Libertà di contrarre e giudizio arbitrale

Di Giulio Nicola Nardo -

Sommario. 1. Premessa. 2. L’arbitrato: il dilemma contrattualità – giurisdizionalità dell’arbitrato. 3. Il patto compromissorio: natura ed effetti. 4. Il contratto di arbitrato e la sua forma. 5. Segue: un’obbligazione di natura indivisibile. 6. Segue: l’arbitro e la responsabilità. 7. L’arbitrato e le figure analoghe. 8. Il mandato, la prestazione d’opera intellettuale: la tipicità dell’arbitrato. 9. La collegialità degli arbitri. 10. Segue: la soggettività complessa. 11. Nomina e sostituzione degli arbitri. 12. Il (delicato) rapporto tra il patto compromissorio (convenzione di arbitrato) e il contratto di arbitrato.

 

1.- Premessa 

Il nostro ordinamento individua nell’autonomia privata (art. 1322 c.c.), ossia nel potere di determinare e regolamentare i propri interessi[1], la fonte creatrice di diritti – mediante l’espressione di volontà – che si collocano oltre la comune tipologia normata dalla legge, ma con (l’ovvio) presupposto che questi tendano a perseguire interessi meritevoli di tutela.

Se l’arbitrato rituale è giurisdizione privata fondata sul consenso, questo si manifesta in un atto che comunemente è denominato convenzione di arbitrato o patto compromissorio per mezzo del quale le parti scelgono di devolvere una o più controversie, presenti o future, alla decisione di uno o più privati.

E’ comune convinzione quella secondo cui la via della tutela giurisdizionale non sempre assicura la piena realizzazione degli interessi protetti e l’evoluzione normativa rivela l’importanza che il fattore tempo assume ai fini del pieno sfruttamento e della migliore valorizzazione delle utilità oggetto di diritti.

Parimenti, discende dal principio di autonomia la possibilità per i privati di percorrere, rispetto ai diritti scaturiti da manifestazioni di volontà che abbiano un rilievo giuridico, percorsi di tutela alternativi a quelli che lo Stato ha predisposto[2], escludendo la giurisdizione ordinaria, nominando un giudice privato e finanche stabilendo le regole da applicare durante il procedimento e nel momento del giudizio finale.[3]

E’ dunque ormai superata la tesi della esclusività giurisdizionale e dello stesso monopolio statale della giurisdizione per cui il giudice e soltanto il giudice possa dichiarare il diritto nei rapporti tra privati [4], posto che nell’area della autonomia dei privati gli stessi con una libera manifestazione della volontà possono avviare tutte le iniziative tendenti a comporre il conflitto di interessi tra le parti e quindi anche quelle idonee a rimuovere in via preventiva le cause della controversia. E’ lo spazio che con formula moderna è stato definito “degli equivalenti giurisdizionali, o se si vuole dei negozi di composizione o prevenzione di controversie giuridiche di cui tuttavia sono messi in discussione i confini e la composizione[5].

Ciò poi è il risultato di un pensiero per il quale se appare essenziale al nascere e allo svilupparsi dello Stato la rivendicazione a suo favore del diritto esclusivo, del monopolio della forza, se può apparire essenziale il monopolio del potere di fare le leggi – dunque il monopolio delle leggi – non è altrettanto essenziale il monopolio del diritto così favorendo quello spazio sociale nell’ambito del quale possa aversi una piena esplicazione dell’autonomia dei privati. E lo spazio sociale nel quale non ha ragion d’essere il monopolio statale del diritto è quello in cui non è coinvolto un interesse primario dello Stato, poiché è uno spazio di autonomia privata che resta tale perché non nasconde alcun pericolo per il “pubblico”, ossia per quei principi e quelle norme che vengono ricompresi nella formula “ordine pubblico”[6].

Dunque è evidente che alla base dell’arbitrato vi è una scelta di libertà[7].

I privati, così come possono scegliere di non ricorrere alla tutela giurisdizionale dei propri diritti, alla stessa maniera possono decidere di occuparsene diversamente, senza cioè ricorrere al giudice dello Stato[8].

L’autonomia all’origine del fenomeno arbitrale va quindi colta nella libertà dei privati di utilizzare un mezzo alternativo di risoluzione delle controversie approfittando dei margini di manovra riconosciuti dallo Stato che per quanto riguarda i diritti disponibili rinuncia alla sua prerogativa giurisdizionale[9]. Il valore dell’autonomia privata si conferma anche in riferimento ai risultati ottenibili in sede giurisdizionale, data la parificazione degli effetti finali: i privati possono infatti raggiungere con la tutela offerta dallo strumento arbitrale i medesimi effetti di una sentenza pronunciata dal giudice togato, ponendo in essere negozi la cui funzione è “ad finiendam litem”[10].

Lo strumento dal quale prende origine l’autonomia privata è il contratto di arbitrato che, secondo il pensiero della dottrina tradizionale[11] viene qualificato quale negozio giuridico che si conclude tra l’arbitro e la parte. Non, pertanto, il negozio che la parte conclude esclusivamente con il proprio arbitro, né l’unico negozio stipulato da due parti plurisoggettive, bensì il contratto che lega in maniera autonoma ciascuna parte a ciascun arbitro[12].

Il tema dei rapporti tra contratto – e più in generale, autonomia negoziale – e processo rimane sempre di grande rilievo posto che il valore giuridico della prima riveste un ruolo di non secondaria importanza rispetto al processo[13].

Tale tema poi non si limita soltanto all’arbitrato, o meglio al giudizio arbitrale, inteso come processo e decisione ma pone in evidenza lo stretto legame tra la volontà negoziale delle parti e, nondimeno, la natura processuale della tutela che si persegue attraverso il processo arbitrale e la decisione dell’arbitro che la assicura.

Per vero la questione riguarda quella più generale del rapporto tra negozio e processo che è stata, ed è tuttora, di primario interesse.

Occorre dunque affrontare alcune questioni, seppur ampiamente dibattute, nel tentativo di contribuire ad una maggiore chiarezza di alcuni concetti alla base delle diverse tematiche fino a giungere ad una coerente interpretazione.

I temi che si ritiene dover analizzare hanno come perimetro di indagine oltre che la natura giuridica dell’arbitrato, quella del patto compromissorio e del c.d. contratto di arbitrato individuando gli elementi di collegamento fattuale giuridico tra questi ultimi.

Riguardo la natura giuridica del giudizio arbitrale [soprattutto di quello c.d. rituale] il pensiero ormai consolidato ed ampiamente arato in dottrina e giurisprudenza, soprattutto di legittimità, con significativi mutamenti di interpretazione di quest’ultima, non trova grossi ostacoli mentre quello che attiene all’accordo compromissorio e al contratto di arbitrato offre maggiori spazi di riflessione soprattutto in ordine allo stretto collegamento tra questi ultimi che evidenzia un rapporto di stretta interdipendenza con effetti non secondari.

Senza anticipare valutazioni che richiedono il dovuto approfondimento e che saranno trattate in avanti è utile partire da alcune premesse in ordine ai temi che si affronteranno: con riferimento alla natura dell’arbitrato (id est: del giudizio arbitrale) il pensiero comune è tendenzialmente quello di qualificarlo quale giurisdizione(?) privata – secondo una eccezione che verrà meglio enunciata – che si fonda sul consenso delle parti e dunque sulla autonomia negoziale che l’ordinamento riconosce a queste  in riferimento ai diritti disponibili ed in alternativa alla giurisdizione del giudice statale.

L’arbitrato costituisce una fattispecie eteronoma di risoluzione non giurisdizionale delle controversie come del resto sono eteronomi tutti gli strumenti diversi dal contratto, e ciò nel senso che è un terzo colui che individua le regole di condotta concrete che si sostituiscono alle norme generali ed astratte consentendo in tal modo che la controversia sia risolta. Certo l’attività dell’arbitro – che si ricorda è un soggetto privato – coincide con quella del giudice e tuttavia il processo arbitrale e la decisone arbitrale non possono ritenersi esercizio di attività giurisdizionale posto che il giudice statale decide in virtù dei suoi poteri autoritativi quale espressione della sovranità dello Stato e prescindendo dal consenso delle parti, laddove l’arbitro fonda la  sua decisione, e prima ancora l’avvio del processo che lo conclude, sul consenso delle due parti.  Dunque l’arbitrato non è giurisdizione se inteso in ragione di quanto espresso nell’art. 102 Cost. quale attività autoritativa, laddove invece si intenda per la qualifica giurisdizionale in senso oggettivo e cioè che l’attività dell’arbitro è analoga a quella del giudice ed il lodo produce gli stessi effetti della sentenza, allora la qualificazione è corretta, poiché è sostitutiva della giurisdizione statale.

Sempre ben inteso che la tutela dei diritti davanti al giudice statale è esercizio della giurisdizione rispetto alla tutela che si consegue in via arbitrale la quale assicura sì la protezione dei diritti ma attraverso un meccanismo processuale che non è espressione della funzione giurisdizionale.

Il secondo tema che verrà affrontato riguarda il patto compromissorio e persuade a sostenere la natura di contratto con effetti processuali, o meglio contratto processuale, laddove al netto degli effetti sostanziali che vengono prodotti dalla decisione finale del giudizio arbitrale, ossia dal lodo, ciò che maggiormente caratterizza il patto medesimo è che l’oggetto dell’accordo negoziale non è il diritto in sé rispetto al quale le parti hanno il potere e la facoltà di disporre liberamente (da qui la libertà di contrarre) ma la scelta della tutela (giurisdizionale?) del diritto medesimo in ipotesi in cui lo stesso venga messo in crisi dal sorgere di un qualche conflitto tra le parti. Come meglio si cercherà di dire in avanti la caratteristica precipua e dirimente del contratto compromissorio è riferibile soprattutto agli effetti processuali che esso determina, primo fra tutti l’esistenza di una condizione impediente verso la giurisdizione statale, per effetto della scelta della via arbitrale che le parti hanno concordato.

La terza questione riguarda il c.d. contratto di arbitrato, ossia l’accordo negoziale che lega gli arbitri chiamati a decidere una questione controversa tra le parti che affidano loro la soluzione della questione medesima accettando il decisum finale, al netto di possibili motivi di impugnativa del lodo che produce i medesimi effetti della sentenza del giudice statale.

Di poi occorre individuare il collegamento – per vero molto stretto – tra l’accordo compromissorio e il contratto di arbitrato, sulla premessa che il primo presuppone il secondo non solo in termini temporali quanto piuttosto quale presupposto giuridico che lega il secondo al primo in un rapporto di dipendenza funzionale giuridica, pur mantenendo i due negozi distinti.

Infine si tratterà, per vero in modo meno dettagliato,  delle discussioni intorno alla tipologia del contratto di arbitrato, cercando di individuare tra il novero degli istituti civilistici, le varie affinità, come, per esempio, con riferimento al mandato, non  tralasciando le peculiari tipologie di arbitrato quali l’arbitraggio e la perizia contrattuale, che, evidentemente, non rientrano nel perimetro del processo e del giudizio arbitrale ma piuttosto confermano la variegata articolazione della autonomia negoziale che anche il codice di rito  disciplina comunque quali specie del genus arbitrale, ossia quale meccanismo che consente la tutela del diritto al di fuori del processo arbitrale rituale, rientrando piuttosto nella sfera della c.d. “libertà di contrarre”, senza dimenticare mai che oggetto di tale tutela deve essere sempre un diritto disponibile.

 2.L’arbitrato: il dilemma contrattualità – giurisdizionalità dell’arbitrato

La giustizia privata rappresenta l’alternativa alla giustizia statale per la soluzione delle controversie civili circa l’esistenza di situazioni giuridiche soggettive che abbiano la caratteristica di essere disponibili.

Le discussioni sulla natura giuridica del fenomeno arbitrale hanno dato origine, fin dai primi decenni del Novecento, a più correnti interpretative. Da un lato coloro che qualificavano come “giudizio” il procedimento arbitrale e gli arbitri come “giudici” [14] o come rappresentanti dello Stato[15]; dall’altro i sostenitori della teoria contrattualistica, che non ritenevano di “concedere” contenuti giurisdizionali all’arbitrato[16].

Va però precisato che a fronte delle affinità tra giudizio arbitrale e processo civile, oltre che per motivi storici e culturali, la dottrina tradizionale prevalente[17] era incline ad ammettere la natura giurisdizionale del fenomeno arbitrale e ciò nel senso che quella degli arbitri è una attività giurisdizionale perché giurisdizionale è il modo attraverso il quale essi risolvono la controversia, per cui l’arbitrato (per vero, quello rituale) si presenta come una giurisdizione privata[18] essendo ovvio come l’arbitrato non sia la giurisdizione di cui tratta la Carta costituzionale la quale, ragionevolmente, nel suo disegno aveva solo la necessità di occuparsi unicamente della giurisdizione dello Stato che non è certamente fondata sul consenso.

Per la teoria pubblicistica, dall’accordo compromissorio provengono due rapporti: l’uno ha per oggetto la deroga alla giurisdizione ordinaria e riguarda i soli legami tra le parti; l’altro riguarda la sfera di diritto pubblico con il virtuale intervento dello Stato che garantisce alla convenzione tra privati un’efficacia che altrimenti non potrebbe derivare dal mero atto di volontà dei contraenti[19]. L’arbitrato quindi figurerebbe come uno strumento di tutela generato dalla giurisdizione ordinaria dove gli “arbitri-pretore” rappresentano un organo mediante il quale lo Stato esercita la propria potestà giurisdizionale e con cui la volontà delle parti partecipa alla formazione del giudice[20]. Ancora, i sostenitori della natura pubblicistica dell’arbitrato evocavano la teoria dei negozi giuridici processuali[21]: accordi mediante i quali le parti dispongono di una configurazione processuale[22], trasmettono cioè una certa tendenza al processo[23]. Con questi strumenti negoziali le parti scelgono la configurazione processuale più favorevole per risolvere la controversia insorta tra loro[24]. Secondo alcuni[25], il compromesso sarebbe un esempio di contratto processuale in quanto da una parte possiederebbe un valore di esclusione del giudice ordinario, dall’altra un valore di posizione del giudice privato, e però il patto compromissorio è un contratto non un atto del processo arbitrale e dunque non è un anello della catena degli atti del processo medesimo il cui orizzonte è la pronuncia della decisione finale, ossia del lodo.

Come meglio si dirà in avanti il compromesso è un contratto per così dire particolare che produce piuttosto effetti processuali oltre che sostanziali.

Altra dottrina[26] ha espresso profonde critiche alla teoria pubblicistica dell’arbitrato rimarcando il contrasto emergente dall’assunto per il quale da un negozio giuridico privato potrebbero scaturire rapporti di diritto pubblico e ciò perché essendo privato il negozio giuridico dal quale gli arbitri ricevono i loro poteri, allora privata sarà la loro funzione e di diritto privato saranno i rapporti tra essi e le parti.

Pertanto[27] il decreto di omologa­zione che attribuisce al lodo l’efficacia di una sentenza non provoca di per sé una variazione della natura giuridica dello strumento arbitrale, posto che le basi dell’arbitrato vanno individuate nella sfera operativa dell’autonomia privata: per vero, è infatti la libera manifestazione di volontà delle parti a voler affrancare la soluzione di una lite dalla giurisdizione ordinaria[28], ed il fatto che il lodo abbia pari efficacia della sentenza non incide sulla natura giuridica dell’istituto dell’arbitrato[29].

A rafforzare la natura privatistica dell’arbitrato vi è chi[30] ha suggerito che l’arbitrato a cui riservare il “nome” e nel quale riconoscere il “tipo” dotato di “una disciplina particolare” (ex art. 1322) sia l’arbitrato originato dal compromesso o dalla clausola compromissoria (e perciò in atti di autonomia contrattuale) e del quale l’effetto risiede nel vincolo che il lodo produce a carico delle parti.

Anche la giurisprudenza di legittimità sostiene la natura privatistica dell’arbitrato. Per vero, la Corte di cassazione dopo aver affermato che l’arbitrato rituale appartiene alla sfera pubblicistica della giurisdizione[31], con la nota sentenza a Sezioni Unite[32] ha mutato orientamento avvicinandosi alle posizioni della prevalente dottrina ed indicando che la natura del dictum arbitrale è quella di un atto di autonomia privata i cui effetti di accertamento conseguono ad un giudizio compiuto da un soggetto il cui potere ha fonte nell’investitura conferitagli dalle parti; quindi si deve escludere che si possa parlare di arbitri come di organi giurisdizionali dello Stato e, addirittura, di “organi giurisdizionali”[33].

Nel rifiutare gli argomenti dei sostenitori della teoria giurisdizionale dell’arbitrato e del lodo, la Corte sottolinea conformemente alla pressoché unanime dottrina[34] che il rilievo per il quale il lodo, per legge, è dotato di tutti o di taluno degli effetti della sentenza pronunciata dai giudici dello Stato non è determinante ai fini della soluzione del problema sulla natura dell’arbitrato[35]. Le valutazioni dei giudici di legittimità rinforzano l’idea che la qualificazione giuridica dell’arbitrato non derivi dal valore dell’atto conclusivo ma dal fondamento consensuale del procedimento arbitrale[36].

Nondimeno è doveroso dare conto che la giurisprudenza di legittimità successiva[37]ed alcune pronunce della Consulta[38] hanno militato invece per la completa assimilazione tra processo arbitrale e processo giurisdizionale, anche se è ragionevole ritenere che la suddetta assimilazione vada circoscritta nel perimetro che riguarda lo svolgimento della attività difensiva delle parti e la direzione del processo da parte dell’arbitro e dunque la disciplina delle regole del processo che nel giudizio arbitrale si riportano alle norme del codice di rito seppur con maggiore elasticità. La assimilazione prospettata tra processo arbitrale e processo giurisdizionale non dovrebbe dunque andare oltre i confini della natura eteronoma dell’arbitrato rituale che si svolge nel territorio lasciato alla privata autonomia della “eterocomposizione” delle controversie.

Tale conclusione non sembra in contraddizione posto che conferma la natura comunque privatistica dell’arbitrato rituale per quanto alla decisione del giudice – e dunque alla tutela dei diritti – si giunga attraverso un meccanismo processuale che è processo, ma non giurisdizione.

In ogni caso ciò che deve convenirsi e che nessun problema sorge dall’ art. 24 , 1 comma,  Cost. in relazione  all’arbitrato, posto che la norma costituzionale prevede che lo Stato predisponga un’organizzazione della giurisdizione a tutela dei diritti che non necessariamente deve essere solo statale e ciò nel senso che con riferimento alle parti queste non hanno il dovere di agire davanti al giudice statale ma piuttosto il diritto di ricevere una tutela giurisdizionale dallo Stato che può esplicarsi anche attraverso la via della tutela alternativa a quella statale che tuttavia garantisce una tutela dei diritti in forma privata.

Parimenti l’art. 25 della Costituzione che sancisce il principio del giudice naturale non sovverte alcun principio posto che la previsione del giudizio arbitrale non si pone sulla stessa linea di un giudice speciale, ossia non naturale, atteso che tale principio riguarda esattamente l’organizzazione della funzione giurisdizionale dello Stato facendo in modo che essa si strutturi affinché sia garantita l’indipendenza e quindi l’imparzialità dei suoi giudici.

Peraltro l’arbitro non è certo un giudice speciale in contrasto con l’art. 25 Cost., posto che questi è precostituito per legge laddove la fonte normativa deriva direttamente dal codice di rito che riconosce spazio alla libertà di contrarre delle parti titolari di diritti disponibili le quali possono preferire, e dunque scegliere, la diversa forma di tutela dei proprio diritti, ossia quella arbitrale.

3.Il patto compromissorio: natura ed effetti

La presente indagine non può non affrontare il tema della natura del c.d. patto (o accordo) compromissorio, ossia della fonte negoziale basata appunto sul consenso delle parti che diventa la fonte regolatrice del rapporto medesimo, o meglio della scelta della via di tutela giurisdizionale dei diritti disponibili di cui le parti sono titolari.

Ora, atteso che il giudizio arbitrale è giudizio privato che sì assicura la tutela piena dei diritti ma attraverso un percorso alternativo alla tutela giurisdizionale statale, v’è da chiedersi quale sia la vera natura della suddetta fonte convenzionale e fino a che punto la prospettata natura processuale del patto compromissorio possa essere sostenuta ancora oggi, al netto della ormai acclarata natura privata del giudizio arbitrale.

Ciò nel senso che sembra condivisibile la prospettazione del patto compromissorio quale contratto particolare[39]  perché riprendendo le parole dell’art. 1321 c.c., non si può dire che con esso due o più parti si accordino per costituire regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. Di tal guisa consegue che il patto compromissorio non produrrebbe effetti (solo) sostanziali ma piuttosto effetti processuali.

Detti effetti processuali si allineano su due piani, posto che essi sono rivolti, per un verso, ad impedire lo svolgimento del processo statale sulla lite devoluta al giudizio arbitrale e, per altro verso, a fondare la efficacia vincolante della decisione arbitrale.

Con la conseguenza che al netto degli effetti sostanziali che pure il patto compromissorio produce, quale quello positivo di favorire la cooperazione tra le parti di giungere ad una definizione della lite entro un certo termine e, in negativo, l’impedimento del giudizio statale, è ragionevole sostenere che emergono con maggiore forza e nettezza gli effetti processuali che produce il patto compromissorio.

La processualità del patto risiede nel rilievo che tale contratto dispone semplicemente (da non ritenersi in senso riduttivo ma esplicativo) della tutela dei proprio diritti disponibili e non del diritto medesimo e ciò perché con l’accordo in questione le parti dispongono di percorrere la via della tutela alternativa alla giurisdizione statale.

Dacché consegue che già di per sé il patto compromissorio assume la natura di presupposto processuale negativo e ciò nel senso che esso non deve esistere affinché il giudice statale possa e debba decidere il merito della causa.

Altrimenti detto se e quando le parti concludono un accordo compromissorio in tale direzione esse creano una condizione che impedisce l’intervento del giudice statale proprio perché l’oggetto del patto è la chiara individuazione della tutela dei propri diritti che le parti stesse preferiscono. Tale impedimento si concretizza nella circostanza per la quale sottoscritto un patto compromissorio, laddove la parte abbia avviato un giudizio davanti al giudice statale avente ad oggetto la tutela di un diritto disponibile per il quale però le stesse parti avevano concordato la via arbitrale, ne consegue che l’altra parte possa validamente spendere quell’effetto negativo dell’impedimento del giudice statale che nel processo si concretizza in un’eccezione processuale di rito in senso stretto spendibile con il primo atto difensivo, ossia la comparsa di costituzione e risposta ex art. 819 ter, c.p.c., a pena di decadenza[40].

Dunque è evidente come il patto compromissorio mantenga sostanzialmente una natura processuale, ovvero ad effetti processuali prevalenti e maggiormente qualificanti rispetto a quelli sostanziali, e da qui la particolarità dello stesso posto che l’oggetto dell’accordo e la finalità di esso non attengono al diritto in sé o alla sua regolamentazione ma piuttosto alla tutela latu sensu giurisdizionale degli interessi che ne derivano preferendo appunto la giurisdizione privata a quella statale e con ciò confermando la vocazione a favorire piuttosto questi effetti sul processo, ossia sul meccanismo di tutela dei diritti.

In particolare sin da tempo remoto il Chiovenda[41], fautore della teoria contrattuale dell’arbitrato, definisce il patto compromissorio un «contratto processuale», che ha ad oggetto «la rinuncia alla cognizione di una controversia per opera dell’autorità giudiziaria»; un contratto vincolante, la cui caratteristica è quella di impedire al giudice ordinario eventualmente adito la cognizione della controversia compromessa in arbitri. Tale Autore mette in luce l’eccezionalità del primato dell’autonomia contrattuale rispetto al carattere pubblicistico della giurisdizione ed al tempo stesso sottolinea che proprio questa è l’essenza del patto compromissorio: «il fondamento della irrevocabilità del lodo rimane la volontà delle parti» con la conseguenza che la volontà delle parti diviene il criterio determinante per individuare l’ambito entro il quale l’arbitro ha cognizione. In altri termini, l’ambito di cognizione del giudice arbitrale e, quindi, l’ambito oggettivo del lodo potranno e dovranno essere definiti esclusivamente sulla base della volontà delle parti.

Parimenti il rapporto tra giudice statale e giudice arbitrale – e dunque la translatio iudicii tra giudice statale e arbitro – va meglio specificato alla luce dell’intervento di Corte cost. n. 223/2013 sull’art. 819-ter c.p.c. [42]e dell’introduzione dell’art. 819-quater c.p.c, laddove in attuazione al principio di delega sulla disciplina della translatio iudicii tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario e tra giudizio ordinario e giudizio arbitrale, si è previsto che sono impugnabili con regolamento di competenza, non solo la sentenza del giudice ordinario, ma anche le ordinanze[43].

Quanto ancora ai rapporti tra il giudizio arbitrale e il giudizio ordinario la norma prevede la possibilità in tutte le ipotesi di declinatoria di competenza, di mantenere salvi gli effetti della domanda attraverso la predisposizione ad opera delle parti di tutte le attività necessarie alla instaurazione del processo. Per valorizzare il significato della trasmigazione del processo tra le due sedi si è inoltre stabilito che le prove raccolte nel processo davanti al giudice o all’arbitro dichiarati non competenti possono essere valutate come argomenti di prova nel processo eventualmente riassunto.

Ultima novità di rilevo da segnalare è la espressa indicazione delle conseguenze derivanti dalla mancata osservanza dei termini per la riassunzione secondo il disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 819 quater c.p.c.

4.Il contratto di arbitrato e la sua forma

L’accettazione degli arbitri è normata dal nuovo art. 813, primo comma, c.p.c., secondo cui essa deve essere data per iscritto e può risultare dalla sottoscrizione del compromesso o del verbale della prima riunione, laddove però la vera novità da segnalare è il c.d. obbligo di disclosure ivi previsto.

Come noto, l’art. 3, comma 51 del d.lg. 10 ottobre 2022, n. 42 ha introdotto, tra le altre, alcune modifiche tese a rafforzare ulteriormente la garanzia di indipendenza e imparzialità dell’arbitro intervenendo sugli artt. 813 e 815 c.p.c. e allineandosi così ai regolamenti vigenti nelle camere arbitrali italiane[44], alle legislazioni vigenti in altri Paesi in tema e alle migliori norme di soft law rinvenienti dalle prassi internazionali in materia[45]. Ancora, sotto il profilo generale, va preso atto che, anche quando il legislatore abbia ammesso la convivenza di due sistemi di giustizia alternativi – vale a dire quello del giudizio ordinario e quello dell’arbitrato, con l’intento anche di deflazionare il contenzioso giurisdizionale – va confermato che la figura dell’arbitro non è in nessun modo assimilabile a quella del giudice dello Stato ex artt. 101-108 Cost.

Le qualità di imparzialità e indipendenza richiedono che gli arbitri siano capaci di svolgere il loro ruolo senza pregiudizi nei confronti di alcuna delle parti e che mantengano una distanza obiettiva da queste, dalla controversia e da chiunque altro coinvolto nell’arbitrato.

Il fatto che ciascuna parte possa scegliere l’arbitro indubbiamente determina un certo cedimento del profilo dell’indipendenza[46]. Di conseguenza, le parti potrebbero nominare come arbitri (anche del tutto consapevolmente) professionisti che versano in situazioni di dubbia imparzialità o indipendenza[47]. Infatti, l’ordinamento può arrivare a tollerare[48] che le parti ne siano consapevoli e che consapevolmente[49] lo accettino,[50] come tra l’altro avviene per la rinuncia alla ricusazione nel processo civile, dal momento che ex art 52 c.p.c.  viene disposto che la parte può, e non deve, proporre la ricusazione del giudice.

Con la riforma al codice di rito ex d.lgsvo 149 del 2022, il Legislatore è intervenuto sul primo comma dell’art. 813 c.p.c., prevedendo che l’accettazione degli arbitri dovrà essere sempre accompagnata, a pena di nullità, dalla dichiarazione di ogni circostanza (o della sua inesistenza[51]) rilevante ai sensi dell’art. 815 c.p.c., modificato anch’esso con la previsione indicata al nuovo numero 6-bis del primo comma, suscettibile di incidere, cioè, sul piano dell’indipendenza e dell’imparzialità dei professionisti nominati.

Il mancato assolvimento di tale obbligo impedirà infatti il perfezionamento dell’accettazione e, di conseguenza, l’assunzione dell’incarico del professionista ad assumere le vesti di arbitro.

Deve evidenziarsi che il principio contenuto nella legge di delega non implicava, tuttavia, alcuna sovrapposizione tra il nuovo motivo di ricusazione ex art. 815, comma 1, n. 6-bis c.p.c. e l’obbligo di disclosure di cui all’art. 813 c.p.c.

A ben vedere, in maniera difforme dall’art. 11, lett. a  del progetto di riforma elaborato dalla commissione Luiso[52], il legislatore ex art. 1, comma 15, lett. a del 2022, ha inteso reintrodurre espressamente[53] all’art. 815, comma 1, n. 6-bis un ulteriore motivo di ricusazione, prevendo una «clausola aperta», consistente nell’emergere di «gravi ragioni di convenienza[54]» che possono andare a incidere sull’indipendenza e sull’imparzialità degli arbitri[55], (ri)allineando la diposizione a quanto previsto dall’art. 51, ult. cpv. del codice di rito in materia, però, di astensione facoltativa del giudice civile.

In ogni caso la ratio della novella, da salutarsi con un certo favore, è quella di dare al procedimento arbitrale una disciplina generale di maggior trasparenza, prevedendo l’obbligo positivo, in capo agli arbitri, di rilevare quelle circostanze di fatto che potrebbero minare la garanzia di imparzialità degli stessi, anche soltanto nella percezione delle parti[56].

Le disposizioni introdotte dalla riforma c.d. Cartabia, con tutta evidenza, mirano a presidiare la garanzia di indipendenza e imparzialità dell’arbitro – introducendo obblighi di trasparenza in capo ai soggetti titolari del potere di giudizio sulla controversia nell’interesse alieno, così da stimolarne un comportamento virtuoso e, in ogni caso, consentendone il controllo da parte degli altri soggetti interessati.

L’ambito di applicazione delle due disposizioni sopra richiamate si immagina dunque costante, andando a incidere su ogni ipotesi di conflitto esistente o potenziale che riguarda la nomina degli arbitri. Soprattutto nel momento in cui, a differenza del processo ordinario, il problema dell’imparzialità dell’arbitro possa essere prospettato anche con riguardo al fatto che normalmente gli arbitri sono scelti dalle parti, apparendo poco realistico – in una certa misura – presupporre che la parte che designa il «proprio arbitro» si aspetti veramente da quest’ultimo un comportamento rigorosamente imparziale durante l’iter del procedimento e in fase di decisione[57].

Da ultimo, deve rilevarsi che in relazione alla nuova disciplina prevista dall’art. 813 c.p.c. permane ancora il dubbio – non avendolo il legislatore della riforma dissipato – se possa ritenersi applicabile al procedimento di nomina e accettazione nell’arbitrato irrituale[58].

Si è detto che è un principio pacifico, non solo in Italia, quello per cui l’arbitro deve essere terzo e imparziale rispetto alle parti, così come deve esserlo il collegio arbitrale nel suo complesso. Garanzia e imparzialità dell’arbitro costituiscono un presidio essenziale dell’alternatività e fungibilità dell’arbitrato rispetto alla giurisdizione statale, soprattutto dal momento che, ai sensi dell’art. 824-bis c.p.c., vi è una piena equiparazione degli effetti del lodo a quelli della sentenza, nel rispetto degli artt. 24 e 111 Cost.[59].

Da questo punto vista non vi è alcuna originalità nella riforma del 2022, poiché l’imparzialità e l’indipendenza degli arbitri restano pietre miliari dell’arbitrato.

Per di più parte della dottrina[60] già prima della riforma ex d.lg. 149 del 2022, aveva tentato di ricostruire l’obbligo di disclosure facendo leva sul principio di buona fede[61] ex artt. 1337 e 1375 c.c., collegata al dovere di informazione, applicabile al contratto d’arbitrato, ovvero alle norme deontologiche[62]. Tuttavia, al di fuori dei casi previsti dai regolamenti arbitrali, si riteneva[63] che, in mancanza di una specifica previsione, il professionista non era tenuto a rendere alcuna dichiarazione. A ben vedere, infatti, la provenienza unilaterale delle norme deontologiche – vale a dire da un organo rappresentativo di una determinata categoria professionale – non può garantire di per sé anche il rispetto degli interessi di chi è estraneo a quell’ordinamento particolare[64] . Al più, a tali norme può darsi una rilevanza indiretta incidente sul rapporto contrattuale. Esse consentirebbero infatti di delineare i caratteri distintivi del «buon professionista», da impiegarsi come criterio utile nell’apprezzamento della diligenza professionale cui è tenuto il debitore nell’adempimento alla prestazione. Di conseguenza, la disclosure veniva utilizzata al più dal professionista zelante[65], palesando i motivi non contemplati nell’art. 815 c.p.c., rimettendo alle parti di scegliere se confermare la sua designazione. La novità di rilievo è aver positivizzato nell’art. 813 c.p.c. l’obbligo della disclosure per ogni professionista che intenda accettare l’incarico di arbitro. Risulta ovvio che la disclosure ai sensi del nuovo art. 813 c.p.c. non implica, in via automatica, l’esistenza di una causa di ricusazione[66], al contrario, essa è un mezzo per rendere edotte le parti di particolari circostanze dando loro di fatto l’opportunità di valutare se vi siano dubbi giustificati sull’indipendenza e l’imparzialità di un arbitro rendendo effettivo il diritto della parte all’imparzialità[67].

Di conseguenza, le parti in seguito alla disclosure sono messe nelle condizioni di valutare liberamente le circostanze esposte e decidere di agire o meno per le vie della ricusazione. Laddove però la parte si determini a non agire tempestivamente[68] per la ricusazione, non potrà successivamente tentare la via dell’impugnazione del lodo[69], perché si tratterebbe di un comportamento contrario alla buona fede.

Sembrerebbe pertanto che l’ordinamento possa tollerare anche la violazione del principio di imparzialità dell’arbitro, essendo sanato dal mancato rilievo delle parti nel termine decadenziale di cui al terzo comma dell’art. 815 c.p.c.

Ulteriore problema sorge in ordine al disposto di cui all’art. 813 c.p.c. e al comma 1, n. 6-bis dell’art. 815 c.p.c. potendo, attesa la vaghezza della formula utilizzata dalla norma in parola (gravi ragioni di convenienza, tali da incidere sull’indipendenza o sull’imparzialità dell’arbitro), portare gli arbitri ad ampliare il perimetro di ciò che deve essere dichiarato, palesando dunque questioni magari impercettibilmente tangenti sull’asse della indipendenza e della imparzialità[70], con l’effetto di ampliare (anche in via strumentale) le percezioni delle parti sulle circostanze che lo renderebbero non terzo rispetto alla controversia.

Ovvero in senso contrario limitare l’operatività della disclosure ex art. 813 c.p.c a ogni circostanza rilevante ai sensi dell’art. 815 c.p.c. Tale interpretazione finirebbe però col depotenziare la ratio della riforma poiché lascerebbe scoperte quelle situazioni dubbie, dunque non espressamente tipizzate dal legislatore tra i casi di ricusazione[71].

Di conseguenza, il legislatore del 2022, con la diposizione cui al n. 6-bis, al primo comma dell’art. 815 c.p.c., indica una norma a contenuto aperto, finendo di conseguenza per sanzionare una omissione dal contenuto atipico[72].

È del tutto razionale ritenere, allora, che il criterio dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’arbitro non possa dipendere da una mera percezione soggettiva, dando prevalenza a quello che le parti vedono[73] ma non a quello che vogliono vedere. Di conseguenza, la disclosure dovrà essere ponderata e ben circostanziata all’inizio di ogni arbitrato e non meno rispettosa dei principi cardine della disciplina anche in riferimento agli altri ordinamenti.[74]

Il doppio standard di divulgazione, quello che prende, cioè, in considerazione uno standard soggettivo e di valutazione secondo uno oggettivo, potrebbe presupporre che alcuni conflitti di interesse percepiti soggettivamente[75] siano altrettanto oggettivamente giustificabili.

Di conseguenza, il professionista chiamato a rendere la dichiarazione ex art 813 c.p.c.  dovrebbe prima selezionare ogni potenziale ragione che potrebbe dare adito di ipotizzare la mancanza di indipendenza e/o imparzialità, e poi, seguendo il criterio del “in dubio pro disclosure”, rivelare ogni informazione idonea a rendere consapevoli le parti degli aspetti peculiari di quelle vicende, a questo punto ben circostanziate.

Certamente, poi, è un tema altrettanto spinoso quello che riguarda notizie che l’arbitro è tenuto a non divulgare per via di un preesistente accordo di riservatezza o in base alla disciplina del segreto professionale. In tale caso, invero, l’arbitro non dovrebbe ab origine accettare la nomina, posto che le disposizioni di riservatezza (che hanno natura privata) cederebbero alla disciplina del giusto processo, anche arbitrale, di cui all’art. 6 CEDU e 111 Cost[76].

Detto altrimenti [77] l’arbitro nel rendere la dichiarazione ex art. 813 c.p.c., dovrebbe chiedersi poi se il fatto da rilevare in quella sede potrebbe porre dei dubbi a un terzo ragionevole, cioè compiendola non dalla prospettiva soggettiva dell’arbitro e neppure della parte.

Tuttavia, per quanto ci si possa spingere verso una interpretazione a favore delle informazioni da rendere nella disclosure ex art. 813 c.p.c., valga il principio lex non cogit ad impossibilia.

Pertanto, si potrebbe affermare che la disclosure ottimale sarebbe quella che prende in considerazione prima una valutazione soggettiva (ovvero la selezione, di ogni fatto conosciuto – o conoscibile utilizzando l’ordinaria diligenza – che potrebbe dare adito di ipotizzare la mancanza di indipendenza e/o imparzialità) poi seguire con una valutazione oggettiva dei fatti selezionati (ovvero verificare in concreto il grado di collegamento tra i fatti selezionati con gli elementi che caratterizzano il nuovo incarico), per poi passare nel momento in cui si dovranno informare le parti ex art 813 c.p.c. ad utilizzare il parametro del terzo ragionevole[78] (ovvero come il collegamento dei fatti selezionati con le vicenda del nuovo incarico di arbitro possa essere percepito da un soggetto estraneo).

Affrontata la novità della disclosure introdotta con la recente riforma è ora possibile proseguire nella trattazione del tema.

L’art. 13 c.p.c. del 1865 disponeva che l’accettazione degli arbitri deve essere fatta per iscritto e che risultava sufficiente a questo effetto la sottoscrizione dei medesimi all’atto di nomina. L’attuale dibattito sulla norma è simile a quello relativo al codice del 1865[79] che costituisce il suo precedente storico.

Per il profilo in esame una corrente della dottrina più recente nega che la questione relativa alla forma dell’accettazione si risolva rimandando alle norme di cui agli artt. 807-808 c.p.c.[80]. Date queste premesse la dottrina non prevede come necessaria una forma solenne[81] perché per la disciplina ora in vigore la forma scritta sarebbe richiesta soltanto ad probationem[82] e magari solo con riferimento al rapporto fra le parti e gli arbitri e la mancanza della forma scritta si porrebbe come una semplice irregolarità sempre sanabile ad opera degli arbitri e senza conseguenze sul decorso del termine[83].

Per altri l’art. 813 c.p.c. dispone, a pena di nullità, un particolare requisito di forma [84] e cioè che il consenso degli arbitri ad accettare l’incarico deve manifestarsi in forma scritta. Partendo dalla lettera dell’art. 1325 c.c. (che indicando i requisiti del contratto cita la forma, è vero, ma soltanto quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità), si individuano due classi di negozi, l’una composta da tre requisiti: accordo, causa, oggetto;  l’altra, da quattro:  accordo, causa, oggetto e forma[85].

Nella prima ipotesi (“fattispecie debole”), il profilo formale non rileva per il diritto mentre nella seconda (“fattispecie forte”) all’opposto il negozio, senza il requisito formale che la legge richiede non si può ritenere compiuto essendo la forma, non meno di causa e oggetto, una componente sostanziale della fattispecie negoziale[86].

Tuttavia è innegabile che sul piano pratico, in un caso o nell’altro, le conseguenze non differiscano più di tanto[87]. Da un lato la premessa necessaria è che venga impugnato il lodo ex art. 829, n. 2, c.p.c., che vuole la preventiva eccezione di parte durante il processo arbitrale[88], dall’altro, esistono più occasioni nelle quali si emana un documento ove non è difficile scoprire un’accettazione. Non va infatti dimenticato che al centro della discussione è la modalità in cui l’accettazione venga formalizzata non l’eventuale mancanza dell’accettazione[89].

 

5.Segue: un’obbligazione di natura indivisibile

Una volta che il contratto di arbitrato si è perfezionato nasce l’obbligo per gli arbitri di pronunciare il lodo entro un certo termine e [90] proprio sopra questa premessa pare fondarsi la disciplina della responsabilità e dei diritti degli arbitri (artt. 813-ter e 814 c.p.c.).

Per alcuni la formulazione del lodo consisterebbe in un’obbligazione di natura indivisibile e ciò perché i componenti del collegio s’impegnano rispetto alle parti compromettenti a fornire una prestazione indivisibile[91] e proprio dall’indivisibilità della prestazione degli arbitri provengono importanti conseguenze sul piano della loro responsabilità: prima di tutto, il corollario del vincolo solidale: gli arbitri, vincolati collettivamente a rendere la prestazione, apparirebbero titolari di un’obbligazione in solido verso le parti[92].

Per questo se è impossibile pronunciare il lodo nei termini previsti a causa del fatto di un arbitro anche gli altri arbitri sarebbero responsabili verso i litiganti.

Tuttavia la lettera dell’art. 813-ter, ultimo comma, c.p.c., afferma che ciascun arbitro risponde del fatto proprio e da ciò sembra ricavarsi il rifiuto del legislatore della concezione fondata sulla natura indivisibile della prestazione che grava sugli arbitri. Tale indirizzo d’interpretazione sarebbe utile solo in parte perché non abbraccia tutti i profili propri del concetto di indivisibilità ma si limita ad allargare a tale categoria, richiamando l’art. 1317 c.c., la disciplina della solidarietà[93].

Per questo, è necessario chiarire l’idea di indivisibilità.

L’art. 1316 c.c. stabilisce che l’obbligazione è indivisibile quando la prestazione ha per oggetto una cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione per sua natura o per il modo in cui è stato considerato dalle parti contraenti.  Si parla di natura indivisibile dell’obbligazione quando il suo oggetto non si può frazionare in parti che possiedono esistenza autonoma e soddisfano parzialmente il creditore[94]: dunque l’indivisibilità dell’obbligazione prevede ragionevolmente che l’adempimento si realizzi in una stessa soluzione.

In altre parole l’interesse dei creditori sta nell’adempimento dell’intero.

Indicando la disciplina applicabile alle obbligazioni indivisibili, l’art. 1317 c.c. rimanda alle norme sulle obbligazioni solidali[95] e malgrado il richiamo in questione non è lecito confondere l’idea di indivisibilità con quella di solidarietà essendo radicate in esigenze diverse[96], tant’è vero che un altro motivo di distinzione tra solidarietà e indivisibilità è nei differenti referenti dell’impegno di adempiere “per la totalità” e non tanto nel differente “carattere” delle due figure[97].

Il peso che la disciplina della solidarietà esercita sulle obbligazioni indivisibili dipende dall’esistenza di una molteplicità di debitori: da qui il concetto di obbligazione soggettivamente complessa, categoria che interviene quando vi sono più debitori (ovvero una pluralità di debitori) e/o più creditori (o una pluralità di creditori) nel rapporto obbligatorio[98]. L’obbligazione indivisibile soggettivamente complessa vede come sua forma specifica d’attuazione la solidarietà: se più debitori sono obbligati a una prestazione inscindibile uno di loro può essere chiamato all’adempimento fatto salvo il diritto di rivalsa sugli altri. Il legame logico tra obbligazioni indivisibili e solidali scorre nel rapporto che potrebbe emergere tra l’oggetto e i modi d’attuazione della prestazione: se di fronte a più debitori non è possibile separare o frazionare il primo, i secondi integreranno gli estremi del vincolo solidale[99].

Si possono capire i motivi per i quali possa venire in rilievo una responsabilità solidale degli arbitri. Il lodo sarebbe l’elemento decisivo per qualificare come indivisibile la natura della prestazione che pende sugli arbitri e la formulazione del lodo non può appunto frazionarsi in parti esistenti contemporaneamente[100]. La natura indivisibile dell’obbligazione di pronunciare il lodo entro un dato termine produce notevoli effetti dal punto di vista dell’adempimento: poiché titolari di un’obbligazione soggettivamente complessa, gli arbitri andrebbero intesi quali debitori in solido[101], con il dato che se la prestazione non si può adempiere a causa di uno degli arbitri del collegio, gli altri sarebbero obbligati a corrispondere il valore della prestazione dovuta (art. 1307 c.c.)[102].

Se ci sono più debitori non accade sempre che soltanto uno di loro renda la prestazione per gli altri, perciò la complementarietà tra indivisibilità e solidarietà non è costante né omogenea[103] con la conseguenza che non sempre il carattere indivisibile della prestazione produce gli esiti della solidarietà. Tale caratteristica appare importante nella classe delle obbligazioni ad attuazione congiunta[104], ovvero quelle che vanno attuate in maniera congiunta dalla pluralità dei debitori se osservate dal lato passivo o che devono essere compiute congiuntamente verso la molteplicità dei creditori se osservate dal lato attivo del rapporto[105].

Nelle obbligazioni ad attuazione congiunta la pluralità dei debitori o dei creditori ha valore come collettività però non è un insieme precostituito per un obiettivo differente dall’adempiere l’obbligazione ma un insieme occasionale formato all’unico fine di eseguire la prestazione[106].

Quando si parla di obbligazioni ad attuazione congiunta si è in presenza oltre che di più soggetti che partecipano alla formazione del lato attivo o passivo del rapporto (o entrambi), di altre due componenti: i) l’eadem res debita (o idem debitum), cioè l’unicità della prestazione che soddisfi l’interesse creditorio, e ii) la eadem causa obligandi, ovvero l’esistenza di un’unica fonte del rapporto obbligatorio[107].

Applicando tali osservazioni alla prestazione che grava sugli arbitri consegue che la pronuncia del lodo è obbligazione del collegio arbitrale in cui si disperdono i singoli arbitri.

Il fatto che sia impossibile rendere la decisione con la quale risolvere la controversia malgrado sia ascrivibile alla condotta di uno solo degli arbitri non esonera gli altri membri del collegio arbitrale da responsabilità: il vigore del vincolo obbligatorio che discende dal contratto di arbitrato rendendo l’inadempimento imputabile al “gruppo” rimanda all’applicazione dell’art. 1307 c.c.[108].

Nondimeno avvicinare le obbligazioni ad attuazione congiunta alla disciplina della solidarietà può lasciare perplessi[109] perché prevedere una responsabilità che attraversi tutti i soggetti per un fatto che si può manifestamente imputare al singolo debitore pare confermare la natura collegiale di coloro che compongono l’organo arbitrale. Il concetto che al collegio arbitrale sia attribuito dalla legge la valenza di soggetto di diritto provvisto di rilevanza autonoma rispetto a cui i singoli arbitri si sciolgono nella nuova persona giuridica non è convincente.

La questione principale è il concetto di solidarietà che viene dalla coppia obbligazioni ad attuazione congiunta-disciplina della solidarietà: come segnalato dalla dottrina l’opinione per cui la presenza di più debitori, eadem res debita e eadem causa obligandi, produca automaticamente il vincolo solidale appare riduttiva[110].

Il nucleo della solidarietà starebbe altrove perché la struttura dell’obbligazione solidale presenta quale elemento necessario e sufficiente l’equivalenza delle prestazioni[111] ed ai fini dell’esistenza di un’obbligazione solidale la base sarebbe il concetto di “medesima prestazione”. È dunque la sostituibilità delle prestazioni alle quali una pluralità di debitori è tenuta o meglio il fatto che siano idonee a essere fornite da un solo debitore per tutti che giustifica il sussistere del vincolo solidale[112].

Secondo l’art. 1294 c.c. ciò che conta non è la condizione di condebito quanto piuttosto l’efficacia estintiva generale dell’adempimento di soltanto uno dei debitori[113].

Per questo si potrebbe escludere la presenza del vincolo solidale nelle obbligazioni indivisibili ad attuazione congiunta posto che si tratta di obbligazioni mancanti del tratto di fungibilità tra le prestazioni dei singoli debitori.

6.Segue: l’arbitro e la responsabilità

Come detto non si può ritenere che la pluralità di debitori-arbitri sia provvista di piena soggettività giuridica poiché nella fattispecie “contratto di arbitrato” trattandosi di negozio con parti complesse non si costituisce un unico rapporto giuridico ascrivibile a un solo centro di interessi ma tanti rapporti giuridici quanti sono i componenti che formano la parte complessa.

Questa ricostruzione è applicabile anche alla fattispecie delle obbligazioni indivisibili ad attuazione congiunta.

Centro d’imputazione dell’agire sono i debitori e ognuno di essi deve rispettare una certa condotta qualificata. Al centro del rapporto obbligatorio vi è una molteplicità di soggetti[114] assieme ad altrettanti vincoli che provengono dalla conclusione di più contratti di arbitrato[115] e la costituzione in collegio non dissolve quindi gli obblighi dei singoli arbitri[116], atteso che ai sensi dell’art. 813-ter, ultimo comma, c.p.c., costoro rimangono responsabili “per il fatto proprio”[117].

È per questo che si prevede l’inapplicabilità dell’art. 1307 c.c. il quale in deroga al principio generale normato dall’art. 1256 c.c. esprime in via d’eccezione una norma esplicitamente predisposta nei confronti di debitori uniti da un vincolo di solidarietà. È soltanto tale specifica configurazione del rapporto obbligatorio che autorizza il risarcimento da parte degli altri soggetti obbligati[118].

Se la pronuncia del lodo entro un determinato termine diventa una prestazione impossibile da adempiere per fatto di un arbitro, gli altri arbitri non potrebbero ritenersi corresponsabili, pertanto vista l’inapplicabilità della disciplina della solidarietà riaffiora il principio ordinario proprio di qualsiasi rapporto obbligatorio: l’impossibilità che non sia imputabile estingue la prestazione[119].

Queste osservazioni spiegano la decisione di prevedere all’art. 813-ter c.p.c. una norma che oltre a includere la formula “responsabilità per fatto proprio” mentre indica le ipotesi di responsabilità declina al singolare la persona dell’arbitro[120]. Responsabile “dei danni cagionati alle parti” (primo comma) è il singolo arbitro e l’obbligo pertiene all’arbitro non al gruppo e ciascun membro del collegio è un individuo chiamato a tenere il dovuto comportamento.

La legge delega 14 maggio 2005, n. 80[121], da cui nasce vita il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, all’art. 1, terzo comma, lett. b), includeva tra i propri scopi quello di stabilire una disciplina unitaria e completa della responsabilità degli arbitri, anche tipizzando le relative fattispecie[122]. La disciplina contenuta nell’art. 813-ter c.p.c., pur assimilando certe riflessioni emerse in dottrina pare aver concluso il dibattito precedente sulla tassatività o meno delle ipotesi di responsabilità degli arbitri[123], laddove il legislatore ha chiarito e definito i confini della responsabilità sterilizzando ogni confronto sulla questione del carattere esclusivo della norma[124]. Per il vigente quadro normativo il solo parametro mediante il quale compiere una verifica e valutazione del comportamento degli arbitri è la disciplina tipica presente nel codice di procedura civile[125].

E’noto che gli arbitri sono obbligati alla pronuncia del lodo entro un certo termine e tuttavia occorre precisare che l’art. 813-ter c.p.c. inquadra due ipotesi di responsabilità richiamando quindi la disciplina precedente[126]: l’una decreta chiaramente che è responsabile l’arbitro che ometta o impedisca la decisione nel termine (primo comma, n. 2) mentre l’altra punisce il giudice privato che senza motivo rinunci o sia colpevole di omissione o ritardo nell’adempiere il suo incarico (primo comma, n. 1). Circa la rinuncia all’incarico si sostiene che il recesso ingiustificato è inammissibile, poiché ostacolerebbe il raggiungimento della decisione della controversia[127], specificando infine che in base alle regole sulla distribuzione dell’onere della prova, in un eventuale giudizio chiesto dalle parti contro l’arbitro che ha rinunciato all’incarico incombe su quest’ultimo l’onere di dimostrare che il suo comportamento era legittimo[128].

La portata degli obblighi degli arbitri si comprende analizzando anche gli artt. 820 e 821 c.p.c.: entrambe le norme riguardano il termine entro cui va pronunciato il lodo [129], termine non essenziale[130] del quale le parti possono disporre poiché il ritardo nel pronunciare il lodo diventa rilevante soltanto se eccepito in anticipo rispetto alla deliberazione del collegio. L’art. 820 c.p.c. garantisce che il termine per la pronuncia della decisione della controversia ha natura disponibile mentre meno pacifica è la lettura dell’art. 821 c.p.c. che concorre nella definizione del concetto di lodo.

Il lodo (che potrebbe qualificarsi di natura unitaria e omogenea) è l’atto che contiene gli elementi previsti dall’art. 823 c.p.c.[131] e ne deriva che entro la scadenza non basta pervenire a un generico accordo che sia poi tradotto nella stesura di un semplice dispositivo ma è essenziale raggiungere un chiaro convincimento che si traduca in una decisione adeguatamente motivata[132].

Inquadrando le ipotesi di responsabilità l’art. 813-ter c.p.c. non fa riferimento soltanto ai fatti che causano l’inadempimento ma anche al livello di diligenza che ci si aspetta dagli arbitri, in altri termini allo stato soggettivo e psicologico in base al quale valutare il contegno dei membri del collegio. La loro responsabilità infatti è sempre e comunque subordinata al requisito del dolo o della colpa grave che si tratti del ritardo nel compiere gli atti dovuti o dell’impedimento alla produzione del lodo[133]. La norma, offrendo queste spiegazioni sull’aspetto soggettivo del contegno arbitrale illustra più chiaramente la figura di responsabilità di cui al secondo comma: la disposizione recita che fuori dai precedenti casi, gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti dall’art. 2, commi 2 e 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117, che è disciplina circa la responsabilità dei magistrati. Il secondo comma dell’art. 2 della legge n. 117/1988 spiega che nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

Questa clausola di esenzione garantisce la serenità di giudizio fondamentale per chiunque eserciti tale funzione sul piano privatistico o strettamente giurisdizionale[134], ed il terzo comma prevede che costituiscono colpa grave: i) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; ii) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; iii) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; iv) l’emissione di provvedimento concernente la libertà di persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Rimandare alla disciplina che si occupa della responsabilità dei magistrati pare risolvere il problema dell’esistenza o meno per l’arbitro di un obbligo di ben giudicare [135], ossia  se egli debba rispondere della correttezza del lodo[136], impressione che è autorizzata dal fatto che la norma da una parte chiarisce il concetto di colpa grave modellandolo sulla peculiare attività del giudicare e, dall’altra, nega la responsabilità nell’interpretazione di norme di diritto o valutazione di fatti e prove.

Le previsioni al terzo e al quarto comma dell’art. 813-ter, c.p.c. intendono disciplinare l’esercizio dell’azione di responsabilità affinché questa non sia adoperata per scopi distorti o strumentali come illecite tecniche di pressione sugli arbitri[137]. Da tali premesse proviene l’idea per cui può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale un’azione fondata soltanto sull’avvenuta decadenza dell’arbitro o su una rinuncia considerata immotivata[138]. In ogni altro caso l’azione di responsabilità si può proporre solo dopo che l’impugnazione sia stata accolta ed esclusivamente per i motivi per i quali è stata accolta[139]. In altri termini, affinché possa sorgere questione sulla responsabilità è necessario che il lodo sia stato impugnato con successo e per quelle medesime ragioni che costituiscono l’asserita responsabilità degli arbitri [140], ed in ogni caso è indispensabile inoltre che la sentenza sia passata in giudicato[141].

 

7.L’arbitrato e le figure analoghe

La libertà di contrarre in materia di arbitrato si estende ad altre figure che il nostro ordinamento disciplina e che vanno distinte dal contratto di arbitrato, posto che l’arbitrato è figura negoziale che si sostiene su rapporti giuridici perfetti – gli elementi dei quali si perfezionano con il derivante manifestarsi di diritti ed obblighi – la cui cognizione è affidata gli arbitri e ha ad oggetto controversie giuridiche[142].

Tra questi si annovera il contratto di arbitraggio[143] che invece si fonda su rapporti giuridici imperfetti perché privi di un elemento costitutivo che l’art. 1349 c.c. riconosce nell’oggetto del contratto lasciato in via eccezionale alla determinazione dell’arbitratore, ovvero come tradizionalmente si dice riguardano una controversia economica[144]. L’attività devoluta al terzo è assai differente nelle due ipotesi e solo nella prima coincide con una cognizione su diritti ed obblighi, con l’applicazione di norme giuridiche siano esse di diritto o di equità, al cui esito vengono nominati un soccombente e un vincitore[145].

Dunque l’arbitraggio è visto solo come strumento di integrazione della volontà contrattuale lasciata incompleta di contraenti, e ciò è ragionevolmente confermato appunto dall’art. 1349 c.c. che prevede l’arbitraggio quale figura generale, collocandolo quale fenomeno che si esplica nel perimetro della integrazione della volontà contrattuale lasciata lacunosa o comunque indeterminata dalle parti, con la conseguenza che l’arbitratore partecipa pur sempre alla formazione del rapporto contrattuale, ossia alla specificazione del diritto sostanziale.

Per ciò che concerne la natura giuridica della valutazione dell’arbitratore la dottrina oscilla tra diversi orientamenti.

Stando a una prima corrente di pensiero[146] la dichiarazione del terzo nell’arbitraggio deve essere qualificata quale negozio giuridico perché l’arbitratore mentre completa il contenuto negoziale di un contratto inter alios con la determinazione dell’elemento che i contraenti hanno lasciato non definito, fa venire alla luce un nuovo negozio giuridico che avrà carattere ausiliario o solutivo rispetto al negozio che contiene la relatio e natura costitutiva per gli effetti che causa nella sfera giuridica altrui.

Secondo altro indirizzo sarebbe un atto non negoziale non essendo inquadrabile come espressione del potere di autoregolarsi e quindi esterno alla sfera dell’autonomia privata con la conseguenza che la determinazione del terzo sarebbe così un tipico atto giuridico ossia un atto giuridico avente ad oggetto la determinazione di un altrui contratto[147]. Non avrebbe natura negoziale perché l’arbitratore non manifesta una volontà negoziale circa la costituzione, estinzione o modifica di un rapporto giuridico ma si limita a definire l’elemento di un contratto altrui.

Da ciò consegue che se l’arbitrato fa parte del diritto processuale perché coincide con una cognizione su diritti che nascono da rapporti perfetti attraverso l’applicazione di regole giuridiche oggettive di stretto diritto ed equità, l’arbitraggio fa parte del diritto sostanziale[148] ed è un efficace strumento con il quale esplicitare l’oggetto di un contratto rimasto inespresso a cui l’arbitratore può arrivare anche se autorizzato con il suo mero arbitrio, stante il solo limite della malafede (art. 1349, secondo comma, c.c.).

In conclusione nell’attuale diritto positivo l’arbitraggio è un fenomeno sostanziale individuabile secondo un peculiare profilo funzionale consistente nella cooperazione tra le parti ed un terzo nella formazione dei rapporti contrattuali, fenomeno che per tale effetto ha sempre una valenza costitutiva di integrazione o comunque completamento dei rapporti aventi fonte in un contratto[149].

Parimenti, se l’arbitrato non è assimilabile all’arbitraggio, neppure lo è la cosiddetta perizia contrattuale [150] che può definirsi come la convenzione con cui le parti domandano a un privato in ragione della sua competenza tecnica di accertare un fatto senza esercitare un potere discrezionale: la sua attività non è libera ma condizionata dal rispetto delle norme tecniche che deve applicare. Insomma non si richiede un parere o una decisione ma un accertamento di fatto che le parti decidono anticipatamente di accettare[151]. Parte della dottrina riconosce un rilievo autonomo alla perizia contrattuale rispetto alle figure contigue che condividono con essa un incarico a un terzo assegnato da parti contrapposte[152]. Tale autonomia è lampante quando al terzo viene chiesto di fornire alle parti dati tecnici non per legarsi a tale dictum e assumerlo come contenuto della loro volontà negoziale ma soltanto a livello consultivo con la possibilità di valutarlo in libertà e anche di disattenderlo.

Non di meno l’arbitraggio non può spiegare la perizia contrattuale perché la verità è che la volontà che le parti esprimono in un patto per perizia contrattuale non corrisponde a ciò che essi vogliono che venga affidato ad un arbitratore, atteso poi che la perizia contrattuale ha una funzione diversa dall’arbitraggio.

Per vero, i privati quando stipulano un patto per perizia contrattuale non hanno interesse a strutturare ulteriormente un rapporto sostanziale in via di formazione, ma vogliono che il perito risolva in modo vincolante una questione di particolare tecnicismo, che riguarda un rapporto giuridico che già esiste.

Altrimenti detto se l’arbitraggio è sostanzialmente cooperazione tra le parti e terzo nella formazione di un rapporto giuridico contrattuale, diversamente in ipotesi di patto per perizia contrattuale – che non necessariamente deve accedere ad un contratto – le parti vogliono l’accertamento di un essere e non piuttosto di un dover essere.

Di talché confermandosi l’evidente affrancamento dall’istituto dell’arbitrato, in tale direzione le parti fanno una scelta sul piano della tutela dei rapporti preesistenti escludendo la via ordinaria della giurisdizione pubblica in favore della tutela arbitrale privata con la differenza che in tali casi esse richiedono l’accertamento non dell’intero rapporto controverso ma di una questione per questo rilevante, con ciò potendosi affermare che mentre l’arbitratore partecipa alla formazione della norma, il perito contrattuale partecipa invece all’accertamento della sua violazione, ed in tal senso la perizia contrattuale costituisce ragionevolmente l’unica tappa nella via della tutela dei diritti, laddove al contrario il responso dell’arbitratore rappresenta un punto di arrivo di una normazione negoziale che si svolge in cooperazione tra i contraenti ed un terzo.

E tuttavia, la perizia contrattuale che si può ancora chiamare contrattuale per il fatto che essa affonda le sue radici in un contratto è un fenomeno non sostanziale ma processuale[153], che però non si sostanzia in un fenomeno probatorio ma un fenomeno arbitrale, ovvero un arbitrato sulla questione presentandosi quale fenomeno piuttosto processuale alla stregua di un arbitrato rituale ad oggetto limitato.

Ciò porta poi a distinguerlo dall’arbitrato irrituale poiché nella perizia contrattuale si svolge una attività di accertamento – dunque un arbitrato su questione – che non è una attività ontologicamente diversa da quella compiuta dal giudice statale laddove la differenza consiste nel fatto che con la perizia contrattuale le parti vogliono un accertamento non dell’interro rapporto ma di un minus, ossia un certo elemento della controversia –  id est : il vero punto della lite – che laddove poi il perito neghi la sussistenza dei presupposti della pretesa giuridica demandata al suo accertamento, essa esaurisce l’intera materia del contendere allo stesso modo di un normale arbitrato[154].

La qualificazione giuridica della perizia contrattuale diventa problematica se, già quando l’incarico è conferito al terzo-perito, le parti sono d’accordo sulla vincolatività del suo responso impegnandosi ad accettarne le conclusioni[155], perché nel caso della perizia contrattuale l’attività dell’esperto sarebbe limitata a una indagine meramente tecnica di cui non fanno parte quelle determinazioni volitive e discrezionali peculiari sia dell’attività degli arbitri che di quella degli arbitratori[156].

In tale direzione la perizia contrattuale è un arbitrato rituale il cui oggetto è più circoscritto rispetto al petitum del processo arbitrale a contenuto dichiarativo, e in ciò deriva la possibilità di spiegare la duplice serie di effetti che la perizia contrattuale esplica a livello dell’ordinamento statale ossia l’effetto impediente derivante immediatamente dal patto fondativo e l’effetto vincolante della perizia compiuta.

 

8.Il mandato, la prestazione d’opera intellettuale: la tipicità dell’arbitrato

Se la relazione tra parti e arbitri ha la natura di un contratto occorre individuare la qualificazione e stabilita la disciplina da applicare. A riguardo, il pensiero della dottrina ha maturato più di una ipotesi: secondo una prima corrente il rapporto integrerebbe gli estremi di un contratto di mandato[157],  per altri la relazione parti-arbitri dovrebbe qualificarsi quale locatio operis[158] ma l’esegesi prevalente preferisce tuttavia affermare la tipicità del contratto[159].

È difficile ricondurre il rapporto tra parti e arbitri nello schema tipico del mandato e ciò intanto per la diversità della natura del compito posto che il mandatario compie negozi giuridici mentre gli arbitri devono svolgere un’attività complessa che tende alla risoluzione di una controversia[160]. Gli arbitri esprimono una prestazione composita che termina con l’emanazione di un atto giuridico non negoziale – il lodo – dopo una sequenza di atti procedimentali e di inevitabili operazioni intellettuali[161].

Inoltre nel rapporto tra parti ed arbitri non si rintracciano i segni propri del rapporto di gestione perché gli arbitri non svolgono un’attività di collaborazione che mira a soddisfare gli interessi dei litiganti, né tanto meno svolgono una cooperazione sostitutiva dell’attività di coloro che hanno conferito l’incarico allo scopo di concludere negozi giuridici con i terzi ma sono investiti di una funzione e di un ruolo che acquista rilievo soltanto nei rapporti interni con le parti stesse[162].

In altre parole l’arbitro non coadiuva il committente ma si obbliga a offrirgli la base logica di una decisione, ovvero il contenuto materiale di un comando[163]. Potrebbe cogliersi infine un altro elemento che impedisce la qualificazione giuridica in termini di mandato del rapporto tra parti e arbitri: se il mandatario subentra al mandante nel compiere un’attività che il gerito potrebbe svolgere da sé agli arbitri viene invece affidato un incarico che le parti non possono svolgere da sé: la decisione della controversia.

In contrasto con la teoria del mandato vi è chi qualifica il rapporto parti-arbitri in termini di contratto di prestazione d’opera intellettuale[164] nel senso che il professionista accetta di compiere una certa opera e pertanto nel contratto di prestazione d’opera intellettuale ciò che conta è la condotta del debitore, vero oggetto del contratto e dell’obbligazione[165]. La prevalenza del comportamento sul risultato rappresenterebbe l’aspetto tipico dell’obbligazione che pende sugli arbitri[166] e nell’ottica dell’adempimento diventa decisiva non la correttezza della decisione assunta dai componenti del collegio ma il fatto che con lo svolgersi delle fasi procedimentali si giunga alla formulazione del lodo[167]. Il rapporto tra la risoluzione della controversia compiuta dall’arbitro e l’attività intellettuale del professionista viene interpretato come di species a genus: l’attività dell’arbitro è intesa come un elemento del più ampio insieme prestazione d’opera intellettuale[168] e la giustezza di tale interpretazione si basa sul bisogno di appurare se l’incarico svolto dall’arbitro includa tutti gli elementi della locatio operis, e se sì, se contenga ulteriori profili.

Due sono gli elementi fondanti dell’attività del prestatore d’opera intellettuale: l’uno ha carattere soggettivo poiché l’obbligazione va adempiuta da un professionista (art. 2229 c.c.), mentre l’altro ha natura oggettiva visto che la prestazione è qualificata come discrezionale ed infungibile (art. 2231 c.c.)[169]. Circa il primo profilo si nota la differenza con la disciplina dell’arbitrato perché il codice di procedura civile non fissa requisiti soggettivi per gli arbitri e non pretende l’elemento della professionalità da coloro che possono ricoprire l’ufficio arbitrale. È diverso anche l’oggetto della prestazione: è pacifico che risolvere una controversia sia tutt’altro che fornire una prestazione intellettuale. Non si rintraccia per esempio nell’attività dell’arbitro il tratto dell’infungibilità[170], elemento invece determinante[171] del contratto di prestazione d’opera intellettuale dove la persona del professionista appare insostituibile[172]. Per di più nella disciplina dell’arbitrato si desume che la terzietà e l’indipendenza rispetto alle parti sono requisiti obbligatori per gli arbitri che in alcun modo possono difendere gli interessi di uno dei litiganti laddove il prestatore d’opera ha sempre un qualche legame di dipendenza dal committente che può dargli ordini e istruzioni quando invece gli arbitri non possono ricevere direttive su come decidere la controversia[173].

Gli sforzi dottrinali di qualificare il contratto di arbitrato con le figure del mandato o della locatio operis sono risultati insoddisfacenti[174] siccome caratterizzati dalla certezza che ciascuna fattispecie si possa ricondurre agli schemi accolti dal codice civile, oltre che da un’ineliminabile urgenza di classificazione che non di rado si rivela esiziale rispetto alle esigenze dell’interprete[175]. Per questo la dottrina più recente ha insistito sulla speciale natura della prestazione degli arbitri individuando la “tipicità” di tale prestazione[176].

Il negozio che le parti concludono con gli arbitri vanterebbe una sua tipicità sostanziale rinvenibile nelle norme del codice di procedura civile (in particolare dagli artt. 813, 814, 826 n. 4 c.p.c.) che stabiliscono lo svolgimento e l’attuazione del giudizio arbitrale[177] e dalla tipicità del contratto di arbitrato discende l’autonomia di questa fattispecie nonché l’impossibilità di circoscriverla nei confini di altre figure presenti nel codice civile[178].

Elementi della fattispecie “contratto di arbitrato” sono pertanto i) l’accordo tra le parti per affidare a giudici privati la soluzione della controversia; ii) la nomina dei soggetti che dovranno formulare la decisione; iii) la precisazione dei termini della lite, e questi fondamenti costituiscono le premesse perché si producano certe conseguenze giuridiche[179].

La dottrina[180] riepiloga lo svolgersi della vita giuridica avvalendosi del modello triadico “situazione iniziale, azione, situazione finale”. Accostando tale schema alla fattispecie arbitrale si perviene ai seguenti risultati: la situazione iniziale presume un accordo tra le parti per devolvere la controversia alla cognizione di giudici privati; la situazione finale (o effetto tipico del contratto di arbitrato) sta nel designare le persone (arbitri) che decideranno la controversia; il termine medio (rectius: azione) è il contratto di arbitrato che indirizza l’effetto verso tali arbitri e verso quella lite[181] stabilendo quindi i termini per i quali l’effetto è promosso a concreta e storica realtà[182].

Va aggiunto poi che in generale il negozio giuridico fissa i termini della situazione iniziale tramite il proprio oggetto.

Difatti per il maggiore orientamento[183] l’oggetto del negozio risulta in una descrizione – nel raffigurare il termine esterno – che le parti segnalano come punto d’incidenza dell’effetto. L’oggetto della dichiarazione negoziale è il contenuto, cioè il totale delle clausole concordate dalle parti[184] che determinano il sostrato materiale su cui ricadrà la conseguenza giuridica[185].

Oggetto del contratto di arbitrato è quell’insieme di clausole che indica il nome degli arbitri e le pretese in contestazione[186].

Potrebbe dunque concludersi che la tipicità del contratto di arbitrato sia frutto di due elementi: i) la disciplina, senza una definizione del fenomeno regolamentato, fornita dal legislatore; ii) e l’attività dell’interprete che, con una ridotta rielaborazione, produce la definizione del fenomeno stesso[187]. È la tipicità del contratto di arbitrato che rende irrealizzabile l’accostamento con altre fattispecie contrattuali tipiche, per cui la disciplina del fatto “contratto di arbitrato” si ricava combinando le norme tipiche e le disposizioni relative alla figura del contratto in generale[188].

9.La collegialità degli arbitri

Si sostiene[189] che la posizione secondo la quale nella formazione del contratto di arbitrato sarebbe decisivo il momento in cui il collegio viene costituito si fonderebbe sull’assunto che l’organo collegiale sia soggetto differente dai suoi singoli membri, ossia nuova persona o soggetto di diritto[190] che si colloca su un altro piano da quello di coloro che lo compongono.

L’idea di collegialità è stata indicata come la preposizione di una pluralità di persone fisiche che hanno ricevuto un’investitura a comporre un’unità organizzativa che è il collegium e sono in essa incardinate[191]. Per tale concezione, la dottrina data la problematicità di trovare una spiegazione su come in un organo collegiale le volizioni della maggioranza condizionino la minoranza ha parlato di personificazione del collegio che non sarebbe un gruppo di soggetti tenuti a collaborare coralmente ma una “persona” di per sé riconosciuta e alla quale l’ordinamento riconosce rilievo[192]. L’indirizzo della personificazione del collegio ha anche sfiorato la questione dell’imputazione dell’atto collegiale: le dichiarazioni di ogni membro appaiono come gli elementi di fatto che partecipano alla formazione della fattispecie e non possono acquisire autonoma rilevanza prescindendo da essa[193].

Se l’organo collegiale rappresenta un unico soggetto unica sarà la volontà da cui esso emana la cui espressione deve rispettare certe regole procedimentali[194].

Ciò detto la coppia collegio-soggetto personificato non è stata accolta in maniera unanime perché non pare ragionevole circoscrivere la sfera di applicazione del metodo collegiale ai confini delle sole collettività personificate[195].

Il procedimento collegiale sembra lo strumento con il quale il legislatore ha regolamentato il fenomeno della complessità soggettiva e la collegialità viene infatti in rilievo sia con collettività non personificate nonché quando l’organo è considerato soggetto di diritto dalla legge[196]. La sostanza del fenomeno collegiale non sta nei soggetti ma nel prodotto dell’attività comune, quindi la disamina deve concentrarsi sull’atto collegiale e non sul collegio [197]: l’atto esprime una decisione presa con il concorso di più volontà le quali non devono obbligatoriamente sciogliersi in un unico atto ma possono conservare la loro autonomia[198].

Date tali premesse, per alcuni[199] la collegialità è un modo d’essere dell’atto: sono le norme di organizzazione che proteggono la minoranza non il gruppo che si condensa in soggetto. Regola d’organizzazione basilare è il principio maggioritario con cui si perviene alla decisione malgrado l’eventuale disaccordo di certi componenti del gruppo e gli atti dei singoli restano tali e non si dissolvono nell’atto collegiale che va imputato a tutti salva la possibilità di registrare il dissenso di alcuni membri[200].

Aderendo a tale interpretazione la dottrina ha chiarito le ragioni alla base della disciplina dell’art. 823 c.p.c. riconoscendola come norma di organizzazione che integra il procedimento della collegialità fissando le regole per pronunciare il lodo[201]. Tale disposizione afferma che il lodo venga deliberato a maggioranza di voti con la partecipazione di tutti gli arbitri (primo comma) e che la sottoscrizione della maggioranza degli arbitri è sufficiente se accompagnata dalla dichiarazione che esso è stato deliberato alla presenza di tutti e che gli altri non hanno potuto o voluto sottoscriverlo (secondo comma, n. 7). Analizzando la norma sovvengono un paio di osservazioni: da una parte, essa trova un criterio di organizzazione della volontà comune nel principio maggioritario; dall’altra, garantisce rilevanza all’opinione della minoranza la quale può essere riprodotta in maniera puntuale nel lodo. In tal caso non viene creato un soggetto di diritto poiché il collegio arbitrale non è distinguibile dai suoi membri le cui manifestazioni di volontà mantengono la loro importanza anche dopo che il lodo è pronunciato [202].

Compito degli arbitri è formare un atto complesso[203] senza che venga alla luce un nuovo soggetto di diritto e ciò che conta, dunque, è solo organizzare la collettività. A ogni singolo arbitro si possono ricondurre diritti ed obblighi ben distinti e ciascuno è titolare di situazioni giuridiche soggettive potendosi concludere che l’insieme degli arbitri non rappresenta un’unica parte del contratto di arbitrato[204].

10.Segue: la soggettività complessa

Nella dottrina tradizionale[205] il concetto di “parte” del contratto risiede nell’idea di centro di interessi: non importa quanti sono i soggetti contraenti ma piuttosto gli interessi che trovano composizione nel negozio atteso che la parte pertanto resta unica anche se racchiude più persone.

Sul tema della parte soggettivamente complessa si è sostenuto che nel concetto di parte si concentrano più soggetti aventi lo stesso interesse[206], e ciò nel senso che la parte complessa contempla così un profilo interno e uno esterno dove nel primo acquistano rilievo le sorti dei soggetti componenti la parte mentre nel secondo la volontà espressa complessivamente dal centro di interessi[207].

Se si applicano tali ragionamenti al contratto di arbitrato si determinano due autonomi centri di interesse nelle parti compromettenti e negli arbitri e si hanno due “parti” che stipulano un contratto bilaterale o, per meglio dire, un incarico conferito congiuntamente dalle parti agli arbitri collettivamente[208].

Nondimeno, stando a una differente visione del concetto di parte il valore dell’interesse sarebbe solo marginale e non certo essendo un elemento che giace all’esterno della struttura del negozio concluso tra più persone. Le varie dichiarazioni di volontà non si sciolgono e si mescolano fino a diventare una: esse rimangono individuali ed autonome[209] e ciascuna dichiarazione si può ricondurre e imputare al soggetto da cui proviene[210]. Non si sente pertanto il bisogno di dare vita a un centro autonomo di interessi in cui si concentrano le molteplici manifestazioni di volontà dei soggetti, dovendosi piuttosto parlare di un fastello di più dichiarazioni che in parallelo mantengono una rilevanza giuridica autonoma[211].

Soltanto nelle fattispecie che mostrano le ragioni che spingono più persone ad uniformi manifestazioni di volontà si potrebbe parlare di centro autonomo d’imputazione (ad esempio come nel caso dell’art. 1726 c.c.: nel mandato collettivo la revoca è efficace solo qualora sia fatta da tutti i mandanti).

Merita quindi un approfondimento la questione della parte soggettivamente complessa sia per le vicende di proposta e accettazione dai singoli membri della parte sia per il momento conclusivo del negozio.  Sul punto è possibile indicare due orientamenti, laddove per la prima tesi il momento conclusivo collima con la conoscenza dell’accettazione da parte di tutti gli incaricati e non solo del proponente [212], mentre secondo una diversa ricostruzione bisognerebbe partire da una distinzione: una cosa è concludere che necessariamente coincide con la conoscenza dell’ultima accettazione, altra è costituita dalle vicende delle singole accettazioni che a mano a mano incontrano la proposta. Quando intervengono la proposta e l’accettazione, il proponente può legittimamente confidare una volta per tutte nell’accettazione ricevuta così come l’accettante può legittimamente confidare nella proposta[213].

Se si allarga tale indirizzo ai contratti con parti soggettivamente complesse è ragionevole affermare che la proposta e l’accettazione dei membri della parte sono soggette alla disciplina di cui all’art. 1328 c.c.[214] e non emergerebbe dunque una revocabilità unilaterale trattandosi piuttosto di un sistema che considera ciascuna manifestazione di volontà[215].

Nondimeno merita di essere approfondita l’ipotesi della pluralità di dichiarazioni che si concentra intorno a un unico contratto: in questo caso non vi sarebbe un insieme di fatti costitutivi ma un unico fatto complesso. Il criterio alla base di questa unicità sarebbe l’unicità del testo[216] e l’identità delle dichiarazioni pur non negando la loro autonomia spinge a optare per la singolarità del fatto costitutivo[217]. Non solo: dalla pluralità delle dichiarazioni può ricavarsi una molteplicità di fatti costitutivi dai quali originerebbero più rapporti[218]. In base a tale impostazione si può affermare che a prescindere dall’identità del testo l’autonomia delle dichiarazioni è sorgente di più contratti, ciascuno distinto e indipendente, con la conseguenza che dall’intersecarsi di più dichiarazioni proviene una molteplicità di negozi: più contratti distinti e non uno contrassegnato da una molteplicità di dichiarazioni e unico testo[219].

Dacché si potrebbe sostenere che i litiganti e gli arbitri siano classificabili come due parti soggettivamente complesse: però in questo caso il legislatore non individua l’interesse comune ma prevede un’azione corale dei componenti delle singole parti il cui agire è preso in considerazione singolarmente[220]. Più soggetti rappresentano i destinatari degli effetti prodotti dal contratto di arbitrato dal quale pertanto scaturiscono molteplici rapporti giuridici.

Circa il profilo strutturale della fattispecie è possibile individuare un altro corollario: nella relazione tra parti e arbitri più che di un singolo contratto di arbitrato si dovrebbe parlare di una pluralità di negozi costituiti tra ogni parte del giudizio e ciascun arbitro.

In conclusione, non un contratto di arbitrato, ma contratti di arbitrato[221].

 

11.Nomina e sostituzione degli arbitri

Gli artt. 809 e 810 c.p.c. sembrano avvalorare le conclusioni maturate sulla complessità soggettiva delle parti del contratto di arbitrato. Tali norme tutelano interessi diversi e ciò nel senso che se da un lato difendono la scelta di affidare alla competenza arbitrale la risoluzione della controversia, dall’altro fissano limiti circa la forma e le maniere di nominare gli arbitri.

 Il tema della nomina degli arbitri rende opportuno menzionare anche i principi, ritenuti di ordine pubblico, di parità delle parti nella designazione degli arbitri e quello di imparzialità dell’organo giudicante – per vero esaminato infra affrontando il tema della disclosure – ed in tale direzione la storia ha evidenziato il crescente bisogno della società di affidarsi ad un soggetto terzo per dirimere le controversie. L’importanza ai fini del soddisfacimento delle esigenze sociali, dunque, non riguarda il carattere pubblico o privato del giudice, ma la sua terzietà ed equidistanza rispetto alle parti. Le peculiarità dell’equidistanza e della terzietà, infatti, non si rinvengono esclusivamente nella figura del giudice in quanto magistrato, ma anche in quella del giudice in quanto soggetto privato designato dalle parti. Quest’ultimo non è un aliquid novi proprio delle moderne società globalizzate, ma è una figura la cui origine è antica e dibattuta.

Il criterio di base nella disciplina di nomina degli arbitri è per la dottrina tradizionale quello della concorrente paritaria e libera volontà delle parti[222]. Non è accettabile quindi che la nomina dell’arbitro sia rimessa solo a uno dei contraenti ma tutti devono partecipare a questa nomina[223]: tali regole rispondono a chiari principi di ordine pubblico che impongono appunto il rispetto della parità delle parti nella partecipazione alla nomina degli arbitri.

In altre parole il procedimento di designazione degli arbitri – sia esso unico o collegiale – richiede che le parti interessate all’instaurando giudizio abbiano parità di ruolo in tale procedimento evitando situazioni in cui una parte giunga a poter individuare da sola il procedimento di nomina degli arbitri o, addirittura, l’arbitro stesso.

Tutto ciò a netto della disciplina che per legge o per regola statutaria prevede che la nomina venga disposta da un organo giudiziario (Presidente del Tribunale) o di quale ordine professionale o camerale, ma ciò che deve venire in rilievo è la condizione soggettiva delle parti quanto meno nel procedimento attivazione del meccanismo di nomina degli arbitri che non ammette situazioni di privilegio o di diversità tali da configurare uno squilibrio dei diritti e dei correlativi poteri in capo alle parti.

Come venga designato l’arbitro è operazione che gode della più ampia facoltà delle parti: stante il principio di cui all’art. 809, primo comma, c.p.c., per cui gli arbitri devono essere in numero dispari[224] i meccanismi di nomina che si realizzano in atti dal contenuto primariamente esecutivo sono vari[225] mostrando come le modalità di nomina emerse dalla prassi appaiono più efficaci di astratte disposizioni normative[226].

Dall’esame delle due norme si intuisce che i compromettenti hanno facoltà di decidere il momento in cui gli arbitri vengono nominati: tale scelta può essere prevista nella convenzione di arbitrato (art. 809, secondo comma, c.p.c.) o rinviata a un altro momento. Se i litiganti optano per una designazione successiva, il legislatore ha previsto due strade: l’una, nel caso che la convenzione riservi in ogni caso la nomina alle parti (art. 810, primo comma, c.p.c.) e l’altra che assicuri il raggiungimento della costituzione del collegio se una delle parti non rispetta il metodo di designazione deciso con l’altra parte (art. 810, secondo comma, c.p.c.)[227].

La disciplina dell’art. 810, primo comma, c.p.c., affidando a ciascuna parte la designazione del “proprio” arbitro (meglio l’espressione arbitro di fiducia) solleva sia il problema di definire l’efficacia di ciascuna accettazione che di stabilire momento in cui il contratto di arbitrato si perfeziona[228]. Per affrontare questi quesiti occorre ripartire dalle riflessioni sulla questione della parte soggettivamente complessa.

Le dichiarazioni di ogni membro hanno autonoma rilevanza perché in astratto sono idonee a produrre effetti giuridici e non è necessario distinguere la conclusione del contratto con il singolo arbitro dalla formazione dell’intero collegio, né di riconoscere rilevanza meramente interna all’accettazione del singolo giudice. Gli atti di natura prenegoziale che sussistono tra la parte ed il “suo” arbitro sono regolati dall’art. 1328 c.c.: l’accettazione è volta a costituire il vincolo e a concludere perciò il contratto, mentre il singolo contratto si conclude quando il proponente viene a conoscenza che l’arbitro ha accettato la proposta di nomina e pertanto la dichiarazione di un arbitro produce il legame con uno dei litiganti e da quell’istante il proponente e l’accettante confidano che il vincolo sia indissolubile. In seguito solo un accordo tra la parte e l’arbitro prima che il contratto si perfezioni potrebbe sciogliere il vincolo[229].

In caso si verifichino mancanze nella procedura di nomina degli arbitri si applica il secondo comma dell’art. 810 c.p.c. che consente il ricorso al Presidente del Tribunale della parte adempiente che rende possibile che la convenzione arbitrale produca comunque effetti senza che una delle parti la paralizzi[230]. Tuttavia, tale attività sostitutiva non basta per concludere il contratto di arbitrato essendo destinata a compensare l’inadempienza di una delle parti rispetto all’accordo raggiunto con la parte adempiente[231].

La disciplina che invece riguarda la sostituzione degli arbitri (art. 811 c.p.c.) si fonda sull’irrilevanza soggettiva dei componenti dell’organo arbitrale[232].

Con gli artt. 810 e 811 c.p.c. il legislatore si pone l’obiettivo di tutelare la costituzione o la ricostituzione del collegio[233] proteggendo la volontà dei privati di ricorrere allo strumento arbitrale senza che l’identità degli arbitri sia indispensabile[234]. L’art. 811 c.p.c. non specifica le ipotesi o le ragioni che giustifichino la sostituzione degli arbitri[235] e l’uso della locuzione “qualsiasi motivo” comprova la volontà di salvaguardare l’operatività del giudizio privato indipendentemente dalle contingenze che ostacolino l’iter del procedimento arbitrale[236].

Non di meno principi di natura costituzionale impongono che gli arbitri designati svolgano il ruolo e la funzione alla quale vengono chiamati in assoluta imparzialità e ciò nel rispetto di quelle regole che sono cristallizzate nell’art. 111 Cost., laddove vengono appunto evidenziati tra gli altri principi costituzionali che caratterizzano il processo – quali la durata ragionevole e il c.d. giusto processo – l’obbligo della terzietà del giudice e dunque della sua imparzialità rispetto alle parti e all’oggetto della decisione.

Tale principio diventa ancora più dirimente per la disciplina dell’arbitrato e per il ruolo che assume l’arbitro, il quale è obbligato al rispetto di tali princìpi in modo ancora più pregnante e ciò per la non secondaria circostanza che egli viene nominato dalle parti quale arbitro chiamato a decidere una controversia e in ogni caso ad incidere sulla sfera giuridica dei diritti delle parti medesime.
In atri termini sia che l’arbitro venga nominato nel rispetto delle regole che individuano il procedimento relativo di nomina sia che questi vengano nominato dalle parti direttamente, l’obbligo di imparzialità e terzietà impone loro di presentarsi rispetto alle parti medesime e all’oggetto della questione controversa e rimessa alla loro decisione in una posizione di assoluto distacco e neutralità che non solo deve essere terzo ma deve soprattutto apparire come terzo.

Tutto ciò lo impone la disciplina del processo anche arbitrale – sia rituale che irrituale – e più in generale i principi di ordine pubblico che sono alla base della nostra Costituzione.

 

  1. Il (delicato) rapporto tra il patto compromissorio (o convenzione di arbitrato) e il contratto di arbitrato

A conclusione della presente indagine, l’analisi del patto compromissorio e del contratto di arbitrato esige di approfondire l’ambito e la portata del rapporto che lega tali figure negoziali nonché gli effetti giuridici – soprattutto di natura processuale – che intercorrono tra di esse.[237]

L’istituto della convenzione di arbitrato è definito dalla giurisprudenza (che riprende la nota definizione chiovendiana) come «contratto ad effetti processuali»[238], ovvero accordi di diritto processuale  di natura diversa da qualsiasi contratto bilaterale di diritti materiali[239] caratterizzandosi per una possibile duplicità di contenuto in quanto da un lato attribuisce ai contraenti (o ad uno solo di essi) il diritto (potestativo) al processo arbitrale e dall’altro, quantomeno per l’arbitrato irrituale, esprime anche un contenuto configurativo del procedimento di definizione della lite, dettando le regole del processo privato attraverso le quali l’autonomia negoziale regola “quomodo, condizioni e oggetto” dell’arbitrato – pur se nel necessario rispetto, considerata la essenziale funzione decisoria insita nell’arbitrato (che serve a risolvere liti) – di fondamentali principi costituzionali di settore (contraddittorio, difesa e terzietà). In proposito si è anche diffusamente parlato, per la convenzione arbitrale, di «contratto con comunione di scopo», ravvisandosi una «causa comune tra le parti», in quanto negozio finalizzato ad adottare un procedimento a struttura tipicamente arbitrale: difatti la convenzione arbitrale non compone direttamente il conflitto, ma predispone un mezzo per risolverlo.

In particolare come detto [cfr. infra § 3], il Chiovenda – fautore della teoria contrattuale dell’arbitrato – definisce il patto compromissorio un «contratto processuale», che ha ad oggetto «la rinuncia alla cognizione di una controversia per opera dell’autorità giudiziaria»; un contratto vincolante la cui caratteristica è quella di impedire al giudice ordinario eventualmente adito la cognizione della controversia compromessa in arbitri. Tale Autore mette in luce l’eccezionalità del primato dell’autonomia contrattuale rispetto al carattere pubblicistico della giurisdizione ed al tempo stesso sottolinea che proprio questa è l’essenza del patto compromissorio: «il fondamento della irrevocabilità del lodo rimane la volontà delle parti» con la conseguenza che la volontà delle parti diviene il criterio determinante per individuare l’ambito entro il quale l’arbitro ha cognizione. In altri termini, l’ambito di cognizione del giudice arbitrale e, quindi, l’ambito oggettivo del lodo potranno e dovranno essere definiti esclusivamente sulla base della volontà delle parti. E’stato evidenziato che quando si tratta di entrare nello specifico degli effetti del patto arbitrale, il Chiovenda sembra però fermarsi alla mera efficacia negativa, diretta cioè a costruire una eccezione di «rinuncia alla cognizione giudiziaria». In realtà «egli è consapevole che con il patto compromissorio le parti intendono accordarsi su qualcosa di altro e di più rispetto ad un mero fatto impeditivo della cognizione giudiziale, intendono cioè “sostituire” al processo davanti al giudice una figura “affine”, caratterizzata dalla “definizione di una controversia mediante un giudizio altrui”, per mezzo di un soggetto che trae i propri poteri, ancora una volta, solo ed unicamente dalla volontà delle parti. E riconosce altresì che dal compromesso sorge pure una “azione per la costituzione del giudice arbitrale, mediante nomina degli arbitri mancanti”: il che significa, in altre parole ed alla luce della evoluzione che il patto compromissorio ha subito a seguito degli interventi del legislatore, che il compromesso forma in capo alle parti il potere di incaricare un soggetto a decidere la loro controversia».

Tesi però criticata da altra dottrina che ritiene che il patto compromissorio, da un punto di vista sistematico, rientri tra gli «equivalenti giurisdizionali» [240] che condividono con il processo ordinario la funzione di composizione delle liti secondo la sua caratteristica concezione della giurisdizione. Il patto compromissorio, tra le convenzioni di tipo processuale, va annoverato più propriamente nella sotto categoria degli accordi e non dei contratti processuali, perché è caratterizzato da una causa comune fra le parti, pur in presenza di moventi personali necessariamente diversi. L’unicità direzionale della causa gli consente di affermare che il compromesso è costituito di più atti unilaterali dominati da volontà confluenti. La concezione carneluttiana verrà, poi, criticata dal Redenti[241], in quanto, pur attribuendo al compromesso contenuto processuale, lo qualifica come atto unilaterale complesso con il quale le parti concorrono, con volontà confluenti, nel sottrarre la controversia al giudice ordinario per rimetterla ad un giudice di loro scelta; cioè, come una cooperazione delle parti per raggiungere un effetto concepito e pensato come di interesse comune. Osserva, infatti, il Redenti che quando le parti vogliono uno stesso effetto, ciò avviene perché ciascuna vuole una cosa in quanto la vogliono anche le altre, secondo la classica formula «facio vel do dum facis vel das» nella quale la confluenza è una risultanza il cui fenomeno genetico è pur sempre la contrattazione come dimostra la pratica, ove anche le clausole del compromesso sono «negoziate» tra le parti.

In particolare, il Redenti, che ha posto una pietra miliare allo studio della convenzione arbitrale, solo scalfita dalle modifiche legislative e dalla successiva elaborazione dottrinale, ha definito il compromesso come contratto complesso e composito, con cui «una o più persone (parti) convengono di affidare ed affidano ad una o più altre (arbitri), che accettando lo assumono, l’incarico di decidere determinate controversie sorte tra loro», sicché il compromesso risulterebbe dal combinato concorso di distinte manifestazioni di volontà tra soggetti diversi, quasi si trattasse di un perfezionamento per fasi successive [242]. In realtà, le teorie del Redenti sono state criticate proprio nella parte in cui affermano che il patto compromissorio sarebbe la risultante di due elementi: l’incontro delle volontà delle parti di rimettere la controversia alla decisione degli arbitri, quale «accordo basilare» (di per sé inidonea a produrre l’effetto positivo della soggezione dei compromettenti alla futura pronuncia degli arbitri) e la notificazione, o comunicazione dell’accettazione degli arbitri[243]. Si è evidenziato, infatti, che i due atti debbono essere tenuti distinti (anche se in pratica possono essere simultanei ed avere un’unica dimensione formale) in quanto aventi struttura e funzione differenti: l’uno è diretto alla deroga della competenza del giudice ordinario, l’altro (il cosiddetto contratto d’arbitrato [244] ad investire i terzi, per consenso dei compromettenti, ma per volontà della legge, della potestà di decidere una controversia e dei conseguenti obblighi e diritti. Il primo è antecedente logico del giudizio arbitrale, l’altro è il mezzo di attuazione, ma senza che il conferimento dell’incarico e la accettazione, in cui esso si sostanzia, abbia alcuna influenza sulla vita del compromesso[245]. L’importanza della teoria del Redenti, nonché la base per le successive teorie negoziali, deve essere individuata nel contributo dato dall’Autore sull’indagine relativa alla natura e funzione del compromesso: egli sottopone a critica il tradizionale ricorso alla categoria del «contratto con effetti processuali», soprattutto al fine di ricondurre la convenzione arbitrale sul medesimo piano degli atti di autonomia privata che incidono sulle modalità del processo, quali il pactum de foro prorogando. Il patto compromissorio, infatti, non può definirsi contratto ad effetti processuali, nel senso che non si limita ad incidere sulla regolamentazione del processo di cognizione, modificandola, bensì, in modo assai più radicale, investe lo stesso «regime di esercizio delle azioni in senso sostanziale e le sorti delle azioni stesse» tendendo a «sostituire tutto il processo di cognizione con un fenomeno similare ma diverso»[246] .

Poi la natura del­l’interesse (munirsi o meno di un titolo esecutivo) inciderà sulla causa in concreto dello strumento prescelto (orientando verso l’adozione del modello: arbitrato rituale o irrituale). Certo come detto si è in presenza di un “contratto” ex art. 1321 c.c. in quanto lo scopo (sebbene indiretto) è quello di “regolare” un rapporto giuridico a rilievo patrimoniale e non di un cd. actus legitimus in quanto tale fattispecie negoziale tollera l’apposizione di condizioni e termini[247].

Dunque con la convenzione arbitrale le parti non dispongono immediatamente di diritti patrimoniali, non risolvendo alcun conflitto di interessi, ma “regolano il modo di definizione delle controversie”[248].  Lo stesso termine “convenzione”, utilizzato dal legislatore del 2006, evidenzia (non tanto “i profili processuali del patto” quanto) che l’accordo arbitrale non è funzionalmente diretto a regolare in via immediata i rapporti patrimoniali controversi che ne formano oggetto (non si condivide l’assunto per cui l’uso di detto sostantivo esprimerebbe la “volontà” legislativa “di conformarsi alle convenzioni internazionali, nell’ottica di una crescente armonizzazione dell’istituto[249]”). In buona sostanza lo scopo tipico e dunque la funzione del patto compromissorio è appunto quello di investire gli arbitri del potere di decidere la controversia con l’opzione, esercitata nella area della autonomia dei privati, per un ordinamento che non è quello che si concreta nei giudici[250]. La dottrina più risalente[251] rileva un’intima relazione tra contratto di arbitrato e accordo compromissorio, posto che si tratterebbe di due contratti ben distinti ma saldamente collegati, dacché si possono applicare i risultati delle indagini sul fenomeno del collegamento negoziale[252]. Seguendo questa impostazione emergono due profili problematici: da un lato, decretare qual è il criterio per distinguere se si è in presenza di più negozi; dall’altro, precisare le conseguenze di disciplina che dal collegamento negoziale derivano[253]. Per il primo profilo va tenuto conto della discussione nella dottrina tradizionale[254] circa il ruolo della volontà nel negozio giuridico: sono le parti a decidere se gli effetti prodotti da un negozio influenzano le sorti di altro negozio[255].

Per comprendere il fenomeno del collegamento negoziale va riconosciuta alla volontà umana un’efficacia se non creativa almeno direttiva degli effetti giuridici[256], per cui partendo dall’assunto per il quale la volontà è determinante degli effetti del negozio[257] si intuisce quanto sia rilevante l’indagine che ricostruisce le intenzioni dei contraenti allo scopo di fare luce sull’esistenza di un collegamento tra i negozi giuridici presi in esame.

Come osservato da qualcuno[258] non si danno negozi giuridici che sotto il profilo strutturale siano già collegati da una disposizione normativa dato che soltanto la volontà dei contraenti interferisce e provoca certi effetti.

Da ciò consegue che il collegamento è un elemento estrinseco e pertanto estraneo alla struttura dei negozi che acquisterebbe rilevanza quando le parti lo vogliono.

I successivi contributi della dottrina si sono sforzati di dirimere l’apparente nodo interpretativo.  La dottrina, da un lato, non contesta l’autonomia strutturale[259] dei singoli negozi e dall’altro, reputa indispensabile l’indagine sull’ esistenza di un assetto teleologico ed economico unitario[260].

Accompagnati da questa interpretazione, il collegamento assume un duplice rilievo[261] se si osserva il profilo della struttura o quello della volontà delle parti. Emerge così una distinzione tra collegamento genetico e funzionale e tra collegamento volontario e necessario[262].

Si parla di collegamento genetico se un negozio vincola o no la formazione di altro o di altri negozi[263], ed in tal caso l’influenza che un negozio esercita sull’altro si esaurisce nella formazione dei negozi stessi[264], mentre il collegamento è detto funzionale se l’influenza che un negozio ha sull’altro opera sullo svolgimento e sul funzionamento del rapporto che origina da questo negozio[265].

La diversità tra il collegamento genetico e quello funzionale deriva dal fatto che, nel primo caso, il collegamento opera sul negozio (fonte del rapporto) acquisendo una valenza più che altro statica, mentre nel secondo il collegamento opera sul rapporto rilevando sotto un profilo dinamico[266].

E in dottrina affiora il bisogno di distinguere le ipotesi in cui il collegamento proviene direttamente e inevitabilmente dalla legge (collegamento necessario) da quelle dove la sorgente del collegamento sta nella volontà dei contraenti (collegamento volontario)[267].

Fedele a questa distinzione una parte della dottrina[268] procede a un’ulteriore classificazione distinguendo tra negozi collegati e negozi necessariamente connessi. Ricadrebbero in quest’ultima categoria i contratti legati da un vincolo di accessorietà giuridica cioè che postulano un contratto principale che serve loro di base[269]. Perciò, dato il concetto di accessorietà giuridica la dottrina distingue tra collegamento unilaterale e collegamento bilaterale[270]. Nella prima ipotesi, la sorte di un rapporto si riflette sull’altro ma non viceversa, mentre nella seconda il destino di ogni rapporto è legato al destino dell’altro[271].

Stando a quanto emerso nel dibattito sul collegamento negoziale la relazione tra accordo compromissorio e contratto di arbitrato si può interpretare come un legame di interdipendenza funzionale e necessaria[272]. Il primo profilo si giustificherebbe rispetto al risultato pratico a cui tende il coordinamento e la combinazione dei due negozi: infatti, accordo compromissorio e contratto di arbitrato tendono al medesimo risultato cioè la conclusione del procedimento arbitrale[273]. Dunque, essendo i negozi in esame l’uno la premessa e l’altro la conseguenza[274] è possibile vedere in controluce la ragione alla base del secondo profilo qualificativo del nesso tra i negozi. A fronte dell’idea di accessorietà che emerge rispetto a un collegamento necessario si può dedurre che il contratto di arbitrato sarebbe accessorio rispetto all’accordo compromissorio.

Tuttavia percorrere questa strada interpretativa condurrebbe alla conclusione che accettare gli arbitri diviene, fatalmente, parte dell’accordo compromissorio. Si finirebbe quindi con la negazione dell’autonomia da attribuire al rapporto tra parti e arbitri ricadendo nelle problematicità della dottrina tradizionale[275] che non separava i due negozi. Al fine di evitare simili risultati pare più opportuno ragionare in maniera differente.

Le norme relative al capo II del libro IV del codice di procedura civile consentono di affermare che le vicende del rapporto parti-arbitri non si riflettono direttamente sulla volontà di devolvere agli arbitri la risoluzione di una controversia. In altre parole, ciò che pertiene al contratto di arbitrato non conta per l’accordo compromissorio: con la disciplina della sostituzione, della decadenza e della ricusazione degli arbitri il legislatore svela l’intenzione di difendere l’interesse dei privati di ricorrere all’arbitrato affrancando tale scelta dalle vicende soggettive di quelli chiamati a comporre il giudizio.

L’arbitro non svolge un’attività infungibile, inseparabile dalla persona del soggetto indicato[276] ed egli può essere sostituito senza che ciò danneggi l’interesse di avvalersi di uno strumento alternativo per risolvere i conflitti[277].

In definitiva, si potrebbe escludere qualsiasi utilità alla tesi del collegamento negoziale tra accordo compromissorio e contratto di arbitrato. Nel rapporto tra l’uno e l’altro non si parla di connessione necessaria ma di schemi autonomi che esibiscono una particolarità: il secondo negozio suppone quale elemento della propria fattispecie la venuta a esistenza del primo[278] e la relazione tra i negozi si esaurisce nel fatto che il contratto di arbitrato contempla tra i suoi fondamenti un accordo compromissorio che si profila quindi come un elemento di fatto della più estesa fattispecie “contratto di arbitrato”.

Di tal guisa si afferma l’assoluta autonomia del rapporto parti-arbitri rispetto alla convenzione arbitrale.

Tuttavia come detto sembrerebbe condivisibile la prospettazione del patto compromissorio quale contratto particolare[279] perché riprendendo le parole dell’art. 1321 c.c., non si può dire che con esso due o più parti si accordino per costituire regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale dato che il patto compromissorio non produrrebbe (solo) effetti sostanziali ma piuttosto effetti processuali.

Detti effetti processuali sono rivolti, per un verso, ad impedire lo svolgimento del processo statale sulla lite devoluta al giudizio arbitrale e, per altro verso, a fondare la efficacia vincolante della decisione arbitrale.

Dacché al netto degli effetti sostanziali che pure il patto compromissorio produce, quale quello positivo di favorire la cooperazione tra le parti di giungere ad una definizione della lite entro un certo termine e, in negativo, l’impedimento del giudizio statale, è ragionevole sostenere il carattere dirimente che gli effetti processuali producono sul patto compromissorio.

Per vero la processualità del patto risiede nel rilievo che tale contratto dispone semplicemente della tutela dei propri diritti disponibili e non del diritto medesimo, e ciò perché con l’accordo in questione le parti decidono di percorrere la via della tutela alternativa alla giurisdizione statale con la conseguenza che già di per sé il patto compromissorio assume la natura di presupposto processuale negativo, e ciò nel senso che esso non deve esistere affinché il giudice statale possa e debba decidere il merito della causa.

In altri termini con la conclusione di un accordo compromissorio si crea una condizione che impedisce l’intervento del giudice statale poiché l’oggetto del patto è la chiara individuazione della “tutela giurisdizionale” dei propri diritti che le parti stesse preferiscono.

L’impedimento prospettato si concretizza nella circostanza per la quale sottoscritto un patto compromissorio, laddove la parte abbia avviato un giudizio davanti al giudice statale avente ad oggetto la tutela di un diritto disponibile per il quale però le stesse parti avevano concordato la via arbitrale, l’altra parte potrebbe validamente far valere quell’effetto negativo dell’impedimento del giudice statale che nel processo si concretizza in una eccezione processuale di rito in senso stretto spendibile con il primo atto difensivo, ossia la comparsa di costituzione e risposta ex art. 819 ter, c.p.c., a pena di decadenza[280].

Dunque è evidente come il patto compromissorio mantenga sostanzialmente una natura mista ma fortemente (o esclusivamente?) processuale, ovvero ad effetti processuali prevalenti e maggiormente qualificanti rispetto a quelli sostanziali, e da qui la particolarità dello stesso posto che l’oggetto dell’accordo e la finalità di esso non attengono al diritto in sé o alla sua regolamentazione ma piuttosto alla tutela latu sensu giurisdizionale (da intendersi nel senso oggettivo sopra detto)  degli interessi che ne derivano preferendo appunto la giurisdizione privata a quella statale e con ciò confermando la vocazione a favorire piuttosto questi effetti sul processo, ossia sul meccanismo di tutela dei diritti.

Parimenti, nel rapporto tra giudice statale e giudice arbitrale come detto tale effetti mantengono l’operatività del meccanismo della translatio iudicii tuttavia garantiscono il principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda e cosi una possibilità di sanatoria del vizio di giurisdizione.

Ed allora concludendo è ragionevole sostenere che la presenza del patto compromissorio è la conferma e la manifestazione logica e, addirittura, primordiale della autonomia negoziale delle parti che non concretizza una usurpazione della funzione giurisdizionale dello Stato poiché esclusiva dello Stato non è la decisione delle controversie ma la tutela coattiva dei diritti che è il suo presupposto e ciò nel senso che le parti certo non possono creare o far creare da giudici privati “sentenze” non già che non possano decidere o far decidere delle controversie privatamente senza dar luogo a esercizio di giurisdizione. E’ poi la disciplina dell’arbitrato, quindi la legge dello Stato, che attribuisce alla decisione degli arbitri – il lodo – carattere giurisdizionale, ossia di decisione idonea a produrre gli effetti proprio della sentenza del giudice.

Nondimeno il delicato tema della interpretazione del patto compromissorio – al pari di un qualsiasi contratto e secondo l’assunto di cui art. 1365 c.c. – ha alimentato diverse pronunce della giurisprudenza con oscillazioni tra decisioni che la qualificavano quale rinuncia alla giurisdizione ed altri orientamenti che individuavano il perimetro piuttosto nel fenomeno del c.d. patto regolatore in deroga alla competenza.

Il problema di non secondaria importanza è quello di individuare la portata ed i limiti del potere di cognizione deferito agli arbitri in virtù di apposita clausola arbitrale.

Già prima del 2006, la giurisprudenza aveva adottato un criterio estensivo coerentemente con la previsione contenuta nell’art. 1365 c.c.[281] e pur tuttavia non sono mancate interpretazioni più fedeli al tenore letterale della convenzione, per le quali il deferimento di una controversia al giudizio degli arbitri comporta una deroga eccezionale alla giurisdizione ordinaria, con conseguente sottrazione delle parti al loro giudice naturale, e, quindi, in caso di dubbio in ordine all’interpretazione della portata della clausola compromissoria, deve preferirsi un’interpretazione restrittiva di essa e affermativa della giurisdizione statuale[282].

Pur rinviando ogni approfondimento alla trattazione fatta sul tema in precedenza[283], va rilevato anche in questa sede che in dottrina, sin da tempi risalenti, si è sostenuto che con la stipula del patto arbitrale le parti hanno espresso una decisa opzione verso lo strumento arbitrale e, pertanto, ogni dubbio sui limiti oggettivi della convenzione arbitrale avrebbe dovuto essere risolto in senso più favorevole possibile alla via arbitrale [284]ed in tale prospettiva l’orientamento restrittivo della giurisprudenza di legittimità è stato sottoposto ad aspre critiche.

Ciò che viene messo in evidenza è l’utilizzo improprio del termine eccezionale riferito alla devoluzione ad arbitri della controversia [285], laddove l’utilizzo di tale aggettivo dovrebbe essere circoscritto, ai fini di un uso appropriato, alle sole ipotesi in cui o manchi una valida convenzione d’arbitrato (sicché in tali casi non si dubita della competenza del giudice ordinario) o sia necessario estendere l’ambito oggettivo della clausola compromissoria a causa dei confini stabiliti dalle parti ma non anche per indicare le fattispecie nelle quali le parti – nell’esercizio dei poteri loro conferiti – abbiano investito gli arbitri della risoluzione delle controversie nascenti da un contratto; in tale ultimo caso un’interpretazione restrittiva della loro volontà contrattuale, risulta del tutto inaccettabile [286].

Si è, inoltre, osservato che siffatta interpretazione si pone palesemente in contrasto con le norme che disciplinano l’interpretazione del contratto, soprattutto con quella relativa alla conservazione degli effetti della volontà negoziale delle parti ex art 1367 c.c., in forza del quale: «nel dubbio, il contratto o le singole clausole debbono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno». La norma in esame non introduce un criterio che consente all’interprete – in caso di dubbi circa l’effettiva volontà delle parti – di sovrapporsi alla stessa, quanto piuttosto un criterio destinato ad operare nell’ipotesi in cui la clausola si presti a varie interpretazioni e che impone all’interprete stesso di optare, in tal caso, per quella che non la privi di effetti. In questo modo, grazie all’attenta riflessione della dottrina, l’orientamento restrittivo è stato superato, cedendo il passo a quello estensivo, già prima dell’entrata in vigore dell’art. 808 quater c.p.c.

Definito l’accordo compromissorio quale patto che regola profili processuali [287] , il conseguente contratto di arbitrato pur mantenendo la sua struttura di negozio autonomo con propria disciplina inevitabilmente subisce gli effetti giuridici del patto medesimo.

Ciò nel senso che anche superando le interpretazioni del fenomeno del collegamento negoziale tra i due negozi, non po’ non rilevarsi che la pur chiara autonomia del contratto di arbitrato rispetto all’accordo compromissorio non fa venir meno un rapporto di dipendenza funzionale  giuridica e ciò che nel senso che qualsiasi declaratoria di illegittimità del patto compromissorio (es: ipotesi di nullità, annullamento, ecc) per vizi attinenti gli elementi costitutivi del negozio ricade sul contratto di arbitrato, atteso che è evidente come un accordo compromissorio nullo (che ha per esempio individuato quale oggetto di tutela arbitrale un diritto non disponibile e dunque nullo per mancanza dell’oggetto) a fortiori produce la conseguente invalidità del contratto di arbitrato che pur essendo regolarmente formato e valido, siccome legato da un rapporto di dipendenza giuridica funzionale subisce le sorti del contratto presupposto (il patto) dichiarato invalido e come tale improduttivo di effetti ab origine e, nondimeno, anche in ipotesi di annullamento del patto compromissorio per vizio del consenso,  il contratto di arbitrato non può produrre , ne produrrà in futuro, alcun effetto giuridico.

Tutto ciò senza che tale conclusione possa apparire come contraddittoria rispetto all’ idea di proporre un superamento del fenomeno del collegamento negoziale ma piuttosto di valorizzare nei giusti limiti il rapporto che giuridicamente coinvolge i due negozi  dove è evidente quanto meno che la validità dell’accordo o del patto compromissorio incide su quella del contratto di arbitrato le cui sorti in termini di concreto funzionamento sono condizionate dalla validità dell’accordo medesimo rispetto al quale si mantiene un legame unilaterale di collegamento funzionale.

Dunque autonomia dei due negozi che non esclude un collegamento tra gli stessi nel rispetto della disciplina e della tipologia che li caratterizza e che sono sì collegati funzionalmente, ma distinti.[288]

Con la conclusione che la nullità del contrato di arbitrato – finanche affetto da illiceità della causa – non può sottrarre agli arbitri il diritto-dovere di decidere, posto che non rende automaticamente nullo il patto compromissorio (o la clausola compromissoria) per comunanza del vizio occorrendo invece dimostrare ciò che dato per scontato vale a dire che il comportamento illecito magari corruttivo sia specificamente attribuibile alla convenzione arbitrale.[289]

[1] Cfr. e. betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Collana: Università di Camerino, ristampa corretta della II edizione, a cura di g. cripò’, Napoli, 2002, p. 46 ss. Inoltre v. f.gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2024, p. 775; m. diener, Il contratto in generale, Milano, 2002, p. 12 ss.; f. santoro passarelli, Dottrine generali del diritto civile, ristampa IX edizione, 2002, p. 126; p. rescigno, voce Contratto. I) In generale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 7; s. pugliatti, Autonomia privata, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 366 ss.; l. ferri, L’autonomia privata, Milano, 1959; t. ascarelli, Certezza del diritto e autonomia delle parti, Problemi giuridici, Milano, 1959, I, p. 113 ss.; s. romano, Autonomia privata, Milano, 1957; g. zanobini, Autonomia pubblica e privata, Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, p. 183 ss. r.caponi, Autonomia privata e processo civile, in Civil Procedure Review, v.1, n.2: 42-57, jul./set., 2010.

[2] A riguardo v. f.carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, Roma, 1936, p. 60 ss.; l. mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano, 1904, p. 42, per il quale “[…] La libertà civile dei singoli soggetti di diritto, che è della essenza dello stato moderno, in quanto si svolge nella sfera delle private convenzioni, garantisce senza dubbio la facoltà di deferire le controversie alla decisione di terzi, o per meglio dire, di convenire che la volontà del terzo sarà accettata dalle parti a risoluzione del loro contrasto”.

[3] Interessante è il riferimento alla disciplina del compromesso arbitrale nel codice del 1865, dove è necessario sottolineare come la stessa sia una sorta di compromesso fra due esigenze: quella liberale e quella autoritaria [g.alpa- v.vigoriti, Arbitrato (nuovi profili), in Digesto, banca dati Leggi d’Italia, 2011.  La relazione del ministro Pisanelli attribuì una rilevanza all’autonomia negoziale, stabilendo che “la facoltà di preferire alla giurisdizione ordinaria dei tribunali stabilita dalla legge quella privata degli arbitri deriva dai principi di ragion comune, poiché è una conseguenza naturale del diritto di obbligarsi e di disporre delle cose proprie”. L’autonomia negoziale, dunque, era direttamente ricollegabile alla modalità di esercizio delle situazioni giuridiche soggettive.

[4] f.santoro passarelli,   La transazione, Napoli, 1963, p.19

[5]F. carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, 1936p.154 ss;  id, istituzioni del nuovo processo civile italiano, 5, I, Roma, 1956, p. 60.  c.punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, p.33, cfr nota 2.

s s.satta, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2, Milano, p.169.

[7] La letteratura in tema di arbitrato come istituto generale è immensa per cui ci si limita a segnalare alcuni contributi, tra cui , e. fazzalari, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir. Proc. 1968, p.459; id, Processo arbitrale, in Enc.dir., XXXVI, Milano, 1987, p.298; id, L’arbitrato, Torino, 1996, s. la china, L’arbitrato, 4 ed., Milano, 2011; a. briguglio, e. fazzalari, a marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato, Milano, 1994,; g.tarzia-r.luzzato, e.f. ricci, L.5 gennaio 1994, n.25, Padova; c.punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, 2 ed., Padova, 2012. g. verde, Diritto dell’arbitrato, a cura di G. Verde, Torino, 2005; aa.vv, Sull’arbitrato, Studi offerti a g. verde, Napoli, 2010; p.perlingieri, Sulle cause della scarsa diffusione dell’arbitrato n Italia, in Giusto proc. Civ., 2014, p.657.c.cechella , L’arbitrato, Torino, 2005, p. 4.  Da ultimo va doverosamente segnalato, a. briguglio, Scritti sull’arbitrato, Napoli, 2024. Sul delicatissimo ed affascinante tema della libertà, fondamentale è il pensiero di n.bobbio.  Al centro della riflessione filosofica di Norberto Bobbio c’è la libertà, una libertà concepita sia in termini negativi che in termini positivi. La libertà negativa è la libertà come non impedimento e non costrizione; la libertà positiva, invece, è la libertà come autodeterminazione. Così, in l. pellicani, Liberalismo, democrazia e socialismo in Norberto Bobbio, in Cosmopolis, Rivista di filosofia e teoria politica, 2018: Per una trattazione sistematica del pensiero del Maestro, fondamentale è lo scritto Eguaglianza e libertà Torino, 1995. Di fondamentale interesse è lo studio del dato sociologico del fenomeno arbitrale affrontato da v.mazzarella, Arbitrato e processo, Padova, 1968.

[8] Cfr. g.verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2021, per il quale “Il fondamento dell’arbitrato, quindi, dal punto di vista negativo, è nell’art. 24 Cost. e, dal punto di vista positivo, è nell’autonomia privata e nella sfera incolculcabile di tale autonomia”.

[9] Sul punto v. g. verde, Sul monopolio dello Stato in tema di giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2003, p. 371 ss.; ID., Pubblico e privato nel processo arbitrale, in Riv. arb., 2002, p. 633 ss. Per una visione antitetica, cfr. F. santoro passarelli, La transazione, cit., p. 19, che mostra una lettura particolare dell’art. 2907 c.c., basandoci sopra una sorta di monopolio dello Stato nell’attività di cognizione dei diritti; una confutazione ce la offre c. punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, p. 26-28: “Invero, l’art. 2907 c.c. non si limita a proclamare il principio secondo cui alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria. Innanzitutto il primo comma dell’art. 2907 c.c. deve essere letto nella sua interezza e tenendo conto che l’affermazione suddetta viene completata dalla locuzione su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio. […] Ecco allora che l’interprete non può fermarsi a considerare la frase provvede l’autorità giudiziaria, che, comunque, da sola, non sarebbe idonea a conferire l’attribuzione esclusiva della tutela giurisdizionale all’autorità giudiziaria. Qui, infatti, si parla di provvedere ed il valore semantico di provvedere è procurare ciò che è necessario. […] Ma, inoltre, si parla di provvedere su istanza di parte, sicché l’interprete non può omettere di confrontare e coordinare questo precetto con l’art. 99 del c.p.c. che, statuendo che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente ha codificato quel principio della domanda, consacrato anche nella rubrica dell’articolo. E poiché l’art. 99 c.p.c. va letto come se in esso si statuisse che gli atti giurisdizionali sono normalmente emessi su istanza degli interessati, siano essi il privato che fa valere un diritto, ovvero l’organo pubblico competente, la conclusione cui perviene la dottrina è che l’art. 99 c.p.c. costituisce una ripetizione, anzi un doppione incompleto dell’art. 2907 c.c. Ciò posto è agevole osservare che la funzione del precetto contenuto nell’art. 2907 c.c. non può essere individuata nell’attribuzione del potere e, comunque, non concerne la fase genetica dell’attribuzione di poteri e funzioni […] quanto e piuttosto la fase funzionale di esercizio di questo potere”.

[10] c.punzi , Disegno sistematico dell’arbitrato, cit. p. 33

[11] A parlare per primo di contratto di arbitrato fu l.barbareschi, Gli arbitrati, Milano, 1937, p. 101; la formula venne richiamata all’attenzione della dottrina da f.carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, cit., p. 66. Sul punto v. anche s.la china, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Milano, 2007, p. 58; a.briguglio, in A.briguglio- E.fazzalari–R.marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario, Milano, 1994, p. 70; m. rubino sammartano, Il diritto dell’arbitrato (interno), Padova, 1991, p. 147. Menziona il contratto di arbitrato anche g.schizzerotto, Dell’arbitrato, Milano, 1958, p. 332.

[12] S. marullo condojanni, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008, p. 2.

[13] Sul tema, i. pagni, Il contratto nel processo, Milano, 2022.

[14] m.amar, Dei giudizi arbitrali, II edizione, Torino, 1879, p. 36.

[15] g.bonfante, Dei compromessi e lodi stabiliti fra industriali come vincolativi dei loro rapporti, ma non esecutivi nel senso e nelle forme dei giudizi, in Riv. dir. comm., 1905, III, p. II, p. 45.

[16] g.chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1935, I, p. 70; ID., L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di dir. proc. civ., Roma, 1930, I, p. 49; ID., Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, p. 108. A detta dell’autore l’arbitrato frazionava il giudizio: da una parte l’elaborazione della materia logica, affidata dalle parti agli arbitri, che provvedevano senza uso di poteri giurisdizionali; dall’altra il decreto del pretore che non incideva sulla natura di atto privato del lodo. Riteneva che l’eccezione di compromesso avesse come contenuto “la rinuncia al procedimento di cognizione giudiziaria”. Sullo stesso piano si è collocata g.tombari, Natura e regime giuridico della eccezione di compromesso, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, p. 1021 ss., la quale, dopo le critiche alle teorie sulla natura giuridica dell’arbitrato, si spinge verso una costruzione privatistica. Quasi alla stregua del Chiovenda si pose u.rocco, Trattato di diritto processuale civile, Torino, 1966, I, p. 35 ss., che finisce per indicare l’attività del pretore come atto di giurisdizione volontaria; cioè come attività amministrativa. Così anche g.marani, Aspetti negoziali e aspetti processuali dell’arbitrato, Torino, 1966. Per la dottrina più risalente v., ancora, n.lipari, Considerazioni sul tema degli arbitri e degli arbitraggi, in “Ann. Università di Messina”, VI, 1931-1932, p. 13; p.calmandrei, La sentenza soggettivamente complessa, in Riv. dir. proc, 1924, I, p. 247; g.scaduto, Gli arbitratori nel diritto privato, in “Ann. Sem Giur. Università di Palermo”, XI, Cortona, 1923, p. 91.

[17] g.schizzerotto, Dell’arbitrato, cit., p. 13; a.vocino, Schema di una teoria della clausola compromissoria, in Foro it., 1932, I, c. 1061, per il quale il negozio tra parti ed arbitri sarebbe di natura “pubblicistica”: da esso sorgerebbero effetti di diritto pubblico indipendenti ed estranei alla volontà dei contraenti.

[18] M.bove,  La giustizia privata, Milano, 2023, p.33. Sulla qualificazione dell’arbitrato rituale come fenomeno sostanzialmente giurisdizionale, si veda  Sez.Un. 6 luglio 2016, n. 13722 in Riv. arb., 2017, 543. Ancora si rinvia a s. satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, in Milano, 1931; e.redenti, Compromesso, in Nuovo Dig.it; III, Torino,, p.428; t. carnacini, arbitrato rituale, in Noviss. Dig. It., I, Torino, 1958, p.899; g. schizzerotto, Dell’arbitrato, Milano, 1982; f.mazzarella, Arbitrato e processo, Padova, 1968; f. carpi, in ID, a cura di) Arbitrato, 2 ed., Bologna, 2007; c. cavallini, sulla natura dell’arbitrato rituale,  in Riv.dir.proc., 2002, 924; ; c. punzi, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato, in Riv.trim. dir.proc.civ., n. 2, 2007.

[19] l.mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, cit., p. 76.

[20] g.schizzerotto, Dell’arbitrato, cit., p. 13.

[21] La categoria, congegnata dagli scrittori tedeschi, venne sottoposta all’attenzione della nostra dottrina da g.chiovenda, Principi di diritto processuale, Napoli, 1923, I.

[22] g.chiovenda, Principi di diritto processuale, cit., p. 105.

[23] j. kohler, Prozess als Rechtsverhaltnis, Mannheim, 1888, p. 62, per il quale “[…] attraverso i contratti processuali si formano situazioni processuali, situazioni cioè sottratte alla volontà della singola parte, e che sono dirette ad imprimere una determinata tendenza al processo. Queste situazioni non sono in nessun modo diritti, non sono rapporti giuridici, sono tutt’al più elementi di un presente o di un futuro rapporto. […] Un’azione di accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di una situazione non è data”, come mostrato da s.satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, 1931, p. 48.

[24] s.satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, cit., p. 54 ss., secondo il quale esempi di contratti processuali sarebbero il patto di proroga della competenza e la rinuncia ad appellare una futura sentenza.

[25] s.satta , Contributo alla dottrina dell’arbitrato, cit., p. 62, secondo l’autore “Per giungere alla processualità del compromesso, bisogna completare l’esclusione del giudice colla posizione di un altro giudice al posto di quello”.

[26] s.rocco, La sentenza civile, Torino, 1906, p. 40.

[27] s.verde, Diritto dell’arbitrato, III edizione, Torino, 2005, p. 118, per l’autore “[…] abbiamo posto in rilievo come sia inesatto far derivare a ritroso dall’efficacia dell’atto conclusivo del procedimento la qualificazione giuridica dell’attività esercitata e la posizione, nell’ambito dell’ordinamento, di chi tale attività ha svolta”.

[28] Sul punto v. s. la china, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 14-15, l’autore inquadra l’arbitrato come “esercizio privato di una funzione di giudizio e di giustizia, di generale e pubblica utilità”; c.punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 177 ss., 293 ss.; id., L’efficacia del lodo arbitrale, in Riv. dir. proc., 1995, p. 12 ss.; ID., voce Arbitrato, I) Arbitrato rituale e irrituale, in Enc. giur. Treccani, II, Roma, 1995, p. 10, l’Autore pone l’arbitrato nel territorio, lasciato alla privata autonomia, della “eterocomposizione” delle controversie; e.fazzalari, L’arbitrato, Torino, 1997; id., voce Arbitrato (teoria generale e diritto processuale civile), in Dig. Disc. privatistiche, Sez. civ., I, Torino, 1987, p. 399; id., I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. proc., 1968, p. 459 ss.; c.mazzarella, Sull’efficacia e impugnabilità dei lodi dopo la legge di riforma del 9 febbraio 1983, in Foro it., 1984, V, p. 181 ss.; e.redenti, voce Compromesso, in Noviss. Dig. It., III, Torino, 1959, p. 790.

[29] In questo senso v. s.marullo di condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., p. 6.

[30] P. RESCIGNO, Arbitrato e autonomia contrattuale, in Riv. arb., 1991, p. 15-16. Circa la qualificazione contrattuale dell’arbitrato v. anche G. MONTELEONE, Diritto processuale civile, II, Padova, 1995, p. 12 ss.; g.mirabelli, Contratti nell’arbitrato, in Rass. arb., 1990, p. 3 ss.; v.andrioli, Commento del codice di procedura civile, IV, III edizione, Napoli, 1964, p. 813; l.biamonti , voce Arbitrato, in Enc. del dir., II, 1958, p. 916.

[31] Per quanto concerne in particolare l’analogia tra attività arbitrale e attività giurisdizionale v. Cass., 10 gennaio 1974, n. 69, in Giur. it., 1975, I, 1, p. 137.

[32] Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, Pres. Vela, Est. Olla, in Riv. arb., 2000, p. 699, con nota di e.fazzalari, Una svolta attesa in ordine alla “natura” dell’arbitrato, p. 704.

[33] Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, cit., p. 701.

[34] s.la china, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 14-15; g.verde, Diritto dell’arbitrato, III edizione, Torino, 2005, p. 118; c.punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 177 ss., 293 ss.; id., L’efficacia del lodo arbitrale, cit., p. 12 ss.; id., voce Arbitrato, I) Arbitrato rituale e irrituale, cit., p. 10; e. fazzalari, L’arbitrato, cit.; ID, voce Arbitrato (teoria generale e diritto processuale civile), cit., p. 399; ID., I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, cit., p. 459 ss.; c.mazzarella, Sull’efficacia e impugnabilità dei lodi dopo la legge di riforma del 9 febbraio 1983, cit., p. 181 ss.; e.redenti, voce Compromesso, cit., p. 790.

[35] Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, cit., p. 701.

[36] In tal senso v. s.marullo di condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., p. 8, l’Autore rimarca il peso della nuova disposizione, introdotta dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, di cui all’art. 824-bis c.p.c., che, affermando che “il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”, offrirebbe nuove ragioni alla tesi giurisdizionale, che si basa sull’equivalenza degli effetti tra lodo e sentenza.

[37] Il riferimento è a Cass. Sez. Un. 24153/2013. L’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua  della disciplina complessivamente ricavabile dalla l. 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario , sicché lo stabilire  se una controversia spetti alla cognizione dei primi  o del secondo si configura come questione di competenza  mentre il sancire  se una lite appartenga  alla competenza  giurisdizionale  del giudice ordinario e, in tale ambito,   a quale sostitutiva degli arbitri rituali , ovvero a quella del giudice amministrativo, da logo ad una questione di giurisdizione.

[38] Riguarda la pronuncia di Corte Cost.  n. 223/2013, con la quale  la Consulta ha latamente inteso stringere il cerchio in materia di riavvicinamento ed equiparazione tra la giurisdizione pubblica e privata, laddove rileva che sul piano della disciplina positiva dell’arbitrato, poi, è indubbio che, con la riforma attuata con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il legislatore ha introdotto una serie di norme che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale. Per vero, già con precedente pronuncia [sentenza n. 376/2001], si affermava che «l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie» e ha affermato che il giudizio degli arbitri «è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione».

[39] M.BOVE, La giustizia privata, cit., p.36

[40] Cosi in giurisprudenza, Cass. 24 settembre 2015, n. 18978 e Cass. 6 novembre 2015, n. 22748 in Giur. It., 2016, 351.

[41] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1940, p. 70.

[42] Di evidente impatto è al riguardo al pronuncia della Consulta su tale delicato tema ancor prima della sua sistemazione con il nuovo art. 819 quater c.p.c. che sembra aver proprio recepito il dictum fissato dalla Corte costituzionale, di cui è utile riportare alcuni passaggi fondamentali: “…..omissis   Sul piano della disciplina positiva dell’arbitrato, poi, è indubbio che, con la riforma attuata con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il legislatore ha introdotto una serie di norme che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale. Rilevano, al riguardo: l’art. 816-quinquies (sull’ammissibilità dell’intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111 cod. proc. civ. in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso), l’art. 819-bis (nella parte in cui presuppone la possibilità per gli arbitri di sollevare questioni di legittimità costituzionale), l’art. 824-bis (che ricollega al lodo, fin dalla sua sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria). Anche dall’esame della disciplina sostanziale emerge che, sotto molti aspetti, l’ordinamento attribuisce alla promozione del giudizio arbitrale conseguenze analoghe a quelle dell’instaurazione della causa davanti al giudice. Infatti, il codice civile, sia in materia di prescrizione (artt. 2943 e 2945), sia in materia di trascrizione (artt. 2652, 2653, 2690, 2691), equipara espressamente alla domanda giudiziale l’atto con il quale la parte promuove il procedimento arbitrale. Pertanto, nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione (ove assunta nel rispetto delle norme del codice di procedura civile) ha l’efficacia propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul merito della lite. Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse. Una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro. Ed invece la norma censurata, non consentendo l’applicabilità dell’art. 50 cod. proc. civ., impedisce che la causa possa proseguire davanti all’arbitro o al giudice competenti e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda. Deve essere dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 del codice di procedura civile, ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter.

[43] Infatti a partire dal 2009 le pronunce sulla sola competenza da parte del giudice ordinario sono emanate in forma di ordinanza.

[44] Cfr. artt. 8 e 28 Regolamento arbitrale CCIAA Bologna, artt. 20 e 21 della Camera Arbitrale di Milano che però, in ordine al dovere di disclosure, non adotta un criterio generale bensì enumera alcune categorie di fatti: «a. qualunque relazione con le parti, i loro difensori e ogni altro soggetto coinvolto nell’arbitrato, anche in virtù di rapporti finanziari, rilevante in rapporto alla propria imparzialità e indipendenza; b. qualunque interesse personale o economico, diretto o indiretto, relativo alla controversia; c. qualunque pregiudizio o riserva nei confronti della materia del contendere». Cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, Obbligo di disclosure e imparzialità dell’arbitro, in Riv. trim. dir e proc. civ. , 2022, p. 1050.

[45] Questo principio fondamentale si ritrova negli standard e nelle raccomandazioni delle principali istituzioni arbitrali, e nelle principali linee guida pubblicate in materia di conflitti di interesse; cfr. art. 11.1 dell’Arbitrato ICC., 11.1 del Regolamento arbitrale ICC in vigore dal 1° marzo 2017, nell’art. 5.3 del Regolamento della London Court of International Arbitration in vigore dal 1° ottobre 2020 (Regolamento LCIA), nello Standard 1 delle Linee guida IBA su Conflicts of Interest in International Arbitration del 2014 (Linee Guida IBA) e nel par. 18 della Nota ICC alle parti e ai tribunali arbitrali sulla conduzione dell’arbitrato del 1° gennaio 2019. Tra tanti studi in materia, si vedano A. Carlevaris, Gli arbitri. Imparzialità ed indipendenza. Sostituzione e ricusazione, in Trattato di diritto dell’arbitrato vol. XIII, L’arbitrato negli investimenti internazionali, diretto da D. Mantucci, , Napoli, 2020, pp. 465-501; A. Fernández Pérez, Conflicts of interests of arbitrators in international law firms, in Arbitration International, 2018, pp. 105-128; C. Giorgetti, Challenges and Recusals of Judges and Arbitrators in International Courts and Tribunals, L’Aia, 2015; J. D. Fry e J. I. Stampalija, Forged Independence and Impartiality: Conflicts of Interest of International Arbitrators in Investment Disputes, in Arbitration International, 2014, pp. 189-264; V.K. Daele, Challenges and Disqualification of Arbitrators in International Arbitration, Alphen aan den Rijn, 2012; L. Malintoppi, Independence, Impartiality and duty of disclosure of arbitrators, in P. Muchlinski, F. Ortino e C.H. Schreuer (a cura di), The Oxford Handbook of international Investment Law, Oxford, 2008; N. Rubins, B. Lauterburg, Independence, Impartiality and Duty of Disclosure in Investment Arbitration, in C. Knahr, C. Koller, W. Rechberger e A. Reinisch (a cura di), Investment and Commercial Arbitration – Similarities and Divergences, L’Aia, 2009.

[46] G. Verde, La posizione dell’arbitro dopo l’ultima riforma, in Riv. arb., 1997, 469, spec. 475; A. Briguglio, Epigramma sulla ricusazione degli arbitri (con due note a pié di pagina), in Giur. It., 2004, p. 460; analogamente, C. Consolo, Arbitri di parte non neutrali?, in Riv. arb., 2001, p. 9 ss.; ancora Id., Imparzialità degli arbitri. Ricusazione, Riv. arb., 2005, p. 728 ss. Cfr. poi art. 56, comma 1, disp. Att. c.p.c.

[47] Cfr. C. Spaccapelo, Indipendenza e Imparzialità dell’arbitro, in A. Salvaneschi e L. Graziosi (a cura di), L’Arbitrato, 2020, Milano, p. 204.

[48] Già si rinviene in una pronuncia del 1886 della Corte di appello di Venezia il principio secondo cui «la differenza che corre tra il giudice e l’arbitro in quanto sia questi, non dalla legge imposto alle parti, ma chiamato a giudicare dalla spontanea loro volontà, importa che nella valutazione dei motivi di ricusazione dell’arbitro non si possa prescindere dall’esaminare, se quantunque, dalla legge contemplati, fossero o no noti, prima del mandato al ricusante noti; imperò che se non erano da lui ignorati, la libera elezione dell’arbitro, malgrado quei motivi avvenuti, avrebbe l’implicito significato di tacita rinuncia, che la legge non potrebbe permettere di revocare con la violazione manifesta ed ingiustificabile del contratto», con nota di M. Amar in  Il foro it., 1886, vol. 11, Parte prima: giurisprudenza civile e commerciale, 1886, p. 1017.

[49] Cioè avendo la disponibilità di tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione a carte scoperte. Cfr. così E. Zucconi Galli Fonseca, Obbligo, cit., p. 1064.

[50] Cfr. Sentenza Corte Edu, 23 febbraio 1999, par. XX, Suovaniemi e altri cc. Finlandia, dove il ricorrente, benché fosse consapevole dell’esistenza di ragioni che giustificassero la ricusazione e la sostituzione dell’arbitro, ha preferito non sollevarle nel corso del procedimento arbitrale, per cui la Corte ha avuto modo di statuire che la circostanza integra perfettamente una rinuncia volontaria e inequivoca ad avere un giudice imparziale

[51] A ben vedere, anche la dichiarazione di insussistenza sarà necessaria, essendo l’arbitro obbligato a dichiarare l’inesistenza di circostanze che possano influenzare l’imparzialità e l’indipendenza, dal momento che l’art. 813 c.p.c. sanziona l’invalidità dell’accettazione in caso di omessa dichiarazione. Pertanto, la dichiarazione è sempre necessaria sotto pena di invalidità della stessa. Cfr. A. Panzarola, Commento ai principi in materia di arbitrato della legge delega n. 206 del 21 novembre 2021 art. 1, comma 5, in Riv. Arb., 2022, p. 13.

[52] Si evidenzia però che l’art. 11, lett. a  dello Schema di disegno di legge recante «delega al governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie», licenziato dal CdM il 5 dicembre 2019, prevedeva di rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro, anche prevedendone la decadenza, nel caso in cui, al momento di accettazione della nomina, lo stesso avesse omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’art. 815 c.p.c., possono essere fatte valere come motivi di ricusazione. L’art. 1, comma 15, lett. a della legge 206/2021 ha previsto, invece, di rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza dell’’arbitro, (re)introducendo la facoltà di ricusazione per gravi ragioni di convenienza.

[53]  Prima della riforma del 2006, la questione della ricusabilità degli arbitri, oltre che per le ragioni tipizzate dall’art. 51, comma 1 c.p.c., era alquanto discussa anche per le «gravi ragioni di convenienza» menzionate nell’ultimo comma del medesimo articolo.  Appariva preferibile la tesi estensiva che consentiva la ricusazione degli arbitri nelle medesime ipotesi stabilite per il giudice statale. Cfr. A. Panzarola, Commento, cit., 2022, p. 10. In tal senso, anche C. Consolo, La ricusazione dell’arbitro, in Riv. arb., 1998, p. 17 ss.; E. Fazzalari, Ancora sulla imparzialità dell’arbitro, in Riv. arb., 1998, p. 3. Tuttavia, deve segnalarsi che la dottrina ha criticato successivamente alla riforma del 2006 l’indicazione tassativa dei motivi indicati nell’art. 815 c.p.c., preferendo in materia una maggiore elasticità in grado di coprire tutte le ipotesi di parzialità sospetta degli arbitri; cfr. G. Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 2006 p. 87; C. Giovannucci Orlandi, in F. Carpi (a cura di), Arbitrato, Bologna 2016, p. 354, tanto che già sotto il vigore della formulazione dell’art. 815 c.p.c. ante riforma del 2006 si tentava di ampliare lo spettro di applicazione dell’art. 815 c.p.c., stante l’espresso richiamo all’art. 51 c.p.c. e dunque ai motivi di astensione facoltativi previsti nel secondo comma dell’art. in parola; cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, La nuova disciplina dell’arbitrato, 2010, p. 1238; cfr. anche L. Salvaneschi, Le nuove norme in materia di arbitrato, in Riv. dir. proc., 2023, p. 740; in tal senso anche V. Di Gravio, L’indipendenza dell’arbitro, in Riv. arb., 2018, p. 195 ss.

[54] Ai fini che interessano, si potrebbe ipotizzare che l’espressione «gravi ragioni di convenienza» indichi quella situazione in cui l’arbitro, nello svolgimento della sua funzione, sia tenuto a realizzare un c.d. interesse primario (perché così definito dalle regole dell’attività in questione) che pertiene ad altri e che può trovarsi in contrasto con un suo personale interesse (definito secondario).

[55] Tuttavia, mentre l’imparzialità riguarda uno stato mentale, l’indipendenza rileva invece in rapporto allo stato di fatto. S. Luttrell, Bias Challenges in International Commercial Arbitration: The Need for a “Real Danger”, Test (2009), p. 23.

[56] Cfr. Relazione Illustrativa Art. 11 d.d.l. AS 1662, p. 17

15 M. Taruffo, Note sull’imparzialità dell’arbitro di parte, in Riv. arb., 1997, p. 483 ss., spec. 485. È chiaro però che gli arbitri sono «dipendenti» nella nomina, mentre devono essere «indipendenti» nello svolgimento della funzione; cfr. A. Zimatore, Riflessioni sull’imparzialità dell’arbitro (a margine di un saggio di Renato Rordorf), in Riv. Arb., 2021, p. 711.

[58] Nel senso dell’applicabilità, cfr. F. Tommaseo, Arbitrato Libero e forme processuali, in Riv. arb., 1991, p. 743 ss.; anche G. Verde, Lineamenti, cit., p. 97. In giurisprudenza, cfr. Cass. Civ., 21 luglio 2010, n. 17114 richiamata da Verde, o.u.c., p. 96.

Si evidenzia, in tema di Collegio Consultivo Tecnico ex art. 215 e ss. d.lgsvo 36/2023, a mente del quale viene riconosciuto come strumento principale di ADR nell’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, la possibilità che le determinazioni del Collegio acquisiscano il valore di lodo arbitrale irrituale, ex art. 808-ter c.p.c. Tuttavia, nell’art. 251 d.lg. 36/2023  manca una disposizione simile a quella prevista dal nuovo art. 813 c.p.c. Si può rinvenire un norma analoga all’art. 813 c.p.c. nel regolamento Anas per la nomina dei componenti nei collegi consultivi tecnici e regole di funzionamento è previsto al punto 2.5.1 (liberamente consultabile stradeanas.it/sites/default/files/pdf/Regolamento_nomina_componenti_CCT_e_regole_di_funzionamento.pdf), dove viene previsto che i membri, contestualmente all’accettazione, allegare la dichiarazione di Autonomia e indipendenza di cui all’allegato 2 del regolamento Anas citato.

[59] C. Giovannucci Orlandi, Arbitrato, in F. Carpi (a cura di), Commentario, Bologna, 2016, p. 359. Imparzialità e indipendenza sarebbero poi coperte dall’ordine pubblico, per come sussumibili negli artt. 6 CEDU e 111 Cost., con la conseguenza che il lodo potrebbe essere impugnato anche ai sensi dell’art. 829, n. 9, c.p.c.; in tal senso, F. Carpi, L’indipendenza e la imparzialità dell’arbitro. La sua responsabilità, in Riv. trim., 2018, p. 239 ss. In tal senso sembra anche M. Bove, Responsabilità degli arbitri, in Riv. arb., 2014, p. 265 ss., in particolare par. 6.

[60] M. Benedettelli, Arbitration Law in Italy, The Hague, 2020, p. 212; in tal senso, anche C. Spaccapelo, Indipendenza, cit., p. 199.

[61] G. Verde, La posizione, cit., p. 476; L. Salvaneschi, Sull’imparzialità dell’arbitro, in Riv. Dir. proc., 2004, p. 424.

[62] Cfr. ad esempio art. 61 Codice deontologico forense, dov’è previsto al comma 2 che l’avvocato non deve assumere la funzione di arbitro quando abbia in corso, o abbia avuto negli ultimi due anni, rapporti professionali con una delle parti e, comunque, se ricorre una delle ipotesi di ricusazione degli arbitri previste dal codice di rito; art. 30 Codice deontologico dei Notai, dove è previsto l’obbligo di imparzialità inteso come necessità di eseguire la prestazione mantenendosi in posizione di equidistanza rispetto ai diversi interessi delle parti, ricercandone una regolamentazione equilibrata e non equivoca che persegua la finalità della comune sicurezza delle parti stesse; ancora, art. 4.6 Codice deontologico degli Ingegneri, dove è previsto l’obbligo dell’ingegnere di informare il committente quando la natura e la presenza di tali rapporti possa ingenerare sospetto di parzialità professionale o violazione di norme di etica.

[63] M. Stella, Imparzialità degli arbitri, decadenza e ricusazione nella riforma del c.p.c., in Riv. dir. proc., 2023, p. 232, nota 4.

[64] Al più, le disposizioni contenute nei codici deontologici professionali potrebbero assumere il carattere di fonti normative integrative dei precetti legislativi e, come tali, interpretabili direttamente dai giudici in sede di giudizio di legittimità (così Cass. SS. UU. Civili, 20 dicembre 2007, n. 26810, in Giustizia Civile, Massimario, 2007). La ragione risiede nel fatto che, pur trattandosi di norme di fonte pattizia obbligatorie per coloro che sono iscritti al relativo albo professionale, esse integrano il diritto oggettivo nella fase interpretativa volta alla configurazione delle condotte illecite sul piano disciplinare.

[65] Efficace è l’espressione assurance-vie di T. Clay, L’arbitre, Parigi, 2021, p. 318; C. Spaccapelo, Indipendenza, cit., p. 197, nota 33.

[66] M. Bove, Responsabilità, cit., p. 265 ss., in particolare par. 6.

[67] Cfr. ancora E. Zucconi Galli Fonseca, Obbligo, cit., p. 1055.

[68] Ovvero nei dieci giorni decorrenti dalla nomina accompagnata dalla dichiarazione ex art. 813 c.p.c. ovvero dalla conoscenza del motivo sopravvenuto, anche a mezzo della rinnovazione della disclosure di cui al secondo periodo del primo comma dell’art. 813 c.p.c.

[69] C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 357.

[70] Si immagini ad esempio l’avere collaborato con l’avvocato di una delle parti alla stesura di un volume collettaneo, in cui invero gli autori non si sono mai incontrati o conosciuti.

[71] L. Salvaneschi, Le nuove norme, cit., p.744. L’A. è incline a una interpretazione ampia della norma poiché la ratio di fondo del legislatore sarebbe quella di far emergere, non quelle situazioni coincidenti con i numeri 1-6 dell’art. 815 c.p.c., atteso che in tale caso il professionista dovrebbe rinunciare all’incarico, quanto piuttosto quelle situazioni di fatto che facciano emergere che l’arbitro svolga l’incarico con serenità.

[72] Cfr. A. Panzarola, Commento, cit., p. 10; dello stesso avviso anche F. Corsini, La riforma dell’arbitrato nell’ambito del d.lgs n. 149 del 2022, in Riv. trim., 2023, p. 115; A.  Merone, Sub art. 813, in R. Tiscini (a cura di), La riforma Cartabia nel processo civile – Commentario al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pisa, 2023, p. 1183.

[73] Questo approccio è adottato nelle Linee Guida IBA e nella prassi attuale della ICC. Se esistono fatti o circostanze che possono, agli occhi delle parti, dare adito a dubbi sull’imparzialità o sull’indipendenza dell’arbitro, questo deve rendere noti tali fatti o circostanze (Linee guida IBA, Standard generale 3(a)). La nota pratica stabilisce che «ogni arbitro o potenziale arbitro deve valutare quali circostanze […] mettano in dubbio la sua indipendenza agli occhi delle parti o diano adito a ragionevoli dubbi sulla sua imparzialità» (par. 27).

[74] Il tema della disclosure in arbitrato è sempre stato di evidente interesse ed attenzione in altri ordinamenti.  Invero, anche prendendo in considerazione le diverse norme vigenti in altri Paesi che disciplinano la disclosure degli arbitri, le prassi di soft law e la giurisprudenza [La giurisprudenza della Corte d’Appello di Parigi ha offerto alcuni chiarimenti stabilendo, ad esempio, che gli arbitri devono rivelare qualsiasi circostanza che possa influenzare il giudizio dell’arbitro e far sorgere un ragionevole dubbio. Cfr. Corte d’Appello di Parigi, 22 febbraio 2022, SAS Chantier Naval Couach c/ M Demir Sabanci, société Sedes Yatching Ltd. et a., n° 20/08929, in Rev. arb., 2022, p. 528] che si è formata sul punto, le indicazioni sull’ampiezza o la ragionevolezza delle informazioni che un arbitro dovrebbe rilevare per ottemperare all’obbligo di disclosure non sono esaustive o risolutive. Ad esempio, nell’Arbitration Act inglese del 1996, si prevede che gli arbitri debbano essere imparziali ma non necessariamente indipendenti, il che va certamente a influire sulle notizie da rilevare in ambito della disclosure.  La sezione 24 (1) (a) prevede infatti che una parte in un procedimento arbitrale può (previo avviso alle altre parti, all’arbitro interessato e a qualsiasi altro arbitro) chiedere al tribunale di rimuovere un arbitro per uno dei seguenti motivi: «that circumstances exist that give rise to justifiable doubts as to hisimpartiality» [A ben vedere, la legge inglese non impone l’ulteriore requisito di indipendenza.] Nel documento sulla revisione dell’Arbitration Act, la Law Commission ha avuto modo di sostenere, infatti, la non necessarietà di prevedere la cogenza del requisito dell’indipendenza in materia, attesi i naturali rapporti che gli arbitri avranno con i loro designandi e che ci sono «aree di attività» in cui i professionisti si conoscono bene [Cfr. Law Commission, Review of the Arbitration Act: Summary of Consultation Paper, 2022, par. 1.28.].L’articolo 179, paragrafo 6, PILS (legge di diritto internazionale privato svizzera) prevede invece che ogni potenziale arbitro debba rivelare senza indugio qualsiasi fatto che possa dare adito a legittimi dubbi sulla sua indipendenza o imparzialità [L’originale francese prevede: «Toute personne à laquelle est proposé un mandat d’arbitre doit révéler sans retard l’existence des faits qui pourraient éveiller des doutes légitimes sur son indépendance ou son impartialité». Tale obbligo permane fino alla chiusura del procedimento arbitrale].  L’articolo 180, paragrafo 1, lettera c stabilisce che un arbitro può essere rimosso se esistono circostanze che danno adito a dubbi legittimi sulla sua indipendenza o imparzialità. L’originale inglese prevede «An arbitrator may be challenged only if circumstances exist that give rise to justifiable doubts as to his impartiality or independence, or if he does not possess qualifications agreed to by the parties. A party may challenge an arbitrator appointed by him, or in whose appointment he has participated, only for reasons of which he becomes aware after the appointment has been made».]. Ancora, l’articolo 1456 del Codice di procedura civile francese impone agli arbitri di rivelare le informazioni che potrebbero mettere in discussione la loro imparzialità e/o indipendenza al momento della nomina e per tutta la durata del procedimento arbitrale.  La disciplina francese prevede dunque che la dichiarazione di indipendenza degli arbitri debba precedere l’accettazione, sia seguita dalla conferma della nomina e debba fare riferimento a «qualsiasi circostanza» che possa compromettere l’indipendenza o l’imparzialità dell’arbitro.  Infine, le disposizioni UNCITRAL prevedono in tema all’articolo 12 (1): «When a person is approached in connection with his possible appointment as an arbitrator, he shall disclose any circumstances likely to give rise to justifiable doubts as to his impartiality or independence. An arbitrator, from the time of his appointment and throughout the arbitral proceedings, shall without delay disclose any such circumstances to the parties unless they have already been informed of them by him».

La disposizione successiva, il punto12 (2), specifica tra l’altro che un arbitro può essere ricusato solo se esistono circostanze che danno adito a dubbi giustificati sulla sua imparzialità o indipendenza[74]. L’imposizione di un obbligo di disclosure – in base alla legislazione, alla giurisprudenza o al regolamento arbitrale – obbliga quindi l’arbitro, in modi diversi, a prendere le misure necessarie per accertare e rivelare qualsiasi circostanza che possa dare adito a una percezione di mancanza di indipendenza o imparzialità. Tuttavia, è chiaro che le disposizioni che hanno ad oggetto la disclosure tentano di risolvere l’asimmetria informativa tra gli arbitri e le parti del procedimento arbitrale.

[75] Ad esempio, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18220 del 2023 ha avuto modo di ritenere irrilevanti i rapporti indiretti tra la presidente del collegio arbitrale e il padre del difensore del ricorrente, in quanto rapporti normali di colleganza, quali la partecipazione a commissioni e collegi.

[76] Di segno contrario, in tema di third party funding sono le voci di A. Brabant, Third Party Funding in International Arbitration: Practical Consequences and Tactical Considerations, 19 Int. A.L.R., 2016, p. 115 e S. E. Moseley, Disclosing Third-Party Funding in International Investment Arbitration, 97 Tex. L. Rev. 2019, p. 1194, secondo i quali l’obbligo di divulgazione annullerebbe le disposizioni di riservatezza contenute nei contratti di finanziamento e richiederebbe la modifica di tali contratti al fine di conformarsi agli obblighi di disclosure, suggerendo di scegliere di evitare di avviare un procedimento presso quelle istituzioni arbitrali che prevedono l’obbligo di disclosure. Ci si chiede però se potrebbe essere sufficiente solo divulgare esclusivamente l’esistenza di un contratto di TPF.

[77] Così E. Zucconi Galli Fonseca, Obbligo, cit., p. 1055.  Il criterio del terzo osservatore è rinvenibile anche nella giurisprudenza della Corte EDU (cfr. ad esempio sentenza del 1° ottobre 1982, Piersack c. Belgio) e dal sistema UNCITRAL (art. 12 Unicitral arbitration rules adottate 16 dicembre 2023), ed è ripreso anche dai tribunali arbitrali ICSID; Cfr. Blue Bank International & Trust (Barbados) Ltd. c. Venezuela, ICSID, del 12 novembre 2013-Burlington Resources Inc. e altri c. Ecuador e Empresa Estatal Petróleos del Ecuador (PetroEcuador) del 13 dicembre 2013, par. 66-68, Giovanna a Beccara e altri c. Argentina, ICSID del 4 febbraio 2014, par. 76.

[78] In tal senso, sembra potersi richiamare la sentenza del 15 ottobre 2009, Micallef c. Malta, Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, par. 93, dove si è avuto modo di statuire (in tema di giudizio ordinario) che l’imparzialità va valutata da un punto di vista oggettivo, appurando l’esistenza di fatti e circostanze che, laddove accertate, possano generare un legittimo dubbio circa la neutralità e l’equidistanza dell’organo giudicante rispetto alle parti e alla lite. L’analisi compiuta dalla Corte riguarda l’esistenza di rapporti di qualsiasi tipo tra il giudice e gli altri soggetti coinvolti nel procedimento, ovvero legami che possano obiettivamente giustificare la presenza di timori circa l’imparzialità del tribunale e, quindi, non integrare pienamente lo standard di protezione previsto dall’art 6 della CEDU.

[79] Per una vasta ricostruzione della discussione, v. A. DIMUNDO, Il mandato ad arbitrare. La capacità degli arbitri. La responsabilità degli arbitri, in AA. VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, cit., p. 488.

[80] C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 250.

[81] S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1959, p. 265, secondo l’autore per “l’accettazione non occorrano formule rigorose”, ma è sufficiente la redazione di un verbale che registri la nomina degli arbitri e che questi firmino; considera inoltre ammissibile che essa accada dopo il principio delle operazioni arbitrali, con efficacia di ratifica. In giurisprudenza v., Cass., 29 agosto 1997, n. 8177, in Rep. Foro. it., 1997, voce Arbitrato, n. 176.

[82] G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 138, per l’autore, “non si deve confondere questo requisito con quello analogo previsto per la convenzione di arbitrato dagli artt. 807, primo comma, e 808, primo comma, c.p.c. Abbiamo, infatti, già posto in rilievo che la nomina degli arbitri è indipendente dal negozio compromissorio ed è legata a quest’ultimo da un mero vincolo strumentale. Ciò ci induce a ritenere che si tratti di requisito formale non previsto a pena di nullità, ma posto in funzione di determinare con certezza il dies a quo del termine per la decisione”; C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 398; L. DITTRICH, Legge 5 gennaio 1994 n. 25. Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale, Commentario a cura di TARZIA-LUZZATTO- RICCI, cit., p. 55 ss.

[83] L. DITTRICH, Legge 5 gennaio 1994 n. 25. Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale, Commentario a cura di TARZIA-LUZZATTO-RICCI, cit., p. 59, per il quale in questo modo non si favorirebbero ingiustamente gli arbitri ai quali non è stato imposto un termine.

[84] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 181-182; C. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., p. 115; S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 70; M. ORLANDI, voce Arbitri, in AA.VV., Dizionario dell’arbitrato, con prefazione di Irti, Torino, 1997, p. 150; già in precedenza, S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, cit., p. 265; G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 322, per cui l’accettazione deve precedere l’inizio del procedimento, pena la sua “assoluta nullità o meglio inesistenza” (p. 325). Allo stesso modo v. V. ANDRIOLI, Commento del codice di procedura civile, cit., p. 811. In giurisprudenza v., Cass., 22 febbraio 1961, n. 409, in Giur. it., I, 1, c. 741, con nota contraria di CORMIO, Brevi note in tema di accettazione degli arbitri.

[85] N. IRTI, Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997.

[86] N. IRTI, Strutture forti e strutture deboli, in Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, p. 145, a detta dell’autore: “Le due strutture sono autonome e complete. Ciascuna vive in base alla propria legge di composizione. Quando il singolo e concreto contratto è chiamato a soddisfare una struttura debole […] qui non vi è un problema giuridico di forma. Quando, invece, la descrizione legislativa è forte […] qui (e soltanto qui) vi è un problema giuridico di forma”.

[87] C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 251.

[88] E, come chiarito da V. ANDRIOLI, Commento del codice di procedura civile, cit., p. 812, in un brano che la dottrina sovente richiama, “[..] di fronte alla quale eccezione, gli arbitri, sollecitati dal pericolo di più non conseguire gli onorari, si affretteranno a sottoscrivere in bella e debita forma”.

[89] L. DITTRICH, Legge 5 gennaio 1994 n. 25. Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale, Commentario a cura di TARZIA-LUZZATTO-RICCI, cit., nota 6, p. 56.

[90] G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 141, l’autore si riferisce a un’obbligazione principale, quella di rendere il lodo, e a obbligazioni implicite o strumentali: “L’obbligo degli arbitri è quello di rendere il lodo nel termine stabilito dalle parti o dalla legge. Implicite in tale obbligo sono prestazioni strumentali, quali quelle di non rinunciare all’incarico senza giustificato motivo o non omettere o ritardare il compimento di atti relativi alle loro funzioni (arg. ex art. 813, secondo e terzo comma, c.p.c.)”; A. STESURI, Gli arbitri. Mandato, responsabilità e funzioni, Milano, 2001, p. 129, per l’autore: “Con l’accettazione dell’incarico, gli arbitri si impegnano a compiere quel complesso di attività di indagine e di studio, giuridico ed intellettuale, che attraverso la loro scienza e conoscenza li porta alla formulazione del lodo. L’obbligo principale degli arbitri è quindi quello di pronunciare il lodo entro il termine previsto dalla legge o dalle parti”; A. DIMUNDO, Il mandato ad arbitrare. La capacità degli arbitri. La responsabilità degli arbitri, in AA. VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, cit., p. 497; A. BRIGUGLIO, in BRIGUGLIO-FAZZALARI- MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., p. 73.

[91] V. ANDRIOLI, Commento del codice di procedura civile, cit., p. 816. Così, anche, G. MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, cit., p. 13.

[92] C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 272; C. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., p. 122; C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 305.

[93] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 185.

[94] R. CICALA, voce Obbligazione divisibile e indivisibile, in Noviss. dig. it., XI, s.d., Torino, p. 647: “Non essendo possibile che le porzioni del fatto vengano ad esistenza nello stesso tempo e mancando, perciò, quel presupposto della divisibilità che è la contemporaneità delle parti, si deve senz’altro concludere per l’indivisibilità”.

[95] A. DI MAJO, voce Obbligazioni solidali e indivisibili, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1979, p. 304, l’autore si sofferma su come “sul rapporto tra obbligazione solidale e obbligazione indivisibile non regna assoluta chiarezza”, in virtù “anche di un certo ermetismo legislativo che si è limitato ad estendere alle obbligazioni indivisibili le norme relative a quelle solidali, in quanto applicabili (art. 1317 c.c.)”.

[96] F. D. BUSNELLI, voce Obbligazioni soggettivamente complesse, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1979, p. 341.

[97] A. DI MAJO, voce Obbligazioni solidali e indivisibili, cit., p. 304-305.

[98] A. DI MAJO, voce Obbligazioni solidali e indivisibili, cit., p. 301; D. RUBINO, Delle obbligazioni (obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili), in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1963, p. 130; M. GIORGIANNI, voce Obbligazione solidale e parziaria, in Noviss. dig. it., XI, Torino, s.d., p. 675, a detta dell’autore: “L’obbligazione può presentarsi, dal punto di vista subiettivo, complessa, nel senso che più debitori o creditori (o, insieme, più debitori e più creditori) partecipano al rapporto”. Per la tesi pluralistica delle obbligazioni solidali v. C. M. BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993, p. 699 ss.; G. F. CAMPOBASSO, Coobbligazione cambiaria e solidarietà diseguale, Napoli, 1974, p. 228 ss.; U. SALVESTRONI, Solidarietà di interessi e di obbligazioni, Padova, 1974, p. 181 ss. D. RUBINO, Delle obbligazioni (obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili), in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, cit., p. 147 ss.; G. AMORTH, L’obbligazione solidale, Milano, 1959, p. 38 ss.; A. MATTEUCCI, Solidarietà del fideiussore e suo debito non pecuniario, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1959, p. 1332 e 1345; C. GANGI, Le obbligazioni. Concetto. Obbligazioni naturali, solidali, divisibili e indivisibili, Milano, 1951, p. 221 ss.; M. GIORGIANNI, voce Obbligazione solidale e parziaria, cit., p. 667. Circa la tesi unitaria: v. G. GAZZARA, Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, Milano, 1956, p. 32; R. SCUTO, Teoria generale delle obbligazioni con riguardo al nuovo codice civile, I, Napoli, 1950, p. 326 ss. e 333 ss. Sull’unitarietà strutturale delle obbligazioni indivisibili: v. D. RUBINO, Delle obbligazioni (obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili), in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, cit., p. 354; R. CICALA, Sulla revoca dell’atto fraudolento e in generale sulla conservazione della garanzia nella solidarietà passiva, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 398 e 400. Prevalente è però la tesi pluralista: v. C. M. BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 759; C. GANGI, Le obbligazioni. Concetto. Obbligazioni naturali, solidali, divisibili e indivisibili, cit., p. 284; L. BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni, cit., p. 159-160.

[99] Sul punto v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 188.

[100] R. CICALA, voce Obbligazione divisibile e indivisibile, cit., nota 1, p. 646.

[101] Così S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 189.

[102] Elabora questa ricostruzione F. AULETTA, Arbitri e responsabilità civile, in Riv. arb., 2006, p. 747, che distingue tra valore della prestazione dovuta, dove vige il vincolo di solidarietà, e risarcimento del danno, che incomberebbe solamente sull’arbitro inadempiente: “Essendo l’obbligazione di pronunciare il lodo comunque indivisibile e in quanto tale tendenzialmente attratta nella disciplina della solidarietà, sarebbe tornata applicabile la regola che, tolto il valore della prestazione dovuta, almeno il risarcimento del danno è sempre a carico del solo condebitore inadempiente”. In giurisprudenza, cfr., Cass., 19 maggio 2004, n. 9458, in Giust. civ., 2005, I, p. 2459, con chiara nota di commento di S. D’ANDREA, Revirement della Corte di Cassazione in tema di obbligazioni dei promittenti alienanti (e dei promissari acquirenti).

[103] F. D. BUSNELLI, voce Obbligazioni soggettivamente complesse, cit., p. 331-332, per l’autore: “In sostanza, tra indivisibilità e solidarietà non corre allora un rapporto di tendenziale autonomia, ma, piuttosto, di possibile complementarità. Senonché giova aggiungere subito che tale complementarità non è una regola assoluta, dal momento che ben possono configurarsi ipotesi di obbligazioni indivisibili con pluralità di soggetti, alle quali non corrisponda un’attuazione solidale. Proprio così si giustifica, a nostro avviso, la riserva (“in quanto applicabili”) posta dall’art. 1317, circa la estensibilità alle obbligazioni indivisibili delle norme dettate in tema di solidarietà. Siffatta riserva, quindi, andrebbe intesa non tanto nel senso della possibilità di rinvenire qualche singola disposizione in materia di solidarietà che non si concilierebbe con il cosiddetto regime puro della indivisibilità, quanto piuttosto nel senso, più generale, di dare atto che non sempre la indivisibilità della prestazione è tale da comportare le conseguenze della solidarietà”.

[104] F. D. BUSNELLI, voce Obbligazioni soggettivamente complesse, cit., p. 332; di obbligazioni collettive o connesse parla, invece, M. GIORGIANNI, voce Obbligazione solidale e parziaria, cit., p. 677.

[105] Cfr. V. CAREDDA, Le obbligazioni ad attuazione congiunta, in Riv. dir. civ., 1989, I, p. 455 e nota 1: l’autrice adopera le espressioni “obbligazione collettiva” ed “obbligazione ad attuazione congiunta” in maniera promiscua. “Entrambi appaiono, infatti, idonei ad individuare profili caratteristici della figura in esame: il primo evidenzia la pluralità soggettiva ed il secondo la particolarità del momento esecutivo”.

[106] V. CAREDDA, Le obbligazioni ad attuazione congiunta, cit., p. 456.

[107] Molteplicità di debitori, eadem res debita ed eadem causa obligandi rappresentano la triade di elementi, la cui contemporanea presenza è necessaria e indeclinabile affinché si possa parlare di un’obbligazione soggettivamente complessa: cfr., F. D. BUSNELLI, L’obbligazione soggettivamente complessa (profili sistematici), cit., passim. In senso conforme V. CAREDDA, Le obbligazioni ad attuazione congiunta, cit., p. 463-465.

[108] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 192.

[109] A riguardo v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 192.

[110] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 193, secondo l’autore: “Problematico appare, in primo luogo, codesto tenere insieme attuazione congiunta dell’obbligazione e regime della solidarietà: note della prestazione e modo di attuazione del vincolo non sembrano complementari”.

[111] M. ORLANDI, La responsabilità solidale. Profili delle obbligazioni solidali risarcitorie, Milano, 1993, p. 83.

[112] M. GIORGIANNI, voce Obbligazione solidale e parziaria, cit., p. 677, che afferma che: “La infungibilità delle prestazioni, cui più debitori sono tenuti, o meglio la loro inettitudine ad essere adempiute da un solo debitore per tutti, produce taluni notevoli riflessi. Il principale di essi è costituito, a nostro avviso, dalla inapplicabilità dell’art. 1294 c.c., che sancisce la presunzione di solidarietà. Tale presunzione, a nostro avviso, si applica solo nella ipotesi in cui tutte le prestazioni dei vari debitori hanno l’attitudine ad essere adempiute da ciascuno di essi”.

[113] Così M. ORLANDI, La responsabilità solidale. Profili delle obbligazioni solidali risarcitorie, cit., p. 75.

[114] Di molteplicità di prestazioni parla D. RUBINO, Delle obbligazioni (obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili), in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, cit., p. 137.

[115] Cfr. M. GIORGIANNI, voce Obbligazione solidale e parziaria, cit., p. 677.

[116] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 196.

[117] F. AULETTA, Arbitri e responsabilità civile, cit., p. 750-751.

[118] M. ORLANDI, La responsabilità solidale. Profili delle obbligazioni solidali risarcitorie, cit., p. 337, per l’autore: “la prestazione di equivalente dei debitori incolpevoli trova causa, non già nella situazione di condebito, bensì nel regime solidale dell’attuazione”.

[119] In questo senso v. S. D’ANDREA, La parte soggettivamente complessa. Profili di disciplina, cit., nota 8, p. 324.

[120] Così S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 197.

[121] Riguardo alla legge di delega v. E. F. RICCI, La delega sull’arbitrato, in Riv. dir. proc., 2005, p. 951 ss.; C. PUNZI, Ancora sulla delega in tema di arbitrato: riaffermazione della natura privatistica dell’istituto, in Riv. dir. proc., 2005, p. 963 ss.

[122] Sul punto v. C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 262; F. AULETTA, Arbitri e responsabilità civile, cit., p. 745.

[123] In questo senso v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 199-200; C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 264.

[124] Per F. AULETTA, Arbitri e responsabilità civile, cit., p. 747 ss.: “Il primo degli obiettivi che il Legislatore appare essersi prefisso, allora, è la creazione di un’unica fonte di disciplina, esaustiva pur quando non autosufficiente, come rivela il ricorso alla tecnica del rinvio selettivo a luoghi normativi alieni dal codice di rito”.

[125] Per G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 145, secondo cui: “[…] la disciplina della responsabilità degli arbitri deve essere tendenzialmente tratta dalle norme contenute nel codice di procedura”; F. AULETTA, Arbitri e responsabilità civile, cit., p. 747, che, richiamando le riflessioni di Verde, supra riportate, specifica: “niente più che tendenzialmente, dunque”.

[126] P. L. NELA, Le recenti riforme del processo civile, commentario diretto da S.Chiarloni, Bologna, 2007, p. 1683, l’autore specifica che: “Prima della riforma, la responsabilità degli arbitri si atteggiava, in base all’art. 813, secondo e terzo comma, in due direzioni. Da un lato, ai sensi del secondo comma, gli arbitri rispondevano dei danni in due casi, di lodo annullato perché reso fuori termine, ovvero di rinuncia all’incarico senza giustificato motivo. Dall’altro lato, secondo il terzo comma, l’arbitro che avesse omesso o ritardato un atto relativo alle sue funzioni doveva essere sostituito; ma anche in questo caso non era da escludere la possibilità di una condanna per danni”.

[127] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 201.

[128] C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in F.CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 266; L. DITTRICH, Legge 5 gennaio 1994 n. 25. Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale, Commentario a cura di G.TARZIA-R.LUZZATTO-E.RICCI, cit., p. 492; G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 395; E. CODOVILLA, Del compromesso e del giudizio arbitrale, II edizione, Torino, 1915, p. 261.

[129] Compie una distinzione tra l’obbligo di rendere il lodo e l’obbligo di decidere nel termine G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 393: “Ad essi [gli arbitri] incombe, cioè, l’onere di svolgere tutte quelle attività di indagine, di studio o di coordinazione, di attività a carattere tecnico, giuridico e intellettuale che, attraverso la loro scienza e coscienza, li porta alla formulazione del lodo. […] Ma il vero sostanziale obbligo degli arbitri si concreta in quello di pronunciare il lodo. […] Il secondo obbligo che loro incombe è quello di pronunciare entro il termine stabilito dalle parti nel contratto compromissorio o nell’atto successivo col quale l’abbiano prorogato o, in mancanza, entro il termine fissato dalla legge all’art. 820 c.p.c. L’osservanza del termine, infatti, è essenziale alla validità della sentenza arbitrale”.

[130] Ricorrono in dottrina affermazioni come quella per cui il termine “non costituisce elemento essenziale del patto compromissorio” ed è lasciato “nella piena disponibilità delle parti” (C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 6) o quella in base alla quale la possibilità che le parti hanno di prevedere un termine diverso da quello di legge o “di prolungare ad libitum il termine di pronuncia del lodo” rappresentano “ulteriore conferma della natura contrattuale dell’arbitrato” (E. FADDA, P. IASIELLO, Il lodo arbitrale, in AA.VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, a cura di Alpa, p. 776).

[131] Considera rilevante, ai fini dell’adempimento, un lodo composto di tutti i suoi elementi A. BRIGUGLIO, in BRIGUGLIO-FAZZALARI-MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario, cit., p. 74, per l’autore, “inadempimento degli arbitri vi è […] per la mancata emanazione di un lodo munito di tutti i requisiti che lo rendono formalmente tale”. Così, anche, C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 296, il quale parla di “lodo che decide la controversia”; L. VASSELLI, Termine per la pronuncia del lodo arbitrale rituale e responsabilità degli arbitri, in Quad. giurispr. imp., 1991, p. 31. Contra E. GARBAGNATI, Intorno al termine per il deposito del lodo arbitrale, in Foro pad., 1951, III, c. 74, secondo il quale “la pronuncia del lodo si identifica concettualmente con la sottoscrizione del documento scritto del dispositivo deliberato dagli arbitri”.

[132] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 202.

[133] Ritiene la norma derogabile, G. DE NOVA, Disciplina legale dell’arbitrato e autonomia privata, cit., p. 426: “Così l’art. 813-ter sulla responsabilità degli arbitri. Nulla vieta, a mio parere, che il contratto di arbitrato, in deroga all’art. 813-ter, dica ad esempio applicabile l’art. 2236 c.c., e così consenta la responsabilità per colpa semplice là dove la prestazione non implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà”.

[134] A. BRIGUGLIO, La responsabilità dell’arbitro al bivio fra responsabilità professionale e responsabilità del giudice, in Giust. civ., 2006, p. 57.

[135] C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 304.

[136] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 204.

[137] P. L. NELA, Le recenti riforme del processo civile, commentario diretto da S.CHIARLONI, cit., p. 1687, secondo il quale, la limitazione di cui all’art. 813-ter c.p.c. “si giustifica con l’esigenza di evitare condizionamenti agli arbitri, di qualunque natura ed origine”.

[138] Così C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in F.CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 270.

[139] C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 270.

[140] P. L. NELA, Le recenti riforme del processo civile, commentario diretto da S.Chiarloni, cit., p. 1687.

[141] Cfr. sul punto le perplessità manifestate da G. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., p. 81, per il quale: “La ratio della disposizione è quella di evitare che, pendente l’impugnazione arbitrale, se ne possa compromettere l’iter, mettendo sotto processo l’arbitro o gli arbitri (espediente a cui la parte potrebbe fare ricorso quante volte avesse sentore che l’esito del giudizio potrebbe non esserle favorevole). Ma ciò giustifica che si attenda la conclusione del procedimento, non che si aspetti il passaggio in giudicato della decisione sulla impugnazione per nullità. Questa parte della disposizione si giustificherebbe se la norma fosse da intendere nel senso che la nullità del lodo non è in sé e per sé causativa di danno quando comunque i giudici statali hanno potuto decidere il merito della controversia, così correggendo gli errori degli arbitri”.

[142] Cfr. G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 68, secondo l’autore, “[…] oggetto del giudizio arbitrale può essere ciò che costituisce oggetto del giudizio statale […], la controversia arbitrale riguarda diritti o rapporti giuridici non diversamente da ciò che forma oggetto di controversia dinanzi al giudica statale”.

[143] Per un approfondimento v. C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 33ss.; ID., voce Arbitrato, I) Arbitrato rituale e irrituale, cit., p. 8 ss.; A. DIMUNDO, L’arbitraggio. La perizia contrattuale, in AA. VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, rassegna coordinata da G. ALPA, 1999, I, p. 145 ss.; F. CRISCUOLO, Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto, Napoli, 1995; E. FAZZALARI, Arbitrato e arbitraggio, in Riv. arb., 1993, p. 583 ss.; G. MARANI, In tema di arbitrato, arbitraggio, perizia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1983, p. 610 ss.; C. FURNO, Appunti in tema di arbitramento e di arbitrato, in Riv. dir. proc., 1951, II, p. 161 ss. La definizione è accolta anche dalla giurisprudenza, sulla quale v. L. GALTERIO, Arbitrato rituale, arbitrato irrituale e arbitraggio, in Riv. arb., 1993, p. 128 (fra le tante v. in particolare Cass., 2 febbraio 1999, n. 858; Cass., 16 maggio 1998, n. 4931).

Il delicato tema dell’esatto inquadramento dell’arbitraggio e della distinzione rispetto alla perizia contrattuale impone il rinvio alle fondamentali pagine di M. BOVE, La giustizia privata, , 2023, p. 297 ss.

[144] Cass., Sez. un., 11 febbraio 1987, in Foro it., 1987, I, p. 1047, con nota di BARONE e in Giur. it., 1987, I, 1, p. 1804, con nota di AMOROSO.

[145] Sul punto v. C. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., p. 20.

[146] E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 298, l’autore inquadra la pronuncia del terzo come negozio di secondo grado; F. SANTORO PASSARELLI, La determinazione dell’onorato di un lascito e l’arbitrio del terzo, in Riv. dir. priv., 1932, I, p. 293; T. ASCARELLI, Arbitri e arbitratori, Gli arbitrati liberi, in Riv. dir. proc., 1929, I, p. 314. In senso conforme, per la pronuncia del terzo parlano di “determinazione volitiva” di “carattere costitutivo”, pur se circoscritta all’obbligo dell’arbitratore di adeguarsi al canone dell’equità, L. BIAMONTI, voce Arbitrato, cit., p. 953; o invocano a sostegno della loro tesi il fatto che l’atto del terzo può essere impugnato per i vizi che rendono impugnabile il negozio giuridico, oltreché per l’assenza di capacità di intendere e di volere dell’arbitratore F. CARRESI, Il contratto, I, in Trattato di dir. civ. comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1987, p. 208. In giurisprudenza, v. Cass., 13 settembre 1963, n. 2492, in Mass. Giust. civ., 1963; Cass., 12 ottobre 1960, n. 2665, ivi, 1960; Cass., 25 giugno 1958, n. 2254, ivi, 1958; Cass., 12 luglio 1951, n. 1930, ivi, 1951.

[147] C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 331; R. SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, 1970, p. 390, secondo l’autore, il dictum dell’arbitratore non si può ricondurre alle altre figure note e va piuttosto qualificato come un atto giuridico di arbitramento, che si lega al contratto, sul quale va ad incidere, in virtù del patto di arbitramento. Va escluso che sia una dichiarazione negoziale o di scienza, deve invece considerarsi atto costituente che esprime la volontà e libertà di chi lo emette, in funzione della autonomia dispositiva degli altri soggetti interessati.

[148] Cfr. G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 69; G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 249 ss.

[149] M.BOVE, La giustizia privata, cit., p. 306; in giurisprudenza, Cass. 29 Ottobre 1999, n. 12155.

[150] Per approfondire v. P. BERNARDINI, Il diritto dell’arbitrato, Bari, 1998, p. 28; G. MIRABELLI-D. GIACOBBE, Diritto dell’arbitrato, Napoli, 1997, p. 9; F. CRISCUOLO, Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto, cit., p. 279; P. ZUDDAS, L’arbitraggio, Napoli, 1992, p. 217- 220; M. RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato (interno), cit., p. 12; C. PUNZI, voce Arbitrato, I) Arbitrato rituale e irrituale, cit., p. 38; A. CATRICALA’, voce Arbitraggio, in Enc. giur., 1988, p. 1; C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 333; G. ALPA, Compendio del nuovo diritto privato, Torino, 1985, p. 108; G. MARANI, In tema di arbitrato, arbitraggio, perizia contrattuale, cit., p. 610; G. MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, IV, tomo II, Torino, 1980, p. 183; G. SCIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 278; R. VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, cit., p. 105; ID., Perizia contrattuale, arbitrato irrituale e arbitraggio, in Foro pad., 1953, p. 405; R. SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, 1970, p. 385; ; L. BIAMONTI, voce Arbitrato, cit., p. 955; G. SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, cit., p. 108 e 119.

[151] R. SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, cit., p. 385; G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 264; L. BIAMONTI, voce Arbitrato, cit., p. 955, per l’autore, il terzo viene incaricato per la sua competenza e a lui si chiede un apprezzamento di fatto che va eseguito non con una valutazione discrezionale ma mediante l’applicazione delle comuni regole tecniche. Individua nella pronuncia del terzo i caratteri della dichiarazione di scienza F. CRISCUOLO, Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto, cit., p. 281.

[152] Cfr. F. CRISCUOLO, Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto, cit., p. 282.

[153] M.BOVE, La giustizia privata, cit., 308, nota 18. Di seguito l’A. affronta con argomentazioni pensose e profonde il tema della non riconducibilità della perizia contrattuale ad un fenomeno probatorio (cfr. § 5 p. 309 ss)

[154] Ancora, M. BOVE, La giustizia privata, cit. p. 318, nota 27.

[155] Cfr. G. MARANI, In tema di arbitrato, arbitraggio, perizia contrattuale, cit., p. 613.

[156] L. BIAMONTI, voce Arbitrato, cit., p. 955. In senso conforme A. CATRICALA’, voce Arbitraggio, cit., p. 2; G. RECCHIA, voce Arbitrato irrituale, in Noviss. Dig. it., Appendice, Torino, 1980, p. 366, per l’autore, la perizia contrattuale, quale accertamento di fatto basato sull’esperienza tecnica del terzo-perito, si allontana dall’arbitrato irrituale perché è assente la controversia e dall’arbitraggio perché non va completato un contratto. Circa l’autonomia della perizia contrattuale, in giurisprudenza, v. Cass., 17 novembre 1982, n. 6162, in Mass. Giust. civ., 1982; Cass., 22 ottobre 1981, n. 5544, in Mass. Giust. civ., 1981; Cass., 29 gennaio 1981, n. 699, in Mass. Giust. civ., 1981; Cass., 6 giugno 1975, n. 2272, in Mass. Giust. civ., 1975; Cass., 20 marzo 1970, n. 854, in Mass. Giust. civ., 1970; Cass., 22 agosto 1966, n. 2268, in Mass. Giust. civ., 1966.

[157] C. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., p. 97, secondo il quale “Esaminato nelle relazioni con il contratto di arbitrato, il contratto di mandato agli arbitri deve ora essere esaminato in sé. In tale prospettiva è il contratto con il quale uno o più soggetti si obbligano a compiere per conto di due o più parti un particolare atto giuridico: il giudizio su di una controversia giuridica. È pertanto un contratto tipico che costituisce un rapporto giuridico patrimoniale, in quanto specificazione del contratto di mandato”; C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 177 ss.; L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, cit., p. 57.

[158] S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 70; C. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., p. 118; P. BERNARDINI, Il diritto dell’arbitrato, Bari, 1998, p. 61; E. FAZZALARI, voce Arbitrato (Teoria generale e Diritto processuale civile), cit., p. 398; R. VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, Milano, 1971, p. 401; G. VERDE, Collegialità degli arbitri e responsabilità per inadempimento, in Riv. dir. proc., 1961, p. 240 ss., per l’autore, “Si dichiara subito la preferenza per un inquadramento privatistico dei rapporti fra le parti e l’arbitro, che, precisamente, faccia capo allo schema del contratto di prestazione di lavoro intellettuale”; ID., Diritto dell’arbitrato, cit., p. 143; S. SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, cit., p. 17, secondo l’autore, “[…] se si prende in considerazione attentissima la struttura dell’intero rapporto arbitrale, si noterà subito come tra le parti compromettenti e il terzo corra un rapporto di diritto materiale – il receptum – il quale è indubbiamente espressione di un obbligo del terzo a compiere una determinata prestazione, e di un corrispondente diritto delle parti all’adempimento di quell’obbligo. Il diritto privato spiega esaurientemente questo fenomeno, che è del tutto analogo ad altre figure pacificamente riconosciute, e in genere alla locazione delle opere”. In giurisprudenza v. Cass., 26 novembre 1999, n. 13174, in Rep. Giur. it., voce Arbitrato – arbitri, 1999, n. 118, sulla natura del contratto parti-arbitri come contratto d’opera intellettuale.

[159] G. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., p. 70 ss.; C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 183 ss., parla di “ufficio” di natura privatistica; A. BRIGUGLIO, in BRIGUGLIO- FAZZALARI-MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., p. 70; G. MIRABELLI-D. GIACOBBE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 46; E. FAZZALARI, L’arbitrato, cit., p. 49, secondo il quale è preferibile parlare tout court di “convenzione per nomina di arbitro” onde evitare equivoci circa l’intero processo; G. MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, cit., p. 9; L. BARBARESCHI, Gli arbitrati, cit., p. 100.

[160] G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 211, 326, 328 e 390, “Si oppone alla tesi del mandato, inoltre, l’osservazione che gli arbitri non ricevono dai compromettenti un incarico ad negotia gerenda e tanto meno di operare in nome e per conto di essi sia pure congiuntamente. Invero, le parti affidano agli arbitri la decisione di una loro controversia ed essi debbono decidere, per l’imparzialità ed obiettività che deve informare anche il loro operato come quello dei giudici ordinari, astraendo dall’una e dall’altra parte. Debbono decidere, cioè, come si suol dire, unicamente secundum alligata et probata”; E. REDENTI, Diritto processuale civile, III, Milano, 1954, p. 458; F. CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano, cit., p. 6; Così anche A. DIMUNDO, Il mandato ad arbitrare. La capacità degli arbitri. La responsabilità degli arbitri, in AA. VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, rassegna coordinata da G. ALPA, 1999, I, p. 494.

[161] G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 117.

[162] A riguardo v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 31; L. BARBARESCHI, Gli arbitrati, cit., p. 102, il quale sostiene che: “Gli arbitri […] quando decidono la controversia, non compiono un affare, e nemmeno agiscono per conto delle parti che li hanno nominati. Essi non si sostituiscono alle parti per comporre una lite, ma agiscono in modo autonomo e in piena libertà”.

[163] G. VERDE, Collegialità degli arbitri e responsabilità per inadempimento, cit., p. 248.

[164] Così, tra i primi, S. SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, cit., p. 17, che qualificava il rapporto tra parti e arbitri come rapporto di diritto materiale – il “receptum” – analogo a figure già riconosciute, e in genere, alla locatio operis. Sul punto v., anche, S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 70; E. FAZZALARI, voce Arbitrato (Teoria generale e Diritto processuale civile), cit., p. 398.

[165] Cfr. G. MUSOLINO, L’opera intellettuale: obbligazioni e responsabilità professionali, Padova, 1995, p. 99; F. SANTORO PASSARELLI, voce Professioni intellettuali, in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1967, p. 25: “Nelle professioni intellettuali non si può dire che il risultato si identifichi con lo stesso comportamento, ma può e deve essere tenuto distinto da questo”.

[166] G. VERDE, Collegialità degli arbitri e responsabilità per inadempimento, cit., p. 256.

[167] Sulla questione v. S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 70; E. FAZZALARI, voce Arbitrato (Teoria generale e Diritto processuale civile), cit., p. 398, secondo l’autore, con l’accettazione, gli arbitri accettano l’obbligo di eseguire un opus di natura intellettuale, di offrire i mezzi necessari per decidere la controversia; una volta ricevuto l’incarico, “s’istituisce fra gli stessi e le parti una locatio operis”.

[168] In questo senso, a confutazione della tesi del contratto di prestazione d’opera intellettuale, v. S, MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 34-35.

[169] Cfr., M. TICOZZI, Autonomia contrattuale, professioni e concorrenza, Padova, 2003, p. 16; R. CAFARO, Il contratto di consulenza, Padova, 2003, p. 16, ove la discrezionalità e l’infungibilità della prestazione sono adoperate per fondare la distinzione tra professione intellettuale e attività d’impresa.

[170] Cfr., G. MUSOLINO, L’opera intellettuale: obbligazioni e responsabilità professionali, cit., p. 82.

[171] In tal senso v. L. RIVA-SANSEVERINO, Lavoro autonomo, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, II edizione, Bologna-Roma, 1969, p. 223; F. SANTORO-PASSARELLI, voce Professioni intellettuali, cit., p. 25.

[172] Adopera il tratto dell’infungibilità per non dimenticare le difficoltà incontrate, nel nostro ordinamento, dalla figura della società tra professionisti, G. AMADIO, L’esercizio associato della professione intellettuale tra presente e futuro: le prospettive di una riforma, in Riv. dir. civ., 1990, II, p. 663. Cfr., anche, A. BERLINGUER, Professione intellettuale, impresa e concorrenza nel dialogo diritto interno-diritto comunitario: premesse per uno studio, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 637; G. OPPO, Antitrust e professioni intellettuali, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 123; F. GALGANO, Professioni intellettuali, impresa, società, in Contratto e impresa, 1992, p. 7. Parla di infungibilità come “aspetto saliente” della obbligazione del professionista il GIACOBBE, voce Professioni intellettuali, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, p. 1074. Nello stesso senso v., anche, P. PERLINGIERI, Lavoro autonomo dei professionisti, principio di eguaglianza e interessi privilegiati, in Rass. dir. civ., 1990, p. 609.

[173] L. BARBARESCHI, Gli arbitrati, cit., p. 102.

[174] Cfr. G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 332, l’autore specifica che “le difficoltà incontrate dalla dottrina nella ricerca di definire il rapporto parti-arbitri trova la sua ragione nell’aver essa insistito nel tentativo di inquadrare il rapporto medesimo nello schema di qualcuno dei contratti tipici che con esso hanno qualche somiglianza”.

[175] Cfr. R. SACCO, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1966, p. 800, l’autore precisa che l’esigenza classificatoria “determina una sorta di finalismo nella qualificazione del contratto”.

[176] Sulla questione v. G. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., p. 70 ss.; ID., Diritto dell’arbitrato, cit., p. 117, l’Autore ragiona sulle ricostruzioni del rapporto parti-arbitri e così precisa: “[…] la scelta sembra ulteriormente definirsi: o pensare a un negozio misto, che raccolga pro parte la disciplina del mandato e quella della locatio operis ovvero pensare ad un contratto dotato di propria individualità e disciplinato nei suoi aspetti essenziali dal codice di procedura. Dovendo scegliere, optiamo per la seconda soluzione, anche perché quando si parla di contratto misto si aprono più che risolversi problemi, essendo sempre incerto quale sia la disciplina da applicare alle singole situazioni”; ID., La posizione dell’arbitro dopo l’ultima riforma, in Riv. arb., 1997, p. 474. Parlano, altresì, di un tipo contrattuale a sé stante: C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, V ristampa, Bologna, 2007, p. 249; G. MIRABELLI-D. GIACOBBE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 44 ss.; L. DITTRICH, Legge 5 gennaio 1994 n. 25. Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale, Commentario a cura di TARZIA-LUZZATTO-RICCI, in Nuove leggi civ. comm., Padova, 1995, p. 55; A. BRIGUGLIO, in BRIGUGLIO-FAZZALARI-MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., p. 68 ss.; G. MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, cit., p. 9.

[177] G. MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, cit., p. 9. Così, anche, A. DIMUNDO, Il mandato ad arbitrare. La capacità degli arbitri. La responsabilità degli arbitri, cit., p. 495.

[178] La dottrina più recente, alla luce delle difficoltà nel ricostruire il contratto di arbitrato, ha deciso di sottolineare le note che caratterizzano il contratto, optando per la tipicità dello stesso. In tal senso v. A. BRIGUGLIO, in A.BRIGUGLIO-E.FAZZALARI-R.MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., p. 70.

[179] AA. VV., Dieci lezioni introduttive a un corso di diritto privato, Torino, 2006, p. 73: “Nella parte ipotetica la norma giuridica descrive un fatto, che può accadere come può non accadere: non un fatto reale, ma un fatto eventuale: non “specie di un fatto”, ma “specie di un fatto eventuale”.

[180] F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, cit., p. 231.

[181] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 94.

[182] Cfr. N. IRTI, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano, 1967, p. 125.

[183] In particolare v. C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 321: “Su un piano concreto la questione si riduce semplicemente ad accertare in quale significato o in quali significati è usato il termine oggetto. Ora, con riferimento alla disciplina legislativa del contratto il termine non si limita a designare singoli dati reali, o ideali sui quali incide il contratto ma l’intera operazione voluta dalle parti, che, appunto costituisce il contenuto dell’accordo”; N. IRTI, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, cit., p. 141; ID., voce Oggetto del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 204- 205; A. AURICCHIO, L’individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960, p. 105 ss. Analogamente v. R. SACCO, Il contenuto del contratto, in SACCO-DE NOVA, Il contratto, in Tr. dir. civ., diretto da R. Sacco, III edizione, tomo II, Torino, 2004, p. 6: “Questa nozione di oggetto, o contenuto, inteso come regolamento adottato dalle parti si adatta bene alla correlazione tra regolamento, prestazione e cosa”.

[184] N. IRTI, voce Oggetto del negozio giuridico, cit., p. 204-205.

[185] Propone un’argomentazione differente G. GITTI, L’oggetto della transazione, Milano, 1999, p. 161, il quale, pur ammettendo che l’oggetto sia un termine esterno al contratto, non accetta la nozione unitaria del concetto: “Pertanto la nostra conclusione può ora sembrare addirittura scontata: l’oggetto varia al variare degli effetti contrattuali programmati dalla volontà delle parti. E dunque si potrà parlare di un oggetto dei contratti obbligatori diverso dall’oggetto dei contratti dispositivi e tra questi ultimi di un oggetto ulteriormente differenziato a seconda che si considerino i contratti con effetti reali o i contratti regolamentari e modificativi di un preesistente rapporto giuridico”.

[186] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 96.

[187] A. BELVEDERE, Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano, 1977, p. 114.

[188] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 139, l’autore precisa che, per quanto riguarda il rapporto tra la disciplina del contratto e le norme stabilite per i singoli contratti tipici, si confrontano due orientamenti. Secondo una prima tesi c’è piena autonomia e indipendenza delle figure in questione rispetto a quella di genere; si rinvia alle considerazioni di G. DE NOVA, Sul rapporto tra disciplina generale dei contratti e disciplina dei singoli contratti, in Contr. impr., 1988, p. 328-329, secondo il quale, “[…] in alcuni casi la disciplina particolare del singolo contratto esclude espressamente l’applicazione della disciplina generale […], in altri casi, il rapporto non è di antitesi, ma è comunque di esclusione”; in altri termini, le norme generali avrebbero soltanto una funzione “sussidiaria e residuale”. Seguendo una differente ricostruzione, tra norme generali e tipiche ci deve essere coesistenza e combinazione; le prime vanno applicate a ogni singolo contratto non in antitesi, ma in concorso con le norme particolari: sul punto v. F. MESSINEO, Sul rapporto sistematico fra gli artt. 1321-1469 e gli art. 1470-1986 c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, p. 18. L’autore (S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 137) aderisce a quest’ultimo orientamento, chiarendo che, nei rapporti tra sistemi normativi, “dove il più comprende il meno, il legame è sempre di genere a specie” […]. “La eccezionalità degli effetti non toglie che le figure di specie appartengano sempre al genere contratto; e che, dunque, la disciplina generale concorra e si combini con le norme tipiche”.

[189] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 147.

[190] Si evoca l’idea per la quale devono unirsi i concetti di soggettività e personalità giuridica. Un soggetto di diritto o persona possiede la capacità in astratto di divenire destinatari di situazioni giuridiche soggettive: capacità che precede ed è indipendente dall’accadere del fatto concreto, da cui scaturisce la successiva titolarità di diritti ed obblighi. Cfr. N. IRTI, Sul concetto di titolarità, in Norme e fatti, Milano, 1984, p. 76 ss. Espressamente A. FALZEA, voce Capacità, in Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Milano, 1997-2010, p. 248-251: “L’errore di queste – e di altri simili – concezioni sta nel considerare, volta a volta, la soggettività giuridica o la capacità giuridica come posizioni specifiche del soggetto […]. Il medesimo errore di prospettiva che si è qui denunciato ha condotto […] ad introdurre la distinzione tra soggettività giuridica e personalità giuridica”. Codesta astratta capacità di imputazione o è, o non è: non sembrano possibili compromessi o mediazioni logiche, che immaginano “graduazioni” della soggettività o, ancora, ipotesi di soggettività “relativa”. In tale senso v. P. RESCIGNO, voce Capacità, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, p. 874; F. CARNELUTTI, Personalità giuridica e autonomia patrimoniale nella società e nella comunione, in Riv. dir. comm., 1954, I, p. 122. Più di recente, AA. VV., Dieci lezioni introduttive a un corso di diritto privato, cit., p. 242.

[191] M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1970, p. 263. In tale senso G. B. VERBARI, voce Organi collegiali, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 60: “In prima approssimazione, l’organo collegiale può essere concettualizzato come un’organizzazione titolare di potestà definite, composta da più unità organizzative (i componenti del collegio)”.

[192] F. GALGANO, Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, p. 29; C. VITTA, Gli atti collegiali. Principi sul funzionamento dei consessi pubblici con riferimento alle assemblee private, Roma, 1920, p. 188.

[193] Cfr. S. VALENTINI, La collegialità nella teoria dell’organizzazione, Milano, 1968; U. GARGIULO, I collegi amministrativi, Napoli, 1962, p. 61: “[…] se si ammette, come noi riteniamo, che è il collegio non è la somma delle persone che lo compongono, ma è un’unità a sé che non è astratta, bensì concreta e attuale […] si deve riconoscere che il collegio stesso è qualcosa di diverso dai singoli componenti”.

[194] A riguardo v. S. ROMANO, Introduzione allo studio del procedimento giuridico nel diritto privato, Milano, 1961, p. 7 ss., ove si ragiona a favore di concorso, continuità e sequenza tra atti, negozi e situazioni giuridiche. Il tema è stato riletto da P. PERLINGIERI, La concezione procedimentale del diritto di Salvatore Romano, in Rass. dir. civ., 2006, p. 425.

[195] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 154.

[196] A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, p. 3.

[197] Circa l’atto collegiale, la cui identità la dottrina ha tratto nell’ambito della classificazione di atti “complessi”, si esercitarono già i primi autori del Novecento: D. DONATI, Atto complesso, approvazione, autorizzazione, in Arch. giur., 1903, p. 3; V. BRONDI, L’atto complesso nel diritto pubblico, in Studi giuridici dedicati e offerti a Francesco Schupfer, III, Torino, 1898, p. 555. La ricerca si sviluppò ulteriormente grazie alla sistemazione del CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, cit., p. 349 ss., il quale fece dell’atto complesso il genere, all’interno del quale si racchiudono le varie specie dell’atto collettivo e dell’atto composto: specie ulteriore dell’atto collettivo è l’atto concorsuale, il quale può a sua volta distinguersi in atto collegiale e accordo. Si basa su tale classificazione R. LUCIFREDI, Atti complessi, in Noviss. dig. it., I, 2, Torino, s.d. (ma 1957), p. 1501. Cfr., anche, A. BELVEDERE, Glossario, voce Atto collettivo, collegiale, complesso, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1994, p. 42.

[198] A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, cit., p. 41.

[199] Cfr. A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, cit., p. 41.

[200] Cfr. S MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 157.

[201] Così G. VERDE, Collegialità degli arbitri e responsabilità per inadempimento, cit., p. 242-243. In senso conforme A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, cit., p. 35 e 37.

[202] Cfr. S MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 160.

[203] Ancora attuali le riflessioni di P. CALAMANDREI, La sentenza soggettivamente complessa, cit., p. 213, che però non attribuisce autonoma rilevanza alle manifestazioni di volontà dei giudici che devono pronunciare una sentenza collegiale.

[204] Così S MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 160.

[205] Cfr. G. B. FERRI, voce Parte del negozio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 901; F. MESSINEO, Il negozio giuridico plurilaterale, Milano, 1927, p. 11: non esiste identità necessaria e costante tra la nozione di soggetto giuridico e la nozione di parte contrattuale. “Parte” significa centro di interessi.

[206] Cfr. A. PALAZZO, voce Comunione, in Dig. disc. priv., III, Torino, 1988, p. 171; G. OSTI, voce Contratto, in Noviss. dig. it., IV, Torino, 1959, p. 473, per l’autore, i componenti della parte complessa “assumono nell’atto una posizione unica ed identica a quella che assumerebbe un soggetto solo, perché unico è l’interesse che essi tendono a realizzare”. Nell’ipotesi di più membri, l’accento non cade sul numero di soggetti, ma sul motivo, che li accomuna e tiene insieme: “nel contratto, i più soggetti costituiscono una parte sostanzialmente unica […]. E le loro dichiarazioni […] possono considerarsi, da un punto di vista giuridico, come un’unica dichiarazione di volontà”.

[207] L. BIGLIAZZI GERI-F. BUSNELLI-U. BRECCIA-U. NATOLI, Diritto civile, 1.2, Torino, 1987, p. 543.

[208] G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 140.

[209] R. SACCO, Il contenuto del contratto, in SACCO-DE NOVA, Il contratto, cit., p. 77, l’autore sottolinea la presenza del “vezzo di vedere l’unità là dove le dichiarazioni sono multiple”.

[210] C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p.54: “Se si ha riguardo alla disciplina del contratto deve tuttavia rilevarsi che essa fa riferimento ai soggetti che costituiscono e assumono il rapporto contrattuale e non ad un astratto centro di interessi che non è come tale destinatario di imputazioni giuridiche”.

[211] L. BARASSI, Teoria generale delle obbligazioni, II edizione, I, Milano, 1948, p. 25.

[212] F. MESSINEO, voce Contratto plurilaterale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 158, per il quale “la singola dichiarazione di accettazione va diretta non soltanto al proponente, ma anche agli altri oblati”.

[213] R. SACCO, La conclusione dell’accordo, in I contratti in generale, Tratt. dei contratti, diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, tomo I, Torino, 1999, p. 171.

[214] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 167.

[215] S. D’ANDREA, La parte soggettivamente complessa, Milano, 2002, p. 173, a detta dell’autore, “si deve riconoscere al singolo membro la tutela che il legislatore assegna alla parte nei confronti dell’altra parte”.

[216] S. D’ANDREA, La parte soggettivamente complessa, cit., p. 131, per il quale “ogni soggetto che prende una decisione, se si vuole, che compie una dichiarazione (membro di una parte complessa o di una parte semplice), reputa che il testo del contratto sia idoneo a rappresentare il risultato che si è prefisso e il sacrificio che ha inteso accettare. L’unicità del testo combina in unità la pluralità di decisioni”. Allo stesso modo v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 168.

[217] Diversa la visione di G. IUDICA, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, Padova, 1973, p. 131, secondo il quale il dubbio sulla singolarità o pluralità di negozi si dissolve interpretando il testo del contratto e decidendo “l’intero corpo precettivo di vantaggi, obblighi e rischi che costituiscono il regolamento al quale le parti hanno affidato i propri interessi”. Sul punto v., anche, P. SCHLESINGER, Complessità del procedimento di formazione del consenso e unità del negozio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, p. 1364.

[218] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 168.

[219] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 169.

[220] Sul punto v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 169, per l’autore, “[…] da un lato, i litiganti hanno ampia facoltà di agire individualmente, anche in dissenso tra loro; dall’altro, gli arbitri costituiti in collegio non sono considerati un’unità inseparabile né scindibile”.

[221] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 170.

[222] G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 335; cfr. anche C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 359.

[223] Così G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 336. In tale senso v. anche V. ANDRIOLI Commento del codice di procedura civile, cit., p. 797; P. D’ONOFRIO, Commento al codice di procedura civile, Torino, 1957, p. 278; E. REDENTI, Diritto processuale civile, cit., p. 456.

[224] Riguardo ai motivi che impongono il numero dispari del collegio arbitrale, v. V. ANDRIOLI Commento del codice di procedura civile, cit., p. 794; E. REDENTI, voce Compromesso, cit., p. 820 ss. In pratica è un meccanismo per garantire sempre che si formi una maggioranza.

[225] G. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., p. 67 ss.; ID., Diritto dell’arbitrato, cit., p. 120; R. MURONI, Alcune riflessioni sulla natura del termine di venti giorni per la nomina del secondo arbitro ai sensi dell’art. 810, comma 1° c.p.c., nota a Cass., 2 dicembre 2005, n. 26257, in Corr. giur., 2006, p. 1555; ID., La litispendenza arbitrale prima e dopo la novella del 1994: rapporto processuale e rapporto negoziale parti-arbitri, nota a Cass., 21 luglio 2004, ivi, 2005, p. 655 ss.; A. DIMUNDO, Il mandato ad arbitrare. La capacità degli arbitri. La responsabilità degli arbitri, in AA. VV., L’arbitrato. Profili sostanziali, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, cit., p. 450; E. CICCONI, Nomina e numero, in Dizionario dell’arbitrato, con prefazione di Irti, Torino, 1997, p. 107.

[226] S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., p. 64.

[227] V. ANDRIOLI, Commento del codice di procedura civile, cit., 797, l’autore osserva che ci sono tre “metodi” di designazione: “ogni parte sceglie un arbitro; gli arbitri sono scelti d’accordo da tutte le parti; le parti rimettono, d’accordo, la nomina dell’arbitro o degli arbitri a un terzo, che può essere anche l’autorità giudiziaria”.

[228] G. DE NOVA, Disciplina legale dell’arbitrato e autonomia privata, in Riv. arb., 2006, p. 426, l’autore nota che “in oggi, il meccanismo di nomina degli arbitri funge anche da stipulazione del contratto di arbitrato, che dunque di regola non è oggetto di separata manifestazione di autonomia contrattuale. Ma, in astratto, nulla vieta che lo sia, e lo sia con la previsione di deroghe alla disciplina legale”.

[229] Se si segue tale impostazione, è inutile immaginare che “non appena l’arbitro di parte abbia accettato la nomina, si perfeziona un rapporto trilatero, cioè fra l’arbitro stesso e le parti” (A. BRIGUGLIO, in A.BRIGUGLIO-E.FAZZALARI-R.MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., p. 34). Con la singola accettazione non nasce un “rapporto trilatero”, ma un legame tra la parte e l’arbitro.

[230] Cfr. G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 129.

[231] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 174.

[232] Per ulteriori riflessioni sull’argomento v. G. CIAN, La sostituzione nella rappresentanza e nel mandato, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 481.

[233] Cfr. C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 229; A. BRIGUGLIO, La sostituzione dell’arbitro, in Riv. arb., 1993, p. 193.

[234] G. VERDE, Diritto dell’arbitrato, cit., p. 149, per l’autore, “[…] la sorte del procedimento arbitrale non può dipendere dalle vicende che attengono al rapporto parti-giudice […], la convenzione di arbitrato funziona come investitura permanente dell’organo giudicante, a prescindere dalle persone che compongono quest’ultimo”.

[235] A riguardo v. S. MARTUCCELLI, voce Sostituzione, in Diz. dell’arbitrato, con prefazione di Irti, Torino, 1997, p. 120, l’autore nota come “l’utilizzo, da parte del legislatore, di una formula generica, richiede l’opera dell’interprete si affianchi a quella del primo, specificando il comando normativo”.

[236] Un puntuale sforzo di classificazione dei motivi che possono determinare la sostituzione si trova in C. GIOVANNUCCI ORLANDI, Accettazione e obblighi degli arbitri, in F.CARPI, (a cura di), Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile – artt. 806-840, cit., p. 155-156. L’Autrice distingue tra ragioni “a contenuto oggettivo, quali ad esempio, morte, espatrio […] o accoglimento dell’istanza di ricusazione”; e ragioni “basate sulla volontà degli arbitri o dalle parti”.

[237] La convenzione di arbitrato, innanzitutto, produce un effetto sulla giurisdizione nel senso che impedisce l’esercizio della stessa ad opera dello Stato: alla parte che introduce un giudizio civile, la controparte può opporre la exceptio pacti (ossia l’eccezione di compromesso). Non è d’altronde un caso se i periodi di maggior espansione dello strumento arbitrale coincidano con quelli di più profonda crisi del sistema giudiziario statuale. In particolare, una controversia sulla «ripartizione della potestas iudicandi tra arbitri e giudici ordinari» integra una questione (non preliminare di merito sull’esistenza, sulla validità o sull’interpretazione della convenzione arbitrale ma) processuale di competenza (cfr., Cass., sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3481, nel solco di Cass. S.U., 25 ottobre 2013, n. 24153 e di Cass. S.U., 29 maggio 2013, n. 13504). Tale profilo di incidenza della convenzione arbitrale non impatta negativamente con l’art. 24, Cost. in quanto non si è in presenza di una ‘rinuncia preventiva’ alla tutela giurisdizionale (come, pur tuttavia, si trova spesso affermato nelle sentenze, anche di legittimità) ma di una sostituzione volontaria di quest’ultima con “altro”. A corollario di tale assunto discende che le garanzie del processo arbitrale devono essere analoghe a quelle assicurate dall’attività giurisdizionale: l’arbi­tro, la cui attività coincide sostanzialmente con quella del giudice che deve valutare la fondatezza delle pretese delle contrapposte parti in contesa, è tenuto al rispetto di tre principi essenziali: il contraddittorio, il diritto di difesa e l’imparzialità (sia in caso di arbitrato rituale che irrituale). Valori, questi ultimi, da preservare, a pena d’invalidità del lodo. Ciascuna delle parti, perciò, deve avere identica possibilità di difesa, proponendo domande, effettuando difese, chiedendo mezzi istruttori ed esponendo le proprie ragioni innanzi all’arbitro. Carenza di convenzione d’arbitrato che, per la controparte risultata inerte nella relativa contestazione, integra una causa di invalidità del lodo che può essere fatta valere in qualunque sede.  Doverosa è la segnalazione di due recenti pronunce della Suprema Corte sulla diversa qualificazione della natura (processuale) della eccezione di compromesso in ipotesi di arbitrato rituale, rispetto alla diversa natura (sostanziale) della eccezione (di merito) in ipotesi di arbitrato irrituale o libero. Infatti secondo Cass.  10 giugno 2024 n. 16071, in Giust.civ. Mass. “Configurandosi la devoluzione della controversia agli arbitri come rinuncia all’azione giudiziaria, la relativa eccezione dà luogo ad una questione di merito In tema di arbitrato, configurandosi la devoluzione della controversia agli arbitri come rinuncia all’esperimento dell’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica, la relativa eccezione dà luogo ad una questione di merito che riguarda l’interpretazione e la  validità del compromesso o della clausola compromissoria, e costituisce un’eccezione propria e in senso stretto avente ad oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell’esercizio della giurisdizione statale, con la conseguenza che dev’essere proposta dalle parti nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito.  Tale orientamento – con riferimento all’arbitrato irrituale è poi ulteriormente confermato dalla Cassazione con riguardo all’arbitrato irrituale: Cass. 5 agosto 2024, n. 22086, in Guida al dir.2024, p.39, secondo cui la controversia affidata agli arbitri irrituali equivale alla rinuncia al processo legale e alla giurisdizione statale. Infatti secondo la Corte a differenza dell’arbitrato rituale, che ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del Giudice ordinario, con la conseguenza che l’eccezione di compromesso ha carattere processuale e dà luogo ad una questione di competenza idonea a giustificare, in caso di accoglimento dell’eccezione, l’applicazione dell’articolo 50 del cpc, il deferimento della controversia agli arbitri irrituali si configura come rinuncia all’esperimento dell’azione giudiziaria e alla giurisdizione dello Stato, attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica, con la conseguenza che la relativa eccezione dà luogo ad una questione di merito, riguardante l’interpretazione e la validità del compromesso o della clausola compromissoria ed avente a oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell’esercizio della giurisdizione statale.

[238] G.CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale, Napoli, 1933, p.1 ss

[239] F.CARNELUTTI, Sistema, I, cit., 178; ancora prima , ID, Clausola compromissoria e competenza, degli arbitri, in Riv. Dir.comm., 1921, II, p.327.

[240] CARNELUTTI, op. cit., p. 154.

[241] REDENTI, voce Compromesso (dir. Proc. Civ.), in Noviss. Dig. It., III, Torino, 1959, p. 485

[242] Elementi del compromesso, ad avviso dell’Autore, sono accordo, oggetto della controversia, conferimento dell’incarico, nomina immediata o mediata, accettazione e il contratto può essere concluso anche a formazione progressiva.

[243] REDENTI, Diritto proc. civ., Milano, 1951, p. 454

[244] Lo stesso redenti ritiene che tale rapporto abbia una fonte distinta (REDENTI, op. cit., p. 789): l’A. considera il rapporto parti-arbitri una combinazione di mandato con locatio operis.

[245] SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., p. 52

[246] E.REDENTI, Compromesso, Voce,   op. cit., p. 789; COLESANTI, Cognizione sulla validità del compromesso in arbitri, in Riv. Dir. proc., 1958, pp. 261 ss.

[247] Cass., sez. I, 30 agosto 1995, n. 9162.

[248] F.CARNELUTTI,  Istituzioni del nuovo processo civile italiano, cit., Roma, 1951 p. 129

[249] E.ZUCCONI GALLI FONSECA, Diritto dell’arbitrato, Bologna, 2016, op. cit., pag. 9

[250] S.SATTA, Commentario, IV, 2, cit., p.227.

[251] L. BARBARESCHI, Gli arbitrati, cit., p. 95.

[252] Tiene conto delle conclusioni maturate dalla dottrina circa il collegamento negoziale E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e arbitrato, in I collegamenti negoziali e le forme di tutela. Quaderni della rivista trimestrale di diritto e procedura civile, Milano, 2008, p. 67, dove l’autrice medita sulla questione della unità o pluralità di procedimenti arbitrali nell’ipotesi di convenzioni arbitrali recate da contratti che siano collegati. “Assai più complessa è la questione se una clausola arbitrale contenuta in un documento possa estendersi a contratti collegati che nulla prevedono in merito”.

[253] Cfr. M. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, in Riv. it. sc. giur., 1939, p. 275.

[254] Tra i molti si richiamano le posizioni che hanno più inciso sul dibattito dottrinale: E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 296 ss.; P. TROIANO, Il collegamento contrattuale volontario, Roma, 1999; A. RAPPAZZO, I contratti collegati, Milano, 1998; G. SCHIZZEROTTO, Il collegamento negoziale, Napoli, 1983; R. CLARIZIA, Collegamento negoziale e vicende della proprietà, Rimini, 1982; F. CALASSO, Il negozio giuridico. Lezioni di storia del diritto italiano, ristampa II edizione, Milano, 1967; G. STOLFI, Teoria del negozio giuridico, II edizione, Padova, 1961; F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Milano, 1952; ID., voce Contratto collegato, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 48 ss.; R. SCOGNAMIGLIO, voce Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 375 ss.; F. DI SABATO, Unità e pluralità di negozi (Contributo alla dottrina del collegamento negoziale), in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 412 ss.; N. GASPERONI, Collegamento e connessione tra negozi, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 357 ss.; A. VENDITTI, Appunti in tema di negozi giuridici collegati, in Giust. civ., 1954, p. 259 ss.; R. BOLAFFI, Compensazioni private e affari di reciprocità, in Studi in on. di A. Scialoja, 1950; L. CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto positivo italiano, Napoli, 1946; G. OPPO, Contratti parasociali, Milano, 1942; M. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, cit.; P. GASPARRI, Studi sugli atti giuridici complessi, Pisa, 1939; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, II edizione, in Riv. dir. comm., 1937, p. 458, nn. 152-156; A. PASSERIN D’ENTREVES, Il negozio giuridico. Saggi di filosofia del diritto, Torino, 1934.

[255] S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 10. In giurisprudenza sui criteri di individuazione oggettiva del collegamento negoziale tra contratti si veda Cass,. Ord. 29 febbraio 2024, n. 5365; nonché Cass. 25 maggio 2023, n. 14561 la cui massima così recita: Il collegamento negoziale, al fine di assumere rilievo sul piano causale, tanto da imporre la considerazione unitaria della fattispecie, esige non solo la presenza del requisito oggettivo costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, ma anche quella del requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere, insieme all’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici. Sui contratti in genere Cass. 22 settembre 2016, n. 18585 secondo cui, “Il collegamento negoziale non dà luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo negozio ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, che conservano una loro causa autonoma, ancorché ciascuno sia finalizzato ad un unico regolamentazione dei reciproci interessi, sicché il vincolo di reciproca dipendenza non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in funzione di una propria causa e conservi una distinta individualità giuridica, spettando i relativi accertamenti sulla natura, entità, modalità e conseguenze del collegamento negoziale al giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, ravvisato un collegamento negoziale tra un contratto di agenzia per il collocamento di prodotti finanziari e un contratto di finanziamento, aveva ritenuto che la risoluzione del primo si ripercuotesse sul secondo, per effetto di una clausola risolutiva espressa ivi prevista).Tra la giurisprudenza di merito, tra le varie pronunce si segnalano Trib. Milano, 6 aprile 2013, in Giur. Imprese, che in tema di simulazione di mediante la conclusione di più negozi collegati precisa: “L’interesse ad agire di un terzo per far valere la simulazione di una pluralità di contratti sussiste soltanto laddove la posizione giuridica del terzo risulti negativamente incisa dall’apparenza dell’atto. In tal senso, l’interesse ad agire sussiste nella misura in cui l’intervento del giudice sia utile a rimuovere un pregiudizio che può consistere anche in una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del proprio diritto (precisamente individuato e provato). Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale tra due o più atti o negozi è necessario  che ricorra sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale e unitario, sia il requisito soggettivo, costituito  dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia  anche dal punto di vista causale. Di poi, ancora, Trib. Milano, 30 novembre 2021, in Giur. Imprese, 2012, secondo cui ..”Omissis.. Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. La valutazione della sussistenza del collegamento richiede, quindi, l’accertamento di due presupposti. Uno soggettivo, costituito dalla volontà delle parti di realizzare con più contratti un’unica operazione economica ed uno oggettivo, consistente nel nesso teleologico tra gli accordi, tutti accomunati dal fine di regolamentare diversi aspetti di un medesimo assetto negoziale. Ed ancora, Trib. Venezia 16 novembre 2022, in Giur.imprese, 2022.” Omissis.. Affinché ricorra un collegamento negoziale tra due contratti è necessario un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra gli atti volti alla regolamentazione degli interessi di una o più parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, e un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti, pur manifestato in forma non espressa, di volere, non solo l’effetto tipico dei singoli atti in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale “.

[256] R. NICOLO’, Deposito in funzione di garanzia e inadempimento del depositario, in Foro it., 1937, I, c. 1477.

[257] In questo senso F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 125.

[258] R. NICOLO’, Deposito in funzione di garanzia e inadempimento del depositario, cit., c. 1478.

[259] C. COLOMBO, Operazione economica e collegamento negoziale, Padova, 1999, p. 100 ss., l’autore procede ad una analitica ricostruzione del dibattito dottrinale, criticando la scelta esclusiva del criterio strutturale.

[260] G. LENER, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999, p. 180, a detta del quale “I contratti collegati non perdono la loro autonomia sul piano strutturale, perché, diversamente, non vi sarebbe alcuna questione da risolvere, in quanto ci si troverebbe di fronte ad un’unica struttura contrattuale. I contratti collegati o, meglio, ciascun contratto collegato, perde la propria autonomia solo sul piano teleologico ed economico, perché è parte di un disegno negoziale più ampio risultante dal collegamento”.

[261] Cfr. A. RAPPAZZO, I contratti collegati, cit., p. 19 ss.

[262] Entrambe le distinzioni sono accolte dall’unanime dottrina: F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 821; S. NARDI, Frode alla legge e collegamento negoziale, Milano, 2006, p. 48; C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000; G. LENER, Profili del collegamento negoziale, cit., p. 3 ss.; N. GASPERONI, Collegamento e connessione tra negozi, cit., p. 357; G. OPPO, Contratti parasociali, cit., p. 68. Propone denominazioni alternative F. DI SABATO, Unità e pluralità di negozi (Contributo alla dottrina del collegamento negoziale), cit., p. 412, che distingue il collegamento materiale dal collegamento precettivo: nel primo, “l’una situazione di fatto non può esistere senza l’altra; nel secondo caso invece la volontà del collegamento risponde ad un concreto e diretto interesse delle parti”.

[263] Cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 483.

[264] N. GASPERONI, Collegamento e connessione tra negozi, cit., p. 367; G. OPPO, Contratti parasociali, cit., p. 68, secondo cui la rilevanza del collegamento genetico riguarda solamente la genesi dei due negozi, “non persiste quando questi siano venuti ad esistenza”. In particolare osserva F. MESSINEO, voce Contratto collegato, cit., p. 51, come “il collegamento genetico costituisce un fenomeno a sé, in quanto, una volta sorto il secondo contratto, il primo cessa di influenzarlo; sì che vero e proprio collegamento è, in definitivo, il solo collegamento funzionale”.

[265] N. GASPERONI, Collegamento e connessione tra negozi, cit., p. 367.

[266] G. OPPO, Contratti parasociali, cit., p. 68. Contra M. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, cit., p. 334, che rifiuta che si possa parlare di collegamento tra rapporti giuridici: “Se si pone mente che il rapporto è l’effetto e il negozio è la causa deve dedursene che un collegamento dei vari rapporti non può essere che un riflesso del collegamento tra i veri negozi”.

[267] A. RAPPAZZO-G. RAPPAZZO, Il collegamento negoziale nella società per azioni, Milano, 2008, p. 20; R. SCOGNAMIGLIO, voce Collegamento negoziale, cit., p. 378, per l’autore “si oppongono fattispecie in cui il legame è insito negli stessi negozi, quali oggettivamente sono posti in essere – ed in questo senso dipende dalla loro natura – a quelle in cui i negozi, altrimenti indipendenti l’uno dall’altro, si trovano tuttavia ad essere vincolati in vista della pratica destinazione agli stessi imposta dalle parti”.

[268] F. MESSINEO, voce Contratto collegato, cit., p. 49.

[269] F. FERRARA, Teoria dei contratti, Napoli, 1940, p. 350. Nello stesso senso v. G. OPPO, Contratti parasociali, cit., p. 73.

[270] Sul punto v. G. OPPO, Contratti parasociali, cit., p. 73.

[271] C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, cit., p. 483; F. MESSINEO, voce Contratto collegato, cit., p. 52, secondo l’autore in caso di collegamento bilaterale “la regola fondamentale si riassume nella formula simul stabunt, simul cadent”. V. anche E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e efficacia della clausola compromissoria: il leasing e le altre storie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, p. 1094.

[272] In tal senso v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 16.

[273] Cfr. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 16.

[274]  Andrebbe recuperato il concetto dottrinale del nesso di sequenza di E. BETTI, voce Negozio giuridico, in Noviss. dig. it., volume XI, Torino, s.d. (ma 1968), p. 213: secondo l’autore si ha nesso di sequenza quando “i negozi, pur serbando ciascuno la propria fisionomia, si succedono l’un l’altro in ordine al medesimo scopo, siccome indefettibile premessa e coerente conseguenza”. In tal senso v. anche P. GASPARRI, Studi sugli atti giuridici complessi, cit., p. 49, 55, 63 ss.; Sul tema, si segnala il fondamentale scritto di M. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1937.

[275] Per M. AMAR, Dei giudizi arbitrali, cit., p. 190, all’interprete appare difficile separare ciò che dalla norma sembra intimamente connesso: “adunque è ragionevole e giusto che, per la mancanza di un arbitro, o di tutti o di un numero qualunque di essi cessi il compromesso”. Cfr. anche L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, cit., p. 190.

[276] In tal senso v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 17.

[277] C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p. 463: per l’autore “si realizza un sistema informato al principio di conservazione dell’accordo compromissorio e del procedimento arbitrale”. Diversamente, E. REDENTI, voce Compromesso, cit., p. 808, afferma che “il fatto che vengano a mancare uno o più degli arbitri nominati certamente non fa venir meno (cessare o decadere) il compromesso o la clausola. […] Si provvede alla loro sostituzione negli stessi modi in cui si provvede alla nomina […]. Evidentemente questo non è un caso di successione. Il carattere personalissimo dell’ufficio lo esclude in modo perentorio. Però il nuovo arbitro accettante assume in statu et terminis lo stesso posto dell’arbitro cessato, se le parti stesse non lo modifichino convenzionalmente con nuovi accordi col nuovo arbitro e anche con gli arbitri che rimangono investiti dell’incarico e con i quali il nuovo nominato deve entrare il collegio. Se vi sia un procedimento pendente, non risulta che questo si debba ritenere estinto (salvo ricominciarlo da capo), come forse vorrebbe la logica proprio per quell’intuitus personae, che a rigore dovrebbe avere effetto per tutto il processo. Per la sua continuazione bisognerà allora far capo per analogia alle regole che riguardano la sopravvenuta mancanza e sostituzione di un giudice nel processo ordinario di cognizione”.

[278] In tal senso v. S. MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., p. 20.

[279] M.BOVE, La giustizia privata, cit., p.36

[280] Cosi in giurisprudenza, Cass. 24 settembre 2015, n. 18978 e Cass. 6 novembre 2015, n. 22748 in Giur. It., 2016, 351.

[281] (In tal senso v. Cass., 22 dicembre 2005, n. 28485, in Foro it., Rep. 2005, voce Arbitrato, n. 107; Cass., 2 febbraio 2001, n. 1496, in Foro it., Rep. 2001, voce Arbitrato, n. 129; Cass., 14 aprile 1994, n. 3504, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1264 ss., con nota di NELA; Cass., 22 febbraio 1993, n. 2177, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 472).

[282] (v., ad es., Cass., 26 aprile 2005, n. 8575, in Foro it., Rep. 2006, voce Arbitrato, n. 90; Cass., 4 giugno 2003, n. 8910, in Foro it., Rep. 2003, voce Arbitrato, n. 100; Cass., 27 febbraio 1991, n. 2132, in Foro it., Rep. 1991, voce Arbitrato, n. 122)

[283] Si rinvia al § 3in cui è stato affrontato il tema della natura giuridica della convenzione di arbitrato o patto compromissorio.

[284] S.SATTA, Commentario al codice di procedura civile, cit., p. 237.

[285] C.CECCHELLA, Il contratto di arbitrato, in L’arbitrato, Torino, 2005, p. 59.

[286] G.RUFFINI, La divisibilità del lodo arbitrale, cit., p. 53.

[287] Di rilievo poi è sempre stato il noto tema della natura degli “accordi sulla giurisdizione”, piuttosto controversa. Alcuni autori li configurano come atti di diritto sostanziale con mera rilevanza processuale (cfr. V.DENTI, Dall’azione al giudicato: temi del processo civile, Padova, 1983, p. 134 e ss.; ID., voce Negozio processuale, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 140 e ss.). Secondo questa prospettiva l’effetto sul processo non sarebbe da collegare all’accordo stesso, ma all’eccezione con cui il patto è fatto valere in giudizio. In questo modo l’accordo non è altro che un elemento della fattispecie costitutiva del potere processuale (concreto) di eccezione, potere il cui esercizio produrrebbe il vero e proprio effetto processuale. A questa opinione se ne contrappone un’altra, affermatasi più di recente e più condivisibile, secondo cui si tratta di negozi con diretta ed esclusiva efficacia processuale (L.PENASA, Gli accordi sulla giurisdizione sulle parti e i terzi, Padova, 2012, I, p. 80 e ss., a cui si rinvia anche per la vasta bibliografia). Si ritiene, infatti, che l’accordo produca effetti processuali direttamente sulla posizione giuridica delle parti, senza che sia necessario il compimento di ulteriori atti da parte di queste ultime, quali la proposizione della domanda o il rilievo dell’eccezione. Una volta chiariti quali siano gli effetti prodotti dagli accordi sulla giurisdizione, si pone un’altra questione: quella della loro autonomia rispetto al contratto cui accedono. Si ritiene, infatti, che anche per questi ultimi, al pari della clausola compromissoria, si debba parlare di autonomia. Tale autonomia si sviluppa su due piani differenti; la stessa va intesa sia come autonomia dell’atto-accordo sulla giurisdizione dal contratto cui eventualmente si riferisce, sia come autonomia degli effetti dell’accordo rispetto alle situazioni giuridiche sostanziali cui attengono le azioni che ne costituiscono l’oggetto. È interessante, ai nostri fini, soffermarci su questo secondo aspetto. Gli accordi sulla giurisdizione esplicano i loro effetti innanzitutto sul potere di azione delle parti nei confronti del giudice italiano, estinguendolo o impedendone il sorgere, se si tratta di patti di deroga, costituendolo o integrandone un elemento della fattispecie costitutiva, se si ha a che fare con convenzioni di proroga. Poiché il potere di azione è astratto, altrimenti, autonomo dalla situazione giuridica sostanziale che ne costituisce l’oggetto, altrettanto si dovrà dire per gli effetti degli accordi sulla giurisdizione che su tale potere incidono. Se questi effetti prescindono dall’esistenza della situazione giuridica oggetto dell’accordo, non se ne può predicare l’indisgiungibilità rispetto a quest’ultima. Intesa in questi termini l’autonomia della clausola è assoluta e non può essere relativizzata o funzionalizzata (L. PENASA, op. cit., p. 105 ss.)

[288] C.PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., p.440 ; in argomento si veda anche G.ALPA, La circolazione die modelli di risoluzione stragiudiziale delle controversie, in Documenti giustizia, 1193, c.1498.

[289] E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di S. Menchini, in I Libri. Le nuove leggi civili commentate, Padova, 2010, 52, cfr. nota 9.