezioni nuove che sono conseguenza delle difese di controparte (in particolare, del convenuto), ma anche le “domande” parimenti nuove e parimenti espressione del contraddittorio. Si chiarisce così l’ambito dei nova deducibili non diversamente da quanto avviene nel modificato art. 171 ter c.p.c., relativamente alla seconda memoria integrativa, in una prospettiva di favor per l’uso del modello semplificato, ampliando il più possibile le attività destinate all’udienza nel rispetto del contraddittorio.

Sugli intenti promozionali si giustifica anche la seconda modifica, la quale consente l’esercizio dello ius poentitendi alla prima udienza in una maniera più estesa che nel testo previgente dell’art. 281 duodecies ultimo comma c.p.c.

La versione originaria dell’art. 281 duodecies comma 4 c.p.c. prevedeva la possibilità per il giudice di concedere “alle parti un termine perentorio non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, e un ulteriore termine non superiore a dieci giorni per replicare e dedurre prova contraria”, subordinando tale potere non solo alla richiesta di parte, ma anche alla valutazione del giudice di sussistenza di un “giustificato motivo”.

Siffatto limite allo ius poenitendi – seppure frutto della necessità di comprimere al massimo il rischio di dilazione nei tempi del processo, subordinando il compimento di certi atti alla sussistenza di una effettiva necessità (di un giustificato motivo) – non aveva mancato di generare perplessità[9], sia per una evidente disparità rispetto ai corrispondenti poteri esercitati in sede di giudizio ordinario, sia perché, stando al dato testuale, il medesimo trattamento sembrava riservato non solo all’attività assertiva, ma anche a quella asseverativa (il condizionamento alla richiesta di parte e alla valutazione circa il giustificato motivo sembrava infatti estendersi anche alla indicazione dei mezzi di prova e alla produzione documentale, nonché alla replica e alla deduzione di prova contraria). Sicché, il limite imposto allo ius poenitendi finiva per rivelarsi un significativo deterrente contro l’uso del modello semplificato[10], oltre che contro la convertibilità del rito (da ordinario in semplificato), così contraddicendo l’intento promozionale palesato dalla stessa riforma Cartabia a favore del rito in esame.

Il decreto correttivo (apparentemente) recepisce le osservazioni critiche e modifica perciò l’art. 281 duodecies comma 4 c.p.c. prevedendo che il potere di precisazione e modificazione di domande o eccezioni, nonché quello di articolazione di istanze istruttorie, siano consentiti su richiesta di parte e quando l’esigenza sorge dalle difese della controparte (“quando l’esigenza sorge dalle difese della controparte, il giudice, se richiesto, concede alle parti un termine perentorio non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, e un ulteriore termine non superiore a dieci giorni per replicare e dedurre prova contraria”). Pur essendo eliminata la restrizione del “giustificato motivo”, l’esercizio dello ius poenitendi non è reso del tutto libero, bensì è subordinato alla necessità di assicurare il contraddittorio in risposta alle difese avversarie. Resta ferma perciò, anche alla luce della recente modifica, l’imposizione di un vincolo nel potere di precisazione e modificazione delle domande – legato alla garanzia del contraddittorio – che non conosce uguali nel rito ordinario, pur mostrandosi all’apparenza meno invasivo di quello (già) agganciato al “giustificato motivo” (come anche di quello sperimentato nel rito del lavoro in cui un analogo potere è subordinato all’autorizzazione del giudice e alla dimostrazione di “gravi motivi”, ex art. 420 comma 1 c.p.c.). A ben vedere, è da dimostrare sul campo che davvero la nuova formulazione sia più elastica di quella precedente; il che non può non condizionare tuttora l’appetibilità del rito semplificato. E’ chiara la Relazione illustrativa nel voler “[salvaguardare] l’esigenza che gli atti introduttivi siano il più completi possibile, a garanzia della celerità del processo, in quanto i termini per le memorie integrative non verranno concessi, ad esempio, nel caso in cui il convenuto rimanga contumace o si limiti a mere contestazioni in diritto”. Tuttavia, occorre anche avere la consapevolezza che una tale esigenza di celerità, se pagata al prezzo di una significativa compressione dei poteri di precisazione e modificazione della domanda (che, di contro, nel rito ordinario tendono ad essere letti con atteggiamento piuttosto elastico[11]), espone al rischio di un favor per il modello semplificato assai più limitato di quanto la novella possa auspicare.

Quanto all’istruttoria, seppure la disposizione non brilla per chiarezza, va escluso che la richiesta di ammissione delle prove sia subordinata ad alcuna dettagliata dimostrazione di consequenzialità rispetto alle difese avversarie, essendo in re ipsa la dipendenza dell’attività istruttoria rispetto all’attività di controparte.

6.Le novità nella fase decisoria.

L’ultima novità del gruppo di disposizioni che regolano il rito semplificato riguarda la fase decisoria. Si tratta delle modifiche apportate all’art. 281 terdecies c.p.c. con riferimento alla decisione quando la causa è di competenza del collegio. Se infatti il modello dell’art. 281 sexies c.p.c. è rimasto immutato anche dopo le novità apportate dal decreto correttivo (così valendo quale unica forma decisoria nelle cause di competenza del giudice monocratico), l’ultima modifica di cui al citato decreto innova la fase decisoria nelle cause di competenza del tribunale in composizione collegiale rendendo la pronuncia a seguito di discussione orale dell’art. 275 bis c.p.c. una possibilità che ammette varianti.

All’esito del decreto correttivo occorre distinguere la decisione monocratica da quella collegiale. Nel caso di decisione monocratica, opera in pieno l’art. 281 sexies c.p.c, a cui lo stesso art. 281 terdecies c.p.c. rinvia. Nell’ipotesi in cui la decisione spetti al tribunale in composizione collegiale, invece, il decreto correttivo introduce un’opzione semplificante, pur sempre all’interno della decisione a seguito di discussione orale ex art. 275 bis c.p.c. La pronuncia con quest’ultima modalità resta possibile nella versione codicistica dello stesso art. 275 bis c.p.c. in caso di richiesta di almeno una parte (non è quindi necessaria la domanda congiunta di tutte le parti). In assenza di tale richiesta, il percorso naturale della decisione collegiale viene semplificato sottraendolo alla necessità dell’udienza davanti al collegio. Si prevede, infatti che, quando la causa è ritenuta matura per la decisione, “l’istruttore dispone la discussione orale della causa davanti a sé e all’esito si riserva di riferire al collegio” (si distingue così l’iter rispetto a quello dell’art. 275 bis c.p.c. in cui il giudice istruttore, quando ritiene che la causa possa essere decisa a seguito di discussione orale, fissa l’udienza davanti al collegio assegnando i termini per il deposito di note limitate alla precisazione delle conclusioni e poi delle note conclusionali).

E’ chiara la Relazione illustrativa al decreto correttivo nel perseguire la prospettiva semplificante: “viene snellita la fase decisionale nei procedimenti con rito semplificato di competenza del tribunale in composizione collegiale: fermo restando il modulo decisorio a seguito di discussione orale, si prevede che questa avvenga davanti al solo istruttore il quale poi riferirà al collegio in camera di consiglio, al fine di evitare che debba essere necessariamente fissata un’udienza collegiale. A garanzia delle parti, si prevede comunque che qualora anche solo una di esse lo richieda l’istruttore fisserà l’udienza di discussione davanti al collegio, secondo il procedimento disciplinato dall’art. 275 bis”.

La corrispondenza tra rito ordinario e semplificato intorno alla fase decisoria – salva la modifica di cui ho detto, che però non incide sulla sostanza – induce a tornare sulla vera natura del rito semplificato. A partire dalla fase decisoria in poi, esso finisce per uniformarsi al rito ordinario (anche se con una unidirezionale preferenza per le dinamiche della decisione ex art. 281 sexies c.p.c.); vieppiù corrispondente al rito ordinario è l’appello destinato a svolgersi nelle esatte modalità del processo a cognizione piena.

Quanto allora alla natura del procedimento semplificato, si tratta davvero di un rito autonomo e distinto rispetto a quello ordinario, oppure esso non è altro che una diversa modalità di introduzione del medesimo rito ordinario? Il dubbio si era posto – mutatis mutandis – con riferimento al procedimento sommario di cognizione delle liti societarie dell’art. 19 d.lgs. n. 5/2003 (antesignano del sommario di cognizione da codice degli artt. 702 bis ss. c.p.c.), soprattutto all’esito delle modifiche apportate dalla riforma del d.lgs. n. 34/2004[12]. Anche in questo caso (come fu allora), pare che a spingere verso la novella non sia tanto una reale esigenza di sconvolgere il sistema processuale con un rito davvero innovativo. Siamo sempre nel contesto di un giudizio contenzioso dalle caratteristiche non poi così diverse da quelle del processo ordinario, un giudizio proiettato su un accertamento pieno dei fatti e una completa ricostruzione della quaestio iuris; un giudizio volto alla formazione del giudicato, anche se attraverso modalità semplificate capaci di accorciare i tempi del processo senza sacrificare la pienezza della cognizione. Piuttosto, sembra volersi leggere il modello semplificato quale fuga dall’ordinario per ciò che contraddistingue quest’’ultimo: la complessa fase introduttiva caratterizzata dalla successione tra le verifiche preliminari (art. 171 bis c.p.c.) e lo scambio delle memorie integrative (art. 171 ter c.p.c.). Una fuga dal rito ordinario, però, che potrebbe avere buon esito se la trattazione dell’uno e nell’altro caso fosse davvero corrispondente. C’è invece da pensare che fintanto che l’attività di definizione del thema decidedum sia limitata nel modello semplificato, quantomeno in relazione allo iu poenitendi[13], il fascino di quest’ultimo non potrà emergere al punto da indurre parti e giudice ad optare – ciascuno nelle proprie competenze – per il semplificato piuttosto che per l’ordinario.

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7.La conversione del rito da ordinario in semplificato.

La vera e più significativa novità intorno al procedimento semplificato di cognizione apportata dal decreto correttivo è quella che riguarda la conversione del rito da ordinario in semplificato, accompagnata dall’integrale abrogazione dell’art. 183 bis c.p.c. e dalla modifica dell’art. 171 bis c.p.c.

Stabilisce il nuovo comma 3 art. 171 bis c.p.c. che “se ritiene che in relazione a tutte le domande proposte ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’articolo 281 decies, il giudice dispone la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato di cognizione e fissa l’udienza di cui all’articolo 281 duodecies nonché il termine perentorio entro il quale le parti possono integrare gli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti”. Il vecchio testo dell’art. 171 bis primo comma c.p.c. si limitava a prevedere il dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio anche con riguardo alla sussistenza dei presupposti per procedere alla conversione del rito; si trattava quindi di un generico suggerimento destinato ad essere approfondito in sede di memorie integrative e da ultimo oggetto di decisione da parte del giudice alla prima udienza (generico suggerimento che è venuto meno per lasciare spazio all’esercizio di un vero e proprio potere decisorio)[14]; è questa una dinamica, va pur detto, contrastata da qualche tribunale che, a dispetto della littera legis, già disponeva la conversione del rito con il decreto dell’art. 171 bis c.p.c.[15].

Cominciamo col dire che si tratta di una novità giustificata dal fatto che collocare la conversione al momento dell’udienza di prima comparizione e trattazione della causa dell’art. 183 c.p.c. avrebbe significato renderla sostanzialmente inutile (posizionandola in uno stato avanzato della lite)[16]. Ho già evidenziato[17] come la riforma Cartabia abbia modificato in maniera incisiva il procedimento semplificato non solo spostandolo all’interno del codice e rinominandolo, ma anche accordando ad esso i caratteri della cognizione piena, nella sostanza corrispondente a quella del rito ordinario, con differenze evidenziabili soprattutto nella fase introduttiva (con l’eliminazione, nel modello semplificato, della rigida successione tra verifiche preliminari e scambio delle memorie di replica che contraddistingue il rito ordinario). Sicché, una volta superata la fase introduttiva, nonché ridotta al minimo quella di assunzione delle prove[18], al momento della decisione i due modelli processuali sono destinati a confluire in una comune modalità, quella dell’art. 281 sexies c.p.c. (o dell’art. 275 bis c.p.c. in caso di decisione collegiale); con la conseguenza che, sia che il giudice converta il rito, sia che non lo faccia, il procedimento finisce per seguire il medesimo iter.

Si rivelava superfluo perciò riconoscere il potere di conversione – una volta introdotto il giudizio e delimitato il thema decidendum e probandum – in un momento in cui le dinamiche processuali si omologavano, non emergendo chiaro in cosa si distinguano il caso del giudice che converte il rito in semplificato – esercitando il potere dell’art. 183 bis c.p.c. – da quello in cui egli decide nelle forme ordinarie optando per la modalità decisoria dell’art. 281 sexies c.p.c. (sia nell’uno che nell’altro il processo si chiude con pronuncia in udienza e stesura della sentenza a verbale).

Per rendere utilizzabile la conversione del rito in una fase in cui ancora può avere un senso, il decreto correttivo ha anticipato l’esercizio del potere giudiziale di conversione al momento delle verifiche preliminari. Il che però, se si giustifica sul piano della più probabile convertibilità, non ben si coordina con lo stato di avanzamento della causa, che in sede di verifiche preliminari è ancora embrionale, tale da non consentire di avere contezza dei veri presupposti per la decisione semplificata (né, a ben vedere, il meccanismo così pensato si concilia con le restrizioni imposte allo ius poenitendi[19], le quali riducono non poco il fascino del rito semplificato[20]).

Va detto in effetti che la conversione – sia nella versione originaria della riforma Cartabia, sia in quella attuale, alla luce del correttivo – è ammessa solo qualora ricorrano “i presupposti di cui al primo comma”, quindi solo nei casi in cui l’uso del modello semplificato è obbligatorio (“quando i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruzione non complessa”: art. 281 decies comma 1 c.p.c.); sicché, sembrerebbe che in presenza di tali condizioni, il giudice sia “tenuto” a convertire il rito (da ordinario in semplificato), senza intervenire discrezionalmente. Ho già osservato[21], tuttavia, come l’obbligatorietà sia solo apparente, la descrizione delle fattispecie in presenza delle quali occorre convertire il rito essendo rimessa a una inevitabile valutazione caso per caso. Né vi è alcun cenno a potenziali conseguenze per l’ipotesi in cui, pur in presenza dei presupposti, il giudice non disponga la conversione; sicché, quand’anche si volesse invocare un obbligo, la mancanza della sanzione renderebbe innocua la sua violazione.

Si aggiunga poi che se tale discrezionalità era evidente quando il potere di conversione era collocato alla prima udienza (ai sensi dell’abrogato art. 183 bis c.p.c.), a maggior ragione essa si palesa adesso, essendo tale potere inserito in una fase in cui né il thema decidendum, né il thema probandum sono definitivamente formati (entrambi da stabilizzare con lo scambio delle memorie integrative dell’art. 171 ter c.p.c.). Piuttosto – come ho già rilevato[22] – l’anticipazione della conversione del rito al momento delle verifiche preliminari finirà per imporre il maturare di preclusioni implicite (probatorie, ma non solo), dovendo il giudice avere sul tavolo l’intera materia del contendere per correttamente valutare i presupposti della conversione stessa.

Un ultimo chiarimento (ma sul punto il decreto correttivo non apporta innovazioni). Come visto, la portata applicativa della disposizione è limitata alle ipotesi in cui l’uso del modello semplificato è obbligatorio, cioè in presenza di causa “semplice”. Vi è qui una sostanziale differenza rispetto al regime previgente: mentre nel regime ante riforma Cartabia il potere del giudice di convertire il rito (da ordinario in sommario) era contemplato per le controversie di competenza del giudice monocratico, adesso esso si applica a tutte le liti in cui tale rito è obbligatorio, quindi sia nelle cause di competenza monocratica, sia in quelle di competenza collegiale.

 

 

8.Segue. Conversione del rito, contraddittorio e profili procedimentali.

L’anticipazione della conversione del rito al momento delle verifiche preliminari accentua un problema già ampiamente evidenziatosi nella prassi e discusso in dottrina, legato alla capacità del decreto dell’art. 171 bis c.p.c. di assicurare davvero il contraddittorio tra le parti; problema posto in risalto dalla recentissima Corte cost. n. 96/2024[23], la quale, pur rigettato il sospetto di incostituzionalità dell’art. 171 bis ss c.p.c., non nega per via interpretativa l’esigenza di assicurare pienezza al contraddittorio eventualmente ammettendo la possibilità di fissare un’udienza ad hoc in luogo (o prima) del decreto stesso[24]. E’ perciò immaginabile (oltre che auspicabile) che la versione definitiva del decreto correttivo sarà altra e diversa rispetto a quella qui esaminata, dovendo il legislatore tenere conto delle sollecitazioni provenienti dalla Consulta (pena, la sicura prospettica incostituzionalità di una disposizione che fosse con quest’ultime in contrasto).

Il profilo problematico è centrale nel caso qui di interesse: non può tacersi la criticità legata al fatto che una questione così delicata – quale la conversione del rito – sia trattata dal giudice “in solitaria” senza effettiva assicurazione del contraddittorio tra le parti, né un confronto diretto tra parti e giudice. Sul tema della capacità del decreto sulle verifiche preliminari di garantire il contraddittorio – intorno a ciascuna delle attività su cui è orientato l’art. 171 bis c.p.c., – il decreto correttivo offre un risultato peggiorativo[25]. Sicché, proprio seguendo le indicazioni della Consulta, è auspicabile una soluzione “accomodante” quale quella che abilita le parti (o attribuisce al giudice il potere ufficioso) di chiedere la fissazione dell’udienza in luogo del decreto, ogni qualvolta quest’ultima sia ritenuta necessaria a protezione del contraddittorio (quand’anche si tratti di soluzione non apprezzabile sotto il profilo della ragionevole durata del processo, dell’economia processuale e dell’accelerazione dei tempi del giudizio)[26]. La proposta, come detto, trovava spazio già nella prassi di alcuni tribunali[27] che ammettevano la sostituzione del decreto dell’art. 171 bis c.p.c. con una udienza, nell’esercizio dei poteri al giudice riconosciuti dall’art. 175 c.p.c. Senonché, le prassi sono per definizioni locali, mentre un intervento di costituzionalità quale quello appena varato imporrà una scelta ben più incisiva sulla portata precettiva della norma interessata.

Anche sui presupposti per la conversione del rito, compaiono significative modifiche. A differenza di quanto statuiva l’art. 183 bis c.p.c. – il quale contemplava specifiche condizioni: la “complessità del rito e dell’istruzione probatoria” – il nuovo comma 3 art. 171 bis c.p.c. non definisce precisi parametri per valutare la convertibilità. Il che si spiega sul “vincolo” per il giudice nel disporre la conversione nei casi in cui l’utilizzo del modello semplificato è obbligatorio. Tuttavia, ho già osservato come anche nel campo dell’obbligatorietà residua un potere valutativo, da utilizzare sia con riferimento alla quaestio facti sia in relazione alla quaestio iuris[28]. Seppure un analogo potere valutativo non compare nella nuova versione dell’art. 171 bis comma 3 c.p.c., non per questo si deve escludere in capo al giudice la discrezionalità nel valutare la sussistenza dei presupposti per la conversione, potendosi perciò confermare quanto giù condiviso sotto la previgente versione dell’art. 183 bis c.p.c. nel senso che la “semplicità” della controversia può delinearsi sia sotto il profilo istruttorio, sia anche in punto di diritto.

Sul piano procedimentale, mi limito a rilevare come l’art. 171 bis c.p.c. sia sensibilmente diverso dal regime previgente contenuto nell’art. 183 bis c.p.c. (a sua volta già innovato dalla riforma Cartabia, ma con interventi più di forma che di sostanza).

Viene meno innanzi tutto la garanzia del contraddittorio, dovendo qui il giudice disporre la conversione del rito “in solitaria”, situazione tipica che – inopinatamente – contraddistingue la fase delle verifiche preliminari[29]. Viene meno quindi il dovere del giudice di “sentire le parti” intorno alla convertibilità del rito[30]; soluzione, questa, che non va condivisa per le ragioni, già esposte, che inducono a plaudire alla scelta interpretativa offerta da Corte cost. n. 96/2024. Non può ammettersi che spetti al giudice il potere indisturbato di disporre la conversione senza assicurare sul punto alcun contraddittorio. Né a giustificare la lacuna può soccorrere il fatto che la conversione è disposta nei casi di cui al comma 1 art. 281 decies c.p.c., cioè di obbligatorietà del modello semplificato, tenuto conto del già più volte evidenziato potere valutativo che residua in capo al giudice.

Peraltro, che quest’ultimo eserciti discrezionalità nel convertire il rito – tale da giustificare il diritto delle parti di contraddire – è confermato dalla precisazione secondo cui la conversione è disposta “se ritiene che in relazione a tutte le domande proposte ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’articolo 281 decies” (art. 171 bis comma 3 c.p.c.). Vi è cioè un potere del giudice di “ritenere” sussistenti i presupposti, i quali, lungi dall’essere vincolati da regole geometriche, sono pur sempre suscettibili di una valutazione rispetto alla quale anche le parti dovrebbero potersi esprimere.

 

9.Segue: La decisione sulla conversione.

Una volta individuati i presupposti per la conversione del rito, non vi è più – come in precedenza – un autonomo provvedimento: il giudice non decide più “con ordinanza non impugnabile”, bensì con lo stesso decreto sulle verifiche preliminari dell’art. 171 bis c.p.c.[31] Stando al nuovo testo, infatti, “il giudice dispone la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato di cognizione e fissa l’udienza di cui all’articolo 281 duodecies nonché il termine perentorio entro il quale le parti possono integrare gli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti”. La differenza non è irrilevante. Mentre infatti l’ordinanza in quanto “non impugnabile” non avrebbe neanche potuto essere modificabile e revocabile (art. 177 c.p.c.), il decreto sulle verifiche preliminari è sempre suscettibile di revoca e modifica (come d’altra parte osserva la stessa Relazione illustrativa al decreto correttivo, rilevando come “non si prevede più, rispetto alla formulazione dell’art. 183-bis, che il provvedimento assuma la forma dell’ordinanza «non impugnabile», proprio allo scopo di far sì che all’udienza il giudice, nel contraddittorio delle parti e re melius perpensa, possa rivedere la propria iniziale decisione e riportare il processo nei binari del rito ordinario”). Il che però, se può apprezzarsi sul piano del contraddittorio, finisce per vanificare l’esigenza di celerità che ha ispirato la proposta di modifica normativa.

Intorno alla prosecuzione del rito – una volta disposta la conversione – l’art. 183 bis c.p.c. si mostrava più incerto e tecnicamente impreciso. Nella originaria versione, si prevedeva che, una volta disposta la conversione, il giudice “invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria”. L’esigenza di un’integrazione dell’attività difensiva, in punto istruttorio, risiedeva nel fatto che all’udienza dell’art. 183 c.p.c. di processo ordinario era possibile che le richieste istruttorie non fossero state completamente formulate (potendo essere riservate a una fase successiva, eventualmente con lo scambio delle memorie del comma 6 art. 183 c.p.c.); sicché era necessario un loro completamento una volta accelerate le dinamiche con la conversione del rito.

Nell’innovato modello di rito ordinario – all’esito della riforma Cartabia – il quadro era diverso, occorrendo coordinare la nuova dinamica con il fatto che alla prima udienza l’intera materia del contendere dovrebbe essere completata (per la definizione del thema decidendum e del thema probandum con lo scambio delle memorie integrative). Ne derivava che, anche quando disponeva la conversione del rito, il giudice non doveva invitare le parti a integrare gli atti, né per l’attività assertiva, né per quella asseverativa. Questa la ragione per cui, una volta ordinata la conversione, il giudice disponeva “la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato e si applicano il comma quinto dell’articolo 281 duodecies”. In altri termini, la conversione implicava che il processo proseguisse nelle forme semplificate, imprimendo ad esso uno spirito acceleratorio, non già con riferimento alla trattazione della causa, bensì in relazione alla proiezione verso la decisione (impostata, come si è visto, intorno al modello dell’art. 281 sexies c.p.c.).

La versione proposta dal decreto correttivo riporta allo status quo ante, in quanto colloca il potere di conversione in un momento processuale (le verifiche preliminari) in cui il thema decidendum non è ancora formato e non lo è a maggior ragione il thema probandum (salvo immaginare il maturare di preclusioni implicite su cui mi sono già soffermata). E’ perciò che la nuova versione attribuisce al giudice il potere-dovere di concedere un termine entro cui “le parti possono integrare gli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti” (art. 171 comma 3 c.p.c.)[32]. Nella sintetica dicitura “memorie e documenti” va senz’altro inclusa sia attività assertiva sia quella asseverativa, sia in relazione al completamento della trattazione della causa, sia per l’articolazione delle richieste istruttorie, che però il testo della norma pare limitare alla produzione documentale. Ora, in effetti che se davvero la causa è semplice non c’è margine per articolare richieste di ammissione di prova costituenda; tuttavia, è anche vero che sin dagli albori del procedimento sommario di cognizione degli artt. 702 bis ss c.p.c. giurisprudenza e dottrina sono state piuttosto unanimi nel ritenere che nessun mezzo di prova sia aprioristicamente escluso. Stando invece alla formulazione letterale del comma 3 art. 171 bis c.p.c., sembrerebbe ammissibile, una volta disposta la conversione, la sola produzione documentale. E’ bene non intendere in senso rigido il testo normativo, aprendo l’attività istruttoria anche alla prova costituenda (pur riconoscendo, sul piano applicativo, che il problema si porrà in pochi e limitati casi, ove davvero la conversione sarà disposta in ipotesi di causa “semplice”). Si arriverebbe altrimenti all’assurdo di aver attribuito al giudice un potere incensurabile (eccessivo) di gestione del rito sottraendo alla parte non solo il diritto di contraddire sul punto (non potendo le parti essere “sentite” al momento delle verifiche preliminari), ma anche di formulare tutte le richieste istruttorie consentite nel giudizio ordinario.

Quanto alla prosecuzione del processo nelle forme semplificate, anche l’art. 171 bis c.p.c. – come in precedenza l’art. 183 bis c.p.c. – rinvia all’art. 281 duodecies c.p.c. per la fissazione dell’udienza. Si tratta in effetti di un rinvio più generico di quello originariamente contenuto nell’art. 183 bis c.p.c., il quale rinviava al comma 5 dell’art. 281 duodecies c.p.c (secondo cui, salvo che non si debba provvedere a una chiamata in causa ex art. 281 duodecies comma 2 c.p.c., ovvero all’ulteriore precisazione e modificazione delle domande ex comma 4 art. 281 duodecies c.p.c.[33], il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione qualora non ritenga la causa matura per la decisione). Si immagina qui, tanto una attività di precisazione e modificazione delle domande, quanto un’istruttoria. Se nel regime previgente – quando la conversione avveniva all’udienza dell’art. 183 c.p.c. – era difficile pensare che, una volta disposta la conversione stessa, tornasse a necessitarsi la precisazione e modificazione delle domande – ipotesi che in effetti non ben si conciliava con l’accelerazione e semplificazione dei tempi del processo – una analoga possibilità è più facilmente percorribile ora che la conversione sopraggiunge in un momento anticipato rispetto all’udienza, quando precisazione e modificazione sono poteri ancora da esercitare. Si può immaginare quindi che al momento in cui il giudice dispone la conversione ancora residui margine per l’ampliamento dell’oggetto del processo o dell’ambito della cognizione, con buona pace dell’auspicio – a cui si sarebbe dovuto puntare – di proiettare immediatamente la causa in decisione una volta avvenuta la conversione del rito. Senonché, è qui che emerge la peggiore criticità del modello semplificato che induce a guardare ad esso con un persistente scetticismo. Nulla quaestio se – nel passaggio dal rito ordinario al semplificato – il potere di precisazione e modificazione di domande ed eccezioni fosse stato esattamente corrispondente a quello di rito ordinario; si è visto invece come nel semplificato vi sia una sensibile limitazione intorno all’esercizio di tale potere, al punto di pensare che la passerella da un rito all’altro non sia a costo zero e che tutto sommato gli intenti promozionali a favore del procedimento semplificato siano tuttora vacillanti.

  • Testo dell’intervento al Corso di perfezionamento e alta formazione La riforma del processo civile: tutte le novità del decreto correttivo. Guida alla lettura ragionata delle modifiche al codice di rito, Direttrici Proff. Ilaria Pagni e Beatrice Gambineri, Firenze, 4 giugno 2024.

[1] Questo il precedente testo: “nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica la domanda può sempre essere proposta nelle forme del procedimento semplificato”.

[2] Infra §§ 7 ss.

[3] La versione originaria del d.lgs. n. 149/2022 collocava invece tale potere alla prima udienza.

[4] Per alcune riflessioni sul punto, sia consentito rinviare a Tiscini, Commento all’art. 702 bis, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Torino, 2016, tomo 2, 559 ss.

[5] Per il resto, non mutano tutti gli altri settori in cui già opera il rito semplificato, ad esempio per le cause di competenza del giudice di pace, ovvero nel d.lgs. n. 150/2011.

[6] Infra § 6.

[7] Infra  § 7 ss.

[8] Amplius infra § 7 ss.

[9] Sia consentito rinviare a Tiscini, Il ruolo del giudice e degli avvocati nella gestione delle controversie civili, Napoli, 2023, 117; Id, Commento all’art. 281 duodecies, in La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a cura di Tiscini, con il coordinamento di M. Farina, Pisa, 2023, 425 ss., spec. 434.

[10] Sia la modifica in esame intorno allo ius poenitendi, sia quella del comma 4 art. 281 duodecies c.p.c. vengono infatti ricondotte, dalla Relazione illustrativa al decreto correttivo, all’esigenza di favorire la scelta per il modello semplificato. Osserva la Relazione: “Entrambe le modifiche sono finalizzate a rimuovere possibili remore ad introdurre la causa con rito semplificato, nei casi in cui questo è facoltativo. In particolare, il primo intervento ha lo scopo di consentire all’attore di proporre nuove domande in conseguenza della domanda riconvenzionale del convenuto (la c.d. reconventio reconventionis). La seconda modifica soddisfa l’esigenza, manifestata da più parti e in particolare dall’avvocatura, di individuare in modo più specifico e circostanziato i presupposti per la concessione dei termini per memorie integrative, superando il generico rinvio alla sussistenza di un «giustificato motivo», che rimanda ad una valutazione ampiamente discrezionale. In questo modo, da un lato, vengono rimosse possibili situazioni di incertezza circa la possibilità di dare pieno sviluppo alla libera esplicazione del diritto di difesa; dall’altro, viene salvaguardata l’esigenza che gli atti introduttivi siano il più completi possibile, a garanzia della celerità del processo, in quanto i termini per le memorie integrative non verranno concessi, ad esempio, nel caso in cui il convenuto rimanga contumace o si limiti a mere contestazioni in diritto”.

[11] Cass. SU 15 giugno 2015, n. 12310, in Riv. dir. proc., 2016, 807, con nota di Merlin; in Corr., giur., 2015, 968, con nota di Consolo; Foro it., 2015, I, 3174, con osservazioni di Ciccone e nota Motto; in Giur. it. 2015, I, 2101, con nota di Palazzetti; Cass. SU 13 settembre 2018, n. 22404, in Foro it., 2019, I, 989, con nota di Italia; in Resp. civ. prev., 2019, 515; in Corr. giur. 2019, 263.

[12]  Seppure taluna dottrina non aveva esitato da subito ad inquadrare il procedimento dell’art. 19 cit. quale diversa modalità di introduzione del rito ordinario (Capponi, Sul procedimento sommario di cognizione nelle controversie societarie (art. 19, d.lgs. n. 5/2003), in Giur. it., 2004, 442), già prima della modifica che alla disposizione fu apportata con il d.lgs. n. 37/2004, è con quest’ultimo che l’interpretazione prevalente vira verso una tale ricostruzione laddove esclude la possibilità della pronuncia di una ordinanza di rigetto, contemplando – al contrario – la sola alternativa tra accoglimento della domanda. Per una ricostruzione della vicenda sia consentito rinviare a Tiscini, I provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009, 95 ss.

[13] Retro § precedente.

[14] Sul tema Salvaneschi, Luci ed ombre nello schema di decreto legislativo e integrativo delle disposizioni processuali introdotte con la riforma Cartabia, in www.judicium.it.

[15] Trib. Piacenza 1° maggio 2023, in www.Judicium.it, con nota di Limongi.

[16] Così esplicitamente nella Relazione di accompagnamento del decreto correttivo: “tale soluzione aveva certamente il pregio di prevedere la piena partecipazione delle parti nell’adozione del provvedimento, ma aveva l’effetto di rendere quest’ultimo sostanzialmente inutile, dal momento che il mutamento del rito interveniva quando già erano decorsi più di quattro mesi dall’introduzione della causa e le parti avevano già depositato le tre memorie integrative previste dall’articolo 171 ter. Dal passaggio al rito semplificato non derivava quindi alcun concreto vantaggio in termini di durata del procedimento”.

[17] Retro § 1.

[18]  Immaginare una limitata attività istruttoria è conseguenza della genetica semplicità della lite che dovrebbe contraddistinguere le cause per le quali è pensata la conversione del rito. Non va dimenticato che il modello semplificato meglio si colloca nelle ipotesi in cui la causa è già matura per la decisione senza necessità di assumere prove o perché essa è solo documentale o perché fondata su fatti pacifici; quando cioè la lite può passare direttamente in decisione (dopo introduzione e trattazione). D’altra parte, anche sotto la vigenza del precedente testo si era riconosciuto come, una volta convertito, il giudizio poteva essere definito uno acto, nel senso che “alla prima udienza ex art. 183 bis c.p.c., il giudice, sentite le parti e trasformato il rito da ordinario a sommario, può contestualmente sia pronunciarsi sulle richieste di prova presentate dalle controparti, sia provvedere alla definizione del procedimento” (Trib. Milano, 21 gennaio 2016, in Dejure).

[19] Retro § precedente.

[20] Amplius infra § 9.

[21] Retro § 2.

[22] Retro, § 4.

[23] I dubbi di incostituzionalità erano stati posti con riferimento all’eccesso di delega (art. 76 e 77 cost.), all’uguaglianza (art. 3 cost.) e al contraddittorio (art. 24 cost.). Corte cost. 3 giugno 2024 n. 96, cit., pur rigettando ogni sospetto, si concentra sull’esigenza di assicurare il contraddittorio offrendo una soluzione interpretativa che finisce per evidenziare le criticità già sollevate intorno alla dinamica “in solitaria” del decreto dell’art. 171 bis c.p.c. Tanto da ingenerare il dubbio che la nuova impostazione della norma alla luce del decreto correttivo (fondata su una implementazione delle attività ivi collocate) non sia più in linea con tali indicazioni, o quantomeno che nella formulazione definitiva delle correzioni si debba tenere conto anche delle sollecitazioni provenienti dalla stessa Corte costituzionale (ad esempio, contemplando espressamente la possibilità di sostituire il decreto con l’udienza?).

[24] Una siffatta possibilità troverebbe conferma – secondo la Consulta – sia sulla base di un’iniziativa ufficiosa, in esercizio dei poteri generali spettanti al giudice di direzione e organizzazione del processo (art. 175 c.p.c.), sia anche in conseguenza di una richiesta delle parti, qualora esse ritengano talune questioni meritevoli di interlocuzione tra loro.

[25] Cfr. sul punto Salvaneschi, Luci e ombre, cit., § 6.

[26] Dei ritardi sui tempi del processo è consapevole anche Corte cost. 3 giugno 2024, n. 96, cit., ma riconoscendo comunque la priorità al contraddittorio (“la fissazione di un’udienza ad hoc soddisfa la necessità della piena realizzazione del contraddittorio tra le parti, pur se l’udienza di comparizione ex art. 183 cod. proc. civ. non potrà non essere differita con un qualche conseguente allungamento dei tempi del processo”).

[27] Trib. Rovigo, nota scritta del 7 marzo 2024; Vd. anche il Protocollo del Tribunale di Firenze.

[28] Tale era il senso attribuito alla precisazione secondo cui la conversione del rito andava disposta tenendo conto della “complessità” della causa, in fatto e in diritto, ovvero della complessità dell’istruttoria (art. 183 bis c.p.c.).

[29] Sulla criticabilità della scelta secondo cui la fase delle verifiche preliminari veda un giudice dialogare con sé stesso senza assicurare un confronto pieno e fattivo con le parti – che in questa fase ancora non sono entrate in scena – sia consentito rinviare a Tiscini, Il ruolo del giudice e degli avvocati nella gestione delle controversie civili, cit., 141 ss.

[30] La riforma Carabia aveva peraltro già modificato le modalità. Nella precedente versione, l’art. 183 bis c.p.c. stabiliva che il giudice disponesse la conversione “previo contraddittorio, anche mediante trattazione scritta”. La precisazione “anche” lasciava intendere una piena libertà nelle forme, sia con trattazione scritta, sia con altra modalità (orale). Tuttavia, non si era mancato di osservare come la modalità scritta di assicurazione del contraddittorio non fosse compatibile con le esigenze acceleratorie a cui si ispirava l’art. 183 bis c.p.c., né la disposizione chiariva le dinamiche della eventuale trattazione scritta (presumibilmente con scambio di memorie, ma anche con altre tecniche).  La versione post Cartabia era perciò più generica, nel senso che il giudice doveva convertire il rito “sentite le parti”, scomparendo così il riferimento alla trattazione scritta.

[31] La mancanza di un autonomo provvedimento di conversione analogo a quello previsto nel previgente art 183 bis c.p.c. (ordinanza “in impugnabile”) è giustificata, nella Relazione illustrativa al decreto correttivo, dal fatto che alla prima udienza residua sempre il potere del giudice di tornare sui suoi passi modificando il precedente provvedimento e disponendo così un ritorno al rito ordinario, ove l’articolazione delle richieste istruttorie si riveli complessa (“non si prevede più, rispetto alla formulazione dell’art. 183 bis, che il provvedimento assuma la forma dell’ordinanza «non impugnabile», proprio allo scopo di far sì che all’udienza il giudice, nel contraddittorio delle parti e re melius perpensa, possa rivedere la propria iniziale decisione e riportare il processo nei binari del rito ordinario”). Il che, pur comprensibile sul piano astratto, conferma la consapevolezza del legislatore intorno ai limiti della scelta di collocare il potere di conversione in un momento in cui non vi è alcuna certezza intorno ai requisiti di “semplicità” della lite.

[32] Osserva in proposito la Relazione illustrativa: “Ovviamente, nel fare questo si è tenuto conto della necessità di salvaguardare il diritto di difesa delle parti e il contraddittorio. Per questo, si è previsto – analogamente a quanto avviene nel passaggio dal rito ordinario al rito del lavoro ai sensi dell’art. 426 – che nel disporre il mutamento del rito il giudice debba prevedere dei termini per consentire alle parti il deposito di memorie e documenti, dal momento che il contenuto degli atti introduttivi varia a seconda che il processo si svolga nelle forme del rito ordinario o di quello semplificato”.

[33]  L’art. 281-duodecies comma 5 c.p.c. rinvia infatti al comma 3 e al comma 4; il primo si occupa del caso in cui l’attore chieda di chiamare un terzo in causa, il secondo contempla l’ipotesi in cui il giudice stesso concedere alle parti un termine perentorio non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, e un ulteriore termine non superiore a dieci giorni per replicare e dedurre prova contraria.