Lo stato dell’arte su fatti notori e massime d’esperienza (nota a Cass., sez. I civ., ord., 28 febbraio 2023, n. 6075)

Di Simone De Gasperis -

1.Vicende di causa e profili di interesse dell’ordinanza annotata – 2. La dimensione extraprocessuale del fatto notorio – 3. La dimensione processuale del fatto notorio – 4. Caratteristiche sostanziali delle massime d’esperienza – 5. Profili sull’impiego delle massime d’esperienza in giudizio – 6. Il regime di sindacabilità dei fatti notori e delle massime d’esperienza.

1. Vicende di causa e profili di interesse dell’ordinanza annotata

L’ideatore di un dispositivo per retroilluminazione proponeva opposizione dinanzi al Giudice di pace di Milano avverso il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ottenuto dalla Gregorj S.r.l., società di consulenza, che lamentava il mancato saldo del compenso dovutole dall’opponente per l’espletamento dell’incarico di predisporre e registrare un modello di utilità relativo alla sua invenzione.

L’opponente deduceva, tra le varie contestazioni, l’inesatto adempimento da parte della società opposta, la quale – ad opinione dell’incaricante – non avrebbe svolto le ricerche prodromiche alla presentazione della domanda di modello di utilità in relazione ad eventuali anteriorità brevettuali, contravvenendo ad una sorta di obbligazione accessoria implicita nel conferimento dell’incarico.

Tale motivo di censura veniva rievocato, oltre che nel successivo giudizio d’appello avverso la sentenza di rigetto dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento, anche nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di cassazione in accoglimento del ricorso promosso dall’originario opponente per violazione dell’art. 281-sexies c.p.c., entrambi incardinati presso il Tribunale di Milano. In sede di rinvio, il Tribunale milanese accoglieva l’opposizione dell’appellante nei limiti della questione relativa agli interessi di mora indebitamente percepiti dalla società appellata e al tempo stesso confermava la sentenza del Giudice di pace nella misura in cui questi si era determinato per l’esclusione dell’inadempimento di Gregorj S.r.l. In particolare, veniva rigettata la tesi della presunta accessorietà dell’obbligazione di compiere ricerche in relazione alla reale novità del trovato, giacché trattasi di un’attività di studio piuttosto onerosa e pertanto oggetto di specifica richiesta e di specifico compenso nella prassi commerciale, non sussistenti nel caso di specie.

L’appellante parzialmente vittorioso proponeva così un secondo ricorso per cassazione articolato su due motivi, il primo dei quali si riferiva alla violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., e degli artt. 1218 e 1176 c.c., in quanto nell’escludere l’inadempimento della Gregorj S.r.l. il tribunale avrebbe erroneamente applicato inesistenti fatti di comune esperienza. La Suprema Corte, con l’ordinanza in esame, rigetta tale motivo di ricorso, ritenendo che il giudice d’appello non abbia inteso applicare fatti notori, ma al contrario abbia valutato gli elementi di prova acquisiti in giudizio con riferimento alla massima di esperienza secondo cui un’attività specifica – nel caso di specie, la ricerca di brevetti anteriori e di contenuto affine a quello che si intende presentare – non è usualmente ricompresa nella normale pattuizione di un incarico professionale.

L’ordinanza merita di essere segnalata in quanto con la stessa la Corte di legittimità ha colto una nuova ed ulteriore occasione per rimarcare alcuni elementi di differenza concettuale e processuale intercorrenti tra fatti notori e massime di esperienza. Scopo del presente lavoro di commento sarà, dunque, illustrare i caratteri sostanziali e processuali di fatti notori e massime di esperienza, per poi evidenziarne le differenze e – da ultimo – fornire una panoramica del loro regime di sindacabilità nel giudizio di legittimità.

2.  La dimensione extraprocessuale del fatto notorio

L’art. 115, co. 2, c.p.c. dispone che il giudice può, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza e – secondo l’interpretazione prevalente – quest’ultima formulazione, benché non contenga riferimenti espliciti in tal senso, si riferisce ai cd. fatti notori ([1]).

Questa norma ha positivizzato l’antico brocardo «notoria non egent probatione» ([2]). Tale regola, che esclude la necessità di sottoporre le circostanze notorie ad esperimento probatorio in sede processuale, deve la sua elaborazione non solo ad un’esigenza di economia processuale, ma anche di carattere sociale ed antropologico, consistente nell’evitare che «la sentenza possa essere in contrasto con il bagaglio culturale dell’uomo medio in un certo tempo e in un certo luogo» ([3]).

L’art. 115, co. 2, c.p.c. è  una norma di carattere assiomatico, in quanto idonea unicamente a descrivere l’effetto processuale dell’introduzione del fatto notorio in giudizio, non stabilendo né secondo quali criteri ad un fatto possa essere conferito l’attributo della notorietà né quale sia il loro trattamento processuale ([4]). Proprio a causa di queste lacune, la dottrina e la giurisprudenza di legittimità si sono preoccupate di ricostruire in via ermeneutica le basilari caratteristiche del fatto notorio, a partire dall’aspetto definitorio ([5]).

Il notorio ([6]), secondo la definizione più accreditata tanto in dottrina quanto in giurisprudenza ([7]), è un fatto naturale o umano o una situazione di fatto la cui verificazione risulta radicata come certezza nel patrimonio conoscitivo comune alla collettività, cioè alla generalità dei cittadini del tempo e del luogo nel quale viene assunta la decisione ([8]).

Risultano a questo punto facilmente intellegibili le caratteristiche di cui un fatto, preso nella sua dimensione extraprocessuale, deve essere dotato al fine di accedere alla qualifica di notorio.

In primis, deve trattarsi di una circostanza la cui conoscenza risulti generalmente diffusa nella «cultura» di una «cerchia sociale» ([9]), appartenente al patrimonio gnoseologico non di un singolo, bensì di una pluralità che sia socialmente rilevante, nel senso di diversa da un gruppo di individui occasionalmente accomunato da un interesse di qualsivoglia matrice ([10]). Tutto ciò fermo restando che la notorietà non deve essere universale, di talché la dottrina dominante e la giurisprudenza maggioritaria risultano concordi nell’ammettere la cd. «notorietà relativa» ([11]), segnatamente nella forma della «notorietà spaziale o locale» ([12]) e nella forma della «notorietà tecnico-specialistica» ([13]).

In secundis, la circostanza oggetto di conoscenza diffusa – ai fini della sua notorietà – deve vedersi riconosciuto il carattere di certezza all’esito di un vaglio critico operato dalla collettività, la quale verifica che il fatto si sia spersonalizzato ed oggettivato, acquisendo un grado di incontestabilità tale da poter entrare a far parte delle sue conoscenze comuni ([14]). Pertanto, è il carattere di certezza a costituire il plus della conoscenza notoria rispetto alla semplice conoscenza, a tal punto da intendersi come un «carattere strutturalmente insito nella fattispecie della notorietà» ([15]). La giurisprudenza di legittimità,  invero più della dottrina, si è curata definire i contorni di tale requisito, affermando che il fatto, per ottenere la qualifica di notorio, deve possedere un «grado di certezza tale da renderlo indubitabile e incontestabile e non solo probabile» ([16]). Pertanto, ha ritenuto che l’attributo della notorietà possa spettare solo a circostanze di fatto che presentino il carattere dell’obiettività e, dunque, siano prive di ogni intrinseca opinabilità ([17]).

Le considerazioni appena svolte offrono altresì l’occasione di sgomberare il campo dall’equivoco per cui – come potrebbe intendersi di primo acchito – sarebbero notorie esclusivamente le conoscenze possedute da tutti gli appartenenti alla collettività o, quantomeno, dalla maggior parte di essi. Ciò è certamente da escludere alla luce dell’umana impossibilità di ricordare con precisione ogni nozione, comunque acquisita e data per veritiera. Pertanto, la notorietà di un fatto o di una nozione nell’ambito di una cerchia sociale non equivale alla loro conoscenza effettiva, ma significa che quel fatto o quella nozione sono entrate a far parte di un patrimonio culturale, cui, al bisogno, ogni membro della collettività rispetto alla quale quel patrimonio culturale è comune può attingere con la consapevolezza di rinvenire in esso delle «verità indiscutibili» ([18]).

Ebbene, sono molteplici gli esempi di fatti che, presentando le caratteristiche sopraindicate, hanno ottenuto la qualificazione di notori dalla giurisprudenza ([19]).

Inoltre, per chiudere sulla dimensione extraprocessuale della notorietà, va chiarito che il fatto può divenire notorio non solo per percezione diretta da parte della collettività, ma anche indirettamente, ossia tramite una sua diffusione attraverso mezzi di comunicazione di massa, quali la stampa, il sistema radio-televisivo e soprattutto il Web ([20]), che – come ravvisato da parte della dottrina – costituisce non meno di altre forme mediatiche una fonte di conoscenza altamente qualificata, dalla quale risulta evidente la possibilità che sgorghi la conoscenza di una circostanza notoria che sia utilizzabile in giudizio ([21]). Seguendo questi indirizzi, la giurisprudenza ha recentemente ricompreso nella categoria dei fatti notori, in quanto facilmente reperibili e verificabili via Web, le immagini delle strade reperite da portali come Google Maps o Google Earth ([22]) e in tema di condizione dello straniero le informazioni relative alla condizione interna del Paese di provenienza o rimpatrio del richiedente protezione internazionale ([23]).

3. La dimensione processuale del fatto notorio

Nel volgere l’attenzione al trattamento processuale del fatto notorio, occorre precisare i contorni dell’unica indicazione che, come già sottolineato, si trae ex art. 115, co. 2, c.p.c., ossia l’effetto giuridico della sua introduzione in giudizio. Tale effetto si concreta nell’esclusione del fatto connotato dal carattere di notorietà dal thema probandum, vale a dire dall’insieme delle circostanze che, al fine di incidere sulla decisione giudiziale, devono essere necessariamente oggetto di verifica probatoria ([24]). È oltremodo chiaro, infatti, che costituirebbe un inutile dispendio di energie processuali un controllo giudiziale sull’attendibilità della circostanza notoria, dal momento che l’indubitabilità e l’incontestabilità di quest’ultima risultano essere già state saggiate per mezzo del vaglio critico operato dalla collettività ([25]). Se ne conclude che il fatto notorio produce una «relevatio ab onere probandi», dal momento che la parte che intenda avvalersene in sede processuale al fine di fondare su di esso una propria pretesa sarà dispensata dall’onere di dimostrarne l’esistenza, in deroga al principio scolpito ex art. 2697 c.c. ([26]).

Oltre a non aver bisogno di essere provato, secondo l’opinione dominante, il fatto notorio non ammette alcuna prova contraria in ordine al suo accadimento. Pertanto, la controparte che intenda operarne una contestazione in sede processuale potrà provvedere limitatamente alla indubitabilità ed incontestabilità della circostanza, invocando l’esclusione di quest’ultima dal novero della notorietà ([27]).

L’esenzione dalla necessità di esperimento probatorio, che – a ben vedere – giustifica appieno l’atteggiamento di rigore tenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza nella delimitazione dei suoi caratteri sostanziali, solleva una questione di inquadramento del fatto notorio, in quanto è discusso se il suo impiego in giudizio configuri o meno una deroga al principio di disponibilità delle prove ([28]) ed al suo corollario consistente nel divieto di scienza privata del giudice ([29]) entrambi codificati ai sensi dell’art. 115, co. 1, c.p.c.( [30]). Per massima costante della Corte di cassazione, il fatto notorio comporta una deroga al principio dispositivo delle prove e al contraddittorio, in quanto «introduce nel processo prove che non sono fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, ma acquisiti alle conoscenze della collettività con un grado di certezza tale da farli apparire indubitabili ed incontestabili, risolvendosi, in definitiva, in un’eccezione al divieto di utilizzazione del sapere privato del giudice» ([31]).

Benché tale posizione – certamente volta a preservare il giudice da minacce alla sua imparzialità – sia avallata anche da una consistente parte della dottrina ([32]), un’altra corrente interpretativa ha ritenuto che profilare il fatto notorio come oggetto di conoscenza privata del giudice significa privare l’istituto di un inquadramento che spieghi adeguatamente i suoi effetti: a rigor di logica, infatti, se si ritiene che i fatti notori siano parte integrante della scienza privata del giudice, allora non potrà validamente escludersi la loro sottoposizione al divieto di impiego del sapere privato ([33]).

Da queste considerazioni, emerge la tesi secondo cui il notorio è piuttosto espressione della scienza ufficiale del giudice ([34]), intesa come «l’insieme di nozioni che appartengono al consociato di media cultura o comunque note ad una cerchia di persone» ([35]), e che, perciò, si pone ipso facto al di fuori del divieto di scienza privata. In altre parole, il carattere ufficiale della conoscenza notoria non rende quest’ultima inquadrabile nel divieto di scienza privata, giacché, se si considera la caratteristica del fatto notorio di essere certo in quanto patrimonio comune in un dato tempo e in un dato luogo o – per meglio dire – spersonalizzato, a seguito del controllo collettivo che lo interessa, non si arriva ad ammettere una deroga al principio dispositivo delle prove, al divieto di scienza privata del giudice e al principio del contraddittorio, ma si attesta una situazione di prescindibilità delle garanzie che ispirano tali previsioni ([36]).

Un profilo controverso – se non il più controverso – in tema di trattamento processuale del fatto notorio verte sulla sua introduzione in giudizio ([37]), in quanto è da sempre fonte di dibattito interpretativo se all’esenzione dall’onus probandi si accompagni anche una dispensa dall’onus allegandi ([38]). Ci si chiede, in sostanza, se sulla parte che intenda far agire o resistere in giudizio gravi il compito di introdurre in giudizio il fatto notorio del quale intenda avvalersi ([39]).

Un primo autorevole filone dottrinale ritiene che il fatto notorio sia esentato dall’onere di allegazione e che, quindi, il giudice possa impiegarlo anche laddove sia del tutto estraneo alle allegazioni di parte ([40]).

Un secondo orientamento è, invece, di contrario avviso e propugna la generale non configurabilità di un’eccezione rispetto all’onere di allegazione in materia di fonte notoria, ritenendo che la decisione della causa non possa mai dipendere da una circostanza che non sia emersa nel processo sino al momento della decisione e sulla quale, perciò, le parti non siano state in grado di svolgere delle adeguate difese ([41]).

Entrambe le teorie appena richiamate sono state rigettate dalla dottrina dominante, la quale ha preferito attestarsi su una soluzione di compromesso. La tesi oggi eletta iure condito in punto di allegazione del fatto notorio differenzia tra fatti notori principali ([42]) e fatti notori secondari ([43]), ritenendo che i primi siano vincolati dall’onere, mentre non lo sarebbero i secondi ([44]).

Eppure, la dottrina più attenta ha ritenuto necessario un ulteriore distinguo con riguardo ai fatti notori principali ([45]).

Più nello specifico, ove questi siano identificativi di un diritto eterodeterminato ([46]) che si intende far valere, in ossequio al principio dispositivo sostanziale, devono essere necessariamente dedotti in giudizio ad opera delle parti, le quali, in tal senso, hanno un monopolio esclusivo da esercitarsi mediante l’attività di allegazione ([47]).

La situazione si complica ove il fatto notorio, in presenza di un diritto autodeterminato ([48]), rappresenti un concorrente fatto costitutivo della fattispecie legale della situazione dedotta nel processo, in quanto la questione si inquadra nel più generale dibattito aperto intorno alla sussistenza di un onere di allegazione gravante sulle parti anche con riguardo a tale tipologia di fatti ([49]). Ad ogni modo – stando alla ricostruzione più condivisibile seppur non pacifica – anche tale categoria di circostanze, nel rispetto del principio di extrapetizione fissato ex art. 112 c.p.c., necessita di allegazione, il che, in conclusione, conduce ad affermare che la notorietà di un fatto principale non esenta dall’onus allegandi, senza considerare se esso sia o meno individuatore del diritto fatto valere in giudizio ([50]).

La prospettiva cambia completamente se ci si pone dall’angolo visuale dei fatti notori secondari, la cui presenza nel processo, a differenza dei notori principali, è tutt’altro che rara. Se, di norma, i fatti secondari si prestano a rilievo officioso, purchè – come requisito minimo – la loro sussistenza risulti dagli atti ed emergano dalle risultanze del contraddittorio ([51]), ove si tratti di fatti notori, tale regime è derogato. Infatti, ad opinione della dottrina più accreditata, è possibile che il giudice introduca motu proprio un fatto notorio secondario in giudizio e lo ponga a base del ragionamento inferenziale finalizzato a desumere l’esistenza di un fatto direttamente rilevante per l’integrazione della fattispecie legale ivi dedotta, senza che il fatto secondario stesso sia ritraibile dalle risultanze istruttorie già acquisite ([52]). La ratio di questa previsione si rinviene nella pubblica conoscenza del fatto, che è tale da «escludere che esso possa annoverarsi tra quelli coinvolti dal divieto di utilizzo di scienza privata, implicando i noti rischi di parzialità che generalmente richiedono che il fatto rilevato ex officio quantomeno risulti dagli atti acquisiti al giudizio» ([53]).

Ad ogni modo, qualunque tesi si accetti, la notorietà del fatto che non sia dedotto in giudizio non rende derogabile la garanzia del contraddittorio e il diritto di difesa. Pertanto, occorre che il giudice ponga le parti nelle condizioni di discutere sulla notorietà da lui stesso ravvisata, di modo che le parti possano conseguentemente spiegare le proprie difese in fatto e in diritto ([54]).

Per completezza, sembra opportuno ricordare che il tema dell’allegazione in giudizio è recentemente tornato sotto la lente delle Sezioni Unite della Suprema Corte  e, conseguentemente, della dottrina in relazione ai poteri del consulente tecnico d’ufficio ([55]). Tale giurisprudenza, introducendo una rilevante novità ([56]), ha individuato nella nullità relativa la sanzione che ricorre ove il consulente accerti, in violazione del principio del contraddittorio, fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni. Al contrario, si avrà nullità assoluta nell’ipotesi in cui il consulente accerti fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni, per violazione del principio della domanda e del principio dispositivo ([57]).

Un ultimo tema afferente al trattamento processuale del notorio sul quale, anche in età contemporanea, si registrano ampi contrasti tra dottrina e giurisprudenza riguarda la posizione che il giudice debba assumere dinanzi al fatto notorio o, per meglio dire, se questi abbia un obbligo o una facoltà rispetto al suo impiego in giudizio.

La giurisprudenza di legittimità, come conferma anche la pronuncia annotata, ritiene che l’utilizzazione del notorio in sede decisoria sia una potestà discrezionale del giudice ([58]). A sostegno di questa ricostruzione, con ogni evidenza, depone anche il dato normativo ex art. 115, co. 2, c.p.c., che, in effetti, dispone che il giudice «può» senza bisogno di prova, porre il fatto notorio a fondamento della decisione e proprio sulla scorta di quest’assunzione parte della dottrina avalla questa tesi ([59]).

Tuttavia, la dottrina maggioritaria avversa questa ricostruzione, sostenendo che il giudice ha il dovere di utilizzare il fatto notorio ([60]) e, addirittura, che questi debba assumere davanti al notorio la medesima posizione che assume davanti alle norme di diritto ([61]). In particolare, si è sostenuto che la configurabilità di un obbligo o di una facoltà per il giudice nell’utilizzo di un fatto notorio, in buona sostanza, dipende dalla sua decisività e, dunque, dalla possibilità che questo fatto possa essere censurato, impugnando la pronuncia ai sensi dell’art. 360, n. 5) c.p.c., a norma del quale si prevede la ricorribilità per cassazione per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti ([62]).

Dunque, se si ammette che l’omesso esame da parte del giudice di un fatto notorio che sia stato oggetto di contraddittorio tra le parti e sia decisivo ai fini del giudizio dia luogo alla ricorribilità per cassazione del provvedimento giudiziale, non può non condividersi la tesi della dottrina maggioritaria e, dunque, deve necessariamente prospettarsi la sussistenza di un obbligo in capo al giudice ([63]).

Ancora di recente, si è affermato che «il fatto notorio ha una indubbia funzione persuasiva della decisione giudiziale», il che significa che «il giudice non può rendere una decisione che sia in contrasto con dati considerati assodati e certi in una determinata cerchia sociale» ([64]).

Tutto ciò non toglie che il giudice detiene un margine di discrezionalità nella misura in cui esercita il suo libero convincimento in ordine alla sussistenza dei presupposti del fatto notorio, nel senso che questi potrà negare che un determinato fatto sia attributario della predetta qualifica e, dunque, ritenere che sia per essa necessario l’esperimento probatorio ([65]) oppure nella misura in cui non conosca o non possa conoscere il fatto notorio ([66]).

4.  Caratteristiche sostanziali delle massime d’esperienza

L’art. 115, co. 2, c.p.c., secondo la tesi preferibile, oltre che ai fatti notori, si riferisce anche alle cd. massime o regole di esperienza ([67]). Tale comunanza di base normativa non deve però indurre a prospettare una confusione tra due concetti – quali il notorio e le massime di esperienza – che, al netto di talune oscillazioni giurisprudenziali ([68]), non risultano

in alcun modo sovrapponibili ([69]). È difatti evidente la diversità, almeno da un punto di vista logico, tra fatti notori e massime di esperienza nella misura in cui, mentre le seconde sono conoscenze generali ed astratte, conquistate con l’esperienza, indipendenti dal caso concreto e valevoli pro-futuro per la trattazione di casi analoghi, i primi sono accadimenti individuali, che sono parte della normale cultura ([70]). Detto altrimenti, al contrario delle massime d’esperienza, punto terminale di un processo induttivo, o per meglio dire, di un giudizio scientifico o logico, volto alla creazione di un principio generale ed astratto e valevole per tutti i casi concreti ad esso riconducibili, i fatti notori sono avvenimenti unici, specifici ed irripetibili particolarmente qualificati per la loro indiscussa certezza, derivante dal loro radicamento nella comune conoscenza ([71]).

Da un generale punto di vista definitorio ([72]), le massime d’esperienza si intendono come «regole di carattere sociale ed agiuridico che si formano spontaneamente nella cultura condivisa della comunità dei cittadini in un certo momento storico e che sono costituite da generalizzazioni del senso comune ricavate dall’id quod plerumque accidit ([73]) e dai criteri assiologici diffusi nella società, che compongono la cultura dell’uomo medio» ([74]).

In altri termini, si tratta di «generalizzazioni empiriche tratte con procedimento induttivo dall’esperienza comune, indipendenti dal caso presente, che forniscono al giudice informazioni su ciò che normalmente accade secondo un diffuso consenso nella cultura media e nel contesto spazio-temporale della decisione» ([75]), vale a dire regole, che, seppur prive di un riscontro scientifico-empirico adeguato a fondare una validità generale in senso stretto, sono formulate in termini generali, sulla base del senso comune, inteso come «insieme di nozioni che costituiscono il patrimonio culturale diffuso in un certo luogo e in un certo momento storico» ([76]).

Le razionalizzazioni di senso comune sono parte integrante di quelle che una moderna dottrina ha denominato «leggi di strutturazione, organizzazione e funzionamento del mondo (LSOFM)» ([77]), espressione volta ad indicare il complesso di strumenti conoscitivi in grado di costituire il fondamento delle inferenze induttive formulate nell’ambito del giudizio di fatto ([78]). Per quest’ultimo si intende il giudizio svolto dal giudice ai fini della «ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione della controversia nell’ambito del quadro fattuale derivante dalle allegazioni delle parti, sulla base delle prove e degli elementi di prova ritualmente acquisiti» ([79]) e che, secondo la più tradizionale ricostruzione, è strutturato alla stessa stregua di un sillogismo ([80]). Più precisamente, la dottrina dominante considera necessaria l’applicazione di tali regole perché il ragionamento probatorio del giudice risulti effettivamente razionale, cioè svincolato da ogni possibile connotazione arbitraria e soggettiva ([81]).

Nella categoria delle LSOFM si includono, in ordine decrescente di forza associativa tra gli avvenimenti: a) leggi universali di copertura, in presenza delle quali «l’associazione tra fatti è “certa” o “quasi certa”»( [82]); b) leggi statistiche, ove l’associazione tra fatti «è caratterizzata da una frequenza alta (ma non altissima) o medio-alta»; c) per l’appunto, le massime d’esperienza di senso comune; d) il generico senso comune, che non si traduce in massima; e) le massime fondate sui pregiudizi.

È inevitabile, a questo punto, approfondire il discorso ed evidenziare alcuni profili di distinzione.

Le leggi universali di copertura e le leggi statistiche si collocano in un’area omogenea, cioè quella delle cd. leggi scientifiche, dal momento che presentano caratteri comuni, quali «la generalità, la ricorsività, la sperimentabilità e la controllabilità» ([83]). Senza contare altresì che tali leggi, come è stato autorevolmente argomentato, «si sottraggono alle limitazioni delle generalizzazioni meramente empiriche; per effetto del loro riferimento ad un apparato nomologico o teorico, infatti, esse non sono formulate unicamente sulla base dei dati sperimentali e giustificano quindi la loro validità su argomenti diversi da quelli costituiti dall’elencazione degli esempi che le suffragano empiricamente» ([84]).

Non mancano, tuttavia, sfumature di diversità tra le due categorie. In particolare, le prime descrivono le modalità con cui un accadimento si verifica nel mondo sensibile, fornendo la base adeguata a costruire un’inferenza deduttiva e conferire certezza alla conclusione del ragionamento ([85]); le seconde, invece, indicano l’attitudine di un certo fatto a reiterarsi con le medesime modalità o, detto altrimenti, delle «quasi generalizzazioni confermate sul piano scientifico con un grado di probabilità molto elevtato». Tali leggi risultano adeguate, in ragione di questi caratteri, a fondare un «modello di inferenza quasi-nomologico-deduttivo» e conferire non una certezza generale, bensì una «quasi certezza» alla conclusione del ragionamento ([86]).

Un’autorevole voce della dottrina ha sostenuto la non sovrapponibilità delle leggi scientifiche alle massime di comune esperienza «sia sotto il profilo della loro capacità esplicativa, sia in relazione alla loro attendibilità probatoria» ([87]), affermando che, a differenza delle prime, le seconde non sono sottoposte ad un controllo empirico tale da escludere il rischio che «risulti estremamente difficile distinguere le generalizzazioni erronee da quelle non erronee» ([88]).

A quest’ultima tesi, la cui accettazione implica l’esplicita apposizione di un limite all’impiego delle regole di senso comune, si è contrapposto quel filone dottrinale che ammette che il giudice, ai fini del suo convincimento, possa avvalersi senza dubbio di massime d’esperienza, prospettando tuttavia la costruzione e l’attivazione di un sistema di controlli razionali e procedimentali su di esse. Per tramite di tale sistema si ridurrebbe almeno in parte il rischio di errore che l’applicazione di una categoria così eterogenea può comportare ([89]).

La più significativa concretizzazione dell’impostazione appena richiamata si rinviene nel suggerimento delle cd. «regole d’uso» ([90]). Tali regole, frutto di riflessioni ultradecennali, si possono sintetizzare come di seguito: a) alla massima d’esperienza non deve essere attribuito un valore conoscitivo superiore a quello del fondamento che ha sulla base delle generalizzazioni in essa espresse ([91]); b) se una massima è enunciata in termini generali, anche un solo esempio contrario è sufficiente a falsificarla o, quantomeno, a dimostrare che essa non ha validità generale e a determinarne una impossibilità di utilizzo ([92]); c) una massima d’esperienza non può essere impiegata se è contraddetta dalle conoscenze scientifiche disponibili ([93]); d) una massima d’esperienza non può essere validamente impiegata se è contraddetta da altre massime d’esperienza ([94]). A ciò si aggiunga che la massima di senso comune, al pari del notorio, deve godere del consenso della collettività di riferimento, da intendersi come «registrazione della convergenza dell’opinione pubblica su una premessa o su una conclusione quale garanzia epistemologica della sua validità e a legittimazione della sanzione che ne consegue» ([95]).

Tutte queste osservazioni vanno inquadrate nel contesto della prassi giudiziaria, ove  l’impiego di leggi scientifiche – che, per una recente prospettiva, altro non sono se non «massime d’esperienza qualificate» ([96]) – è spesso impraticabile: è raro, anche se molto più usuale rispetto al passato ([97]), che il giudice, per accertare un fatto rilevante per il giudizio, si trovi nella condizione di impiegare generalizzazioni basate su leggi universali di copertura o leggi statistiche.

Questa considerazione conduce alla seguente conclusione: non mancano casi in cui le leggi scientifiche siano indispensabili ai fini del ragionamento probatorio, il che avviene soprattutto in presenza di fattispecie complesse e non mancano neppure casi in cui, al fine di ricostruire il fatto controverso, si possano impiegare tanto le generalizzazioni di senso comune quanto le leggi scientifiche ([98]). Tuttavia, sono di gran lunga più frequenti le eventualità in cui il giudice possa attingere unicamente al senso comune per le proprie valutazioni. Proprio su questi punti si registrano non trascurabili contrasti in dottrina ([99]).

In definitiva, è evidente che le massime d’esperienza di senso comune ([100]) rappresentano il principale tra gli strumenti conoscitivi ([101]) in grado di fondare la premessa maggiore del sillogismo probatorio e, pertanto – una volta applicate agli accadimenti concreti posti come premesse minori – tali regole consentono al giudice di giungere alla conclusione o, per meglio dire, al risultato di prova.

Tale conclusione sottende il superamento della tesi classica che propugna il carattere deduttivo del sillogismo probatorio ([102]), in quanto un non trascurabile corollario della mancanza di conferma scientifica delle massime di senso comune ([103]) sta nella loro inidoneità a costituire la premessa maggiore di inferenze deduttive. Si ritiene, infatti, che tali massime possano fondare unicamente inferenze induttive ([104]) e, dunque, condurre a conclusioni non certe, ma probabili ([105]). Quello appena enunciato rappresenta un forte argomento a sostegno della ricostruzione per cui il ragionamento probatorio detenga carattere esclusivamente probabilistico e, pertanto, natura induttiva, alla quale, ormai da anni, guardano con estremo favore tanto la dottrina più autorevole e la giurisprudenza maggioritaria ([106]).

5.  Profili rilevanti sull’impiego delle massime d’esperienza in giudizio

Abbandonato il piano descrittivo-classificatorio e rivolta l’attenzione verso il piano della dinamica processuale, si osserva che nel quadro inferenziale, le massime d’esperienza assumono una «funzione epistemica», nella misura in cui partecipano all’accertamento del fatto operato per tramite di un ragionamento presuntivo o indiziario ([107]).

Quest’ultimo, a grandi linee, può intendersi come «l’operazione mentale con la quale un soggetto, basandosi su uno o più dati di partenza mira, per mezzo di una o più inferenze, a formarsi un convincimento in merito ad uno o più aspetti ignorati di un determinato oggetto» ([108]). Come è facile immaginare, il ragionamento presuntivo è ineliminabile ai fini del giudizio, giacché è quantomeno remota l’eventualità che il giudice, nella ricostruzione di avvenimenti passati, disponga di una prova diretta, completa ed esaustiva e, conseguentemente, risulta usuale che si possa giungere prova di fatti del passato solo per via indiretta. In sostanza, il giudice, partendo da facta probantia, ossia da elementi noti o, per meglio dire, indizi dotati, come richiede l’art. 2729 c.c., dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e tramite l’attribuzione a questi di un significato in ordine all’esistenza dei facta probanda, si formerà, in via inferenziale, un convincimento sull’esistenza o meno del fatto stesso. Proprio in ordine a tale attribuzione di significato, risulta massimamente apprezzabile la valenza delle massime d’esperienza, come rimarcato anche dalla pronuncia in commento ([109]).

Le regole d’esperienza – come si può agevolmente trarre in base a quanto sin qui dedotto – costituiscono l’ineliminabile strumento ([110]) con il quale il giudice procede a quel «prudente apprezzamento» richiesto per le sue valutazioni probatorie ai sensi dell’art. 116, co. 1, c.p.c. ([111]), norma faro in tema di libero convincimento del giudice ([112]). Difatti, la dottrina dominante riconduce l’elemento valutativo della prudenza all’esperienza, sostenendo che affermare il giudice deve valutare le prove secondo prudenza significa che questi – al fine di formulare ragionevoli apprezzamenti probatori – deve impiegare regole derivanti dall’esperienza stessa ([113]). Detto altrimenti, le massime di esperienza costituiscono un vincolo proprio del ragionamento giudiziale ([114]).

Occorre ora rivolgere l’attenzione al trattamento processuale delle massime di esperienza ([115]), settore che suggerisce altri elementi di differenziazione con il notorio.

In prima battuta, si è posta l’esigenza di chiarire se le regole d’esperienza necessitino di prova. La soluzione negativa – vale a dire quella per cui «ciò che si può provare storicamente è il fatto della loro formazione o della loro affermazione, non la regola stessa» ([116]) – è abbastanza diffusa ([117]). Vi sono stati vari tentativi di sconfessare detta tesi, principalmente adducendo l’argomento del «ricambio incessante delle regole d’esperienza», il che vuol dire che data la varietà di regole basate sull’esperienza, non è possibile fornire una risposta all’interrogativo della necessità della prova in termini univoci ([118]).

Quest’ultima argomentazione – che crea una differenza sul piano dell’onere della prova tra fatto notorio e massima di esperienza – non sembra superabile nemmeno sul piano del divieto di scienza privata del giudice, rispetto al quale, secondo parte della dottrina, la massima d’esperienza – proprio come il notorio – rappresenta una deroga ([119]). Infatti, se c’è un punto di comunanza tra il notorio e le regole di esperienza, questo sta proprio nel fatto che né le prime né le seconde costituiscono un’eccezione alla proibizione sopra richiamata. Più specificamente, se per il notorio sono valide le affermazioni svolte in precedenza – per le quali la sua conoscenza sarebbe parte della «scienza ufficiale» del giudice – per le massime di esperienza occorre ragionare sul piano dei rapporti che intercorrono tra queste e il giudice medesimo, premettendo la seguente domanda: il giudice ha una facoltà o un obbligo di servirsi delle massime di esperienza?

La dottrina maggioritaria concorda – proprio come per il fatto notorio – sulla sussistenza di un obbligo in capo al giudice di impiegare le massime di esperienza ([120]) e, pertanto, perde senso l’attribuzione di un carattere derogatorio rispetto al divieto di scienza privata, che non riguarda la valutazione delle prove ([121]).

Una significativa differenza tra il notorio e la massima di esperienza si apprezza – da ultimo – sul piano dell’esenzione o meno onere di allegazione. Difatti, mentre rispetto all’allegazione del fatto notorio si registrano opinioni contrastanti da parte dei commentatori e della giurisprudenza, il che – come si è avuto modo di sottolineare in precedenza – ha condotto all’affermazione di una tesi mista, con riferimento alle massime di esperienza la dottrina risulta pacifica nell’escludere la necessità di allegazione ([122]). Ciò depone come ulteriore argomento a favore dell’esenzione dall’onere della prova delle massime in questione, anche perché risulterebbe quantomeno contraddittorio affermare la necessità di prova e contestualmente negare l’onus allegandi.

6.  Il regime di sindacabilità dei fatti notori e delle massime d’esperienza

Un profilo di sicuro interesse, seppur immeritatamente poco approfondito, in tema di fatti notori e massime d’esperienza riguarda il controllo in sede d’impugnazione del loro impiego.  Mentre non sottende particolarità di rilievo ove sia svolto in sede d’appello ([123]), il sindacato in questioni solleva diverse aporie interpretative ove di esso sia investita la Corte di cassazione dinanzi la quale – secondo l’idea tradizionale – si celebra un giudizio di legittimità ([124]).

Nel rispetto dell’ordine di trattazione seguito finora, occorre muovere dal controllo in cassazione del fatto notorio, partendo dall’ipotesi di censura più ricorrente, vale a dire l’assunzione da parte del giudice di un’errata concezione di notorietà ([125]).

In altre parole, può darsi che il giudice assuma la notorietà di un fatto privo dei minimi presupposti richiesti ai fini dell’ottenimento di una simile qualifica – quali la diffusione della sua conoscenza presso la collettività e il carattere di indubitabilità ed incontestabilità che deriva dal vaglio critico cui esso è sottoposto – e lo impieghi ai fini del decidere senza che esso sia sottoposto a prova ([126]).

Posto che, in quanto impugnazione a critica vincolata, il ricorso per cassazione può essere proposto unicamente per i cinque motivi predeterminati dal legislatore ai sensi dell’art. 360, co 1., c.p.c. ([127]), costituisce terreno di discussione il motivo con cui il vizio di errata notorietà del fatto deve essere veicolato.

Taluni, in proposito, configurano un error in iudicando o, per meglio dire, una falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c. e, nel caso di specie, la norma violata da prendere in considerazione è, naturalmente, l’art. 115, co. 2, c.p.c. ([128]). Considerata da quest’angolo visuale, la pronuncia di notorietà sconta un «vizio di sussunzione» nella misura in essa risulti la riconduzione alle nozioni di fatto derivanti dalla comune esperienza ex art. 115, co. 2, c.p.c di una circostanza non generalmente conosciuta ed opinabile ([129]).

La Suprema Corte avalla questa ricostruzione, avendo sottolineato a più riprese che «è censurabile per violazione di legge l’assunzione da parte del giudice di merito di un’inesatta nozione di notorietà» ([130]), aggiungendo che, in tale caso, essa «esercita il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice del merito» ([131]). Peraltro, è proprio sulla base di ricorsi ex art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c. che spesso la Corte di legittimità ha riformato pronunce di merito escludendo dal novero della notorietà circostanze in esse inesattamente indicate come comuni ed indiscusse ([132]).

Per quanto la posizione appena enunciata goda di una vasta diffusione e condivisione, altri hanno prospettato l’opportunità che l’erronea valutazione della notorietà di un fatto possa produrre non già un error in indicando, bensì un error in procedendo. Per questa ragione, il provvedimento sarebbe censurabile in sede di legittimità con ricorso ex art. 360, co.1, n. 4), c.p.c., ossia per «nullità della sentenza o del procedimento» ([133]), motivo che ricomprende tutte le censure con cui si faccia valere un vizio processuale o di attività che abbia determinato la nullità della sentenza o del procedimento ([134]).

A modo di vedere di alcuni esponenti della dottrina ([135]), la censurabilità dell’inesatta nozione di notorio per vizio di nullità ex art. 360, co. 1, n. 4) c.p.c. rappresenta un corollario della sindacabilità in sede di legittimità per il medesimo motivo delle violazioni del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, vale a dire l’omissione di pronuncia da parte del giudice, la pronuncia ultra petita, nonché la pronuncia extra petita ([136]), tutti originati dalla violazione di una norma processuale, quale l’art. 112 c.p.c.

A tal proposito, si è affermato che «la considerazione di fatti indubbiamente notori può costituire motivo di ricorso in Cassazione qualora i fatti notori non affermati dalla parte e rilevati invece dal giudice siano necessari ad identificare la domanda», in quanto, in questo caso, il giudice pronuncerebbe extra petita e, dunque, si avrebbe una netta violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., censurabile ex art. 360, co. 1, n. 4) c.p.c. ([137]).

La giurisprudenza di legittimità in merito alla disputa tra la sindacabilità della pronuncia di notorietà per falsa applicazione della norma di diritto in base all’art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c. o per nullità della sentenza o del procedimento art. 360, co.1, n. 4) c.p.c. ha assunto, in talune pronunce, una posizione “pilatesca”, rimettendo all’interprete la scelta del motivo di impugnazione da proporre ([138]).

Una soluzione per risolvere l’impasse è suggerita dalla dottrina più avanzata, che, se da un lato ritiene che non tutti gli errores in iudicando de iure procedendi debbano allora ricondursi all’art. 360, co.1, n. 3) c.p.c., dall’altro specifica che essi sono riconducibili a quest’ultimo motivo «solo se la norma processuale erratamente interpretata indichi al giudice come decidere il merito; anche qui, infatti, l’errore atterrà al merito pur processuale della lite». Diversamente anche «l’error in iudicando de iure procedendi commesso in ordine alla valutazione del contenuto della norma processuale, al pari di quello direttamente commesso in procedendo, dovrà essere ricondotto all’art. 360, co.1, n. 4) c.p.c.»( ([139]).

Il dibattito sulla censurabilità della pronuncia per vizio di errata notorietà – a dispetto di quanto potrebbe apparire prima facie – non si è però polarizzato sulle posizioni poc’anzi richiamate, in quanto alcuni orientamenti dottrinali e giurisprudenziali ravvisano una prospettiva di sindacato per vizio di motivazione( [140]) e, segnatamente, di motivazione insufficiente, vale a dire «illogica, incongruente o inidonea a giustificare la soluzione adottata» ([141]).

Una corrente dottrinale più risalente sostiene che il sindacato in sede di legittimità per vizio di motivazione è circoscritto al solo fatto notorio indiretto ([142]), vale a dire «quello divenuto tale mediante la diffusione offerta da un mezzo di propalazione, tramite il quale il giudicante, in applicazione di una regola di esperienza, risale alla rappresentazione dell’avvenimento originario» ([143]). Più specificamente, si è affermato che «qualora il giudice intenda porre un fatto come notorio indiretto, egli è tenuto a dichiarare il nesso di motivazione essendo certo che il notorio, se va esente da prova, non esenta il giudice dal dovere generale di motivazione» ([144]), il che vuol dire, in altri termini, che il giudice è tenuto a giustificare le ragioni della notorietà del fatto, a pena di insufficienza sul piano motivazionale.

Queste considerazioni devono essere valutate alla luce della riforma del codice di rito avvenuta con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito con L. 7 agosto 2012, n. 134), per effetto della quale è avvenuta la riformulazione del motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, co. 1, n. 5). In particolare, se sin dal 1950 veniva riconosciuta – sulla scorta di tale motivo – la sindacabilità del provvedimento di merito per «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio» ([145]), con la novella testé richiamata si è invece reintrodotta l’originaria previsione del codice di rito del 1942, che ammetteva il sindacato della pronuncia di merito «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» ([146]).

L’incidenza di questa riforma si apprezza massimamente con riferimento alla più vasta tematica del sindacato del giudizio di fatto ([147]). È noto, infatti, che il giudice, nel risolvere le questioni di fatto, deve compiere delle «scelte di valore» improntate a criteri di logica e di razionalità secondo il suo prudente apprezzamento ([148]), e di esse deve relazionare nella motivazione della sentenza ([149]), ove sarà ricostruito il percorso di argomentazione che lo conduce ad una certa decisione del punto controverso ([150]). Detto altrimenti, la motivazione costituisce una vera e propria «finestra» attraverso cui accedere al giudizio di fatto ([151]) ed – eventualmente – censurarlo per vizio logico ([152]), attività pacificamente svolta sino al 2012 per tramite della norma in esame.

Sin dai primi tempi dell’entrata in vigore dell’emendato dato testuale, vista l’assenza in quest’ultimo di ogni cenno alla motivazione, la dottrina si è interrogata sulla permanenza o meno di spazi per un controllo sul vizio logico del giudizio di fatto con risultati quantomeno discordanti ([153]).

Così, dopo appena due anni da questa riforma, anche la Corte di cassazione ha avvertito la necessità di fornire un’interpretazione del nuovo motivo di doglianza al fine di chiarire ogni eventuale ambiguità: ciò è avvenuto con le sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 7 aprile 2014, nn. 8053-8054 ([154]), con le quali si è affermato che il novellato art. 360, co.1, n.5, c.p.c. introduce un vizio del tutto nuovo è diverso rispetto al precedente, nel senso che viene ammessa la censurabilità della sentenza solo allorquando «il giudice, nell’esame e nella valutazione degli elementi di prova rilevanti al fine della formazione del suo giudizio su un determinato fatto, abbia omesso di considerare un fatto decisivo per la risoluzione della controversia» ([155]).

In sostanza, rispetto all’ipotesi di un sindacato per vizio logico del giudizio di fatto da queste pronunce emerge un netto atteggiamento di chiusura da parte della Suprema corte, che, rapportato al notorio, schiude l’inaccettabilità delle posizioni che propugnano la censura dell’errata qualifica di notorietà di un fatto ai sensi dell’art. 360, co.1, n.5, c.p.c. Per contro, rimane innegabile – anche in virtù del semplice dato testuale aggiornato al 2012 – l’ammissibilità del sindacato in sede di legittimità ove il giudice abbia omesso di considerare ai fini del proprio giudizio un fatto notorio decisivo ([156]), vale a dire una circostanza notoria processualmente esistente, in quanto allegata dalle parti ed oggetto di discussione tra queste ultime, la cui mancata considerazione da parte del giudice abbia importato un esito diverso della vicenda processuale ([157]).

Non può tacersi, però, che – a ben vedere – gli sviluppi interpretativi di tale norma non si sono arrestati alla rigidità delle Sezioni Unite del 2014 e a tal proposito bisogna dare atto alla Corte di cassazione di aver, in più occasioni, tentato di riaprire il controllo sulla motivazione e sul giudizio di fatto ([158]).

L’esempio più eloquente di questa tendenza risiede in una celebre pronuncia del luglio 2017 ([159]), nella quale, pur senza sconfessare del tutto l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, si afferma che «se è vero che il controllo della Corte di legittimità non può mai spingersi a valutare (…) il risultato della concreta modalità di esercizio del prudente apprezzamento del giudice del merito nella valutazione del materiale istruttorio, tuttavia un tale controllo, pure restando assai limitato, deve persistere, a presidio dell’intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto (…)» ([160]).

Si tratta, a tutti gli effetti, di un ripristino del controllo sulla logicità giudizio di fatto per tramite della motivazione ([161]) e – ragionando in questi termini – sembra accettabile la possibilità che il giudice di legittimità censuri una pronuncia di notorietà, oltre che per l’ipotesi, riconosciuta in lege, dell’omesso esame del fatto notorio decisivo, anche nell’eventualità in cui il giudice di merito non si sia preoccupato di fornire delle argomentazioni convincenti, idonee e plausibili circa la sussistenza delle condizioni per cui un certo fatto possa dirsi notorio ([162]).

Per completezza in tema sindacato della pronuncia di notorietà, deve riconoscersi – indipendentemente dall’approccio impiegato rispetto al ricorso per cassazione – una generale concordia sulla revocabilità della sentenza per «errore di fatto» ([163])  ex art. 395, co.1, n. 4) c.p.c.([164]) sia nel caso in cui il giudice abbia asserito la notorietà di un fatto privo a monte di ogni riscontro a livello di veridicità sia ove abbia mancato di considerare ai fini del decidere un fatto notorio decisivo non controverso tra le parti ([165]).

Rivolgendo l’attenzione alla sindacabilità delle massime d’esperienza nel giudizio di legittimità, va chiarito – a titolo di notazione preliminare – che tale attività è ammessa pressoché da tutta la dottrina ([166]),

Sono stati enucleati vari casi di censura ([167]).

Il primo è un caso pressoché di scuola: si tratta dell’eventualità della mancata enunciazione delle massime di esperienza che hanno guidato il giudice nel processo decisionale ([168]).

Il secondo caso – certamente il più ricorrente e, dunque, il principale – consiste nel distorto impiego della massima d’esperienza, vale a dire il «difetto logico relativo al passaggio tra la massima d’esperienza applicata al fatto noto e la conclusione» ([169]).

Quest’ultimo caso – peraltro come il primo – da sempre è ritenuto sindacabile in Cassazione per vizio di motivazione ([170]) e, in considerazione degli effetti della riforma dell’art. 360, co. 1, n. 5) c.p.c. di cui si è dato atto precedentemente, la dottrina – proprio come per il notorio – ha operato valutazioni in merito alla sopravvivenza di una simile censurabilità ([171]).

In dottrina, le posizioni sono state molteplici, spaziando tra chi negava che si potesse proseguire nel sindacato per vizio di motivazione del cattivo uso delle massime d’esperienza ([172]), chi ammetteva un sindacato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c. per violazione dell’art. 116 c.p.c. ([173]) o dell’art. 2729 c.c. in tema di presunzioni ([174]) o ancora dell’art. 115 c.p.c. ([175]), chi indicava la censurabilità per error in procedendo ex art. 360, co. 1, n. 4) c.p.c. ([176]) e, da ultimo, chi propendeva per una permanenza di questa ipotesi di sindacabilità nel nuovo tenore dell’art. 360, co. 1, n. 5) c.p.c., operandone una interpretazione estensiva e adeguatrice ([177]).

Al netto di questi validi tentativi, sembra che la rotta da seguire circa l’ammissione del sindacato di legittimità sul distorto impiego della regola d’esperienza sia proprio quella tracciata dalla Cassazione nel 2017, ove prevedendo l’imprescindibilità di un controllo da parte della  Cassazione sulla «intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto, quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità – o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità – della premessa in sè considerata» ([178]), sottolineando che – in mancanza di tale congruenza o plausibilità – si produrrà un vizio di motivazione censurabile ai sensi dell’art. 360, co.1, n.4), c.p.c. ([179]).

Tra l’altro, anche recentemente, la Suprema corte ha rimarcato che risulta censurabile in sede di legittimità per falsa applicazione di norme di diritto unicamente l’inesatta nozione di notorio e non anche il concreto esercizio da parte del giudice del potere discrezionale di ricorrere ad una massima di esperienza, che è invece censurabile unicamente per vizio di motivazione ([180]).

([1]) Sulla bontà della tesi per cui l’art. 115, co. 2, c.p.c. costituisce la base normativa del fatto notorio, v., ex pluribus, G.A. Micheli, Sulla nozione di fatto notorio, in Giur. compl. cass. civ., 1945, II, p. 286 ss.; C. Leone, Contributo allo studio delle massime d’esperienza e dei fatti notori, Bari, 1951, p. 52; E. Grasso, Poteri del giudice. Art. 115, in E. Allorio (a cura di), Commentario al Codice di procedura civile, Torino, 1973, I, p. 1308; L.P. Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, p. 301 ss.; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, in F. Carpi, M. Taruffo (diretto da), Commentario breve al Codice di procedura civile, Padova, 2018, p. 486; B. Zuffi, Art. 115 c.p.c. Disponibilità delle prove, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile – Commentario, vol. I, Torino, 2018, p. 1374; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, Padova, 2021, p. 32 ss.; S. Patti, Prove. Disposizioni generali, in V. Scialoja, G. Branca (a cura di), Commentario al Codice civile, V, Bologna – Roma, 1987, p. 74 ss.; Id., Le prove, in G. Iudica, P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Milano, 2021, p. 23, ove si afferma che «i fatti notori trovano una base normativa nell’art. 115, co. 2, c.p.c.». Si tratta di un orientamento avallato anche dalla Corte di cassazione e tra le pronunce più recenti, v. Cass., 11 gennaio 2024, n. 1128 con nota di M. Russo, Fatto notorio e onere della prova, in eclegal.it, 2024, p. 1 ss.; Cass., 26 settembre 2023, n. 27342; Cass., 28 agosto 2023, n. 25367; Cass., 6 giugno 2023, n. 15923; Cass., 13 dicembre 2022, n. 36309. Più indietro nel tempo, meritano di essere segnalate anche Cass., 4 ottobre 2011, n. 20313; Cass., 28 ottobre 2010, n. 22022; Cass., 1° febbraio 2003, n. 1516; Cass., 27 giugno 2000, n. 8744.

([2]) A tal riguardo e molto chiaramente, v. Cass., 30 novembre 2022, n. 35196. La massima «notoria non egent probatione», pur essendo di derivazione medievale, ha trovato un significativo sviluppo nel diritto canonico. In quest’ordinamento, la notorietà di fatto è stata correlata al sistema probatorio sino al 1983, anno della promulgazione del nuovo Codex iuris canonici, che ha sostituito il Codice Pio Benedettino del 1917 e nel quale, seppur ad altri fini, permangono alcuni riferimenti al notorio (ad esempio, al can. 1093 in tema di impedimento matrimoniale per pubblica onestà). Sull’impiego del fatto notorio nel diritto canonico, v. P.G. Caron, voce “Fatto notorio” (Dir. can.), in Enc. Dir., Milano, 1967, p. 1014 ss. Per ogni approfondimento, si segnalano le ricostruzioni storiche di R. Bertolino, Il notorio nell’ordinamento giuridico della Chiesa, Torino, 1965, p. 115 ss.; C. Ghisalberti, La teoria del notorio nel diritto comune, in Annali di storia del diritto, Milano, 1957, p. 403 ss.; M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 123 ss., P. Comoglio, Nuove tecnologie e disponibilità della prova. L’accertamento del fatto nella diffusione delle conoscenze, Torino, 2018, p. 155 ss.; A. Panzarola, Su alcuni esempi della funzione «antiprocessuale» del notorio: il Caso Wallenstein (e dintorni), in Riv. dir. proc., 2022, p. 144 ss.

([3]) F. Ferrari, Il fatto notorio e la rete internet: un rapporto difficile, in AIDA, 2015, p. 387. In proposito, v. anche L. Ferrara, Relatività del notorio, in Foro It., 1940, p. 967, per il quale «la delicatezza del problema consisteva nel conciliare le gravi esigenze formali del rigore probatorio (“quod non est in actis non est in mundo”) ed il rispetto dovuto dal giudice soltanto all’impulso dimostrativo delle parti (“iudex secundum allegata et probata partium iudicare debet, non secundum conscientiam”) con la irrecusabile forza di convinzione derivante stragiudizialmente ai magistrati decidenti dalla evidenza attestatrice della comune generale conoscenza sulla obiettiva realtà dei fatti in questione».

([4]) In verità – per quanto non sia l’effettivo precursore del vigente codice di rito – nel Progetto preliminare del Codice di procedura civile approntato da Francesco Carnelutti (cd. Progetto Carnelutti) si rinvengono due disposizioni particolarmente significative in tema di notorietà, ossia gli artt. 296-297, le quali introducono nell’ambito dei poteri del giudice il concetto di fatto notorio, offrendone una formulazione oggettiva e svincolata dall’atteggiamento soggettivo delle parti. Più specificamente, come eccezione rispetto all’obbligo per il giudice di utilizzare ai fini della decisione solo i fatti che risultano dal processo, scolpito ex art. 269, l’art. 296 dispone che «il giudice stabilisce i fatti secondo ciò che risulta dal processo o dalla pubblica notorietà» e, a completamento, l’art. 297 incarna un tentativo di nozione del notorio, definendo «pubblicamente notori quei fatti, la cui esistenza è nota alla generalità dei cittadini nel tempo e nel luogo in cui avviene la decisione».

([5]) In dottrina, al fine di avvalorare la differenziazione tra temi sostanziali e temi processuali concernenti la notorietà di fatto, si è opportunamente distinto tra «dimensione extraprocessuale» e «dimensione processuale». A tal proposito, v. per tutti V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, in Riv. dir. proc., 2016, p. 334 ss., la quale sostiene che la dottrina si è ampiamente interessata dimensione extraprocessuale del notorio, cercando di metterne a punto la definizione e le caratteristiche sostanziali, ma non ha prestato la stessa attenzione allo studio del comportamento processuale del notorio, ossia a come quest’ultimo «si inserisca ed operi nella dinamica del processo».

([6]) Il notorio oggetto della presente trattazione diverge dal cd. notorio giudiziale, formula con la quale si intendono le nozioni di fatto che il giudice ha appreso non in sede privata o comunque in una veste diversa da quella istituzionale, bensì proprio nell’esercizio delle sue funzioni giudiziali e che, però, non fanno formalmente parte delle risultanze del processo. Rispetto all’impiego processuale del notorio giudiziale, in dottrina non si registra un’univocità di vedute. Per ogni considerazione in argomento si rinvia a G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, Milano, 1947, p. 44 ss.; Id., voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, in Enc. Dir., Milano, 1967, p. 1013; R. Vaccarella, Quaedam sunt notoria judici tantum et non aliis, in Giust. civ., 1989, p. 2549 ss.; L. Dittrich, Appunti per uno studio del fatto notorio giudiziale, in Studi in onore di Giuseppe Tarzia, Milano, 2005, I, 819 ss.; B. Cavallone, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. dir. proc., 2009, 4, p. 866 ss.; A. Panzarola, Il notorio, la judical notice e i concetti di prova, in Riv. dir. proc., 2016, p. 610 ss.; S. Patti, Le prove, cit., p. 28 ss. In giurisprudenza, v. Cass., 18 dicembre 2008, n. 29728; Cass., 7 marzo 2005, n. 4862; Cass., 22 febbraio 2004, n. 3980; Cass., 12 settembre 2003, n. 13426; Cass., 8 febbraio 2002, n. 11946; S.U. Cass., 19 luglio 1989, n. 3374.

([7]) Tale nozione si è progressivamente consolidata nella manualistica più diffusa e, a tal proposito, per i processualcivilisti, v. C. Mandrioli, A. Carratta, Corso di diritto processuale civile. Il processo di cognizione, Milano, 2023, p. 111; F.P. Luiso, Diritto processuale civile. Il processo di cognizione, Milano, 2017, p. 78; G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, Disposizioni generali. I processi di cognizione di primo grado. Le impugnazioni, Padova, 2007, p. 274; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, p. 414; L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile. Principi generali. Rito ordinario di cognizione, Padova, 2001, p. 1176; nella dottrina processualpenalistica, v., ex pluribus, P. Tonini, C. Conti, Manuale di procedura penale, Milano, 2021, p. 254; G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 2022, p. 219. Con riguardo alla diffusione di detta formula nella giurisprudenza di legittimità, v., ex multis, Cass., 3 marzo 2023, n. 6530; Cass., 20 ottobre 2022, n. 30958; Cass., 16 marzo 2022, n. 8580; Cass., 4 dicembre 2020, n. 27810; Cass., 7 febbraio 2019, n. 3550 con nota di S. Alunni, La nozione di fatto notorio e la sua esatta affermazione, in Giur. it., 2019, p. 1547 ss.; Cass., 6 febbraio 2013, n. 2808; Cass., 25 giugno 2002, n. 9263; Cass., 5 maggio 2000, n. 5680; Cass., 11 marzo 1995, n. 2859.

([8]) I primi studi organici sulla nozione di fatto notorio risalgono alla dottrina tedesca e, in particolare, a F. Stein, Das private Wissen des Richters. Unterschungen zum Beweisrecht beider Prozesse, Leipzig, 1893, p. 3 ss., il quale aveva qualificato come notori quei fatti la cui divulgazione fosse incontestabile. Tuttavia, il contributo decisivo all’elaborazione della corrente definizione di fatto notorio si deve a P. Calamandrei, Per la definizione del fatto notorio, in Riv. dir. proc. civ., 1925, p. 274 ss., il quale si proponeva di ricercare la nozione di notorio «prima e fuori dal processo». Il saggio del padre costituente fiorentino è tutt’oggi considerato un imprescindibile punto di riferimento per ogni studio afferente alla definizione del notorio o, più precisamente, all’esatta individuazione della sua dimensione extraprocessuale. A riprova di ciò depone che gli studi di Calamandrei in tema di notorio hanno varcato i confini italiani, esercitando una certa influenza, in particolare, sulla dottrina spagnola (ad esempio, v. M. Ortells Ramos, La prueba: concepto y naturaleza jurídica, in Derecho procesal civil, Cizur Menor, 2009, p. 349), e sulla dottrina latino-americana (ad esempio, M. Sebastian Midón, El objecto de la prueba, in Id. (a cura di), Tratado de la prueba, Resistencia, 2007, p. 145). In particolare, Calamandrei fu il primo a sottolineare che la notorietà di un fatto deriva dal suo esplicito accoglimento presso le nozioni della comune cultura, ponendo le basi per una concezione di notorietà come frutto del conclamato consenso sociale sulla verità di un fatto. Pur avendo ricevuto grandi apprezzamenti da parte della dottrina, questa impostazione – di chiaro stampo qualitativo e consensualistico – non è stata esente da critiche e tra queste le più degne di nota provengono da G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1002 ss., il quale, di contro, cerca affermare una nozione di notorietà di fatto di stampo quantitativo e corrispondentista. In altri termini, a costituire il discrimine tra le due impostazioni è la concezione di certezza adottata: se Calamandrei è fautore di quella che la più moderna dottrina ha denominato «teoria consensualistica della verità», secondo cui la certezza di un fatto costituisce un equivalente della condivisione sociale della sua verificazione, De Stefano, al contrario, appoggia la cd. «teoria corrispondentista della verità», ritenendo che la certezza di un fatto corrisponde alla sua oggettiva verificazione nella realtà. Non si tratta di una differenza di poco conto, dal momento che l’accettazione della prima teoria implica l’assegnazione alla prova di una «funzione argomentativa o retorico-persuasiva», mentre, avallando la seconda, si converge verso una prova con «funzione dimostrativa o epistemica». A tal proposito e, più in generale, per una dettagliata ricostruzione del dibattito sulla definizione di fatto notorio, v. P. Comoglio, op. cit., p. 183, il quale, ad ogni buon conto, arriva a sostenere che «nonostante le premesse il concetto di notorio come pubblica scienza di De Stefano non appare molto diverso dal notorio di pubblica cultura di Calamandrei», in quanto «De Stefano non coglie l’incommensurabilità delle due posizioni (…), pur partendo da premesse di certezza oggettiva arriva ad una nozione di notorio come certezza soggettivamente condivisa». Per approfondimenti sulla concezione di verità, si segnala la disputa sul tema ravvivata nello scorso decennio da M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009, che, da principale caldeggiatore della verità storica come scopo ultimo del processo, si è attirato le contestazioni di B. Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., 2010, p. 1 ss., al quale ha fatto seguito una ulteriore replica di M. Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in Riv. dir. proc., 2010, p. 995 ss. Sulla disputa, appare emblematica la considerazione di L. Dittrich, La ricerca della verità nel processo civile: profili evolutivi in tema di prova testimoniale, consulenza tecnica e fatto notorio, in Riv. dir. proc., 2011, p. 108, secondo il quale le posizioni sono destinate a rimanere inconciliabili, vista la diversa forma mentis dei due autori. Per maggiore completezza sul punto, si suggeriscono anche le riflessioni di M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 3 ss.; Id., Verso la decisione giusta, Torino, 2019, p. 99 ss.; B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, p. 3 ss.; R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), in Estudos em homenagem a Ada Pellegrini Grinover e José Carlos Barbosa Moreira, São Paolo, 2019, p. 1083 ss.

([9]) Così, P. Calamandrei, op. cit., p. 297.

([10]) In questo senso, si segnala la recente considerazione di F. Gigliotti, Fatto notorio e informazioni accessibili in rete, in Giust. civ., 2019, p. 851, il quale, condivisibilmente, ritiene che la circostanza, ai fini della qualificazione di notoria, deve essere oggetto di diffusione «presso una comunità socialmente rilevante e riconoscibile come tale, concettualmente diversa dal semplice gruppo ristretto, più o meno occasionalmente accomunato da transeunti circostanze di fatto» e che, pertanto, non possa rientrare nel novero dei notori il fatto che è conosciuto, ad esempio, tra gli «appartenenti ad un condominio o gli studenti di una classe o gli aderenti ad un circolo sociale». Tale precisazione, a ben vedere, sembra ben rispondere ai dubbi sul concetto di cerchia sociale avanzati da G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 28 ss.; Id., voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 999 ss., il quale, nel rilevare una sua eccessiva indeterminatezza, propone di sostituire tale concetto con quello più preciso da un punto di vista quantitativo di «popolo», da intendersi come «comunità umana, base politica e territoriale di cui ogni individuo, in quanto soggetto giuridico, è membro». Per una critica alle tesi di De Stefano, in dottrina v. C. Leone, op. cit., p. 17 ss. Per la giurisprudenza merita di essere segnalata Cass., 6 marzo 2017, n. 5530, ove si è negata la possibilità di individuare la comunità in cui è radicata la conoscenza del fatto notorio facendo riferimento ad un criterio politico-amministrativo e, segnatamente, di appartenenza territoriale.

([11]) A L. Ferrara, op. cit., p. 968, si riconosce generalmente la primazia nell’essersi occupato funditus dello studio del carattere relativo della notorietà, anche in comparazione ad elaborazioni dottrinali estere, come quelle tedesche e quelle francesi. In particolare, questi, con riferimento ad alcuni casi giurisprudenziali, afferma che sono fatti notori, ad esempio, la durata del confitto tra Italia ed Etiopia o l’impossibilità di partorire per una donna ultraottantenne, oppure, in astratto, «il fallimento di una banca, la morte di un grande statista o di un artista celebre, un colossale terremoto per vasta estensione di territorio». Tuttavia, l’autore non esclude che, proprio per l’effetto del carattere relativo, anche «l’umile evento che desta il generale clamore in un piccolo villaggio e che ha una piccola conclamazione di consapevolezza e di pubblicità» sia qualificabile come notorio. In senso adesivo rispetto all’ammissibilità del fatto notorio relativo, si collocano, ex pluribus, anche P. Calamandrei, op. cit., p. 296; G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1005 ss.; V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, p. 242; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 485; M. Taruffo, Art. 115, in A. Carratta, M. Taruffo, Dei poteri del giudice. Art. 112-120, in S. Chiarloni (diretto da), Commentario del codice di procedura civile, Bologna, 2011, p. 498 ss.; B. Zuffi, op. cit., p. 1367. Una posizione contraria è quella di F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, Roma, 1956, p. 209. Inoltre, sembra essere rimasta isolata la posizione di C. Leone, op. cit., p. 8, il quale accenna al carattere relativo del notorio, ritenendo che esso si sostanzia nel «limite spaziale, temporale e sociale del notorio», ma propone di discorrere non già di «relatività», bensì di «limitatezza» del notorio, al fine di evitare una possibile confusione con «quella più sostanziale relatività», che consiste «nella precarietà del dato, nella suscettibilità di perfezionamento, mutamento o annullamento, che è comune a tutte le astrazioni ed a tutte le regole in cui l’esperienza umana si depura».

([12]) La formula «notorio locale o spaziale», impiegata da G. De Stefano, Note minime sulla cosiddetta notorietà locale, in Giur. it., 1959, p. 99 ss., identifica un fatto la cui conoscenza sia diffusa unicamente in una certa area geografica e, quindi, «comune ad ambiti e a ceti piuttosto ristretti». La figura del notorio locale o spaziale è accettata dalla maggior parte della dottrina (v., per tutti, B. Zuffi, op. cit., p. 1367; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 485). In contrapposizione, sembra porsi E. Grasso, op. cit., p. 1309, affermando, in riferimento alla notorietà, che «non è concepibile una aprioristica determinazione della sua localizzazione né pare comunque adeguato riferirsi al luogo della decisione piuttosto che al luogo in cui avviene il fatto notorio o il fatto di cui il primo fornisce la prova». Con riferimento alla giurisprudenza di legittimità, è certamente da segnalare Cass., 15 febbraio 1958, n. 500, nella quale si legge che «il giudice può utilizzare quale fonte di convincimento, la cosiddetta notorietà locale, a condizione che, pur nell’ambito territorialmente ristretto, il fatto che si invoca sia entrato a far parte della cultura media della collettività ovvero si sia manifestato con ripercussioni così immediate ed ampie, anche in rapporto con la sua incidenza sull’interesse pubblico inteso in senso sociologico, da potersi considerare acquisito alla conoscenza della generalità della collettività ed individualmente ignorato soltanto per circostanze eccezionali». Tra le circostanze localmente conosciute più degne di credito cui la giurisprudenza ha riconosciuto la qualifica di notorie giova ricordare, a titolo di esempio, le dimissioni dalla carica del Sindaco di un Comune di medie dimensioni (Cass., 29 dicembre 2022, n. 38054), la festa di un santo patrono (Cass., 12 maggio 1986, n. 3160), i particolari geografici o topografici di una città (Cass., 21 dicembre 2001, n. 16165), la successione nella concessione del servizio di riscossione tributaria in un certo ambito territoriale (Cass., 21 febbraio 2007, n. 4051), la presenza di aree di parcheggio libero in prossimità di parcheggi a pagamento (Cass., 4 marzo 1978, n. 1077), il fatto che lo spirare del vento in una particolare zona italiana provoca danni agli edifici (Cass., 10 maggio 1986, n. 3307).

([13]) La sottocategoria della cd. «notorietà specialistica o tecnica» ricomprende quelle nozioni di natura tecnica, cioè proprie di un particolare settore dell’attività umana, che risultino certe, incontestabili ed acquisite al patrimonio gnoseologico di qualsiasi uomo di media cultura. A tal proposito, v., per tutti, Cass., 19 aprile 2001, n. 5809, ove si afferma «la possibilità del giudice di far capo anche alla comune cultura di una specifica e, del caso, particolarmente qualificata cerchia sociale –  definita questa come insieme di persone aventi fra loro una comunanza di interessi dovuta alle più disparate ragioni – così da far assurgere all’alveo del notorio anche nozioni sicuramente esorbitanti da quella cultura media che per la “communis opinio” rappresenta il naturale parametro della nozione in oggetto». La Suprema Corte ha incluso nell’orbita del fatto notorio specialistico, ad esempio, la durata della stagione turistica in zona marittima (Cass., 19 agosto 2003, n. 12112), il livello retributivo di un funzionario dello Stato (Cass., 14 giugno 1978, n. 2957; Cass., 17 settembre 1979, n. 4787), nonché il fatto che lo sviluppo delle conoscenze mediche dei meccanismi di trasmissione virale delle infezioni da HBV, HIV ed HVC e dei rimedi immunologici per evitare il contagio ed individuare i soggetti infetti sia avvenuto rispettivamente negli anni 1978, 1985 e 1988 (Cass., 31 maggio 2005, n. 11609).

([14]) La giurisprudenza di legittimità ha chiarito in più occasioni che il fatto deve imporsi «all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo». In tal senso, v., per tutte, Cass., 27 aprile 2018, n. 10207. Per altri riferimenti giurisprudenziali, si rinvia all’elenco redatto da S. Alunni, op. cit., p. 1548, la quale discorre di «conoscenza collettiva come elemento garante di verità».

([15]) G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 23, per motivare questa tesi, richiama la distinzione tra le presunzioni semplici, che definisce come «fatti puramente materiali, dai quali si desumono indizi circa il sussistere o meno delle situazioni giuridiche concrete», e i fenomeni rappresentativi, ossia quei «fatti che, risultando da una attività espressiva umana, hanno una immediata attitudine rappresentativa e, per la loro natura di strumenti linguistici o semantici, contengono un esplicito riferimento ad altri fatti, di cui il giudice in tal modo acquista conoscenza». Posto che la notorietà rientra a pieno regime nella categoria dei fenomeni rappresentativi e assunto che dai fenomeni rappresentativi si ricava conoscenza, si può affermare che il giudice, a partire dalla notorietà, consegue una conoscenza qualificata dalla certezza, che, per l’appunto, è di questa un connotato intrinseco.

([16]) Con riferimento alla più recente giurisprudenza di legittimità, v. Cass., 11 gennaio 2024, n. 1128; Cass., 22 novembre 2023, n. 32461; Cass., 13 gennaio 2022, n. 867; Cass., 6 settembre 2021, n. 24052; Cass., 21 febbraio 2020, n. 4661; Cass., 16 dicembre 2019, n. 33154; Cass., 4 giugno 2019, n. 15159; Cass., 20 marzo 2019, n. 7726. Più indietro nel tempo, oltre alla già citata Cass., 6 febbraio 2013, n. 2808, v. anche Cass., 3 settembre 2009, n. 19123; Cass., 19 novembre 2007, n. 23978; Cass., 29 aprile 2005, n. 9001; Cass., 5 maggio 2000, n. 5680; Cass., 9 luglio 1999, n. 7181, annotata da A. Busani, Per individuare la base imponibile di un tributo è obbligatorio il rispetto di procedure rigorose, in Guida dir., 1999, pp. 77-78.

([17]) Nell’aggiornare alcuni rilievi già operati da S. Satta, Art. 115, in Commentario al codice di procedura civile, II, Milano, 1959, p. 461 ss., B. Zuffi, op. cit., p. 1366, afferma, richiamando alcune pronunce esemplificative, che non possono mai appartenere alla categoria della notorietà le condizioni soggettive di una persona (Cass., 29 maggio 1940, n. 1715, che ha escluso dal novero dei notori la sordità di un testimone regolarmente escusso) o i dati di fatto estrapolati da una pluralità di elementi disomogenei (ad esempio, Cass., 30 marzo 2007, n. 7914, che ha ritenuto non notori i valori percentuali medi di ricarico di un determinato settore imprenditoriale).

([18]) P. Calamandrei, op. cit., p. 296, il quale, a titolo di esempio chiarificatore, ritiene impensabile che tutti gli agricoltori di un certo paese possano ricordare le fiere di bestiame dei paesi limitrofi o che tutti gli abitanti di una città possano conoscere l’ubicazione di una strada appena aperta, ma, allo stesso tempo, ritiene che queste circostanze siano notorie, giacché gli interessati hanno possibilità di conoscerle, nel primo caso tramite un avviso pubblico, nel secondo caso tramite uno stradario. In questo senso, v. anche F. Gigliotti, op. cit., p. 847 ss.

([19]) Tra le circostanze riconosciute come notorie nella prassi giurisprudenziale, vi sono certamente la svalutazione monetaria e le crisi economiche, che spesso vengono elevate ad esempio principe rispetto al tema della notorietà di fatto (v., per tutte, Cass., 6 giugno 2023, n. 15923; Cass., 8 settembre 2000, n. 11854; Cass., 17 novembre 1993, n. 11356; in dottrina, G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, cit., p. 274; A. Mora, Questioni in tema di fatto notorio, in AA.VV., Studi in onore di Giovanni Iudica, Milano 2014, p. 903; S. Previti, Le prove civili, Padova, 2018, p. 22; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 462; B. Zuffi, op. cit., p. 1370);il danno alla professionalità che il lavoratore abbia a soffrire per il mancato svolgimento delle proprie mansioni (Cass., 9 settembre 2008, n. 22880, con nota di commento di G. Bertolino, Nota in tema di fatto notorio, in Giur. it., 2009, p. 1473 ss.) o per l’incidenza dei postumi di un intervento chirurgico (Cass., 17 maggio 2001, n. 6764); la circostanza per cui il giudice relatore abbia potere di influenza sugli altri membri del collegio giudicante (Cass., 16 luglio 2008 n. 19499, nonché le osservazioni di A. Mora, op. e loc. ult. cit.); l’importanza dei rapporti parentali (Cass., 22.01.2024, n. 2239); lo stato pandemico provocato dalla diffusione, nei primi mesi del 2020, del virus SARS-CoV-2 – più comunemente, Covid-19 (v., ex pluribus, Trib. Rimini, 18 novembre 2020, n. 756; Trib. Biella, 17 marzo 2021, n.1; Trib. Roma, sent. n. 1048/2022; Trib. Velletri, 28 dicembre 2022, n. 1378; Trib. Vicenza, 2 febbraio 2023, n. 262. Per approfondimenti sul tema della notorietà della pandemia da Covid-19, v. A. Alpini, La discutibile valenza probatoria del fatto notorio. Note sulla obbligatorietà delle c.dd. vaccinazioni anti-covid, in Rass. dir. civ., 2020, p. 429 ss.). Nel corso degli ultimi mesi, numerose corti territoriali di merito hanno ritenuto notoria anche la circostanza per cui i vaccinati contro Covid-19 sarebbero contagiosi al pari dei non vaccinati (tra le più recenti, v. Trib. L’Aquila, 13 settembre 2023, n. 136). Sono numerosi anche i fatti rispetto ai quali la giurisprudenza ha categoricamente escluso la notorietà e tra la casistica più recente, v. Cass., 11 dicembre 2023, n. 34394, che ha dedotto la non notorietà delle tabelle dei tribunali per la liquidazione del danno alla persona, confermando un orientamento già espresso in Cass., 15 giugno 2016, n. 12288. Per altri approfondimenti, v. M. Russo, op. cit., p. 4.

([20]) Su quest’aspetto, v. per tutti S. Patti, Le prove, cit., p. 24-25; Id., Prove. Disposizioni generali, cit., p. 74 ss. Il rapporto tra diffusione di un fatto via Web e la sua notorietà risulta essere uno dei profili su cui attualmente si stanno concentrando le riflessioni dei commentatori che approcciano a questo tema. Il lavoro certamente più compiuto, allo stato, risulta essere la già richiamata monografia del 2018 di Paolo Comoglio, dal titolo “Nuove tecnologie e disponibilità della prova”, nella quale l’autore, avvedutosi del generale cambiamento prodotto sulle strategie epistemiche dell’uomo dalle nuove tecnologie, offre una rilettura di taluni istituti processuali, tra cui la notorietà di fatto, con lo scopo di dar conto degli effetti innovativi che proprio lo sviluppo tecnologico è stato in grado di determinare in riferimento all’accertamento giudiziale. È interessante apprendere come le riflessioni operate da Comoglio prendano spunto da un episodio marginale – realmente accaduto e tratto dalla cronaca britannica – della trama del romanzo “La ballata di Adam Henry” di Ian McEwan, legato alla riapertura di un processo per omicidio dopo l’annullamento del precedente dibattimento a seguito della scoperta che uno dei giurati aveva passato ad altri giurati alcuni dati, che aveva appreso tramite la consultazione di Internet dal proprio smartphone. Per approfondimenti in argomento, si suggerisce anche la lettura dei percorsi argomentativi di L. Dittrich, La ricerca della verità nel processo civile: profili evolutivi in tema di prova testimoniale, consulenza tecnica d’ufficio e fatto notorio, cit., p. 108 ss., il quale propone di ripensare la definizione di notorio proprio alla luce della possibilità di venire a conoscenza di fatti tramite il Web; A. Neri, Fatti notori e informazioni pervenute da internet, in Giur. di merito, 2007, p. 2569 ss.; P. Mazzotta, Valenza processuale delle notizie acquisite tramite internet, in Diritto dell’internet, 2007, p. 30 ss.; M. Taruffo, Fatti e prove, in Id. (a cura di), La prova nel processo civile, Milano, 2012, p. 51; Id., Art. 115, cit., p. 498 ss.; A. Mora, op. cit., p. 903 ss.; F. Ferrari, op. cit., p. 383 ss.; S. Cortese, Il giudice non può cercare prove su internet, in www.lexit.it, 2017; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 483; F. Gigliotti, op. cit., p. 840 ss. e spec. p. 858 ss.; P. Licci, L’impatto dell’intelligenza artificiale sui poteri istruttori del giudice e sulla definizione dei fatti notori, in AA.VV., Il diritto nell’era digitale. Persona, Mercato, Amministrazione, Giustizia, Milano, 2022, p. 885 ss.

([21]) Questo riconoscimento segue ad una prima chiusura da parte delle corti di merito, emblematicamente scolpita da Trib. Mantova, ord., 18 maggio 2006, di cui si segnalano le note di commento di A. Neri, op. e loc. ult. cit., e P. Mazzotta, op. e loc. ult. cit.

([22]) Cass. pen., 22 marzo 2022, n. 10676 con nota di M. Violante, L’impiego ai fini della decisione di notizie assunte in camera di consiglio dal sito internet Google Maps, in Proc. pen. e giust., 2022, p. 1349 ss.

([23]) Cass., 9 giugno 2023, n. 16402; Cass., 3 marzo 2022, n. 7055; Cass., 26 maggio 2021, n. 14682; Cass., 11 dicembre 2020, n. 28349. Sul punto, v. anche M. Russo, op. cit., p. 3.

([24]) Così, ex multis, v. F. Gigliotti, op. cit., p. 853; V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 334; M. Taruffo, Art. 115, cit., p. 497.

([25]) Così, v. F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 485; G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1000 ss., che parla di notorio come «surrogato della prova». A tal riguardo, si esprime altresì molto chiaramente M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 50, affermando che «si può fare a meno della prova perché il fatto è già noto al giudice in quanto è conosciuto nell’ambiente sociale entro il quale la decisione viene formulata»; F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, Milano, 2023, p. 323 ss.

([26]) Sul principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., v. G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974; M. Taruffo, voce “Onere della prova”, in Dig. disc. priv. sez. civ., 1995, p. 68 ss.; F. Tommaseo, Art. 2697, in G. Cian, A. Trabucchi (a cura di), Commentario breve al Codice civile, Padova, 2014, p. 3579 ss. Sulla «relevatio ab onere probandi» prodotta dalla notorietà del fatto, v. G.A. Micheli, Sulla nozione di fatto notorio, cit., p. 287; G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1001; G. Guarnieri, Il fatto notorio nel processo tributario: onere della prova e discrezionalità del giudice, in Riv. giur. trib., 1996, p. 430 ss.; C. Leone, op. cit., p. 50 ss.; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., pp. 107 e 301 ss. Peraltro, in questi termini, il fatto notorio si presta ad un parallelismo con i fatti non contestati, in quanto come notato argutamente da V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 344 ss., che «in fondo, la non contestazione si presta pure ad essere descritta in termini di “notorietà inter partes”, ove la comune conoscenza, tra le parti, dell’avveramento di un fatto allegato da una sola di esse, comporta che anche l’altra lo assuma per vero, omettendo così di contestarne in forma specifica l’esistenza». Tuttavia, questa posizione viene criticata da P. Comoglio, op. cit., p. 315 ss., il quale rileva che «non è il fatto non contestato a potersi considerare notorio fra le parti, ma è il fatto notorio che si configura come fatto non contestato o, meglio, non contestabile. Su questa linea sembra ragionevole ritenere che il giudice possa porre a fondamento della propria decisione un fatto notorio non perché certo (a livello epistemico) della sua verità, ma perché (a livello pragmatico) non vi sono ragioni che ne mettono in dubbio la veridicità».

([27]) Di questo avviso sono, ex multis, V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 345 ss., cui si rinvia per ogni precisazione ulteriore; B. Zuffi, op. cit., p.1373; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 486; S. Satta, Art. 115, cit., p. 461; S. Patti, Prove. Disposizioni generali, cit., p. 78, nonché Cass., 19 gennaio 2006, n. 981. Contra, v. le osservazioni di G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1010.

([28]) Secondo la dottrina dominante – v., ex pluribus, E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, in Riv., dir. proc., 1960, p. 551 ss.; L.P. Comoglio, Art. 115, in AA.VV. (a cura di), Commentario del codice di procedura civile, II, Torino, 2012, p. 356 ss.; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 479 ss.; B. Zuffi, op. cit., p. 1340 ss. – l’art. 115, co. 1, c.p.c. detta il principio di disponibilità delle prove o principio dispositivo in senso processuale o formale, in base al quale nel processo risulta configurabile un tendenziale monopolio delle parti sulle prove di cui il giudice si serve ai fini del decidere. Contra, v. la tesi di E.F. Ricci, Il principio dispositivo come problema di diritto vigente, in Riv. dir. proc., 1974, p. 380 ss., ripresa in seguito anche da M. Taruffo, Per una rilettura dell’art. 115 c.p.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011, p. 104 ss. e vivamente contestata da B. Cavallone, Crisi delle maximen e disciplina dell’istruzione probatoria, in Riv. dir. proc., 1976, p. 678 ss.

([29]) Tale proibizione, che, come sostiene M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., p. 128, è correlata al cd. formalismo processuale, si concreta nell’impossibilità per il giudice di ricorrere, in sede di accertamento di fatti di causa, a fonti di informazioni esterne al processo e da lui conosciute per proprie vicende, correlativamente prescindendo dalle prove ivi ritualmente acquisite. Sul divieto in esame, v. A. Proto Pisani, Appunti sulle prove civili, in Foro it., 1994, p. 49 ss.; B. Cavallone, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, cit., p. 861 ss.; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 195 ss.; D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, Torino, 2002, p. 90. Non può sottacersi, tuttavia, che questa nozione necessita di un ripensamento alla luce dell’evoluzione tecnologica, come suggerisce P. Comoglio, op. cit., p. 283 ss.

([30]) A sostegno della ricostruzione secondo cui tanto il principio dispositivo quanto il divieto di scienza privata del giudice trovino la loro base normativa nell’art. 115, co. 1, c.p.c., v. S. Satta, Art. 115, cit., p. 452; G. Verde, voce “Dispositivo (principio)”, in Enc. Dir., Milano, 1988, p. 579 ss.; B. Cavallone, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, cit., p. 861 ss. Nel contrario senso dell’estraneità di detto divieto all’art. 115, co. 1, c.p.c., v. V. Andrioli, voce “Prova”, in Noviss. Dig., Torino, 1957, p. 278; M. Taruffo, Per una rilettura dell’art. 115 c.p.c., cit., p. 101 ss.; P. Comoglio, op. cit., p. 301.

([31]) Tra le pronunce più recenti, v. Cass., 6 dicembre 2021, n. 38666; Cass., 21 febbraio 2020, n. 4661 Cass., 16 dicembre 2019, n. 33154; Cass., 21 aprile 2016, n. 8049.

([32]) P. Calamandrei, op. cit., p. 282; L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, in Giur. compl. cass. civ., 1947, p. 224; Cavallone, Crisi delle maximen e disciplina dell’istruzione probatoria, cit., p. 685; Id, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, cit., p. 863; V. Andrioli, voce “Prova”, cit., p. 279; M. Taruffo, Art. 115, cit., p. 495 ss.; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 416, il quale rileva che «il notorio è un limite al divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice (omissis). Un fatto, quando è passato al vaglio dell’esperienza comune della generalità delle persone di un dato tempo e luogo, ha subito una spersonalizzazione ed oggettivizzazione: di qui l’assenza di rischi di parzialità da parte del giudice e la libera utilizzabilità da parte sua del fatto notorio»; L. Dittrich, La prova nel processo civile e arbitrale, cit., 2021, p. 34 ss.

([33]) Di questa corrente dottrinale fanno parte, ex pluribus, E. Allorio, op. cit., p. 367 ss.; M. Fanni, Sul «fatto notorio» e sulla sua inapplicabilità al valore degli immobili ai fini dell’imposta di registro (nota a Sent. Cass., sez. trib., 25 novembre 2005, n. 24959), in Dir. e prat. trib., 2006, p. 1005 ss.; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, p. 83; E. Grasso, op. cit., p. 1312; G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, cit., p. 274, secondo il quale la regola ex art. 115, co. 2, c.p.c. «non si pone in contrasto con il divieto di scienza privata del giudice, anzi implicitamente lo pone»; S. Patti, Le prove, cit., p. 25.

([34]) In tal senso, v. E. Allorio, op. cit., p. 367; più recentemente S. Patti, Le prove, cit., p. 25.

([35]) La definizione è tratta da S. Patti, Le prove, cit., p. 25. Sulla scienza ufficiale del giudice, v. anche L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 224 ss.; S. Pugliatti, voce “Conoscenza e diritto”, in Enc. Dir., Milano, 1961, p. 98 ss.

([36]) Invero, nemmeno questa teoria è stata esente da critiche e, in particolare, si ricordano quelle di G. Tarzia, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Id., Problemi del processo civile di cognizione, Padova, 1989, p. 316, il quale indica la possibilità che il fatto notorio non emerga durante il processo, rimanendo confinato nella sfera mentale del giudice fino al momento della decisione. In tale caso, la decisione sarebbe fondata su un fatto non emerso durante il processo con chiara violazione della garanzia del contraddittorio. In senso adesivo, v. anche G. Guarnieri, op e loc. ult. cit.; F. Lazzaro, Le prove extravaganti. Il notorio. L’ispezione. L’esperimento. L’ordine di esibizione alla parte o al terzo. La richiesta di informazioni alla p.a., Milano, p. 3, il quale ritiene che i principi del giusto processo ex art. 111 Cost., per come novellato dalla L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2, impongono che «tutto il materiale utilizzabile in giudizio debba essere vagliato preventivamente dalle parti in una situazione di perfetta parità». Quest’ultimo autore richiamava a sostegno di questa tesi anche l’art. 183, co.3, c.p.c., nella versione riformata dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, a norma del quale si affermava che «il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione». Tuttavia, questo richiamo non appare più attuale per effetto del D.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, inserito nel quadro della cd. “Riforma Cartabia”, che, nel ridisegnare la norma, ha eliminato la previsione.

([37]) Non risulta possibile in questa sede trattare con dovizia di particolari il tema dei limiti temporali all’introduzione del fatto notorio in giudizio, intimamente connesso al sistema di preclusioni che connota il nostro processo civile a partire dalla novella del 1990. Per riassumere i tratti essenziali della questione, secondo l’orientamento maggioritario, i fatti notori costitutivi del diritto dedotto in giudizio ed ai fatti notori, estintivi, impeditivi o modificativi, posti a fondamento di una eccezione in senso stretto devono essere introdotti in giudizio nei termini indicati ex artt. 163, co. 2, n. 4), art. 167 e art. 171-ter c.p.c. Invece, l’introduzione dei fatti notori, estintivi, impeditivi o modificativi, che fondano un’eccezione in senso lato non può avvenire oltre la prima memoria ex art. 171-ter c.p.c., con l’evidente scopo di permettere l’instaurazione di un contraddittorio con la controparte, che, con la memoria successiva, potrà replicare con argomenti contrari. Per ogni altro riferimento, v. V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 341 ss.

([38]) Secondo la definizione di L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 103 ss., l’allegazione costituisce «l’atto con cui si introducono nel processo determinati fatti, ponendo la loro sussistenza o la loro insussistenza, nonché conseguentemente le loro prove documentali a fondamento delle domande delle eccezioni proposte, nell’ambito della esposizione della presa di posizione, che caratterizzano il contenuto degli atti introduttivi». Sul tema, v. anche L.P. Comoglio, voce “Allegazione”, in Dig. disc. priv., Torino, 1995; D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., p. 11 ss.; A. Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it., 2003, p. 604; A. Chizzini, La tutela giurisdizionale dei diritti, Milano, 2018, p. 379 ss., il quale indica l’allegazione come «un profilo determinante con riguardo al problema dell’identificazione della domanda giudiziale e al ruolo che assume la deduzione dei fatti costitutivi in giudizio» e ne rinviene la ragione giustificativa sul piano della necessaria imparzialità del giudice. Peraltro, secondo la dottrina dominante, sebbene non sia rintracciabile nell’ordinamento una norma che disponga a chiare lettere, si può ben affermare che l’espletamento dell’allegazione integra un onere incidente sulle parti e, dunque, costituisce un presupposto logico giuridico dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. In tal senso, v. M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 27, il quale asserisce che «allegando un fatto, invero, la parte compie un’operazione che ha una triplice valenza: 1) formula un enunciato prospettandolo – in via ipotetica – come vero, e quindi asserisce che il fatto descritto si è verificato; 2) assume su di sé l’onere di dimostrare, per mezzo di prove, che quel fatto si è davvero verificato, e che quindi il relativo enunciato dovrà essere considerato come vero in sede di decisione finale; 3) stabilisce qual è l’ambito dei fatti su cui si fonda la controversia e che formerà oggetto di tale decisione». La dicotomia onere di allegazione/onere della prova è stata recentemente rimarcata da S.U. Cass., 13 giugno 2019, n. 15895, la quale ha chiarito che il primo attiene alla delimitazione del thema decidendum mentre il secondo attiene alla verifica della fondatezza della domanda o dell’eccezione e costituisce per il giudice regola di definizione del processo. Questa pronuncia ha sollevato nuove questioni in tema di allegazione del fatto, per le quali si rinvia alla nota di commento di D. Buoncristiani, Quaestio facti e quaestio iuris: il profilo statico e il profilo dinamico dell’allegazione dei fatti, in Riv. dir. proc., 2020, p. 820 ss.

([39]) Va sottolineato che tale questione non è certamente secondaria, dal momento che, ove si ritenesse prospettabile una simile dispensa, si ammetterebbe che il giudice possa tener conto anche di fatti notori non allegati dalle parti e, nel rinvenire una soluzione, le posizioni della dottrina sono state diverse e contrastanti. Per una riassuntiva disamina delle posizioni, v. B. Zuffi, op. cit., p. 1371 ss.; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 486; D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., p. 127 ss.

([40]) Questa osservazione prende le mosse dalla riflessione di P. Calamandrei, op. cit., p. 302 ss., secondo cui il divieto di impiego della scienza privata del giudice deriva dall’incompatibilità psicologica tra l’ufficio del giudice e quello di testimone, ma «il riferire in giudizio sui fatti notori è ufficio di perito e non di testimone». In altre parole, appare pienamente correlabile alla teoria che intende il notorio come settore della scienza ufficiale del giudice, il quale, come sostenuto da D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., p. 127, «utilizzando sua sponte un fatto notorio non confonde nella propria persona la figura del testimone e quella del giudice». Ulteriori sviluppi si devono a L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 226 ss.; Id, Le prove disponibili d’ufficio e l’imparzialità del giudice civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, p. 198, nota 22, il quale offre argomenti sul piano della dimensione extraprocessuale del fatto notorio. Infatti, la circostanza che un fatto risulti notorio permette di evitare quei pericoli di parzialità e di scarso senso critico, che si prospettano laddove il giudice intenda acquisire autonomamente fatti privi della qualifica di notorio. Peraltro, l’illustre autore ritiene che la propria tesi non sia criticabile invocando la lettera dell’art. 115, co. 2, c.p.c., dal momento che, secondo un’interpretazione più estensiva della previsione di esonero riportata da questa norma, il termine «prove» dovrebbe leggersi «allegazioni processuali». In senso conforme, G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 61 ss.; Id, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1009 ss.; M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 52 ss.; Id, Art. 115, cit., p. 499, il quale specifica ulteriormente che «l’allegazione ha la funzione di determinare quali fatti sono da provare, altra cosa essendo l’indicazione dei fatti che è richiesta al fine di individuare l’oggetto della domanda che viene proposta», pertanto «poiché il notorio non ha bisogno di essere provato, non occorre che la parte lo alleghi perché il giudice possa tenerne conto».

([41]) Tale ricostruzione non ha ottenuto grande successo in dottrina, ma, comunque, vanta tra i suoi sostenitori, ex pluribus, V. Denti, Ancora sulla nozione di fatto notorio, in Giur. cass., III, 1947, p. 265 ss.; G. Guarnieri, op e loc. ult. cit.; C. Leone, op. cit., p. 25 ss.; G. Guarnieri, op e loc. ult. cit.; S. Menchini, Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo civile, in AA.VV., Scritti in onore di Fazzalari, Milano, 1993, p. 27 ss.

([42]) Sono fatti principali o facta probanda – secondo la definizione di L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, cit., p. 1172 – «quelli direttamente richiamati dalla fattispecie normativa astratta della quale si chiede l’attuazione, in grado di produrre gli effetti costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi». Esempio di fatti notori principali sono tassi di interesse bancario correnti in un determinato periodo nell’ambito di un giudizio per l’accertamento dei proventi mediamente conseguibili con il deposito in denaro presso istituti bancari. In tal senso, v. Cass., 2 agosto 2005, n. 16132.

([43]) Sono fatti secondari o facta probantia – secondo la nozione offerta da M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 10 – quelli che «entrano nel processo non in base alla loro idoneità a produrre direttamente effetti giuridici, ma in funzione della loro capacità di fungere da premessa per inferenze logiche, che il giudice può formulare per trarne conclusioni circa la verità o la falsità di enunciati relativi a fatti principali». Esempio di fatti notori secondari sono le crisi edilizie in relazione alle conseguenze prodotte sul valore di determinati beni immobili, come suggerisce Cass., 18 aprile 2007, n. 9244.

([44]) A sostegno, ex multis, E. Allorio, op. cit., p. 375 ss.; E. Grasso, op. cit., p. 1311; G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 61 ss.; Id, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1009 ss.; B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, cit., p. 136 ss.; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit.; V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 336 ss.; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 36 ss. In senso conforme, anche Cass., 26 marzo 1999, n. 2878. Contra, v. le critiche di C. Leone, op. cit., p. 25 ss.

([45]) Il riferimento è a D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., p. 128, il quale chiarisce che «la signoria delle parti sull’allegazione dei fatti principali non è un dato da ritenere acquisito». In tema, v. anche A. Chizzini, op. cit., p. 382 ss.

([46]) Si tratta di quei diritti che possono costituirsi più volte fra i medesimi soggetti, sia pur con lo stesso contenuto, in funzione della varietà e della specificità dei possibili fatti genetici. In questo novero, rientrano i diritti di credito ad una prestazione generica e i diritti reali di garanzia. Un esempio è il diritto al risarcimento del danno per diffamazione a mezzo stampa attuata per mezzo di molteplici articoli, scritti in momenti diversi. Ai fini della determinazione della domanda, per i diritti eterodeterminati si ricorre alla teoria della sostanziazione, in quanto si dovrà sostanziare anche la causa petendi. Per altri dettagli, v. C. Mandrioli, A. Carratta, Corso di diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2023, p. 91 ss.

([47]) Così, M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 26 ss. In questi termini, anche E. Allorio, op. cit., p. 375 ss.; D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., p. 128; V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 337, la quale – ad ogni buon conto – sottolinea anche l’improbabilità di una simile evenienza.

([48]) Si tratta di quei diritti che possono configurarsi, costituirsi ed esistere per una sola volta, con il medesimo contenuto, fra i medesimi soggetti, a prescindere dalla variabilità dei possibili fatti genetici e che si identificano in base all’indicazione del loro contenuto. Tra questi si inquadrano i diritti assoluti, specialmente i diritti reali (esclusi quelli di garanzia), gli status e i diritti di credito ad una prestazione specifica. Un classico esempio di diritto autodeterminato è il diritto di proprietà: Tizio non può affermare di essere proprietario di un bene sia perché lo ha acquistato sia perché lo ha usucapito, in quanto egli è una sola volta proprietario, a prescindere delle eventuali molteplici cause di acquisto della proprietà. Ai fini della determinazione della domanda, per i diritti autodeterminati occorre far riferimento alla teoria dell’individuazione, giacché è sufficiente identificare il contenuto del rapporto. Per approfondimenti, v. C. Mandrioli, A. Carratta, Corso di diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, cit., p. 91 ss.

([49]) Il dibattito viene ricostruito in A. Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in E. Allorio (diretto da), Commentario del Codice di procedura civile, Torino, 1980, p. 177 ss.

([50]) Diversamente, infatti, si incorrerebbe in una violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c. per extrapetizione, dal momento che «il giudice pronuncerebbe su fatti giuridici rimasti estranei al contraddittorio delle parti, indipendentemente dal rilievo che possano assumere ai fini dell’identificazione della res in iudicium deducta». Sul punto, v. M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 28 ss.; C. Leone, op. cit., p. 47; A. Carratta, Art. 112, in A. Carratta, M. Taruffo, Dei poteri del giudice. Art. 112-120, cit., p. 37 ss.; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2019, p. 97; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2023, p. 303 ss. Connessa alla necessità di rimanere entro i limiti dell’art. 112 c.p.c., è l’osservazione di G. Pavanini, Massime di esperienza e fatti notori in Corte di cassazione, in Riv. dir. proc., 1937, p. 263, il quale ritiene che il giudice non potrebbe far uso del concetto di notorietà in relazione a fatti pacifici tra le parti, poiché, in caso contrario, il giudice si pronuncerebbe ultra petita. Contra, v. S. Patti, Le prove, cit., p. 27, il quale condividendo la critica mossa da G.A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1966, p. 119, sottolinea che «il giudice non può conoscere un fatto che risulta impossibile in base ad una regola di esperienza o ad una nozione diffusa in un dato ambiente sociale», in quanto «si attribuirebbe alle parti il potere di far accertare dal giudice fatti non veri quando contrastano con i dati della comune esperienza». In senso contrario, v. anche V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 338, la quale propugna la possibilità di rilievo officioso di «un fatto notorio costitutivo non identificativo del diritto oggetto del giudizio, ovvero impeditivo, estintivo o modificativo posto a base di un’eccezione in senso lato anche che non risulti già acquisito agli atti».

([51]) M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 30 ss.; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 106 ss., il quale sostiene che «in virtù del principio di acquisizione, i fatti secondari (ovvero i cd. facta probantia) la cui influenza o incidenza sull’esito del giudizio è puramente strumentale, potrebbero invece (o, almeno, dovrebbero poter) essere rilevati, sottoposti a prova ed utilizzati dal giudice ex officio, sebbene non vengano esplicitamente allegati dalla parte interessata, ma lo siano quantomeno per implicito, ovvero lo siano per iniziativa della controparte non onerata, purché emergano comunque (per iniziativa di chi, a questo punto, non importa) dalle risultanze del contraddittorio».

([52]) V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 340 ss. In senso adesivo, v. anche C. Leone, op. cit., p. 49, che ritiene che, in tal caso, il fatto notorio sia dato di controllo di un fatto allegato o provato.

([53]) G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 64; B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, cit., p. 136 ss.; M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 52, il quale ravvisa «l’opportunità pratica della loro allegazione se la parte non vuol correre il rischio che il giudice non ne tenga conto»; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 37. Di opposto avviso, oltre a V. Denti, Ancora sulla nozione di fatto notorio, cit., p. 227, sono C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., p. 303 ss.; G. Balena, op e loc. ult. cit.

([54]) Così, D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., p. 129; L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, cit., p. 1172.

([55]) Il riferimento è ai principi di diritto enunciati nelle cd. “sentenze gemelle del febbraio 2022” in tema di poteri del consulente tecnico d’ufficio, vale a dire S.U. Cass., 1° febbraio 2022, n. 3086 e S.U. Cass., 28 febbraio 2022, n. 6500, nelle quali si rinviene l’enunciazione dei seguenti cinque principi di diritto: 1) «in materia di consulenza tecnica d’ufficio, il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite il cui accertamento si rende necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti fatti principali rilevabili d’ufficio»; 2) «in materia di consulenza tecnica d’ufficio il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio»; 3) «in materia di esame contabile ai sensi dell’art. 198 c.p.c., il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni»; 4) «in materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, o l’acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso»; 5) «in materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, che il consulente nominato dal giudice accerti nel rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice viola il principio della domanda ed il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o, in difetto, di motivo i impugnazione da farsi a valere ai sensi dell’art. 161 c.p.c.». Tali pronunce sono state oggetto di profondo interesse da parte della dottrina e, a tal proposito, non si possono non segnalare le seguenti note di commento: P. Farina, Le Sezioni unite e i vizi della consulenza tecnica d’ufficio, in Giur. it., 2023, p. 2835 ss.; F. Auletta, L’istruzione probatoria mediante consulente tecnico: la Corte profert de thesauro suo nova et vetera, in Giur. it., 2022, p. 2138 ss.; T. Berardi, I limiti della c.t.u. dopo la sentenza n. 3086/2022 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, in salvisjuribus.it, 2023; D. Cavallari, La CTU e il potere dispositivo delle parti: Cass., SU, n. 3086 del 1° febbraio 2022, in dirittogiustiziaecostituzione.it, 2022; E. Italia, Riflessioni a margine della più recente giurisprudenza di legittimità sulla consulenza tecnica di ufficio, in Judicium.it, 2022.

([56]) Queste sentenze hanno segnato il definitivo abbandono del precedente orientamento, inaugurato da Cass., 6 dicembre 2019, n. 31886, la quale aveva enunciato i seguenti principi di diritto: a) il c.t.u. non può indagare d’ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle parti; b) il c.t.u. non può acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione, né acquisire dalle parti o da terzi documenti che forniscano quella prova; a tale principio può derogarsi soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione non possa oggettivamente essere fornita coi mezzi di prova tradizionali; c) il c.t.u. può acquisire dai terzi soltanto la prova di fatti tecnici accessori e secondari, oppure elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti; d) i principi che precedono non sono derogabili per ordine del giudice, né per acquiescenza delle parti». Di tale pronuncia si segnalano le note di commento di F. De Santis, Note in tema di consulenza tecnica d’ufficio, in Riv. dir. proc., 2021, p. 435 ss.; F. Auletta, V. Capasso, Lo statuto dei poteri del consulente tecnico d’ufficio: ansia da nomofilachia… con colpo di scena finale, in Corr. giur., 2020, p. 1531 ss.; A. Alfieri, Sui poteri istruttori del consulente tecnico d’ufficio, in Foro it., 2020, p. 2109 ss. Questa pronuncia aveva a sua volta superato la tesi maggioritaria, enunciata anche in Cass., 15 giugno 2018, n. 15747, secondo cui «la nullità della consulenza tecnica d’ufficio – ivi compresa quella dovuta all’eventuale ampliamento dell’ indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente – è soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., avendo carattere di nullità relativa, e deve, pertanto, essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata».

([57]) Non potendosi in questo spazio svolgere puntuali considerazioni sui regimi di nullità appena richiamati, si rinvia per ogni considerazione allo studio monografico di R. Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, 138 ss.

([58]) La Suprema Corte afferma che «il ricorso al fatto notorio ai sensi dell’art. 115, co.2, c.p.c., attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito; pertanto, l’esercizio sia positivo, sia negativo, del potere di fare ricorso al notorio non è sindacabile in sede di legittimità, ed egli non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, essendo, invece, censurabile solamente la positiva assunzione, a base della decisione, di un’inesatta nozione del notorio, che va inteso quale fatto generalmente conosciuto, almeno in una determinata zona (cd. notorietà locale) o in un particolare settore di attività o di affari da una collettività di persone di media cultura». Quest’orientamento emerge da Cass., 27 maggio 2011, n. 15715. In senso conforme, ex pluribus, v. Cass., 20 marzo 2019, n. 7726; Cass., 3 marzo 2017, n. 5438; Cass., 22 febbraio 2016, n. 5089; Cass., 10 settembre 2015, n. 17906; Cass., 20 maggio 2009, n. 11729; Cass., 12 marzo 2009, n. 6023; Cass., 18 maggio 2007, 11643; Cass., 29 aprile 2005, n. 9001; Cass., 20 dicembre 1996, n. 11400.

([59]) L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 227, il quale afferma che «il preciso tenore letterale del secondo comma dell’art. 115 c.p.c., che esordisce con un “può”, dovrebbe già di per sé essere sufficiente per concludere nel senso della facoltà e non dell’obbligo». A ciò si aggiunga la non casuale e decisiva contrapposizione tra il primo ed il secondo comma: il giudice “deve” porre le prove a fondamento della sua decisione, ma “può”, eccezionalmente, farne a meno in presenza di fatti notori». In senso conforme, v. G.A. Micheli, Sulla nozione di fatto notorio, cit., p. 286; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 303; G. Guarnieri, op. cit., p. 431; F. Lazzaro, op. cit., p. 2.  

([60]) Ritengono la sussistenza di tale dovere, ex multis, E. Allorio, op. cit., p. 369 ss.; G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, p. 1011; V. Andrioli, voce “Prova”, cit., p. 280; E. Grasso, op. cit., p. 1313, il quale ritiene che una discrezionalità non sia minimamente giustificabile in riferimento alla lettera della norma, dal momento che la formula «il giudice può» è usata nel senso di introdurre una disposizione che sia attributiva di funzioni; M. Taruffo, Fatti e prove, cit., p. 51; S. Patti, Le prove, cit., p. 27; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 37 ss.; G. Travaglino, Nessi di causa e prova presuntiva, in S. Patti, R. Poli (a cura di), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, Torino, 2022, p. 279. Anche parte della giurisprudenza si schiera in favore di questa posizione e, a tal proposito, si veda Cass., 10 aprile 2012, n. 5644.

([61]) E. Allorio, op. e loc. ult. cit., il quale giustifica come di seguito il dovere del giudice di tener conto del notorio: «chi ravvisa, nella notorietà, solamente la sospensione del divieto, fatto al giudice, d’applicare, nel decidere le controversie, il suo sapere privato, si spiegherà – poiché la sospensione d’un divieto logicamente ingenera una facoltà, la facoltà di far la cosa già proibita, mai un obbligo – come al giudice competa la facoltà di tener conto dei notori senza bisogno di prova: ma non riuscirà a spiegarsi, e negherà, che, anche, gl’incomba un dovere in tal senso. Orbene: noi crediamo che codesta conseguenza stia ad attestare la manchevolezza della premessa, da cui discende: perché ci pare fuori di dubbio che il giudice ha, per l’appunto, non la sola facoltà, ma il dovere di rilevare i fatti notori senza bisogno di prova. Quello che diciamo discende da un principio generale, che si potrebbe enunciare nei seguenti termini: in tutti i casi, in cui un dato comportamento è consentito al giudice, dalle norme processuali, quel comportamento, quando non sia altrimenti disposto in modo espresso, è anche il solo consentito, ossia, è doveroso».

([62]) V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 349, la quale specifica che può essere oggetto di sindacato tanto il fatto notorio principale quanto il fatto notorio secondario «in virtù della sua idoneità a ripercuotersi sulla convinzione del giudice circa l’esistenza di un fatto principale». Sul tema della censurabilità si tornerà nel successivo §6.

([63]) V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 349, che rileva, in questi termini, anche un punto di distacco tra il fatto notorio e il fatto non contestato, ritenendo che «è noto come il giudice possa giungere a ritenere il fatto non contestato inesistente, ove ciò risulti dalle altre risultanze processuali acquisite, proprio perché la non contestazione non costituisce in alcun modo garanzia di veridicità del fatto allegato; mentre, all’opposto, il fatto che risulti notorio sarà anche indubitabilmente vero, con la conseguenza per cui il giudice dovrà senz’altro considerarlo esistente, e non potrà esimersi dal porlo a base della propria decisione».

([64]) P. Licci, op. cit., p. 904.

([65]) L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 37; V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 350, la quale, ancor più chiaramente, afferma che «se un significato dell’espressione “può” utilizzata dalla norma dev’essere ricercato, questo sembra piuttosto doversi rinvenire su un piano differente: non, cioè, nell’esistenza di una facoltà discrezionale di scelta, in capo al giudice, se avvalersi o meno, nella propria decisione, di un fatto notorio; bensì piuttosto nella facoltà che il giudice ha di rilevare la non notorietà del fatto, con la conseguente eventuale necessità di applicare la regola di giudizio racchiusa nell’art. 2697 c.c.». S. Patti, Le prove, cit., p. 27.

([66]) C. Leone, op. cit., p. 61; F. Rota., Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 486.

([67]) Per quanto risulti condivisa dalla dottrina maggioritaria (ex pluribus, v. G.A. Micheli, Sulla nozione di fatto notorio, cit., p. 286 ss.; C. Leone, op. cit., p. 52; E. Grasso, op. cit., p. 1308; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 301 ss.; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 486; B. Zuffi, op. cit., p. 1374; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 32 ss.), non mancano voci – anche di autorevoli commentatori – che dissentono rispetto ad una siffatta impostazione. Tra questi ultimi, v. V. Denti, Ancora sulla nozione di fatto notorio, cit., p. 265, il quale sostiene che, nell’art. 115, co. 2, c.p.c., troverebbero un riferimento normativo unicamente le massime d’esperienza e non già i fatti notori; L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 226., il quale, in disputa con Vittorio Denti, afferma che la norma in esame disciplina i fatti notori e che, al contrario, per le massime d’esperienza, una base positiva si rinviene ai sensi dell’art. 116 c.p.c., in quanto «l’applicazione delle massime d’esperienza si presenta nel processo quale normale svolgimento della valutazione dei fatti di causa»; U. Rocco, Corso di teoria e pratica del processo civile, II, Napoli, 1953, p. 225 ss.; S. Satta, Art. 115, cit., p. 462; M.T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, Milano, 1964, p. 362; G. Balena, op. e loc. ult. cit. Sembra così orientata anche Cass., 24 giugno 1983, n. 4326, ove si legge che «con il fatto notorio, che, ai sensi del co. 2 dell’art. 115 c.p.c., si riferisce alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, non va confusa una massima o regola di esperienza, che costituisce semplice criterio di valutazione del fatto accertato e non già mezzo di accertamento del fatto stesso», escludendo, di fatto, le massime d’esperienza dal campo di applicazione dell’art. 115, co. 2, c.p.c.

([68]) L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 156 ss., avverte di «alcune incertezze giurisprudenziali che, nell’ambito delle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza, alimentano una confusione concettuale (alquanto rischiosa) tra il fatto notorio e le massime di esperienza». Solo per un cenno a vicende più risalenti, F. Carnelutti, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. dir. proc., 1959, p. 639, nel commentare Cass., 1° aprile 1958, ritiene che la Suprema corte abbia senza motivo indugiato nel valutare se il fatto che un veicolo freni in un certo spazio sia notorio, quando, in realtà, quest’ultima circostanza andrebbe ricondotta nelle massime d’esperienza; S. Satta, Art. 115, cit., p. 462 ss., nel distinguere tra fatti notori e massime d’esperienza, critica una pronuncia della Suprema Corte datata 7 luglio 1947, nella quale si affermava la notorietà del fatto che «le prestazioni del medico di uno stabilimento termale non si esauriscono nella cura stagionale dei malati», osservando che quest’ultima, invero, costituisce una regola di esperienza, fondata sull’id quod plerumque accidit». In tempi più recenti, la giurisprudenza di legittimità si spesso è curata di interrogarsi se delle circostanze potessero ricomprendersi nella categoria del notorio, senza, però, interessarsi minimamente rispetto alla possibilità che si trattasse di massime d’esperienza, qualifica che la dottrina, di fronte alla noncuranza giurisprudenziale, ha attribuito, ad esempio, ad alcune nozioni tecnico-specialistiche. In tal senso, S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, p. 186, i quali avvertono di come Cass., 26 agosto 1998, n. 8469, che aveva escluso dal novero dei notori la circostanza per cui un fattore perturbante potesse disturbare la rilevazione della velocità compiuta da un autovelox, «fa mostra di confondere tra fatto notorio e massime di esperienze, perché riconduce al primo “le nozioni tecniche”, per quanto certe, incontestabili ed acquisite al patrimonio di uomo di media cultura». Pertanto, seguendo quest’indirizzo, la circostanza sopra indicata costituirebbe una massima d’esperienza. Inoltre, è stato emblematico il caso in cui la Cassazione, con sent. 13 marzo 2014, n. 5883, nel pronunciarsi circa la legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore, che, durante un periodo di congedo per patologia depressiva, aveva prestato servizio come “buttafuori” presso una discoteca, ha correttamente ritenuto di non poter qualificare come notorio il fatto che il servizio di vigilanza notturna nei locali, comportando contatti con le persone, giovi alla depressione, ma, al contempo, esclude di poter svolgere, al fine di accertare il fatto ignoto, consistente nella compatibilità dell’attività di buttafuori con la malattia depressiva, un ragionamento presuntivo, impiegando, in quest’ambito, la circostanza poc’anzi richiamata come massima d’esperienza. Questa giurisprudenza è stata oggetto di ampio interesse da parte della dottrina e, tra i commenti più puntuali, si colloca quello di T.M. Pezzani, Il “buttafuori depresso”. Considerazioni sulla censurabilità in cassazione dell’utilizzo distorto di “massime di esperienza”, in Riv. dir. proc., 2015, p. 1114 ss.

([69]) R. Palavera, Scienza e senso comune nel diritto penale. Il ricorso problematico a massime di esperienza circa la ricostruzione della fattispecie tipica, Pisa, 2017, p. 21 ss., sottolinea che la differenza tra fatti notori e massime d’esperienza venne individuata dalla dottrina tedesca, segnatamente da Friederich Stein e il primo ad importarla in Italia fu Francesco Carnelutti nella prima edizione de “La prova civile” risalente al 1915. Tra l’altro, a Stein viene tributato anche il merito di essere stato il primo ad interessarsi dell’impiego processuale delle massime d’esperienza. Sul punto, v. M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, p. 682 ss., il quale precisa che il concetto di massime d’esperienza, pur avendo scavalcato i confini della dottrina tedesca ed essendosi diffuso in Italia, non ha trovato riscontro in altri ordinamenti sia di civil law, come quello francese, sia, soprattutto, di common law, come quello inglese. Quest’ultimo richiamo consente di rammentare quanto sia risultato decisivo nell’individuazione dei caratteri sostanziali e processuali delle massime d’esperienza il contributo di Michele Taruffo, il cui interesse per tale tematica emerge sin dall’elaborazione della tesi di laurea (v., M. Taruffo, Contributo allo studio delle massime d’esperienza, 1965, p. 4 ss.). Nell’ampia produzione scientifica dell’illustre e compianto studioso dedicata al tema delle massime d’esperienza, v. – oltre al saggio poc’anzi richiamato – M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970, p. 197 ss.; M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 552 ss.

([70]) S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, cit., p. 185 ss. Degni di credito sono anche i contributi di S. Pugliatti, op. cit., p. 99, che, circa l’origine delle massime d’esperienza, fa riferimento ad un processo di «astrazione e generalizzazione»; P. Calamandrei, op. cit., p. 291, il quale riconosce che tale distinzione ha introdotto una «grande chiarezza di idee sul tema; E. Allorio, op. cit., p. 373 ss., cui si deve l’ammissione dell’indiscutibile fondamento di verità della dicotomia in esame. Tuttavia, ibidem, afferma che si tratta di una «distinzione assolutamente sterile e accademica», introducendo una posizione condivisa, poi, anche da L. Ferrara, op. cit., 972. L’intento che si ravvisa con questa presa di posizione è, in verità, quello di metterne in luce una presunta assenza di riscontro sul piano degli effetti giuridici. Infatti, nel criticare Emilio Betti, il quale ritiene che la conoscenza delle massime d’esperienza, al contrario di quella dei fatti notori, sia indispensabile ai fini della corretta applicazione delle norme giuridiche alle fattispecie, Allorio afferma che il giudice procede alla ricostruzione delle fattispecie per mezzo della sua cultura, non solo delle regole e dei principi logici, della conoscenza della natura e delle sue uniformità. Pertanto, i fatti notori, intesi quali eventi singoli di significato generale, costituiscono lo sfondo di una quantità di episodi di importanza più ristretta e, ai fini della loro esatta conoscenza, occorre che siano correttamente inquadrati in quella cornice. Ad esempio, il combattimento della Prima guerra mondiale costituisce fatto notorio ed è la cornice entro cui si è creata una fitta rete di singoli fatti, che in essa vanno contestualizzati. Questa posizione è propugnata anche da F. Stein, op. e loc. ult. cit., il quale sottolinea – trovando adesione in L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 33 – anche che, ove si accettasse la teoria sillogistica del giudizio, le massime d’esperienza formerebbero premessa maggiore del sillogismo deduttivo, costituente la premessa minore dell’intero sillogismo giudiziale, mentre i fatti notori costituirebbero la premessa minore del medesimo sillogismo deduttivo.

([71]) C. Leone, op. cit., p. 6 ss., secondo cui le massime d’esperienza, proprio per il carattere di astrattezza e generalità, «sono avvicinabili alla norma giuridica, la quale, in quanto costituisce l’espressione di una determinata visione delle relazioni sociali in un dato momento, è suscettibile di mutamenti, talora di veri capovolgimenti», proprio come le massime d’esperienza, rispetto alla cui variabilità, da popolo a popolo o da epoca ad epoca, non sussistono dubbi (si pensi, ad esempio, all’accettazione della teoria copernicana). Chiaramente, questi caratteri sono totalmente estranei rispetto al notorio, dato che, trattandosi di un fatto singolo e concreto, è esente da perfezionamenti, annullamenti e modificazioni di ogni genere (un esempio può essere la verificazione di una calamità naturale). Peralto, l’autore nel medesimo scritto (p. 15 ss.), sembra tracciare una valida distinzione tra «principi generali» e «canoni logici» derivanti dal «buon senso insuscettibile di astrazioni». Ampiamente sul punto, v. R. Palavera, op. cit., p. 27 ss., la quale rileva che tale differenziazione sia stata colta appieno e ricollegata alle opportune conseguenze.

([72]) Una prima definizione di massima d’esperienza si deve a F. Stein, op. cit., p. 21 ss., per il quale esse sono «definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto da decidersi nel processo e dalle sue singole circostanze, conquistate con l’esperienza, ma autonomi nei confronti dei singoli casi, dalla cui osservazione sono dedotte ed oltre ai quali devono valere per nuovi casi». Conformemente, v. E. Betti, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, p. 317; C. Leone, op. cit., p. 5. Interessante è anche la definizione di G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile. Le azioni, il processo di cognizione., Napoli, 1923, p. 1027, il quale intende le massime d’esperienza come enunciazioni generali relative ad eventi passati che siano formulabili da «ogni persona sana di mente e di media cultura». Rispetto all’iter dottrinale che interessato la nozione di massima di esperienza, v. l’esaustiva ricostruzione di R. Palavera, op. e loc. ult. cit.

([73]) La ragion d’essere storica della traduzione dell’id quod plerumque accidit in regole applicabili in giudizio viene chiaramente illustrata da M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, cit., p. 197 ss., il quale risale «all’esigenza, avvertita da una parte della dottrina tedesca, di reagire alle tesi enunciate dalla c.d. scuola del diritto libero (…) da un lato, venne in rilievo la necessità di individuare il limite della utilizzazione, da parte del giudice, della propria scienza privata (…) dall’altro, si manifestò la necessità di consentire un controllo sul giudizio di fatto da parte dei giudici di legittimità, i quali, istituzionalmente, verificano la correttezza dell’applicazione di regole o norme da parte dei giudici di merito».

([74]) Così, L. Lombardo, Il metodo del “prudente apprezzamento” nella valutazione degli indizi, in S. Patti, R. Poli (a cura di), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, cit., p. 108. A completamento di questa definizione, v. G. Ubertis, Il ragionamento indiziario nel processo penale, ivi, p. 161, il quale osserva che «la generalizzazione effettuata con la massima d’esperienza viene ottenuta attraverso l’individuazione di caratteri comuni presupposti come presenti in eventi passati assunti come dati di partenza da chi la formula; l’assenza di un accordo sulla loro scelta non può evitare il rischio della confutazione con almeno un’altra massima esperienza (magari opposta)». R. Palavera, op. cit., p. 44, osserva acutamente che «si può cogliere una tendenza sempre più nitida a identificare le massime di esperienza con le generalizzazioni del senso comune». Sul punto, v. anche F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 311, il quale, nel riferirsi ai criteri di inferenza, afferma che in essi si ricomprende «qualsiasi uniformità osservabile nelle vicende e nei comportamenti umani».

([75]) Questa definizione è formulata da G. Canzio, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1196, e viene richiamata anche da R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1089, il quale pone l’accento anche sulla discrezionalità conferita al giudice nell’utilizzazione di tali massime, potendo scegliere: «a) quali elementi di prova porre come premessa minore; b) quale legge dell’esperienza applicare come premessa maggiore; c) quale forza d’associazione riconoscere alla legge d’esperienza applicata e, di conseguenza, d) il grado di convincimento circa la verità dell’enunciato». L’autore, ad ogni modo, avverte anche che l’ampiezza di tale discrezionalità sussiste solamente su un piano astratto, visto che, concretamente, essa dipende dall’ampiezza dell’obbligo motivazionale vertente sul giudizio di fatto e della censurabilità della motivazione esercitabile in sede d’impugnazione. In proposito, v. anche S. Morisco, L. Saponaro, Regole di giudizio e massime d’esperienza, in Dig. disc. pen., Torino, 2005, p. 14 ss.; F.R. Dinacci, Le regole generali delle prove, in AA.VV. (diretto da), Procedura penale. Teoria e pratica del processo, I, Torino, 2015; M. Nigro, Art. 192. Valutazione della prova, in A. Giarda, G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Vicenza, 2017, p. 1935 ss.; F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 310 ss. Tale definizione ricorre costantemente in giurisprudenza e ne è un recente esempio Cass. pen., 9 febbraio 2024, n. 5871, ove si legge che «una massima di esperienza è un giudizio ipotetico a contenuto generale, indipendente dal caso concreto, fondato su ripetute esperienze ma autonomo da esse, e valevole per nuovi casi».

([76]) In generale, sull’incidenza del senso comune nella formulazione delle regole di esperienza, v. le esaustive considerazioni di R. Palavera, op. cit., p. 41 ss. Il virgolettato è, invece, di M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 552, il quale, nel definire il senso comune richiama (nella nota 3) il concetto di «enciclopedia media», elaborato, nei medesimi termini, da U. Eco, Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Milano, 2007, p. 77 ss. Tuttavia, prima di approdare a questa convinzione, lo stesso M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, cit., p. 668 ss., aveva messo in risalto la difficoltà nel circoscrivere, dandone una connotazione che fosse sufficientemente precisa e determinata, il senso comune, il che costituiva un tema di rilievo, poiché «il senso comune è dappertutto nel ragionamento del giudice». Interessante, nel medesimo scritto, alle pp. 678 ss., è anche il riferimento al multiculturalismo, il cui sviluppo rischia di vanificare il rinvio al senso comune. Del tema si occupa anche R. Palavera, op. cit., p. 82 ss. Acute riflessioni di taglio pratico su quest’ultimo punto sono altresì offerte da F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 324 ss.

([77]) Tale classificazione si deve a R. Poli, Gli elementi strutturali del ragionamento presuntivo, cit., p. 37 ss. Sempre con riferimento agli intenti classificatori della dottrina in tema di regole da porre a fondamento di inferenze induttive, v. M. Taruffo, La prova del nesso causale, in Riv. Crit. dir. priv., 2006, p. 114 ss.; Id, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 554 ss. Un tentativo di classificazione è stato approntato anche da A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 419, il quale distingue tra: a) regole di sapere comune; b) regole di sapere medico; c) regole di sapere tecnico.

([78]) Così, M. Taruffo, voce “Libero convincimento del giudice”, in Enc. giur., Roma, 1990, p. 3. Più ampiamente, Id., Studi sulla rilevanza della prova, Padova, cit., p. 183 ss.; M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., p. 126, e 142 ss., il quale, richiamando Stein, sostiene che «accanto ai tradizionali elementi logici che servono al giudice per giungere alla sentenza – norme giuridiche e conoscenze di fatti storici specifici – occorre aggiungere le massime di esperienza». Per contro, si registra la posizione minoritaria (per quanto autorevole) di G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937, p. 105 ss., il quale, in un’ottica di valorizzazione del ruolo della magistratura, prospetta una dissoluzione del concetto stesso di massima d’esperienza e denuncia la possibile falsità di «quelle conoscenze generali ed astratte, che pretenderebbero di porsi quali premesse extra-normative del sillogismo in esame». Tale posizione verrà ricalcata anche da altri, come S. Pugliatti, op. cit., p. 131 ss.; M. Massa, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1964, p. 87 e 111.

([79]) Così, R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., pp. 1079-1080, il quale pone il giudizio di fatto in contrapposizione con il giudizio di diritto, che, differentemente dal primo, ha per oggetto «l’individuazione dei principi di diritto e delle norme giuridiche, processuali e sostanziali, da applicare alla fattispecie dedotta in giudizio».

([80]) F. Stein, op e loc. ult. cit., è tra i caldeggiatori della teoria secondo la quale l’attività giudiziale si può rappresentare con la forma del cd. sillogismo deduttivo, nel quale si rinvengono una premessa minore, costituita dal fatto accertato nel processo, e una premessa maggiore, data dalla norma giuridica applicabile a quel fatto, che, combinate, conducono ad una conclusione certa. Più specificamente, la premessa minore di detto sillogismo deriva, a sua volta, da un ulteriore sillogismo, nel quale le massime d’esperienza si inseriscono come premessa maggiore, e per mezzo della loro applicazione al risultato di una prova, posto come premessa minore, si giunge al giudizio sul fatto principale. In adesione a questa teoria, nella dottrina contemporanea, v. A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 417 ss. Come si vedrà nel prosieguo del seguente paragrafo, questa tesi è ormai recessiva.

([81]) In tal senso, v. per tutti G. Ubertis, Il ragionamento indiziario nel processo penale, cit., p. 162, il quale emblematicamente afferma che «negarne l’impiego implicherebbe rendere impossibile al giudice ogni riflessione e scelta, conducendolo all’emissione di una decisione razionalmente ingiustificabile ovvero solipsisticamente intuitiva, se non addirittura alla più completa afasia». Conformemente, F. Carnelutti, Massime di esperienza e fatti notori, in Riv. dir. proc., 1959, p. 639; M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., p. 142; E. Amodio, Motivazione: II) motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir., Milano, 1977, p. 208 ss.; N. Mannarino, Le massime d’esperienza nel giudizio penale e il loro controllo in Cassazione, Padova, 1993, p. 128 ss.

([82]) Interessante è la partizione operata da R. Blaiotta, G. Carlizzi, Libero convincimento, ragionevole dubbio e prova scientifica, in G. Canzio, L. Luparia (a cura di), Prova scientifica e processo penale, Padova, 2022, p. 407 ss., i quali distinguono tra leggi causali; leggi evolutive; leggi funzionali; definizioni specifiche; descrizioni specifiche; istruzioni paradigmatiche.

([83]) F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 312, al quale si deve l’ulteriore specificazione secondo cui il giudice altro non è che un «mero fruitore di tali leggi, nel senso che non partecipa alla loro scoperta».

([84]) G. Ubertis, La logica del giudizio, il ragionamento inferenziale, i fatti notori e la scienza privata, le massime d’esperienza, il sillogismo giudiziale, in Quaderni del CSM, 1997, p. 258 ss., il quale continua deducendo che «mentre le massime d’esperienza possono non soltanto essere utilizzate, ma, in maniera razionalmente giustificabile, anche costruite o reperite dall’organo giudicante richiamandosi al bagaglio delle proprie osservazioni (pure professionali), le leggi scientifiche sono indipendenti dal caso concreto oggetto dell’indagine, così che non è consentito al giudice riconoscerle come tali (e quindi applicarle) secondo la ritenuta opportunità di desumere un particolare risultato da una determinata circostanza».

([85]) Per M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 554, rientrano in questa categoria le asserzioni secondo cui “tutti gli uomini sono mortali” o “l’acqua bolle a 100° quando siamo al livello del mare”.

([86]) Secondo M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 556, si possono includere in questa categoria di regole quelle generalizzazioni per cui, ad esempio, è confermato empiricamente che un fatto si verifica in un certo modo nel 98% dei casi, tanto che queste possono essere «praticamente equiparate» ad una generalizzazione universale. Rispetto a tali leggi, l’autore reputa centrale il tema della tollerabilità del margine di errore e riscontra una complicazione nella misura in cui occorre determinare casisticamente quest’ultima, affermando che «si tratta di decidere di volta in volta qual è il margine di errore che si considera accettabile: può darsi che un margine d’errore del 2% sia accettabile, ma può darsi che non lo sia un margine d’errore del 20%. In ogni caso, ciò che occorre è la conoscenza del grado di approssimazione alla generalità della regola che si considera, poiché questo grado di approssimazione determina il margine di errore che si verifica nell’applicazione di quella regola ad un caso specifico. A seconda dei casi, può essere accettabile un’approssimazione del 98% o del 90%, ma non può esserlo un’approssimazione dell’80% o ancora inferiore». Sulle leggi statistiche, v. anche R. Palavera, op. cit., p. 144 ss.; R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1089.

([87]) Con questa formula, R. Palavera, op. cit., p. 42, si riferisce efficacemente ai canoni di distinzione individuati da F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1974, p. 152 ss.

([88]) F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 145 ss., il quale arriva a sostenere che le generalizzazioni di senso comune debbano essere impiegate dal giudice «solo nei limiti in cui esse risultino confermate dalla scienza, ossia da asserzioni che per principio soddisfino il requisito del controllo empirico», affermando altresì che «la conoscenza fornita dal senso comune concerne quelle situazioni in cui rimane praticamente immutato un certo numero di fattori; ma poiché normalmente non viene riconosciuto il ruolo svolto dalla costanza di quei fattori – anzi la esistenza dei fattori pertinenti può essere addirittura ignorata – la conoscenza offerta dal senso comune soffre di una vera e propria incompletezza». Come rileva anche R. Palavera, op. cit., p. 54 ss., tale impostazione risente dello standard di prova richiesto nel processo penale, vale a dire il cd. «al di là di ogni ragionevole dubbio».

([89]) Principale promotore di questo filone è certamente Michele Taruffo, anche se la necessità di un impiego razionale delle massime era stata avvertita anche da Nobili. Sul punto, molto diffusamente R. Palavera, op. cit., p. 36 ss. e, per la comparazione tra i due filoni, p. 45 ss.

([90]) Tali regole sono chiaramente enunciate in M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 566 ss. Per una disamina delle riflessioni di Taruffo sulla necessità di razionalità nell’impiego del senso comune e su come questi è giunto all’elaborazione finale delle regole d’uso, v. le efficaci considerazioni di R. Palavera, op. cit., p. 51 ss. In senso contrario rispetto a questi criteri, v. ancora una volta F. Stella, Il giudice corpuscolariano, Milano, 2005, p. 109 ss., ove si sostiene che l’unica condizione richiesta ai fini dell’applicazione delle massime d’esperienza sta nel fatto che «abbiano un fondamento scientifico, cioè costituiscano l’espressione abbreviata e familiare di una legge scientifica».

([91]) M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 566 ss., chiarisce che «se una generalizzazione non conduce ad una massima che abbia davvero valore generale, la massima non può essere trattata come se esprimesse una legge generale, in quanto «dire che “di solito” o “talvolta” accade X, non equivale a dire che “sempre” accade X».

([92]) M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 567, esemplifica, affermando che «l’esistenza di un solo cigno nero è sufficiente a falsificare l’affermazione generale per cui tutti i cigni sono bianchi» e, rapportando il discorso al caso specifico, aggiunge che il controesempio non deve essere manipolato al fine di farlo rientrare forzatamente nel campo d’applicazione della massima, per cui «se nel caso particolare si ha un cigno nero, non si può dipingerlo di bianco, o fingere che non esista, o che sia bianco, per salvare la validità della regola d’esperienza».

([93]) M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 568, rileva che «il campo di applicazione delle massime d’esperienza è destinato a ridursi progressivamente man mano che le scienze evolvono, ampliano le loro tecniche e i loro campi, e forniscono una quantità sempre crescente di conoscenze controllate utilizzabili in giudizio».

([94]) M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 568 ss., sostiene che «il senso comune e le massime d’esperienza non costituiscono contesti internamente coerenti» e, pertanto, in tali casi, bisogna «ricercare un’altra massima, che abbia un fondamento più solido e meno incerto, ed appaia più generalmente condivisa nell’ambito della cultura di riferimento», ma, nel caso non esista, occorrerà prendere atto che, in quel caso, l’esperienza non fornisce criteri di inferenza attendibili».

([95]) Quest’espressione si deve a R. Palavera, op. cit., p. 78 ss., alla quale si rinvia per ogni necessità di completezza sul punto.

([96]) Così ritiene R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1090, affermando che «le leggi scientifiche non sono altro che massime d’esperienza qualificate: I) dal tipo di sapere utilizzato (scientifico e non dell’uomo medio); II) da colui al quale (o da coloro ai quali) sono riconducibili (esperto più o meno autorevole della materia e non uomo medio o senso comune); III) dal tipo di procedimento o metodo utilizzato per l’acquisizione dei dati su cui le medesime leggi scientifiche si fondano; IV) dalla comunità scientifica (all’interno della quale tali leggi possono essere più o meno accreditate)». Per altri riferimenti sulla tendenza a ricomprendere generalizzazioni scientifiche e di senso comune nell’espressione massime d’esperienza, v. R. Palavera, op. cit., p. 21 ss.

([97]) Ciò viene segnalato dallo stesso M. Taruffo, La prova del nesso causale, cit., p. 94, come conseguenza dell’implementazione delle conoscenze scientifiche. In proposito, v. anche R. Palavera, op. cit., p. 55 ss.

([98]) R. Palavera, op. cit., p. 47 ss., che – nel riferirsi alle riflessioni di Michele Taruffo e Federico Stella – rileva che «i due Autori concordano sul fatto che la scienza debba fornire il suo utile apporto, entrando ritualmente nel processo e offrendo i risultati raggiunti al filtro del contraddittorio». Più ampiamente, v. M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 308 ss. Sulla prova scientifica «nell’ipotesi in cui le leggi di organizzazione e funzionamento del mondo che debbono essere applicate alle inferenze probatorie non sono attingibili dall’esperienza e dal senso comune, bensì dalle conoscenze scientifiche», v. R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1105 ss., che ne illustra le particolarità e individua taluni rimedi all’impossibilità di un sindacato giudiziale diretto nei casi in cui venga impiegata la conoscenza scientifica.

([99]) Il riferimento è alla disputa – riportata anche da R. Palavera, op. cit., p. 48 – tra Michele Taruffo e Federico Stella. In F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 144 ss., si legge che nei casi di possibile conflitto, le generalizzazioni di senso comune devono sempre cedere il passo alle leggi scientifiche e che esse possono essere impiegate «solo quando, dietro di esse, sia possibile scolpire una legge scientifica». Al contrario, in M. Taruffo, Funzione della prova: la funzione dimostrativa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, p. 561, si legge che il ricorso alla scienza deve avvenire solo «in mancanza di meglio». Ad ogni modo, questa posizione sembra in contrasto con quanto Taruffo aveva sostenuto anni prima: in M. Taruffo, Certezza e probabilità nelle presunzioni, in Foro it., 1974, c. 92 ss., si era affermato che «le conoscenze scientifiche rimangono un test disponibile per l’individuazione delle massime d’esperienza false, e, in genere, per il controllo e la rettifica dell’attendibilità e del campo di operatività delle nozioni di senso comune (…), ma se «il giudice disponga di una legge generale logicamente cogente ma tale da produrre conclusioni più generiche, e di una massima d’esperienza non necessaria ma dotata di contenuto più specifico, sembra indubbio che debba scegliere la seconda come criterio di giudizio, laddove il valore della necessità cede di fronte al valore della precisione e della maggiore utilità sul piano euristico». Interessati sono anche i criteri indicati da F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 328 ss. per la risoluzione di eventuali conflitti tra criteri inferenziali.

([100]) M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 557, il quale indica come esempi cardine di questa categoria di massime i casi in cui la ricerca epidemiologica produce risultati espressi in frequenze statistiche basse, come avviene nell’ambito delle conseguenze del fumo di sigaretta. Infatti, malgrado, la massima secondo cui il fumo di sigaretta causa il cancro ai polmoni venga comunemente pronunciata come una generalizzazione, essa, in verità, non trova alcuna conferma sul piano empirico, giacché i dati epidemiologici, in questo caso, non offrono una dimostrazione certa di questa connessione, ma enunciano solo una probabilità. In tal senso, v. anche Id., La prova dei fatti giuridici, cit., p. 245 ss.

([101]) Come afferma M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 558, le massime d’esperienza di senso comune sono diverse dalle «generalizzazioni radicalmente spurie», vale a dire quel «generico senso comune», che non riesce a tradursi in massima, poiché privo di una conferma empirico-scientifica e fondato solo su una «pretesa esperienza», fermo restando che a questa diversità ontologica non corrisponde una differenza di impiego processuale, visto che, come afferma R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1089, il giudice vi «attinge a piene mani per la valutazione delle prove». Una ulteriore differenziazione riguarda le massime d’esperienza di senso comune e i «pregiudizi sociali, di razza, di religione, di carattere politico», dal momento che questi ultimi non solo privi solo di una copertura empirico-scientifica, ma mancano di ogni razionalità, il che, prima facie, dovrebbe costituire la ragione della loro esclusione dal novero dei criteri giudiziali di valutazione della prova. Tuttavia, a ben vedere, in ogni contesto storico-sociale, è presente un complesso di stereotipi, che vengono formulati in termini generali e che, in peculiari contesti processuali, è possibile che vengano posti a fondamento di inferenze. In proposito, v. M. Taruffo, op. e loc. ult., cit., p. 558, ma anche R. Poli, op. cit., p. 1090, il quale afferma che «in una società multiculturale ciò che appare un pregiudizio per una determinata cultura può essere ritenuto seriamente credibile per un’altra».

([102]) v. supra, nota 80.

([103]) Come rileva F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 312 ss., a differenza delle leggi scientifiche o statistiche, «i criteri di senso comune ammettono numerose eccezioni». Significativo è anche l’esempio portato dall’autore, il quale rileva che è sottoponibile a «mille smentite» la circostanza per cui «un cane, che di notte sente avvicinarsi un estraneo, abbaia», in quanto «non sempre i cani abbaiano agli estranei, l’intruso può aver eluso con vari espedienti la vigilanza del cane e così via».

([104]) A chiare lettere, M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, cit., p. 208, il quale arriva a sostenere che «le massime d’esperienza enunciano una somma di dati concreti che possono rivelarsi utili per la conoscenza dei fatti che occorre accertare in giudizio; tali dati possono essere usati come premesse di un passaggio inferenziale di natura strettamente induttiva».

([105]) G. Ubertis, Il ragionamento indiziario nel processo penale, cit., p. 163, il quale afferma che «la massima d’esperienza può fungere solo da premessa maggiore di un procedimento gnoseologico di cui l’elemento sotto esame costituisce la premessa minore, ma la cui conclusione si caratterizza per la sua ipoteticità congetturale carente di univocità e sempre soggetta a falsificazione. Il ragionamento costruito con l’impiego delle massime d’esperienza avrebbe quindi una struttura argomentativa in forma di sillogismo, aristotelicamente definibile come dialettico o retorico, la cui conclusione, fondata su premesse probabili, sarebbe parimenti soltanto probabile». In tema, v. anche F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 311.

([106]) I più recenti sviluppi dottrinali hanno confermato che la conclusione cui il giudice approda all’esito del giudizio di fatto non può essere indiscutibilmente certa. Infatti, risulta inaccettabile la ricostruzione secondo cui alle inferenze compiute dal giudice nell’ambito del suo ragionamento si possa conferire natura deduttiva e certezza dimostrativa. Al contrario, poiché quella che informa il ragionamento del giudice nella ricostruzione dei fatti è una logica «empirica, induttiva, abduttiva, argomentativa, dialettico-retorica e opinativa», le conclusioni cui questi giunge risultano essere esclusivamente probabili e non certe. Tra i maggiori caldeggiatori di questa tesi, v. R. Poli, Prova e convincimento giudiziale del fatto, Torino, 2023, p. 4 ss.; Id., Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, in AA.VV., Lo statuto del giudice e l’accertamento dei fatti. Atti del XXXII Convegno nazionale (Messina, 27-28 settembre 2019), Bologna, 2020, p. 439 ss., al quale si rinvia per ogni approfondimento sull’argomento e per ogni altro aspetto afferente alla logica del giudice; Id., Il sillogismo giudiziale e la posizione della premessa di fatto, in C. Punzi, Giudizio di fatto e di diritto, Milano, 2022, p. 273 ss. In senso adesivo rispetto al carattere probabilistico ed alla natura induttiva del ragionamento giudiziale, v. anche F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit. p. 32 ss.; L. Lombardo, La prova giudiziale. Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo, cit., p. 50 ss. In giurisprudenza, tale indirizzo si è definitivamente consolidato con la celeberrima “sentenza Franzese” (S.U. Cass., 11 settembre 2002, n. 30328), i cui principi sono costantemente richiamati dalla Cassazione e tra le pronunce più recenti, v., ex pluribus, Cass. pen., 18 dicembre 2023, n. 50278; Cass. pen., 4 dicembre 2023, n. 48054.

([107]) Per completezza di discorso, M. Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., p. 557, ritiene che oltre alla citata funzione epistemica, le massime d’esperienza abbiano anche una «funzione euristica», nella misura in cui vengano impiegate al fine di formulare ipotesi intorno al fatto in causa, e una «funzione giustificativa», quando il giudice le impiega nella motivazione della sua pronuncia al fine di formulare inferenze che facciano apparire giustificato l’accertamento dei fatti.

([108]) Tale definizione è formulata da R. Poli, Gli elementi strutturali del ragionamento presuntivo, cit., p. 26 ss. Per ogni approfondimento in tema di ragionamento presuntivo, si rinvia a tutti i contributi del volume a cura di S. Patti, R. Poli, Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, cit., nel quale è contenuto il saggio citato nell’incipit della presente nota.

([109]) In proposito, v. anche M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, cit., p. 669 ss., più generalmente, richiama i tre principali ambiti nei quali l’esperienza entra nel ragionamento del giudice: a) interpretazione ed applicazione delle norme che costituiscono il fondamento giuridico della decisione (ad esempio, quando il giudice deve riempire o concretizzare  clausole generali, come la buona o la mala fede); b) accertamento dei fatti, il quale è oggetto di trattazione specifica; c) giustificazione della propria decisione, giacché la motivazione non è solo una sequenza di passaggi formali, ma consta anche di elementi metagiuridici. In giurisprudenza, nello stesso senso della pronuncia in commento, v. Cass., 8 ottobre 2012, n. 17086, ove si afferma che «le massime o nozioni di comune esperienza costituiscono regole di giudizio di carattere generale, derivanti dall’osservazione reiterata di fenomeni naturali e socioeconomici di cui il giudice è tenuto ad avvalersi, in base all’art. 115 cod. proc. civ., come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove che l’argomentazione di tipo presuntivo». Conformemente, v. Cass., 13 dicembre 2021, n. 39442; Cass., 31 agosto 2020, n. 18101; Cass., 4 ottobre 2011, n. 20313.

([110]) Sull’ineliminabile impiego delle massime d’esperienza nel giudizio di fatto, v. anche G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Torino, 2021, p. 84 ss.

([111]) Per ulteriori dettagli sulla differenza tra prove legali e prove liberamente valutabili, si segnalano, ex multis, L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 149 ss.; M. Taruffo, La prova nel processo civile, cit., p. 207 ss.; Id., Art. 116, in A. Carratta, M. Taruffo, Dei poteri del giudice. Art. 112-120, cit., p. 552 ss.; F. Rota, Art. 116, in F. Carpi, M. Taruffo (diretto da), Commentario breve al Codice di procedura civile, cit., p. 487 ss.; S. Patti, Le prove, cit., p. 299 ss.

([112]) Sul punto si esprime molto chiaramente M. Taruffo, voce “Libero convincimento del giudice”, cit., p. 2, affermando che «il Codice di procedura civile accoglie il principio del libero convincimento nel primo co. dell’art. 116». Altrettanto lapalissiana appare la giurisprudenza della Suprema Corte, che, in Cass., 10 novembre 2003, n. 16831 afferma che «l’articolo 116, co. 1, del c.p.c. consacra il principio generale del libero convincimento del giudice, per cui lo stesso deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento salvo che la legge disponga altrimenti. Tale disposizione sancisce la fine del sistema fondato sulla predeterminazione legale della efficacia della prova, conservando solo specifiche ipotesi di fattispecie di prova legale e la formula del prudente apprezzamento, allude alla ragionevole discrezionalità del giudice nella valutazione della prova, che va compiuta tramite l’impiego di massime di esperienze». Sul libero convincimento, inoltre, si segnalano anche le riflessioni di M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., p. 146 ss., il quale è stato tra i primi ad illuminare la connessione tra massime di esperienza e libero convincimento del giudice; Id., Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, p. 3 ss.; A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2003, p. 27 ss.; G. Della Monica, Il principio del libero convincimento, in AA.VV., Prova penale e metodo scientifico, 2009, p. 27 ss.; R. Blaiotta, G. Carlizzi, op. cit., p. 344 ss. L. Lombardo, Il metodo del “prudente apprezzamento” nella valutazione degli indizi, cit., p. 102 ss.

([113]) Sul punto, v. M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., p. 142 ss.; M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, cit., p. 672 ss.; A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, cit., p. 31 ss.; R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1082.

([114]) In tal senso, v., per tutti, R. Palavera, op. cit., p. 30 ss.

([115]) La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, pur non avendo conferito un apporto ermeneutico particolarmente significativo alle massime d’esperienza, ha impiegato diffusamente quest’ultime nell’ambito delle sue inferenze probatorie. A tal proposito, si può ricordare l’impiego della massima d’esperienza in relazione alla prova del danno non patrimoniale e, a questi fini, giova richiamare Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, che, rispetto al tema in esame, ha fatto scuola, affermando in via generale, ma a chiare lettere, che le massime d’esperienza sono impiegabili ai fini dell’accertamento del danno esistenziale. In senso conforme, anche Cass., 19 gennaio 2015, n. 777, che ha confermato l’orientamento della Corte di merito, nella misura in cui, a prescindere da allegazioni e prova a riguardo, si liquidava il danno esistenziale patito da un giovane a seguito di un infortunio sul lavoro desumendolo ex art. 115 c.p.c., «da massime di comune esperienza, considerata la giovane età dell’odierno controricorrente (che aveva appena 25 anni al momento dell’infortunio per cui è causa, che lo ha ridotto su una sedia a rotelle) e la gravità delle conseguenze del non poter più avere capacità di procreazione e di vita sessuale, di fare sport e/o altre analoghe attività e, in sintesi, di avere una normale vita di relazione così come gli altri suoi coetanei»; Cass., 28 luglio 2020, n. 16129, che, nell’ordinare il reintegro ai precedenti compiti di un lavoratore demansionato, affermava che «il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove».

([116]) Tale affermazione risale a F. Carnelutti, La prova civile, Roma, 1915, p. 123 ss.

([117]) Sul tema, v. anche L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 304; B. Zuffi, op. cit., p. 1375; C. Leone, op. cit., p. 50, il quale – richiamando la dottrina tedesca – condivide l’affermazione secondo cui «l’esistenza di una massima di esperienza è un fatto in senso logico, ma non nel senso del diritto probatorio». Contra, in senso molto netto e soprattutto con riferimento al processo penale, R. Palavera, op. cit., p. 214 ss.

([118]) In tal senso, v. M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., pp. 145-146, 190 ss.; N. Mannarino, La prova nel processo, Padova, 2007, p. 181. M. Taruffo, voce “Onere della prova” in Treccani.it, 2017, il quale ritiene che «affermare che (le massime di esperienza) possono essere impiegate dal giudice nel suo ragionamento intorno ai fatti della causa, senza che di esse si dia specifica dimostrazione probatoria (…) costituisce una «estrema e pericolosa semplificazione», in quanto «le massime d’esperienza hanno contenuti estremamente variabili nel tempo, nei luoghi e nelle culture (…) e insieme a generalizzazioni che hanno qualche valore conoscitivo e ne sono molte che sono spurieossia prive di qualunque significato e di qualsiasi attendibilità», concludendone che «nulla esclude, quindi, che di una massima – e soprattutto della sua efficacia conoscitiva – si debba dar prova in giudizio, soprattutto quando la sua qualità venga contestata». In tempi più risalenti, una posizione simile era stata assunta da E. Florian, Delle prove penali, Milano, 1961, p. 263.

([119]) P. Calamandrei, op. cit., p. 292 ss.

([120]) Conformemente, v. R. Poli, Gli elementi strutturali del ragionamento presuntivo, cit., p. 40, il quale discorre di «ineliminabilità del ricorso alle massime d’esperienza nella valutazione delle prove»; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 487; M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette «massime di esperienza», cit., p. 46 ss. In senso opposto, v. anche Cass., 1° aprile 1958, ove si afferma che il giudice, in punto di valutazione probatoria, si esimerebbe dall’obbligo di ragionare laddove per questi non si configuri un dovere di applicazione delle massime d’esperienza. Su questa pronuncia, v. il commento critico di F. Carnelutti, Massime d’esperienza e fatti notori, cit., p. 639.

([121]) L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori cit., p. 224 ss., il quale afferma che la specifica distinzione tra fatti notori e massime d’esperienza si può ricondurre a quella più generale tra «forme e mezzi di ragionamento da un lato e oggetti del ragionamento dall’altro». Così, anche M. Nobili, Nuove polemiche sulle cd. massime d’esperienza, cit., p. 142 ss.

([122]) Così, v., per tutti, R. Palavera, op. cit., p. 213; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 33; C. Leone, op. cit., p. 25 ss.

([123]) Ciò in quanto la Corte d’appello, allo stato, risulta ancora essere sia giudice del fatto che giudice del diritto, come ritiene R. Poli, ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1114 ss., il quale afferma che «nessuno dubita del potere del giudice di appello di sindacare pienamente e sotto ogni profilo il giudizio di fatto compiuto dal giudice di primo grado». Sulla censurabilità del fatto notorio nel giudizio d’appello non si è registrato e nemmeno si registra tuttora uno specifico interesse della dottrina. Le uniche riflessioni che sembra opportuno segnalare risultano essere quelle di G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 81 ss. e quelle di C. Leone, op. cit., p. 82 ss. Ad ogni modo, considerato l’attuale tenore dell’art. 342 c.p.c., oggetto di recenti modifiche avvenute per mezzo della cd. Riforma Cartabia, sembra ragionevole affermare che sulla parte che intende censurare in appello una pronuncia di prime cure dalla quale emerga un uso distorto della notorietà o della comune esperienza gravi l’onere di proporre uno specifico ed apposito motivo di impugnazione.

([124]) La Corte di cassazione, benché abbia anche una innegabile funzione di difesa dello ius litigatoris, svolge precipuamente un compito di tutela dello ius costitutionis, come indicato ex art. 65 ord. giud. In sostanza, alla Cassazione è demandata la «custodia della legge», che avviene per mezzo di un’attività di «controllo e d’indirizzo, considerati sotto il profilo dell’interesse generale, in ordine all’interpretazione ed all’applicazione delle leggi, al fine della loro tendenziale uniformità». Pertanto, secondo le ricostruzioni classiche, la Cassazione è giudice di legittimità e, pertanto, il giudizio che si svolge dinanzi ad essa è un giudizio di legalità, mediante il quale è possibile far valere unicamente gli errori di diritto emergenti dalla sentenza impugnata e non già gli errori commessi in ordine a fatti storici della lite. Tale orientamento emerge anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che «la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa». Si tratta di un orientamento granitico che, tra le più pronunce più recenti, è indicato da Cass., 31 maggio 2023, n. 15296; Cass., 13 marzo 2023, n. 7286 Cass., 7 febbraio 2023, n. 3648. Per ogni altro riferimento in tema di giudizio di legittimità, si rinvia agli ampi studi monografici condotti da G.F. Ricci, Il giudizio civile di Cassazione, Torino, 2019, p. 3 ss.; G. Amoroso, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 2019, p. 3 ss.; Id.,  La suprema Corte tra funzione nomofilattica e tutela dello ius litigatoris. Il problema alla luce del controllo della motivazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 571 ss.; E. Fazzalari, voce “Ricorso per cassazione nel diritto processuale civile”, in Dig. civ., Torino, 1998, p. 18 ss. Sulla funzione nomofilattica della Suprema corte, v. anche L. Rovelli, La nomofilachia è la funzione istituzionale della Cassazione, in Rassegna Forense, 2014, p. 659 ss.

([125]) Tale ipotesi ricorre pressoché in tutta la dottrina, sia più risalente che contemporanea. V., ex pluribus, E. Allorio, op. cit., p. 376 ss., che si riferisce alla sindacabilità del notorio in Cassazione con ricorso ex art. 517, n. 3) c.p.c. del 1865; G. Pavanini, op. cit., p. 263 ss.; L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 227; C. Leone, op. cit., p. 80 ss.; G. De Stefano, Il notorio nel processo civile, cit., p. 83 ss.; Id., Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, in Giur. it., 1955, c. 777 ss.; Id., voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1011 ss.; S. Satta, Art. 115, cit., p. 462; E. Grasso, op. e loc. ult. cit.; L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, cit., p. 1177 ss.; F. Lazzaro, op. cit., p. 13; G. Bertolino, op. cit., p. 1475 ss.; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 136 ss.; G. Molfese, A. Molfese, Ricorso e controricorso per cassazione, Padova, 2013, p. 386 ss.; T.M. Pezzani, op. cit., p. 1120 ss.; V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 349 ss.; Id., Sulla censurabilità, in Cassazione dell’utilizzo del fatto notorio ad opera del giudice di merito, in Euroconference Legal, 2018, p. 1 ss.; P. Palatucci, Art. 115, in AA.VV., La giurisprudenza sul Codice di procedura civile coordinata con la dottrina, Milano, 2017, p. 2425 ss., p. 2472 ss.; B. Zuffi, op. cit., p. 1373 ss.; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 486; P. Comoglio, op. cit., p. 303 ss.; S. Alunni, op. cit., p. 1553; G. Amoroso, op. cit., p. 270 ss.; F. Gigliotti, op. cit., p. 855, spec. nota 67; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 37 ss.; L. Tria, Il ricorso per cassazione per violazione di norme di diritto. Tra disciplina nazionale, disciplina UE e normativa internazionale, Milano, 2021, p. 96 ss.; P. Licci, op. e loc. ult. cit.

([126]) Oltre che in dottrina, tale ipotesi di censura della notorietà è stata da sempre accolta anche presso la giurisprudenza di legittimità. Ciò è dimostrato anche da pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione risalente al settembre 1912, che si riferisce alla Controversia Mengarini-Colonna e che è citata sia da G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile (Le azioni. Il processo di cognizione), cit., p. 875, nota 1, sia da E. Allorio, op. cit., p. 377. Nel caso di specie, la Corte di cassazione aveva accolto il ricorso avverso la pronuncia di merito, tacciando quest’ultima di aver erroneamente considerato la notorietà della circostanza per cui, in relazione alla posizione di due edifici siti in Roma, l’uno togliesse all’altro la vista della Cupola di S. Pietro. Infatti, la Suprema corte, nel caso di specie, ritenne di non poter condividere la notorietà di una simile conclusione, in quanto palesemente smentita dall’orientamento dei due edifici.

([127]) Ogni approfondimento sui motivi di impugnazione ex art. 360, co.1, c.p.c. può essere tratto da G. Di Fazzio, Art. 360. Sentenze impugnabili e motivi di ricorso, in F. Carpi, M. Taruffo (diretto da) Commentario breve al Codice di Procedura civile, Padova, 2018, p. 1503 ss.; M. De Cristofaro, Art. 360. Sentenze impugnabili e motivi di ricorso., in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile – Commentario, vol. II, Torino, 2018, p. 1452 ss.

([128]) Rispetto all’ipotesi di un sindacato di legittimità ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. per violazione dell’art. 115 c.p.c., in dottrina, esprimono favore, ex pluribus, P. Licci, op. cit., p. 900, nota 62; G. Amoroso, op. cit., p. 270; G. Di Fazzio, op. cit., p. 1517; V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 350 ss.; Id., Sulla censurabilità in Cassazione dell’utilizzo del fatto notorio ad opera del giudice di merito, cit., p. 1 ss.; S. Alunni, op. cit., p. 1550; G. Guarnieri, op. e loc. ult. cit.; Nella dottrina più risalente, v. G. De Stefano, voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1012; C. Leone, op. cit., p. 86, per il quale la censura per violazione di norma di diritto sembra essere l’unica via percorribile ai fini del sindacato del notorio in Cassazione; E. Grasso, op. e loc. ult. cit.; S. Satta, Art. 115, cit., p. 462. Peraltro, va osservato che l’art. 115, co. 2, c.p.c. è pienamente inquadrabile nell’ambito delle «norme di diritto» evocate dall’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c., in quanto – in un’ottica estensiva – la dottrina dominante sostiene che questa locuzione è in grado di ricomprendere tutte le norme che devono essere applicate dal giudice in quanto rilevanti per la decisione della controversia. In tal senso, v. per tutti, v. E. Fazzalari, op. e loc. ult. cit.

([129]) La giustificazione teorica di questa possibilità di sindacato è stata offerta dalla dottrina più risalente, che ha parlato di «estensione interpretativa», nel senso di equiparare la conoscenza dei fatti notori alla conoscenza del diritto. Questa posizione è stata sostenuta da E. Allorio, op. cit., p. 373. Sul punto, v. anche L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 227 ss., il quale sostiene che «la ratio legis della disposizione di cui all’art. 360 n. 3) consiste nell’evitare che la volontà dichiarata dal giudice nella sentenza non coincida con la volontà concreta dalla legge: tale pericolo sorge solo nei confronti di una espressa pronuncia, non già in caso di inesecuzione ad opera di un giudice di una norma processuale a lui diretta, inesecuzione di cui non resta alcuna traccia nella decisione». Tuttavia, l’autore sembra discorrere anche di una possibilità di violazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. Contra, S. Patti, Prove. Disposizioni generali, cit., p. 77; Id., Le prove, cit., p. 26, il quale, pur condividendo la possibilità di impugnare con ricorso per cassazione la pronuncia di notorietà, ha manifestato dissenso rispetto al fondamento indicato tradizionalmente, sostenendo che non si possa ammettere un’interpretazione talmente estensiva da far rientrare il concetto di fatto in quello di diritto. Inoltre, G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., c. 782 ss.; Id., voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1012, ritiene di limitare la possibilità di sindacato per error in iudicando al solo fatto notorio diretto, intendendosi per quest’ultimo il fatto in ordine al quale vi è una immediata percezione sensoriale da parte della collettività. Tuttavia, quest’ipotesi è sconfessata dalla giurisprudenza di legittimità – in tal senso, v. Cass., 4 giugno 2007, n. 13056 – in quanto, seppur in linea teoria, ammette il sindacato ex art. 360, co.1, n. 3) c.p.c. anche nel caso in cui la conoscenza del fatto non sia pervenuta alla collettività in modo immediato e diretto.

([130]) In questo senso, v., ex pluribus, Cass., 7 febbraio 2019, n. 3550; Cass., 26 settembre 2018, n. 23026; Cass., 22 agosto 2018, n. 20896; Cass., 3 marzo 2017, n. 5438; Cass., 18 luglio 2011, n. 15715; Cass., 20 maggio 2009, n. 11729; Cass., 12 marzo 2009, n. 6023; Cass., 18 maggio 2007, n. 11643; Cass., 17 settembre 2005, n. 18446; Cass., 19 agosto 2003, n. 12112.

([131]) Tra le tante, Cass., 3 marzo 2023, n. 6530; Cass., 16 marzo 2022, n. 8580; Cass., 29 novembre 2011, n. 25218; Cass., 9 settembre 2008, n. 22880. Come ritiene S. Alunni, op. e loc. ult. cit., ciò, evidentemente, nel senso di valutare se, in effetti, il fatto assunto quale notorio possa fregiarsi validamente di questa qualifica in punto di presupposti ad esso occorrenti a tale scopo o, per meglio dire, se il suo grado di conoscenza presso la collettività sia idoneo a conferirgli l’attributo della notorietà.

([132]) A tal proposito, v. Cass., 20 settembre 2019, n. 23546 con nota di A. Borgoglio, La consolidata prassi commerciale non costituisce un fatto notorio utilizzabile per l’accertamento, in Fisco, 40, 2019, p. 3871 ss.; Cass., 18 maggio 2016, n. 10204, con nota di commento di A. Russo, Solo la rigorosa sussistenza del fatto notorio legittima l’accertamento analitico-induttivo, in Il fisco, 2016, p. 2375 ss.; Cass., 20 giugno 2014, n. 14063 con nota di commento di F. Brandi, La donazione da padre a figlio non costituisce un fatto notorio, in fiscooggi.it, 2014; Cass., 7 agosto 2002, n. 11833; Cass., 28 novembre 1992, n. 12762. Per una più ampia rassegna di casi, v. B. Zuffi, op. cit., p. 1370-1371; P. Palatucci, op. cit., p. 2480.

([133]) Di questa diversa impostazione, in dottrina, danno conto V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 350; S. Alunni, op. e loc. ult. cit.; M. De Cristofaro, op. cit., p. 1493; T. M. Pezzani, op. cit., p. 1120, nt. 11; B. Zuffi, op. cit., p. 1374.

([134]) Per ogni altro approfondimento, v. G. Di Fazzio, op. cit., p. 1518. Sul punto, si segnalano anche M. De Cristofaro, op. cit., p. 1486 ss.; G. Amoroso, op. cit., p. 301 ss.; G.F. Ricci, Il giudizio civile in Cassazione, cit., p. 158 ss. Tra l’altro, come sostiene anche E. Fazzalari, op. cit., p. 8, il motivo ex art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c., può essere considerato come un motivo residuale. Tale questione si inquadra nella più generale problematica dell’esatto motivo tramite cui accedere al sindacato di legittimità in ordine alla violazione di norme di carattere processuale o degli «errores in iudicando de iure procedendi», per usare il linguaggio di certa dottrina. In proposito, v. C. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, p. 318 ss.

([135]) Il riferimento è alla dottrina più risalente, tra cui si annoverano G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., c. 783 ss.; L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 228 ss., ma non solo visto che anche B. Zuffi, op. e loc. ult cit. e L. Tria, op. cit., p. 98 risultano aperte a questa forma di censurabilità. Una diretta ammissibilità della censura ex art. 360, primo co., n. 4) c.p.c. si rinviene in L. Dittrich, La prova nel processo civile e arbitrale, cit., p. 38, il quale sostiene che la pronuncia di notorietà «può essere oggetto di contestazione di impugnazione in Cassazione sotto il profilo della violazione delle norme processuali (art. 360 n.4) c.p.c.)».

([136]) Il vizio di omessa pronuncia – sul quale si segnalano Cass., 13 ottobre 2022, n. 29952; Cass., 10 maggio 2017, n. 11513; Cass., Cass., 12 gennaio 2016, n. 329; Cass., Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15781 – consiste nella mancanza di presa di posizione del giudice rispetto ad una domanda oppure ad un’eccezione che sia stata ritualmente formulata.  Il vizio di ultrapetizione, come afferma, ex pluribus, Cass., 9 settembre 2022, n. 26574, è configurabile quando il giudice oltrepassi i limiti della domanda. Il vizio di extrapetizione si produce laddove il giudice di merito abbia pronunciato su una domanda oppure su una eccezione non rilevabile d’ufficio mai proposta. In proposito, v. Cass., 9 giugno 2022, n. 18558; Cass., 19 marzo 2020, n. 7467.

([137]) Questa ipotesi, che va interpretata nel senso che il giudice ha dichiarato certo un fatto in base a un mezzo di accertamento palesemente inesistente, si rinviene in L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 229, il quale in nota 4) afferma essere diffusa già all’epoca la convinzione che la sentenza che pronuncia in extrapetizione fosse censurabile ex art. 360, co.1, n. 4) c.p.c. e, in proposito, richiama V. Andrioli, Art. 360. Commento al Codice di procedura civile, Napoli, 1941; M.T. Zanzucchi, op. cit., p. 247. A questa G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., c. 783 ss., equipara l’ipotesi in cui «il giudice dichiari accertato un fatto in base ad una circostanza che non esiste», pur risultando avveduto di quelle che potrebbero essere le problematiche importate dall’accettazione di una simile impostazione. Più concretamente, egli ritiene che questa tesi risulti attuabile laddove la distinzione tra la qualità notoria del fatto e il fatto in sé stesso considerato sia chiara e ben marcata, il che non è sempre possibile.

([138]) In Cass., 21 febbraio 2007, n. 4051 si legge che «è censurabile – stabilendo se nelle forme del ricorso ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. od in quelle del ricorso per violazione di legge ai sensi dell’art. 360, n. 3 – l’assunzione a base della decisione di una inesatta nozione del notorio». Conformemente, Cass., 29 aprile 2005, n. 9001. In dottrina, per altri riferimenti, v. S. Alunni, op. cit., p. 1550.

([139]) C. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., p. 319. Rispetto alla violazione dell’art. 115, co. 2, c.p.c., questa prima impostazione risulta essere di certo quella preferibile.

([140]) Per quanto taluni – come G. Bertolino, op. cit., p. 1476; S. Alunni, op. cit., p. 1550 – sostengano che si tratti di un «orientamento minoritario», questa ricostruzione è sostenuta da G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., p. 782 ss.; Id., voce “Fatto notorio (Dir. priv.)”, cit., p. 1012; S. Patti, Prove. Disposizioni generali, cit., p. 77 ss., il quale sostiene che «se si afferma che il fatto notorio equivale ad un fatto provato, risulterà certamente insufficiente la motivazione che non ha tenuto conto di un fatto provato, la cui eventuale irrilevanza ai fini della decisione deve comunque risultare nella motivazione»; L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 228; G. Guarnieri, op. cit., p. 431; G.A. Micheli, L’onere della prova, cit., pp. 101 e 119. Alcune aperture si rinvengono anche nella giurisprudenza di legittimità, come dimostra Cass., 22 febbraio 2016, n. 5089, ove si legge che «il riconoscimento o il disconoscimento di un fatto come notorio può essere censurato per vizio di motivazione dipendente dall’erronea determinazione dei criteri di notorietà».

([141]) Si tratta di una notazione giurisprudenziale, che si rinviene, ex pluribus, in Cass., 27 dicembre 2010, n. 25674. A tal proposito, L. Ruggiero, La Cassazione riapre al sindacato sul vizio logico della motivazione, in Riv. dir. proc., 2018, p. 894 ss., nell’avvertire che il catalogo di vizi sussumibili nell’insufficienza motivazionale è piuttosto ampio, rileva che in questo caso «la motivazione esiste ed è completa in tutte le sue parti, ma le ragioni fornite dal giudice appaiono inidonee a dimostrare che la decisione in fatto si fonda su un ragionamento razionale e rispettoso del criterio della «prudenza» di cui all’art. 116 c.p.c.».

([142]) Il riferimento è a G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., c. 782.

([143]) Il virgolettato è di V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 349 ss., la quale, ad ogni buon conto, sconfessa tale ipotesi di sindacato, ritenendo che il vizio che in questo senso coinvolge il fatto notorio indiretto non ha nulla a che vedere con la censura dell’iter logico tramite cui il giudice è pervenuto alla dichiarazione di notorietà del fatto, in quanto un tale vizio risulta, più che altro, avvicinabile ad una distorta assunzione della nozione di notorietà e, pertanto, passibile di essere fatta valere in sede di legittimità ricorrendo per falsa applicazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3) c.p.c.

([144]) In questi termini, G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., c. 782, quale completa, affermando che «la dichiarazione di notorio indiretto è una dichiarazione motivata, ove la motivazione manchi si potrebbe al massimo ritenere che il giudice non abbia inteso prospettare un notorio indiretto, ma piuttosto un notorio diretto che – chiaramente – deve possedere fin dall’origine quel carattere di fatto pubblico che lo rende idoneo ad una dichiarazione di notorietà diretta».

([145]) In verità, la formulazione introdotta dalla L. 14 luglio 1950, n. 581 si riferiva all’«omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia». L’art. 360, co.1, n.5) è stato successivamente emendato – nel tenore vigente sino al 2012 – dalla L. 26 febbraio 2006, n. 40. Sulle variazioni di questa norma da un punto di vista storico, v. A. Saletti, Il controllo della motivazione della sentenza nel giudizio di cassazione italiano dal 1865 ad oggi, in Estudos em homenagem a Ada Pellegrini Grinover e José Carlos Barbosa Moreira, São Paolo, 2019, p. 7 ss.; G. Monteleone, Il controllo della Corte suprema sulla motivazione delle sentenze. Evoluzione storica, in Riv. dir. proc., 2015, p. 871 ss.

([146]) La riforma del 2012, come si comprende dalla relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, è stata ispirata dal fine di restringere le maglie dell’accesso alla giustizia di legittimità con la definitiva volontà di riaffermare la funzione di nomofilachia, che, per via dell’ingente numero di ricorsi proposti dinanzi alla Corte di cassazione, viveva un periodo di declino. Sulla novella del 2012, v., ex pluribus, R. Poli., L’evoluzione dei giudizi di appello e di cassazione alla luce delle recenti riforme, cit., p. 141 ss.; Id., Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 443; F. Santangeli, Il controllo del giudizio di fatto in Cassazione e le sentenze delle Sezioni Unite, cit., p. 1 ss.; G. Raiti, Il nuovo art. 360, n. 5, c.p.c.: l’omesso esame di un fatto «oggetto di discussione fra le parti», in Riv. dir. proc., 6, 2017, p. 1440 ss.; A. Carratta, Giudizio di cassazione e nuove modifiche legislative: ancora limiti al controllo di legittimità, in Treccani.it, 2012, il quale ritiene che la riforma non abbia comportato significative modifiche; M. Taruffo, Addio alla motivazione?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, p. 382 ss.; C. Di Iasi, Il vizio di motivazione dopo la l. n. 134 del 2012, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, p. 1441, secondo il quale tale riforma preclude in via definitiva il sindacato sulla logicità della motivazione; B. Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, in Corr. giur., 2013, p. 849 ss.

([147]) La censurabilità del ragionamento probatorio, specie per tramite del ricorso per cassazione, è stata oggetto di ampi studi da parte della dottrina. In proposito, v., ex multis, L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 136 ss.; L. Lombardo, Il sindacato di legittimità della Corte di cassazione, Torino, 2015, p. 131 ss.; B. Sassani, Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza: l’incontrollabilità in cassazione del ragionamento del giudice, in judicium.it., 2012, p. 1 ss.; P. Ferrua, La prova nel processo penale. Struttura e procedimento, Torino, 2017, p. 233 ss.; M. Bove, Ancora sul controllo della motivazione in Cassazione, in Giusto proc. civ., 2013, p. 431 ss.; R. Poli, Il ragionamento probatorio (funzione, struttura, esiti, sindacabilità), cit., p. 1106 ss.; Id., Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 439 ss.; F. Santangeli, Il controllo del giudizio di fatto in Cassazione e le sentenze delle Sezioni Unite, in judicium.it, 2015, p. 1 ss.; G. Amoroso, op. cit., p. 3 ss.

([148]) Così, R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 380, il quale, nel riprendere quanto aveva sostenuto G. Calogero, op. cit., p. 51, affermando che «la difficoltà del giudizio non risiede nel trarre le conclusioni dalle premesse, ma nel porre le premesse stesse», rileva che «porre le premesse del ragionamento contenuto nella motivazione vuol dire risolvere, decidere le numerosissime questioni di fatto che si possono presentare in un processo».

([149]) Per un compendio di considerazioni in tema di motivazione della sentenza, si rimanda, ex pluribus, a M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, p. 3 ss.; F. Santangeli, La motivazione della sentenza civile su richiesta e i recenti tentativi di introduzione dell’istituto della “motivazione breve” in Italia, in judicium.it, 2011, p. 1 ss.; Id., Art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., in Nuove leggi civ. comm., 2010, p. 822 ss.; G. Monteleone, Riflessioni sull’obbligo di motivare le sentenze (motivazione e certezza del diritto), in Giusto proc. civ., 1, 2013, p. 1 ss.; di particolare interesse risultano essere anche le recentissime riflessioni di M. Ciccarè, La motivazione della sentenza civile nell’era dell’innovazione tecnologica, in judicium.it, 2023, p. 1 ss., il quale mette in rapporto l’obbligo di motivazione con le nuove tecnologie connettive e robotiche.

([150]) Peraltro, questa considerazione offre l’esatto spunto per rimarcare la distinzione tra motivazione e dispositivo. Infatti, mentre nel dispositivo è contenuta la specifica risposta alla domanda, ossia il comando del giudice, che può determinarsi sia in senso favorevole, dunque con un accoglimento, sia in senso sfavorevole, cioè con un rigetto della domanda di parte, nella motivazione si rinvengono le ragioni di fatto e di diritto che hanno conducono il giudice ad emettere quel dispositivo. Pertanto, sembra corretto affermare che l’attività decisoria si cela nel dispositivo, che è la risultante logica delle decisioni delle questioni, e l’attività giustificativa si trova nella motivazione, che rappresenta il punto in cui si cela l’attività decisoria.

([151]) In questo senso, v. R. Poli, Diritto alla prova scientifica, obbligo di motivazione e sindacato in sede di legittimità, in Giust. civ., 2018, p. 418 ss. per ogni altro ulteriore approfondimento.

([152]) La dottrina, a tal riguardo, rileva l’esistenza di un rapporto di diretta proporzionalità intercorrente tra l’obbligo di motivazione e la censurabilità del giudizio di fatto, nel senso che ad una maggiore ampiezza dell’obbligo di motivazione del provvedimento di giustizia corrispondono una maggiore ampiezza tanto del sindacato sulla motivazione stessa quanto della censurabilità del giudizio di fatto. Al riguardo, v. R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 405, ove si legge che «per quanto riguarda, in particolare, il nesso tra obbligo di motivazione e controllo della motivazione, basti osservare che un obbligo di motivazione in effetti sussiste se e nella misura in cui è possibile censurare in sede di impugnazione» e che «la mancanza della possibilità di controllo in sede di impugnazione si traduce nella sterilizzazione dei mezzi di prova che la parte ha richiesto per provare la verità dei fatti che la stessa ha allegato, quale concreta manifestazione del suo diritto alla prova: se, ad esempio, il giudice può non tener conto della legge scientifica che la parte ha dedotto nel processo, ciò equivale alla mancanza del diritto di provare il fatto controverso per mezzo della legge scientifica di cui la parte intende avvalersi».

([153]) Le opinioni più accreditate sono state tre: taluni, come R. Poli, Le modifiche relative al giudizio di cassazione, in C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche. Le riforme del quinquennio 2010-2014, Torino, 2015, p. 271 ss. e, seppur con argomentazioni differenti, A. Carratta, Giudizio di cassazione e nuove modifiche legislative: ancora limiti al controllo di legittimità, in Treccani.it, 2012, hanno sostenuto che la riforma non abbia compromesso la possibilità di sindacare il giudizio di fatto; altri, come C. Di Iasi, Il vizio di motivazione dopo la l. n. 134 del 2012, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, p. 1441 ss., hanno ritenuto che, per effetto della novella del 2012, non residuasse alcuno spazio per censurare il ragionamento giudiziale in fatto; altri ancora, come M. Fornaciari, Ancora una riforma dell’articolo 360, comma 1, numero 5 c.p.c.: basta, per favore, basta!, in judicium.it, § 4, hanno sostenuto la definitiva liberalizzazione del sindacato sul vizio logico del ragionamento giudiziale.

([154]) Queste sentenze sono state oggetto di diffusa attenzione da parte della dottrina contemporanea. Tra le note di commento più significative, v. L. Passanante, Le Sezioni Unite riducono al «minimo costituzionale» il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, p. 179 ss.

([155]) Il virgolettato è di R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 444 ss.

([156]) Cass., 21 dicembre 2016, n. 26463, ha individuato una sorta di catalogo delle caratteristiche che devono ricorrere affinchè un fatto possa configurarsi come «decisivo», affermando quanto di seguito: «l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (ovvero dedotto in funzione probatoria). Il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. anche l’omesso esame di determinati elementi probatori; basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti. Deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti. Tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata o dagli atti processuali». Sul punto, v anche Cass., 25 settembre 2018, n. 22786 con nota divulgativa di M. Minardi, La Cassazione precisa cosa si intende per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, in lexform.it, 2018.

([157]) Più recentemente, hanno sostenuto questa corrente di pensiero V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 350; G.F. Ricci, Intervento tenuto all’Incontro di Firenze del 12 aprile 2013 sulla novità in tema di impugnazioni, in Quaderni dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Bologna 2014, p. 228 ss.; Id., Il velo squarciato: la Suprema corte apre la porta al sindacato di legittimità sul giudizio di fatto, in Riv. dir. proc., 2019, p. 354 ss., nota 14, ove si legge che la censura relativa al vizio di motivazione «potrebbe darsi anche nel caso di mancata valutazione di un fatto notorio decisivo, nell’erronea convinzione che non fosse tale e che quindi andava provato».

Si è già sottolineato in precedenza che la ricorribilità per cassazione della pronuncia di notorietà per difetto di motivazione legato all’omessa valutazione di un fatto è argomento centrale ai fini della sostenibilità della tesi per cui il giudice abbia, dinanzi alla circostanza notoria, un obbligo di impiego e, di rimando, per il rigetto della tesi giurisprudenziale (parecchio diffusa, come dimostrano, ex pluribus, Cass., 31 agosto 2020, n. 18101; Cass., 20 febbraio 2020, n. 4428; Cass., 22 maggio 2019, n. 13715; Cass., 7 febbraio 2019, n. 3550) secondo cui «poiché il giudice del merito – dotato di potere discrezionale in punto di impiego della circostanza notoria – non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali l’affermazione del notorio si fonda, la Corte di legittimità non può operare un controllo motivazionale». Per tutti, v. le osservazioni di S. Patti, Prove. Disposizioni generali, cit., p. 78. In giurisprudenza, v. Cass., 22 agosto 2018, n. 20896 con nota di commento di V. Baroncini, Sulla censurabilità, in Cassazione, dell’utilizzo del fatto notorio ad opera del giudice di merito, in Eclegal.it, p. 1 ss.

([158]) Per un esempio, v. Cass., 10 giugno 2016, n. 11892 con nota di commento di T. Della Ventura, op. e loc. ult. cit., già richiamata in questo capitolo al §, nota 664). In proposito, R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 450 ss., che richiama anche Cass., 28 settembre 2016, n. 19179.

([159]) La pronuncia in esame è Cass., 5 luglio 2017, n. 16502, di cui è opportuno segnalare la nota di commento di L. Ruggiero, op. cit., p. 889 ss., la quale afferma che «la Suprema Corte riporta infatti l’attenzione sulla motivazione della sentenza quale efficace strumento di controllo della discrezionalità riconosciuta al giudice del fatto e, dunque, quale garanzia contro il rischio di decisioni arbitrarie ed irragionevoli». Rispetto a tale sentenza, v. anche G.F. Ricci, Il velo squarciato: la Suprema corte apre la porta al sindacato di legittimità sul giudizio di fatto, cit., p. 1 ss.

([160]) L. Ruggiero, op. cit., p. 903, nel commentare la pronuncia, rileva che, nel tentativo di riappropriarsi del sindacato sulla logicità del ragionamento in fatto, i giudici di legittimità intendono il concetto di «apparenza» in modo ampio ed elastico, giungendo a ricondurvi ipotesi un tempo censurate sub specie di insufficienza della motivazione. Nell’impostazione tradizionale, come si è visto, la motivazione apparente è una non motivazione; il vizio di apparenza, sinonimo di inaccessibilità e inafferrabilità del ragionamento giudiziale, rimanda alla obiettiva carenza delle ragioni della decisione. Diversamente, nella prospettazione in esame, la motivazione è apparente ove, compiuto il controllo di logicità, le ragioni del decidere fornite dal giudice di merito, benché esistenti, risultino prive della «necessaria congruenza o plausibilità. Si tratta di ipotesi evidentemente differenziate. Nel primo caso, la base su cui operare il predetto controllo di congruità manca del tutto: il vizio della motivazione attiene, perciò, al profilo formale dell’obbligo di motivazione. Nell’ipotesi patologica definita, invece, nella pronuncia in esame, il sindacato sulla correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza risulta senz’altro possibile: proprio il controllo della motivazione rivela incongruenze e vizi del ragionamento giudiziale che, privo di aderenza alle regole della logica e della comune esperienza, non osserva l’aspetto sostanziale o contenutistico dell’obbligo di motivazione».

([161]) Come sostengono L. Ruggiero, op. cit., p. 899 ss.;  G.F. Ricci, Il velo squarciato: la Suprema corte apre la porta al sindacato di legittimità sul giudizio di fatto, cit., p. 1 ss.; R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 451 ss.;

([162]) In questo senso, anche G.F. Ricci, Il velo squarciato: la Suprema corte apre la porta al sindacato di legittimità sul giudizio di fatto, cit., p. 1 ss., il quale afferma che «così come può essere denunciata l’omessa valutazione di un fatto notorio, è da ritenersi che valga anche il principio opposto, allorché è stato assunto come notorio un fatto che non lo era (cioè quando il giudice ha posto alla base della decisione un’inesatta nozione di notorio), essendo consentito in questo caso al giudice di legittimità di ripercorrere il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice di merito».

([163]) Così, nella dottrina contemporanea, v. V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 352; S. Alunni, op e loc. ult. cit.; B. Zuffi, op. e loc. ult. cit.; P. Licci, op e loc. ult. cit., P. Palatucci, op. cit., p. 2472; L. Tria, op. cit., p. 99; F. Gigliotti, op. e loc. ult. cit.; F. Rota, Art. 115. Disponibilità delle prove, cit., p. 486; G. Bertolino, op. cit., p. 1475. Si tratta di un’idea diffusa anche nella dottrina meno recente e, in proposito, v. G. De Stefano, Osservazioni sulla censurabilità del fatto notorio, cit., c. 783 ss.; L. Montesano, Osservazioni sui fatti notori, cit., p. 229; S. Satta, Art. 115., cit., p. 462.

([164]) L’art. 395, co.1, n. 4) c.p.c. dispone che «le sentenze pronunciate in grado d’appello o in un unico grado, possono essere impugnate per revocazione e la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». Specificamente su questa ipotesi di revocazione, v. L. Salvaneschi, Sulla natura della revocazione per errore di fatto delle pronunce della Cassazione, in Riv. dir. proc., 2018, p. 1461 ss. Sulla revocazione, mezzo di impugnazione “misto”, v., per tutti, F. Rota, Art. 395. Casi di revocazione, in F. Carpi, M. Taruffo (diretto da) Commentario breve al Codice di Procedura civile, Padova, 2018, p. 1602 ss.

([165]) Per altri riferimenti, v. V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, cit., p. 351.

([166]) In proposito, v. G. Pavanini, op. cit., p. 250 ss.; C. Leone, op. cit., p. 83 ss.; A. Piras, Le massime d’esperienza e la motivazione insufficiente, in Jus, 1955, p. 79 ss. F. Carnelutti, Massime di esperienza e fatti notori, cit., p. 639 ss.; M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile¸ Padova, 1975, p. 516 ss.; N. Mannarino, Le massime d’esperienza nel giudizio penale e il loro controllo in Cassazione, cit. p. 128 ss.; M. Bove, op. cit., p. 9 ss.; T.M. Pezzani, op. e loc. ult. cit.; R. Palavera, op. cit., p. 213 ss.; G. Caldarelli, Juventus responsabile per i danni subiti da un tifoso e per un ricorso tout court inammissibile, in Giur. it., 2, 2020, p. 300 ss.; R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 441 ss.; L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, cit., p. 33; C. Raponi, Il controllo in Cassazione della prova per presunzioni, in S. Patti, R. Poli (a cura di), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, cit., p. 464 ss.

([167]) R. Palavera, op. e loc. ult. cit., la quale, inoltre, sottolinea che «l’esigenza del controllo in Cassazione è stata sentita, sia in dottrina sia in giurisprudenza, anche in funzione di valorizzazione della funzione di garanzia svolta dall’obbligo di motivazione», rimandando a F.M. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 271.

([168]) Ad ogni modo, un recente caso di mancata enunciazione della massima di esperienza impiegata ricorre in Cass. pen., 9 febbraio 2024, n. 5871, ove la Suprema Corte, nell’annullare la sentenza impugnata, ha sostenuto che il giudice non abbia indicato quali massime di esperienza lo avessero condotto ad affermare che la partecipazione ad un attività di negoziazione fosse sintomatica dell’avvenuta realizzazione della condotta di riciclaggio contestata nel caso di specie. In dottrina, v. N. Mannarino, Le massime d’esperienza nel giudizio penale e il loro controllo in Cassazione, cit., p. 128, il quale specifica che non rientrano in tale vizio i casi in cui la massima sia desumibile dal contesto argomentativo; R. Palavera, op. cit., p. 217 ss.

([169]) Così, N. Mannarino, Le massime d’esperienza nel giudizio penale e il loro controllo in Cassazione, cit., p. 131 ss., del quale riportiamo il chiaro esempio: «incorrerebbe, senza dubbio, in un errore riconducibile alla manifesta illogicità il giudice di merito che così ragionasse: l’automobilista che procede a velocità elevata, nel porre in essere il tentativo di arrestare il suo veicolo, lascia sulla strada lunghe tracce di frenata (massima d’esperienza); l’automobile condotta da Tizio ha lasciato lunghe tracce (dato) e perciò deve ritenersi che marciasse a velocità moderata (conclusione)»; R. Palavera, op. cit., p. 218 ss.; R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 441, in proposito discorre di «erronea scelta e/o erronea applicazione delle massime d’esperienza e, quindi, erronea attribuzione al materiale di prova della attitudine a fornire specifici e concreti elementi di conoscenza in ordine ai fatti da provare».

([170]) Sul punto, è emblematica, Cass., 28 ottobre 2010, n. 22022, ove si legge che «il giudice è tenuto ad avvalersi, come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove, che l’argomentazione di tipo presuntivo, delle massime d’esperienza (o nozioni di comune esperienza), da intendersi come proposizioni di ordine generale tratte dalla reiterata osservazione dei fenomeni naturali o socioeconomici. Ne consegue che il mancato ricorso, da parte del giudice del merito, a dette massime, in quanto interferente sulla valutazione del fatto, è suscettibile di essere apprezzato sotto il profilo del vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.». Nel senso medesimo, ex pluribus, v. Cass., 8 agosto 2011, n. 17093; Cass., 29 novembre 2010, n. 24143. Per altri riferimenti, v. R. Palavera, op. cit., p. 217, la quale si riferisce all’art. 606, co. 1, lett. e), c.p.c., che, proprio come l’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. ante riforma del 2012, ammette il sindacato di legittimità per «omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione». In proposito anche T.M. Pezzani, op. e loc. ult. cit.

([171]) Una ricostruzione delle varie posizioni è operata in modo puntuale da C. Raponi, op. e loc. ult. cit., nonché da T.M. Pezzani, op. cit., p. 1117 ss. Peraltro, è massima ricorrente della Cassazione quella per cui «appartiene al giudizio di legittimità il sindacato sulle massime di esperienza utilizzate nella valutazione delle risultanze probatorie. Tale controllo non può peraltro spingersi fino a sindacarne la scelta, dovendo questa S.C. limitarsi a verificare che il giudizio probatorio non sia fondato su congetture, ovvero su ipotesi non rispondenti all’id quod plerumque accidit o su regole generali prive di una sia pur minima plausibilità invece che su vere e proprie massime di esperienza». Tra le pronunce più recenti, v. Cass., 12 gennaio 2023, n. 770; Cass., 9 dicembre 2022, n. 36100; Cass., 3 dicembre 2021, n. 38201; Cass., 30 aprile 2021, n. 16523; Cass., 15 marzo 2018, n. 6387. Un concreto esempio della distinzione tra massima di esperienza e congettura è scolpito in Cass. pen., 18 dicembre 2023, n. 50311, ove si rileva il carattere congetturale e, dunque, l’impossibilità di essere elevato a massima di esperienza dell’assunto per cui «le dichiarazioni rese da un soggetto emotivamente coinvolto sarebbero più attendibili di quelle rilasciate da una persona non direttamente toccata dalla vicenda su cui è chiamata a riferire». Sul punto, v. anche Cass. pen., 17 novembre 2023, n. 46453.

([172]) Così, tra gli altri, B. Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, cit., p. 639.

([173]) B. Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, cit., p. 854, che, tuttavia, evidenzia delle aporie nell’applicazione di una simile soluzione; in conformità, M. Bove, op. cit., p. 10. Non può sottacersi, peraltro, che questa impostazione era già stata proposta in tempi risalenti da alcuni esponenti della dottrina, quali, E. Grasso, op. cit., p. 1318; E. Fazzalari, op. e loc. ult. cit. Sull’inaccettabilità di questa tesi, v. T.M. Pezzani, op. cit., p. 1126 ss. Peraltro, all’ipotesi di sindacato delle massime d’esperienza per violazione o falsa applicazione di norme (con riferimento all’art. 606, co. 1, lett. b), c.p.p.) si riferisce anche R. Palavera, op. cit., p. 218 ss., che richiamando anche G. Pavanini, op. cit., p. 247 ss., evidenzia vari profili di criticità rispetto a questa ipotesi.

([174]) Si trattava della riviviscenza di una costruzione della giurisprudenza di legittimità emergente da Cass., 26 giugno 2008, n. 17535, rispetto alla quale si segnalano le argomentazioni contrarie di B. Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, cit., p. 853 ss.

([175]) Tale interpretazione è proposta da T.M. Pezzani, op. cit., p. 1124 ss., la quale afferma che «si potrebbe sostenere che l’utilizzo nel giudizio di merito di generalizzazioni costituenti semplici congetture ed erroneamente ricondotte alle massime di esperienza per fondare presunzioni semplici, costituisce violazione o falsa applicazione, ex art. 360, comma 1°, n. 3, c.p.c., dell’art. 115, comma 2°, c.p.c.».

([176]) In questo senso, seppur con diversi percorsi argomentativi, v. R. Caponi, La modifica dell’art. 360, 1° comma n. 5 c.p.c., in Judicium.it; M. Fornaciari, op. e loc. ult. cit.; M. Taruffo, Addio alla motivazione?, cit., p. 382; R. Tiscini, Art. 360, in L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella (diretto da), Commentario al codice di procedura civile, Torino, 2013, p. 596.

([177]) In questo senso, v. anche R. Tiscini, op. e loc. ult. cit.; M. Bove, Giudizio di fatto e sindacato della Corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c, in Judicium.it, p. 8.

([178]) La pronuncia è sempre Cass., 5 luglio 2017, n. 16502, con nota di L. Ruggiero, op. e loc. ult. cit. In proposito, v. anche R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 451 ss., il quale afferma che, in sintesi, che – nello svolgere un simile controllo – la Corte di cassazione indubbiamente svolge un’omologazione delle massime d’esperienza, il che si traduce nel compimento di un giudizio di fatto da parte della stessa. In proposito, v. anche Cass., 16 gennaio 2019, n. 891.

([179]) Così, anche C. Raponi, op. cit., p. 474. Tra l’altro, come sottolineato da R. Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, cit., p. 452, i principi espressi da questa sentenza sono stati ripresi anche da Cass., 6 luglio 2020, n. 13872; Cass., 11 febbraio 2020, n. 3298; Cass., 24 gennaio 2020, n. 1688; Cass., 17 dicembre 2019, n. 33444; Cass., 18 luglio 2019, n. 19449; Cass., 19 giugno 2019, n. 16443; S.U. Cass., 28 marzo 2019, n. 8675; Cass., 7 dicembre 2018, n. 31765; Cass., 8 ottobre 2018, n. 24743; Cass., 27 luglio 2018, n. 20010; Cass., 20 aprile 2018, n. 9906; Cass., 25 gennaio 2018, n. 1854.

([180]) L’occasione per ribadire questa posizione si è presentata con Cass., 29 marzo 2019, n. 8763 con nota di commento di G. Caldarelli, op. e loc. ult. cit. Nel caso di specie, relativo ad una domanda di risarcimento del danno alla persona avanzata da un tifoso a seguito del suo ferimento per mezzo di un petardo durante una partita della Juventus, parte ricorrente impugnava in sede di legittimità la pronuncia della Corte d’appello, ritenendo che il giudice del merito avesse assunto una falsa nozione di fatto notorio, ritenendo «erroneamente inadeguata l’ampiezza dell’area di distanza tra le tifoserie avversarie e normale il gesto compiuto dal tifoso nel tentativo di allontanare da sé l’oggetto esplosivo». La Suprema corte, nel rigettare questo motivo di censura, rilevava che, tuttalpiù, «il controllo impugnatorio di legittimità avrebbe potuto consistere nella sindacabilità del discorso giustificativo con cui il giudice ha motivato la scelta di avvalersi della massima di esperienza per fondare il suo libero convincimento rispetto all’inadeguatezza della distanza tra le opposte tifoserie e di normalità del gesto compiuto dal tifoso». Peraltro, la Corte aggiungeva che una simile censura sarebbe risultata ugualmente infondata, in quanto «la Corte territoriale nel valutare la distanza percorribile da un lancio in diagonale al fine di verificare la congruità della distanza di sicurezza tra le tifoserie avversarie si è avvalsa delle risultanze delle dichiarazioni rese in sede penale dal funzionario della Questura di Torino, la cui valorizzazione esula anche dall’utilizzo delle massime di esperienza». Del medesimo avviso sembrano essere anche Cass., 30 gennaio 2024, n. 176; Cass., 24 aprile 2023, n. 10886; Cass., 21 settembre 2022, n. 27682; Cass., 3 febbraio 2021, n. 2473; Cass., 12 maggio 2021, n. 12681, ove si legge che «la massima di esperienza (…) è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante».