Le Sezioni Unite e l’art. art. 363-bis c.p.c.: ovvero le fallacie di un ragionamento controintuitivo.

Di Francesco Terrusi -

Cass. Sez. U – Sentenza n. 12449 del 07/05/2024 – Pres. D’Ascola – Est. Scoditti – P.M. Soldi (diff.)

– Ad integrare uno dei presupposti di ammissibilità del rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. – il quale dispone che la questione non dev’essere stata “ancora risolta dalla Corte di cassazione” – è sufficiente anche una latente divergenza tra le decisioni delle diverse sezioni della S.C., poiché si deve valorizzare il riferimento testuale della predetta norma codicistica rispetto a quello della legge delega, che, nei suoi principi e criteri direttivi, richiedeva che la questione non fosse stata ancora “affrontata” dalla Corte di legittimità.

 

– Se il titolo esecutivo giudiziale – nella sua portata precettiva individuata sulla base del dispositivo e della motivazione – dispone il pagamento di “interessi legali”, senza altra indicazione e in mancanza di uno specifico accertamento del giudice della cognizione sulla spettanza di interessi per il periodo successivo alla proposizione della domanda giudiziale, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (ex art. 1284, comma 4, c.c.), la misura degli interessi maturati dopo la domanda corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c., stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo.

Massime ufficiali

 I. C’è una strana tendenza in alcuni recenti arresti delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

Si tende ad affermare principi a valle di modelli teorici assunti a postulato, tuttavia rappresentati in base a informatori sintetici assertivi, neppure esattamente colti nella loro intima essenza, e in ogni caso trascurati negli effetti.

Ne risulta la pretesa (quasi mai vincente) di delineare in poche battute la migliore delle concezioni possibili nelle materie date, senza avvedersi però delle contraddizioni, e senza adeguata ponderazione degli effetti a medio e lungo termine.

Quello in esame è uno di questi casi, emblematicamente rappresentativo di una lista di postulati a monte del ragionamento, difettosa dal punto di vista degli stessi criteri di elaborazione.

E difatti l’asserzione della Corte sul rinvio pregiudiziale appare popolata di fallacie, sia di metodo che di sostanza.

Se ne possono enucleare almeno quattro.

II. La prima fallacia potrebbe esser definita “di indebito esame”.

Il giudice del merito aveva disposto un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. sulla questione se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata – fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione avesse omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento era condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di interessi legali o di legge ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si dovessero ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284, primo comma, c.c. oppure – a partire dalla data di proposizione della domanda – potessero invece ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo.

Le Sezioni Unite, con la sent. n. 12449 del 2024, hanno dato una risposta al quesito, forse perfino banale:

– “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.

Tradotto in più semplici parole: sono dovuti gli interessi legali se altro non risulta dal titolo, visto che il giudice dell’esecuzione non ha il potere di integrarlo.

Questa cosa è discutibile, ma tant’è: così è stato deciso e se ne prende atto.

III. – Sennonché – ed ecco la prima fallacia – per dire questo le Sezioni Unite hanno svolto una preliminare e niente affatto necessaria digressione sul tema delle condizioni del rinvio pregiudiziale, peraltro scomodando superflui concettualismi dal taglio complicato.

IV. Come stabilito dall’art. 363-bis c.p.c., il rinvio pregiudiziale era stato ovviamente ammesso dal primo presidente.

L’intervento del primo presidente integra il “filtro” al procedimento, come si evince dai lavori preparatori del testo di riforma e com’è reso palese dal fatto che il rinvio pregiudiziale non è un mezzo d’impugnazione, e quindi non sussisterebbe altrimenti alcun obbligo per la Corte di rendere il principio richiesto.

In simile contesto il “filtro” alle ordinanze di rimessione è interamente affidato al primo presidente, ed è diretto alla verifica delle condizioni previste dalla legge.

Nel caso specifico il primo presidente aveva ritenuto ammissibile il quesito pregiudiziale e aveva altresì disposto che il principio fosse enunciato dalle Sezioni Unite.

A fronte di tanto, occorreva solo risolvere il quesito.

E invece no.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di indugiare su un profilo preliminare, quale quello dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, che nessuno aveva prospettato.

Oltre tutto lo hanno fatto per dire che il rinvio, nel caso concreto, era ammissibile.

E qui interviene la seconda fallacia, che potremmo definire di “errata identificazione del problema rilevante”.

V. Ben vero, in un’occasione è stato detto che l’assegnazione della questione al collegio, da parte del primo presidente, per l’enunciazione del principio di diritto, non preclude, nel procedimento ex art. 363-bis, la valutazione di ammissibilità del rinvio pregiudiziale da parte del collegio medesimo investito della decisione (così Cass. Sez. U. n. 34851 del 2023).

Ma l’affermazione è stata fatta a integrazione di un problema ben preciso, indotto da questione di diritto incidente sulla giurisdizione del giudice adito.

Può essere quindi giustificata in quel contesto, perché svolta a supporto di una decisione (del primo presidente) assunta in relazione al problema specifico – molto discusso – della possibilità o meno di svolgere il rinvio pregiudiziale sul tema della giurisdizione, nonostante la possibilità del regolamento preventivo.

Non sembra potersene trarre un principio metodologico di portata generale, anche perché lì era stato lo stesso primo presidente a “rimettere” al collegio la decisione definitiva sull’ammissibilità del rinvio.

Deve osservarsi che, in sé, l’affermazione non è condivisibile perché – come accennato – in base al testo dell’art. 363-bis il filtro al rinvio pregiudiziale è interamente affidato al primo presidente, il quale non svolge una verifica prima facie ma decide lui sull’ammissibilità.

Decide per l’appunto concretizzando un “filtro”.

E un “filtro” o c’è o non c’è.

Se c’è, e se è affidato a un dato organo (quale che sia), è illogico affermare che la decisione di tale organo sia poi rivedibile da un altro organo in difetto di altrettanta previsione di legge.

In disparte l’inconveniente pratico insito nel contrasto che verrebbe a porsi tra il primo presidente e il collegio, non ci vuol molto per comprendere che resta così violata la determinata competenza di legge, e vanificato di conseguenza lo scopo (oltre che l’efficacia) della relativa decisione.

In altre parole: checché ne abbia detto la Cassazione a supporto del problema specifico ivi affrontato, se il primo presidente ammette il quesito pregiudiziale, la Corte è (dovrebbe essere) tenuta a enunciare il principio di diritto.

VI. Viceversa, generalizzando impropriamente l’assunto, le Sezioni Unite oggi dicono che l’assegnazione della questione da parte del primo presidente per l’enunciazione del principio di diritto non preclude la valutazione di ammissibilità del rinvio pregiudiziale da parte del collegio.

Ammettiamo che sia così (e non lo è).

Ma vivaddio ciò ha senso se poi si dichiara inammissibile il rinvio, non anche se lo si afferma, invece, come ammissibile.

La cosa è finanche ovvia.

Quasi da manuale.

Ricorda i casi scolastici della motivazione inutile.

Nei corsi di procedura civile si insegna che l’ammissibilità è un presupposto processuale.

La questione di ammissibilità concerne uno dei presupposti processuali, come la giurisdizione o la competenza, perché condiziona l’emanazione della pronuncia di merito. Potremmo dire, per quanto qui interessa, della pronuncia sul merito del problema prospettato.

Anche a voler seguire le Sezioni Unite, una simile questione può essere utilmente esaminata d’ufficio solo se si debba affermare l’insussistenza del presupposto per scendere all’esame del merito (l’inammissibilità, appunto), non mai il contrario.

Sarebbe come dire che ci si pone d’ufficio una questione di giurisdizione per dire che c’è.

Ma, se la questione sottoposta è decisa nel merito, questo vuol dire che il ricorso (o l’istanza o la domanda o il quesito) è stato ritenuto ammissibile.

E tanto dovrebbe bastare.

Una digressione sull’ammissibilità di un ricorso (ancorché per rinvio pregiudiziale) col fine di dire che esso è ammissibile, quando nessuno ha eccepito il contrario, è un esempio lampante di ridondanza, quando non di radicale inutilità, della motivazione.

VII. – Ecco allora la doppia fallacia: “indebito esame” e “errata identificazione dell’utilità (o della rilevanza) del tema”.

VIII. – Dopodiché vi è una terza fallacia della sentenza n. 12449 del 2024, che è quella più grave e che potremmo definire come fallacia della “definizione inappropriata, inconsistente, contraddittoria e controproducente”.

Le Sezioni Unite dicono che sul tema oggetto del quesito pregiudiziale si sono formati due indirizzi interpretativi, tra i quali vi sarebbe un “contrasto latente”. Nella motivazione i termini di tale contrasto sono sintetizzati, e quindi non c’è bisogno di riprodurli qui.

Il punto è che, secondo le Sezioni Unite, la formazione di uno di questi indirizzi in un contesto normativo parzialmente diverso (nel quale non veniva in rilievo il comma quarto dell’art. 1284 c.c.) e il citato “contrasto latente” sono gli elementi che indurrebbero a concludere nel senso dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale.

E ciò anche se l’art. 363-bis, primo comma, c.p.c. richiede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora “risolta” dalla Corte di cassazione.

In questa prospettiva le Sezioni Unite dicono che vi sarebbe una differenza di significato tra l’espressione “non ancora risolta” del testo del codice e quella – “non ancora affrontata” – propria della legge delega.

Sicché, a loro dire, ai fini dell’ammissibilità del rinvio sarebbe ora necessario “che la questione, pur affrontata dalla Corte, non sia stata dalla stessa ancora risolta”.

L’unico senso che può darsi a simile precisazione è che si intenda alludere all’inesistenza di una soluzione definitiva.

Ammesso che sia possibile riscontrare in natura un che di “definitivo” diverso dall’assoluto tipico, che è la morte, è come se le Sezioni Unite dicessero che la questione non deve essere stata ancora “risolta definitivamente”.

Da qui la massima ufficiale: “a integrare uno dei presupposti di ammissibilità del rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. – il quale dispone che la questione non dev’essere stata “ancora risolta dalla Corte di cassazione” – è sufficiente anche “una latente divergenza” tra le decisioni delle diverse sezioni della S.C., poiché si deve valorizzare il riferimento testuale della predetta norma codicistica rispetto a quello della legge delega, che, nei suoi principi e criteri direttivi, richiedeva che la questione non fosse stata ancora “affrontata” dalla Corte di legittimità”.

L’affermazione incorre in una fallacia per uso di definizioni inappropriate, inconsistenti, irrilevanti e controproducenti.

IX. “Divergenza latente” o anche “contrasto latente” di orientamenti sulla questione controversia vuol dire che la questione è stata non solo affrontata ma anche e proprio risolta, sebbene (appunto) con contrasto di posizioni.

Come si faccia a dire che sia la stessa cosa di quel che la formulazione di legge, secondo logica, mostra di considerare resta incomprensibile.

È intuitivo che il rinvio presuppone che non sia riscontrabile una già formata soluzione definitiva della questione sottesa, perché altrimenti il quesito avrebbe il senso di una sollecitazione mera al mutamento di giurisprudenza.

E quindi non è questo il punto.

Il punto è che il rinvio pregiudiziale, così come non è funzionale al mutamento di giurisprudenza, non è neppure uno strumento per la soluzione di contrasti interni alla Cassazione.

Il rinvio pregiudiziale non è un interpello alla Corte teso a ottenere un parere consultivo col fine di far chiarezza tra orientamenti contrapposti.

E la sua funzione non è quella di indurre la Corte ad affinare o a cambiare la sua giurisprudenza.

Per tale ragione è evidente che la sottolineatura lessicale fatta dalle Sezioni Unite non serve proprio a niente.

La questione “non ancora risolta” è la questione “non ancora affrontata”, esattamente come emerge dalla legge delega.

In questo, il cambio di formulazione non è significativo.

Ai fini del rinvio pregiudiziale la precondizione è che non vi siano precedenti nella giurisprudenza di legittimità: se esiste già un precedente (o a fortiori se esistono più precedenti) della Cassazione il rinvio pregiudiziale non serve (esattamente F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, Milano 2023, 195).

E difatti se precedenti ci sono il problema si sposta sul versante della comparazione degli argomenti a loro supporto, che è il problema ordinario di qualunque controversia in iure.

Del resto, è la spiegazione del perché la legge stabilisce che il giudice a quo, dinanzi a questione non ancora risolta, debba indicare anche “le diverse interpretazioni possibili”: se diverse interpretazioni possibili già risultano da una giurisprudenza già formata, sia pure con “divergenze latenti” (come dicono le Sezioni Unite), imporne la menzione al giudice rimettente avrebbe il senso di un semplice, quanto sterile, esercizio riassuntivo.

X. Dopodiché la stessa definizione di “divergenza latente” è alquanto curiosa.

Richiama concetti di cui, ancora una volta, mal si comprende l’utilità.

XI – Innanzi tutto, la “divergenza”.

La divergenza è nozione specificamente rilevante in fisica e in matematica.

Interessa ai fini del calcolo differenziale vettoriale.

Nel calcolo differenziale vettoriale la divergenza rappresenta un che di specifico, perché identifica il campo scalare volto a misurare la tendenza di un campo vettoriale a divergere o a convergere verso un punto dello spazio.

Pure lo scopo è specifico: si tratta di definire il cd. valore di divergenza, che è un vettore {\displaystyle \mathbf {F} }in una certa posizione dato da un operatore differenziale idoneo a fornire una quantità scalare esprimibile in {\displaystyle \nabla \cdot \mathbf {F} } coordinate cartesiane.

Un concetto del genere, trasferito nel mondo del diritto dove si dovrebbe utilizzare il lessico comune, è solo ampolloso: non esprime niente oltre al concetto banale (e naturale) di contrasto, differenza, difformità, disaccordo, discordanza.

In una parola, è un enunciato informatore sintetico altisonante, ma che a niente serve, salvo rappresentare che una questione giuridica è stata già affrontata – e “risolta” – giustappunto in modo contrastante.

XII. – Né miglior senso esplicativo possiede l’espressione “latente”.

L’aggettivo è viziato da fallacia “per uso controproducente”.

Latente è semplicemente ciò che non appare all’esterno, che rimane nascosto, che cova.

Ma che in ogni caso esiste.

Quindi, se un contrasto è “latente”, o al contrario è “manifesto”, non cambia i termini del problema.

Rispetto a una questione giuridica, il contrasto “latente” significa semplicemente questo: che, sebbene in modo nascosto, recondito, la questione è stata già risolta con indirizzi interpretativi preformati, ancorché tra loro discordanti.

Dire che una questione sulla quale si registra un “contrasto latente” non è stata risolta nel senso indicato nell’art. 363-bis è banalmente controintuitivo.

XIII. – Infine, la quarta fallacia.

La possiamo definire come fallacia “degli effetti non considerati”.

Le Sezioni Unite non hanno colto che, a seguire la loro tesi, il rinvio pregiudiziale diventa un istituto diverso da quello disegnato dal legislatore.

Nell’ottica del legislatore il rinvio – dinanzi a gravi difficoltà interpretative di questione di diritto suscettibile di porsi in numerosi giudizi – è predisposto col fine di prevenire, non di risolvere, i contrasti di giurisprudenza.

La soluzione dei contrasti di giurisprudenza è affidata al tramite del mezzo d’impugnazione (art. 374 c.p.c.), perché il giudice del merito è tenuto a decidere la controversia in iure anche dinanzi a diverse possibili soluzioni interpretative.

Non può accettarsi l’idea di una diretta e mera sollecitazione del giudice del merito a risolvere i contrasti per il sol fatto che egli se ne avveda al momento di (e in luogo di) decidere la lite.

Sono piani diversi.

La sfera nomofilattica è rimessa (solo) alla Corte di cassazione (art. 65 ord. giud.), il che vuol dire che è affidato alla Corte tutto il governo del relativo ambito, sul versante temporale e metodologico.

Se si sottraggono alla Corte il governo temporale della nomofilachia, il tempo e il modo di risolvere i suoi contrasti, eventualmente mediante ricerca di punti di approdo condivisi, magari all’esito di percorsi evolutivi maturati in rapporto alle singole fattispecie e al divenire della società, e si attribuisce invece (surrettiziamente) al giudice del merito la facoltà di sollecitare la Corte quando e come egli ritenga opportuno con un quesito secco, per il semplice fatto che quel medesimo giudice non è in grado di (o non vuole) decidere la controversia prendendosi la responsabilità di una posizione ragionata tra le diverse opzioni in campo, si genera un cortocircuito.

Questo pone un problema anche in relazione alle aspettative delle parti, poiché ciò a cui le parti ambiscono in una causa è vedere comunque deciso tempestivamente (e possibilmente in modo giusto) il merito della loro controversia. La quale invece, col rinvio pregiudiziale, viene sospesa.

L’errore è dunque prospettico ed effettuale.

Si deresponsabilizza il giudice, perché dinanzi a orientamenti contrastanti dovrebbe essere lui a elaborare una razionale e motivata soluzione funzionale alla definizione anche parziale del giudizio al suo esame, convergendo eventualmente verso l’uno o l’altro degli indirizzi in contesa ove ritenuto pertinente e condivisibile.

E invece quanto affermato dalle Sezioni Unite può avere questo risultato: di alimentare un atteggiamento di pigrizia del giudice del merito, legittimando che egli rifiuti di decidere prima che la Cassazione stessa non abbia fatto chiarezza tra gli orientamenti già delineati al suo interno.

Peccato che il prezzo della stasi, in termini di tempo (e di denaro), lo paghino le parti.