L’ordinanza di accoglimento ex art. 183-ter c.p.c. e l’opposizione all’esecuzione

Di Francesco Campione -

Sommario: 1. Premessa e inquadramento del problema. – 2. Presupposti (e termine) per la pronuncia dell’ordinanza. – 3. Il regime dell’ordinanza. – 4. Spunti per una soluzione affermativa dell’esperibilità dell’opposizione di merito all’esecuzione ma non senza conseguenze per il debitore. – 5. Considerazioni conclusive.

1.Tra le nuove e più interessanti disposizioni del codice di rito coniate dalla più recente riforma del processo civile (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149)[1] spicca senza dubbio l’art. 183-ter, che istituisce una nuova ordinanza definitoria del giudizio con accoglimento della domanda, prevedendo al comma 1° che «nelle controversie di competenza del tribunale aventi ad oggetto diritti disponibili il giudice, su istanza di parte, nel corso del giudizio di primo grado può pronunciare ordinanza di accoglimento della domanda quando i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate».

La norma prosegue stabilendo che: i) in caso di pluralità di domande l’ordinanza può essere pronunciata solo se tali presupposti ricorrono per tutte (comma 2°); ii) l’ordinanza è provvisoriamente esecutiva, è reclamabile ai sensi dell’articolo 669-terdecies c.p.c. e non acquista efficacia di giudicato ai sensi dell’articolo 2909 c.c., né la sua autorità può essere invocata in altri processi (comma 3°); iii) l’ordinanza, se non è reclamata o se il reclamo è respinto, definisce il giudizio e non è ulteriormente impugnabile  (comma 4°; del resto il comma 3° aggiunge che con tale provvedimento il giudice liquida le spese di lite), mentre in caso di accoglimento del reclamo il giudizio prosegue innanzi a un magistrato diverso da quello che ha emesso l’ordinanza reclamata (comma 5°)[2].

Il nuovo istituto ha da subito suscitato l’interesse della dottrina[3]. Tra le varie questioni che la sua disamina ha fatto emergere[4], centrale è il problema del rapporto tra l’ordinanza de qua e l’opposizione all’esecuzione; su questo piano, in particolare, il profilo su cui per lo più si sono soffermati i primi commentatori concerne i margini di esperibilità dell’opposizione ex art. 615 c.p.c. basata sull’inesistenza del diritto fatto valere in via esecutiva.

La serietà del problema si percepisce se si pone mente al fatto che l’ordinanza, pur non acquisendo l’autorità del giudicato e pur non essendo invocabile in altri processi, è immediatamente esecutiva e che, inoltre, se non è reclamata ai sensi dell’art. 669-terdecies o se il reclamo è respinto essa definisce il giudizio e non è ulteriormente impugnabile[5].

Sembra potersi rilevare come sia pacifico – stante il chiaro disposto dei precetti contenuti nell’art. 183-ter c.p.c. con riguardo al rapporto con il giudicato – che l’ordinanza di accoglimento di nuovo conio non contiene un accertamento del diritto idoneo a valere ai sensi dell’art. 2909 c.c.[6]; in sostanza, si tratta di un titolo esecutivo privo dell’accertamento del diritto di credito, sicché l’ordinanza non attribuisce alla parte, in modo definitivo, il bene della vita e conseguentemente il suo contenuto può essere rimesso in discussione in ogni futuro processo. In tal senso potrà essere esercitata nuovamente l’azione di cognizione diretta ad ottenere l’accertamento (anche negativo, a seconda dei casi) con efficacia di giudicato della situazione sostanziale oggetto del titolo esecutivo costituito dall’ordinanza[7].

Tuttavia, la dottrina è divisa in merito al profilo dell’ammissibilità dell’opposizione all’esecuzione – avviata dal creditore spendendo come titolo esecutivo l’ordinanza in parola[8] – fondata sull’inesistenza del diritto di credito (c.d. opposizione di merito[9]).

Invero, secondo l’orientamento nettamente prevalente, proprio perché l’ordinanza ex art. 183-ter c.p.c. è dotata soltanto di efficacia esecutiva e non anche dell’efficacia (e dunque dell’autorità) del giudicato sostanziale, il convenuto-debitore (esecutato) è ammesso a contestare il contenuto dell’ordinanza in (qualunque) sede dichiarativa, per tale intendendosi anche l’opposizione all’esecuzione[10] (la quale integra a tutti gli effetti un giudizio a cognizione piena[11]), potendo egli far leva finanche su “fatti, prove e contestazioni vuoi già introdotte nel precedente giudizio, vuoi in precedenza non fatte valere, ancorché già esistenti”[12] (e così non incontrando alcun limite nella c.d. preclusione del dedotto e del deducibile).

Secondo un indirizzo minoritario (ma autorevolmente sostenuto), invece, l’ordinanza, pur essendo inidonea al giudicato, preclude l’opposizione di merito all’esecuzione iniziata in forza dell’ordinanza stessa[13].

In particolare, si segnala che, in mancanza della preclusione processuale all’esperimento dell’opposizione all’esecuzione per ragioni di merito, non si vedrebbe l’utilità dell’istituto per il creditore, che anzi rimarrebbe per così dire vittima di un controsenso; e si aggiunge che, se è vero che l’ordinanza non fa giudicato e non acquisisce un’autorità spendibile in altri processi, è anche vero che essa definisce (sia pure in via sommaria) il giudizio di merito, impedendo così al debitore di dedurre ammissibilmente a fondamento della causa petendi dell’opposizione difese ed eccezioni già valutate come manifestamente infondate nel processo definito con la ordinanza medesima[14]. In questo ordine d’idee, si fa salva la possibilità per il debitore di far valere, in sede di opposizione all’esecuzione, fatti sopravvenuti e comunque di agire in accertamento negativo o in ripetizione dell’indebito[15].

Prima di prendere posizione sul punto, riteniamo utile sviluppare un ragionamento che muova brevemente dai tratti essenziali dell’istituto che stiamo esaminando.

2.L’ordinanza di accoglimento della domanda ex art. 183-ter c.p.c. può essere pronunciata, come recita il comma 1°, se «i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate».

La disciplina richiede, per un verso, che sia raggiunta la piena prova dei fatti costitutivi; per altro verso, che le difese e le eccezioni sollevate dal convenuto appaiano manifestamente infondate. Pertanto, mentre i fatti costitutivi sono oggetto di una verifica sfociata nella convinzione piena del giudicante, le difese e le eccezioni formulate dal convenuto sono oggetto di un giudizio delibativo o di mera verosimiglianza[16].

La cognizione si caratterizza per essere sommaria, in quanto parziale e finanche superficiale (per ciò che attiene ai fatti costituenti eccezioni)[17].

Come stabilisce sempre il comma 1° dell’art. 183-ter c.p.c., l’ordinanza può essere pronunciata «nel corso del giudizio di primo grado»[18].

L’interpretazione preferibile, sostenuta dalla prevalente dottrina, è quella secondo la quale il primo momento utile per l’emanazione del provvedimento de quo – previa istanza di parte – è la prima udienza, dopo l’espletamento degli incombenti previsti dall’art. 183 c.p.c.[19].

In questo senso, una parte degli interpreti valorizza l’obbligatorietà dell’esperimento del tentativo di conciliazione, secondo quanto disposto dalla nuova formulazione della norma poc’anzi menzionata[20]. Peraltro, a nostro avviso, alla base della riportata interpretazione può collocarsi anche la considerazione che non è possibile per il giudice la pronuncia dell’ordinanza sommaria di accoglimento prima della maturazione delle preclusioni assertive e probatorie, ossia prima del deposito delle memorie ex art. 171-ter c.p.c., i cui termini, per giunta, sulla base della disciplina riformata (e a differenza del regime previgente), decorrono a ritroso ex lege per tutte le parti – che dunque non sono più tenute a formulare apposita richiesta – dalla data della prima udienza fissata in citazione o differita dal giudice ai sensi dell’art. 171-bis c.p.c.[21] [22].

Chiaramente la pronuncia dell’ordinanza di accoglimento alla prima udienza implica che le difese articolate negli atti introduttivi e nelle memorie di trattazione siano idonee, da un lato, a provare pienamente i fatti costitutivi allegati dall’attore e, dall’altro lato, a far apparire manifestamente infondate le contestazioni e/o le eccezioni formulate dal convenuto; inoltre, a nostro modo di vedere, l’indicazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. come primo momento utile per la concessione dell’ordinanza di accoglimento è regola che vale anche in caso di contumacia (volontaria) del convenuto, la quale nel nuovo rito è dichiarata anteriormente all’udienza ai sensi dell’art. 171-bis c.p.c.[23].

D’altro canto, la mancanza di un termine specifico per la proposizione dell’istanza ex art. 183-ter c.p.c.[24] non esclude che questa possa essere formulata financo a valle dell’istruttoria, come ad esempio nei casi in cui l’attore non disponga di prove precostituite dei fatti costitutivi contestati dal convenuto ai sensi dell’art. 115 c.p.c.[25], ovvero – vien fatto di aggiungere – non contestati in quanto il convenuto non si è costituito (valendo anche in questo caso per l’attore la regola sull’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.).

3.I commi 3°, 4° e 5° dell’art. 183-ter regolano l’efficacia e il regime processuale dell’ordinanza di accoglimento della domanda. Questa, oltre che immediatamente esecutiva, è reclamabile ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c. e se non è reclamata o se è confermata in sede di reclamo definisce il giudizio e non è ulteriormente impugnabile[26] (salva la riproposizione dell’azione, anche in accertamento negativo, mancando il giudicato); se, invece, il reclamo è accolto, il giudizio prosegue dinanzi a un magistrato diverso da quello che ha emesso l’ordinanza[27].

Il richiamo tout court all’art. 669-terdecies c.p.c. pone la questione dell’ambito della cognizione del giudice del reclamo e, più in generale, della natura del gravame contemplato dall’art. 183-ter, comma 3°, c.p.c.

Sul punto, mette conto ricordare che, in sede di tutela cautelare, il reclamo è considerato un gravame pienamente devolutivo e sostitutivo, aperto anche ai nova, dunque idoneo a recepire – oltre a eventuali fatti sopravvenuti – circostanze preesistenti ma non dedotte dinanzi al primo giudice, e sottratto al regime limitativo di nuove eccezioni e ulteriori produzioni documentali e prove di cui all’art. 345, commi 2° e 3°, c.p.c. in materia di appello[28].

Non a caso in dottrina si è affermato che anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 183-ter c.p.c. il reclamo presenta i suoi caratteri classici, valendo come mezzo d’impugnazione pienamente devolutivo e sostitutivo, nell’ambito del quale la decisione del collegio può fondarsi anche su nuove prove[29].

Tuttavia, altra parte della dottrina, alla quale riteniamo di allinearci, ha messo in guardia dall’adozione dell’impostazione tradizionale anche rispetto al reclamo previsto dall’art. 183-ter c.p.c., poiché per tale via si finirebbe per legittimare vuoi un surrettizio aggiramento delle preclusioni previste per il giudizio di cognizione, del quale il subprocedimento sommario che conduce all’ordinanza costituisce un particolare sviluppo[30], vuoi comunque un’alterazione del materiale sulla cui base è stato formulato quel giudizio (di fondatezza delle deduzioni di parte attrice e di inverosimiglianza di quelle di parte convenuta) che al Collegio spetta di riesaminare, ma non di formulare in prima persona avvalendosi di eventuali nova.

A nostro avviso, pertanto, il riferimento all’art. 669-terdecies c.p.c. sta ad indicare che l’ordinanza di accoglimento è impugnabile con lo schema processuale previsto da tale norma, ma non per i motivi propri del reclamo cautelare[31]. Questo assunto è suggerito dalle seguenti considerazioni.

L’ordinanza de qua non è un provvedimento cautelare e, non contenendo un accertamento idoneo al giudicato sostanziale, risponde all’esclusiva esigenza di fornire all’attore istante, senza bisogno di attendere la sentenza, essenzialmente un titolo esecutivo, inteso anche come atto che gli consenta di ottenere in tempi accelerati l’adempimento altrui (avente ad oggetto ogni tipologia di prestazione)[32]. Infatti, la dottrina prevalente ritiene non compatibile siffatto provvedimento con domande di mero accertamento o costitutive[33].

Inoltre, come osservato nel precedente paragrafo, può darsi luogo all’ordinanza di accoglimento non prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., onde la sua pronuncia è successiva alla scansione temporale dettata, oltre che per la comparsa di costituzione e risposta, per le memorie di trattazione di cui all’art. 171-ter c.p.c., e alla definitiva maturazione – salve le sopravvenienze – delle decadenze ivi previste.

Posto ciò, ci vien fatto di pensare che il reclamo previsto dall’art. 183-ter, comma 3°, per un verso, non possa ospitare quelle attività assertive e probatorie che, pur formulabili, il convenuto aveva l’onere di esercitare in precedenza a pena di decadenza; per altro verso, debba appuntarsi sulla verifica dei presupposti di emissione dell’ordinanza sulla base essenzialmente delle difese già spese (magari meglio argomentate e salve, semmai, solo eventuali sopravvenienze, le quali, oltretutto, dovrebbero verificarsi nel breve termine di proposizione del reclamo).

In questo ordine di idee, non pare debba essere trascurato un altro aspetto e cioè che, in caso di accoglimento del reclamo, il giudizio di primo grado prosegue (innanzi a un magistrato diverso da quello che ha emesso l’ordinanza reclamata; art. 183-ter, u.c., c.p.c[34]): sicché l’eventuale legittimazione al dispiegamento di nuova attività assertiva e probatoria in sede di reclamo (al di fuori dell’area delle circostanze sopravvenute) garantirebbe al convenuto un (a nostro avviso) inaccettabile salvacondotto, consentendogli di adottare un contegno difensivo, per così dire, non perfettamente avveduto nelle battute introduttive e finanche nelle memorie, con la consapevolezza di poter rimediare – in caso di richiesta dell’ordinanza da parte dell’attore – interponendo il gravame ai sensi dell’art. 183-ter, comma 3°, c.p.c.

Ad avviso di chi scrive, a nulla varrebbe rilevare in contrario che il convenuto, mancando il giudicato, potrebbe instaurare un nuovo processo dichiarativo sulla medesima controversia, onde tanto varrebbe dargli la possibilità di tener viva la prima pendenza processuale “sfruttando” il reclamo come sede disponibile a ogni più ampia apertura ai nova. Infatti – a tacere del fatto che la prospettiva del nuovo processo non è affatto scontata[35] – il punto è che, in mancanza di una espressa previsione normativa sul punto, la deducibilità mediante il reclamo di nuove difese (non integranti sopravvenienze) determinerebbe una palese violazione delle regole processuali che scandiscono l’iter introduttivo e di trattazione della causa (la cui fisionomia pare ora modellata sull’auspicio che il giudice alla prima udienza abbia a disposizione tutti gli elementi per valutare compiutamente quale direzione imprimere al processo).

In definitiva, in sede di reclamo avverso l’ordinanza ex art. 183-ter c.p.c., il giudice «nel rispetto dell’effetto devolutivo, (ri)valuta la sussistenza delle condizioni per la concessione della tutela (compresi i profili di rito e di ammissibilità) e pronuncia ordinanza non ulteriormente impugnabile, con la quale conferma, modifica o revoca il provvedimento sommario esecutivo»[36].

4.I due paragrafi precedenti ci hanno consentito di fissare i seguenti tasselli: i) l’ordinanza di accoglimento ex art. 183-ter c.p.c. può essere pronunciata, sin dalla prima udienza, in virtù di una cognizione sommaria in merito alle difese del convenuto, all’esito di un giudizio di mera verosimiglianza che si appunta sulla loro manifesta infondatezza; ii) tale provvedimento produce da subito efficacia esecutiva, può essere reclamato ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c. al fine di far rivalutare al giudice dell’impugnazione i presupposti per la sua emissione sulla base di quanto già dedotto dalle parti nella precedente fase processuale, e – se non è reclamato o il reclamo è respinto – definisce il giudizio[37], senza tuttavia acquisire l’efficacia e l’autorità (spendibile in altri processi) del giudicato.

A questo punto, per un’analisi più compiuta, possiamo tornare sul problema specifico posto al § 1, e cioè se, una volta definito il giudizio ai sensi dell’art. 183-ter, comma 4°, c.p.c., sia ammissibile l’opposizione di merito all’esecuzione avviata in forza dell’ordinanza di accoglimento[38].

La dottrina contraria all’ammissibilità dell’opposizione in questione (se non nei limiti delle sopravvenienze) fa leva su un ragionamento che accosta la nuova ordinanza definitoria alle ordinanze provvisionali di cui agli artt. 186-bis, ter e quater c.p.c.; nello specifico, viene presa in considerazione l’ordinanza per il pagamento di somme non contestate dalle parti costituite (art. 186-bis c.p.c.)[39].

Sul punto, viene ripresa la tesi secondo quale l’ordinamento, ad alcuni provvedimenti anticipatori, può associare, oltre all’efficacia esecutiva, l’idoneità a sortire un effetto di «stabile preclusione che valga a rendere definitivamente impermeabile l’esecuzione rispetto alle contestazioni del debitore intorno alla pretesa»; attributo non riscontrabile nei comuni provvedimenti sommario-interinali, rispetto ai quali il divieto per il debitore di proporre opposizione di merito discenderebbe dalla contemporanea pendenza del processo di merito in cui sono pronunciati[40].

In questo ordine di idee, sarebbe da ravvisare una netta differenza, a parità della inidoneità al giudicato sostanziale, tra i comuni provvedimenti interinali e i provvedimenti anticipatori provvisori ad efficacia esecutiva rafforzata, siccome dotati di attitudine a sopravvivere alla estinzione del processo di merito, onde al debitore non resterebbe che la possibilità di un processo di ripetizione, introducibile però solo una volta versato quanto dovuto in forza del provvedimento anticipatorio; queste caratteristiche del provvedimento sommario non decisorio – le quali devono essere suffragate da particolari ragioni di politica legislativa, senz’altro riscontrabili nella ordinanza ex art. 186-bis c.p.c. che ha come presupposto la non contestazione, ossia un contegno che trae in causa la autoresponsabilità del debitore convenuto[41] – non sono aliene alla ordinanza di accoglimento della domanda, basata sulla manifesta infondatezza delle difese del convenuto[42].

A nostro avviso, questa impostazione non è pienamente persuasiva, posto che, per un verso, la questione dell’efficacia dell’ordinanza per il pagamento di somme non contestate a seguito dell’estinzione del processo (art. 186-bis, comma 2°) è tuttora molto dibattuta, con l’opinione prevalente che sostiene la sopravvivenza della sola efficacia esecutiva – con la conseguenza che, esperita da parte del creditore l’azione esecutiva in forza dell’ordinanza, il debitore è ammesso a proporre l’opposizione all’esecuzione per far valere l’inesistenza del diritto – e l’opinione minoritaria che, addirittura, predica l’efficacia di giudicato  (quantomeno in termini di preclusione pro iudicato)[43]; per altro verso, l’ordinanza di accoglimento di cui all’art. 183-ter c.p.c. soggiace ad un regime ad hoc, che la rende non accostabile all’ordinanza ex art. 186-bis c.p.c.[44].

Quest’ultimo provvedimento, infatti, come recita l’ultimo comma dell’art. 186-bis, è soggetto alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli articoli 177, comma 1° e 2°, e 178, comma 1°, c.p.c.; esso, dunque, non è autonomamente impugnabile, ma solo controllabile e rimovibile in corso di causa fino alla sentenza definitiva, da cui viene poi assorbito[45], salva la richiamata ipotesi dell’estinzione del giudizio.

L’ordinanza regolata dall’art. 183-ter invece, come descritto in precedenza, è impugnabile mediante il reclamo cautelare e se non è reclamata (o se il gravame è respinto) chiude il giudizio, pur non elevandosi a provvedimento decisorio-accertativo idoneo al giudicato.

Questo speciale regime, unito ai presupposti di emissione del provvedimento, dà conto dell’idea del legislatore di concepire uno strumento finalizzato a chiudere subito il processo garantendo la prospettiva dell’esecuzione forzata, ma con la consapevolezza dell’instabilità del relativo contenuto a cagione della (quanto meno parziale) sommarietà della cognizione che lo ha prodotto.

A prescindere dal rilievo che, per ammettere un solve et repete, serve una norma di legge, la complessiva conformazione data dal legislatore, che si mantiene anche a seguito dell’eventuale reclamo, depone a favore dell’ammissibilità dell’opposizione all’esecuzione – sotto il profilo dell’inesistenza del diritto di credito fatto valere[46] – fondata, oltre che sulle difese già dispiegate nel primo processo, anche su fatti (e/o prove) non dedotti ma comunque deducibili in tale sede.

Tuttavia, volendo comunque cogliere alcuni spunti offerti dalla dottrina ostile all’ammissibilità dell’opposizione di merito dell’esecuzione, pare ipotizzabile una soluzione che non si riduca al mero riconoscimento della proponibilità illimitata della tutela ex art. 615 c.p.c., ma che in qualche misura abbia una valenza persuasiva per il convenuto nel senso di una maggiore avvedutezza difensiva nel primo giudizio – onde evitare, per quanto possibile, l’integrazione dei presupposti per la pronuncia dell’ordinanza definitoria di accoglimento –, e che quindi renda la prospettiva dell’opposizione per ragioni di merito bensì percorribile, ma non senza conseguenze negative.

In tal senso, non bisogna trascurare che: i) l’ordinanza è pronunciata nel giudizio di cognizione dopo la maturazione delle preclusioni assertive e probatorie[47], previo riscontro dei fatti costitutivi e previa valutazione di manifesta infondatezza delle difese del convenuto, la quale può fondarsi, tra l’altro, sulle carenze istruttorie in ordine all’accertamento dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi[48]; ii) se viene interposto reclamo e questo è respinto tale provvedimento risulta poi ulteriormente confermato da un collegio di (altri) tre magistrati, senza che sia ulteriormente impugnabile. Tutto questo, di base, conduce a ravvisare in capo al creditore – pur consapevole che il provvedimento da lui richiesto e ottenuto non è idoneo ad accertare definitivamente il suo diritto – una sorta di condizione di buona fede in ordine, per così dire, alla tendenziale affidabilità esecutiva del titolo che intende spendere.

Posto quanto sopra, ad avviso di chi scrive è possibile rintracciare un tendenziale punto di equilibrio, nell’ottica di non vanificare del tutto le “aspirazioni esecutive” del creditore e al tempo stesso di indurre il convenuto-debitore a valutare la prospettiva dell’opposizione all’esecuzione con una certa cautela, sul versante della disciplina delle spese processuali e della responsabilità aggravata.

Preme precisare che la fattispecie presa in considerazione è quella in cui l’opposizione di merito ex art. 615 c.p.c. venga accolta in virtù di fatti e/o prove che, pur deducibili, non siano stati fatti valere nei termini nella prima sede processuale per causa imputabile al convenuto-debitore (ovvero anche di una più accurata prospettazione delle stesse difese a suo tempo ritenute manifestamente infondate).

In primo luogo, pare configurabile un’ipotesi di compensazione delle spese ai sensi dell’art. 92, comma 2°, c.p.c., alla luce della ben nota sentenza n. 77 del 2018 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione citata, nel testo modificato dalla riforma del 2014[49], «nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni»[50].

Infatti, a seguito di tale decisione, il giudice è autorizzato a compensare le spese di lite anche al di fuori dei casi tassativi contemplati dall’art. 92, comma 2°, c.p.c., potendo rilevare nell’ambito della nozione elastica di “gravi ed eccezionali ragioni” anche la condotta processuale o extraprocessuale della parte risultata poi vittoriosa[51]. Sicché ci vien fatto di pensare che la fattispecie da noi presa in esame possa ben rientrare nella casistica delle gravi ed eccezionali ragioni di compensazione, anche perché, a ragionare diversamente, ossia imponendo anche in tale situazione l’applicazione rigida del principio della soccombenza, si finirebbe con il punire eccessivamente il creditore in buona fede al cospetto di una condotta non proprio impeccabile del debitore.

La soluzione proposta pare ragionevole poiché il debitore, con il suo contegno, vanifica l’azione esecutiva – per esercitare la quale il creditore è tenuto profondere un significativo impegno, soprattutto in termini economici –, la qual cosa finisce con l’integrare anche una frustrazione della ratio acceleratoria e deflattiva dell’art. 183-ter c.p.c.[52]; onde risulterebbe eccessivo imporre al creditore soccombente anche il rimborso delle spese sostenute dal debitore per coltivare (vittoriosamente) l’opposizione.

In secondo luogo, si potrebbe sostenere la non operatività della disciplina sancita dall’art. 96, comma 2°, c.p.c., nella parte in cui prevede la condanna del creditore procedente al risarcimento dei danni ad opera del giudice che accerti l’inesistenza del diritto per il quale è stata iniziata o si è compiuta l’esecuzione forzata[53].

L’art. 96, comma 2° sottostà a una logica di riequilibrio della posizione delle parti, dato che la legge, per un verso, conferisce a una parte la facoltà di compiere determinati atti prima che vi sia certezza assoluta in merito all’esistenza del diritto; per altro verso, sanziona con la condanna risarcitoria colui che abbia esercitato la suddetta facoltà senza far uso di quelle regole di prudenza che avrebbero consentito di prevedere il probabile esito del giudizio relativo all’accertamento definitivo del diritto[54].

Ciò posto, mette conto osservare che la Cassazione, da un lato, ha rimarcato la necessità – al fine della configurabilità della responsabilità processuale aggravata ex art. 96, comma 2°, c.p.c. – che siano accertate sia l’infondatezza della pretesa, sia la violazione del canone di normale prudenza nell’agire, in relazione alla fattispecie concreta; dall’altro lato, ha aggiunto che, per l’affermazione di tale violazione, il giudice – il quale nel caso qui prospettato può essere (o, forse più correttamente, è) quello dell’opposizione all’esecuzione[55] – deve verificare, con una valutazione ex ante, la consapevolezza dell’interessato circa la presumibile infondatezza della propria pretesa[56].

Nella fattispecie presa in considerazione il creditore è bensì consapevole che l’ordinanza, che fungerà da titolo esecutivo, non contiene l’accertamento definitivo del suo diritto ma, al tempo stesso, per le ragioni sopra indicate, appare legittimato a fare affidamento sulla tendenziale tenuta del titolo esecutivo fatto valere.

In un siffatto contesto risulta dunque difficile addebitare al creditore, che abbia azionato l’ordinanza in via esecutiva, la violazione del canone della normale prudenza (impregiudicata ogni considerazione in merito all’esistenza di un danno a carico del debitore)[57].

Questa idea sembra avvalorata anche dagli spunti offerti dalla dottrina che ha approfondito capillarmente il tema della responsabilità processuale aggravata, secondo la quale nel concetto di normale prudenza ex art. 96, comma 2°, c.p.c. non rientra il dovere di mettere in esecuzione solo i provvedimenti giurisdizionali incontrovertibili, posto che anche le sentenze passate in giudicato possono venir meno a seguito di un’impugnazione straordinaria. In questo ordine di idee, la condotta del creditore, il quale anticipi l’esecuzione forzata rispetto alla soluzione definitiva della controversia, è legittimata dallo stesso codice di rito e integra fondamentalmente l’esercizio di un diritto, talché il criterio della normale prudenza può essere infranto in casi del tutto peculiari, concretanti anomalie nel contegno del creditore di norma non ravvisabili nella fattispecie qui presa in considerazione[58].

Le considerazioni sin qui esposte, mutatis mutandis, sembrano replicabili anche prendendo come punto di osservazione il diverso scenario in cui il debitore agisca – sempre vittoriosamente, in ragione di fatti e/o prove che, pur deducibili, non siano stati fatti valere nella prima sede processuale per causa a lui imputabile (o anche mercé una più accurata e prospettazione delle difese già articolate in tale sede) – in ripetizione dell’indebito dopo aver subito l’esecuzione in forza dell’ordinanza di accoglimento[59].

5.Il ragionamento esposto nel precedente paragrafo – nell’ottica di rintracciare soluzioni che, per così dire, mitighino la piena e incondizionata ammissibilità dell’opposizione di merito all’esecuzione avviata in forza dell’ordinanza di accoglimento ex art. 183-ter c.p.c. – si appunta, come detto, sull’ipotesi in cui l’opposizione venga accolta in virtù di fatti e/o prove che, pur deducibili, non siano stati fatti valere nei termini nel primo processo (per causa imputabile al convenuto-debitore), ovvero anche di una più accurata prospettazione delle stesse difese a suo tempo ritenute manifestamente infondate. Il che, in altre parole, inquadra uno scenario nel quale il debitore convenuto, nel primo processo, dispiega un’attività difensiva per certi versi colpevolmente incompleta, salvo poi rimediare in sede di opposizione di merito all’esecuzione.

In chiave conclusiva, allora, non pare superfluo valutare l’idoneità di tale riflessione e delle soluzioni proposte a inserirsi coerentemente nel contesto ricostruttivo del tema – la cui amplissima portata sistematica comporta soltanto che in questa sede se ne faccia menzione per quanto strettamente rileva – del dovere di verità e completezza delle parti nel processo[60].

Nel nostro sistema, l’elaborazione scientifica circa l’esistenza di un dovere di verità e completezza in capo alle parti nel processo civile si è appuntata soprattutto sulla portata dell’art. 88 c.p.c., il quale sancisce il dovere per le parti e i loro difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità.

In linea di massima, è possibile osservare che la dottrina prevalente tende ad adottare una concezione ristretta del dovere di lealtà e probità processuale, la quale conduce a escludere l’esistenza di un dovere di verità e completezza delle parti nel processo civile[61]. Tuttavia – oltre a registrare che non mancano opinioni favorevoli alla configurazione del dovere in questione anche nel nostro ordinamento, indirizzo che peraltro sembra emergere dagli studi dottrinali più recenti[62] – un dato che pare utile mettere in evidenza riguarda la tendenza, espressa dalla giurisprudenza, a valorizzare le dichiarazioni mendaci o le reticenze della parte ai fini della condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.[63].

Ora, a ben vedere, nell’ipotesi da noi presa in considerazione la parte che dispiega attività difensiva per certi versi incompleta è colei che esce, non già soccombente, ma vittoriosa dal (secondo) giudizio, il quale viene sfruttato proprio per ovviare al deficit difensivo del primo processo; pertanto, a rigore, siamo al di fuori del campo di operatività dell’impostazione poc’anzi menzionata.

Sennonché, ci sembra che comunque da detta impostazione, in uno con quanto già sviscerato nel precedente paragrafo, si possano ricavare elementi per assegnare a una condotta processuale quale quella qui ipotizzata un’etichetta di disvalore[64], idonea ad assumere rilevanza nell’ambito della disciplina delle spese e della responsabilità aggravata anche quando la parte (che pone in essere la condotta di che trattasi) vince la causa.

Ciò rafforza la convinzione che, in casi del genere, il creditore (di norma[65]) deve essere esonerato da responsabilità ex art. 96, comma 2° c.p.c. per difetto della violazione del canone di normale prudenza, giacché – casomai – è il contegno del debitore/convenuto, unito al dato che il primo processo ha attestato la piena prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere, ad aver indotto il creditore a esperire in buona fede l’azione esecutiva sulla base dell’ordinanza di accoglimento.

D’altro canto, sul versante della ripartizione delle spese processuali, a nostro avviso deve essere esclusa l’applicazione della seconda parte dell’art. 92, comma 1° c.p.c., secondo cui il giudice, nel pronunciare la condanna alle spese, può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88 c.p.c., essa ha causato all’altra parte.

A questa conclusione conduce non soltanto l’interpretazione che di tale disposizione ha costantemente propugnato la Cassazione, e cioè che la violazione dell’art. 88 c.p.c. – richiamato dall’art. 92 c.p.c. – è rilevante unicamente nel contesto processuale, restando estranee circostanze che, seppur riconducibili ad un comportamento commendevole della parte, si siano esaurite esclusivamente in un momento extraprocessuale (circostanze che al più possono giustificare una compensazione delle spese)[66]; ma anche, e soprattutto, la dinamica e il contesto generale che caratterizzano la fattispecie presa in esame.

Infatti, è vero che, nello scenario ipotizzato, il debitore “sfrutta” un secondo processo, ossia il giudizio di opposizione all’esecuzione, per rimediare al deficit difensivo che nel primo processo ha condotto alla pronuncia dell’ordinanza ex art. 183-ter c.p.c.; ma è anche vero che il creditore, nel momento in cui ottiene e pone in esecuzione l’ordinanza, è consapevole di avere in mano un provvedimento che non produce la preclusione del dedotto e del deducibile e, allorché soccombe nel giudizio ex art. 615 c.p.c., è pure conscio che sarebbe stato soccombente direttamente all’esito del primo processo, se ivi il convenuto fosse stato più avveduto dal punto di vista difensivo.

Questa considerazione ci porta a confermare l’impressione che sia più ragionevole ed equilibrata la prospettiva della compensazione delle spese per «altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni».

[1] Precisiamo sin da ora che nella seduta del 15 febbraio 2024 il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della giustizia, ha approvato un decreto legislativo che introduce disposizioni integrative e correttive alla riforma (c.d. correttivo alla riforma); tale provvedimento è ora all’esame delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato.

[2] Mette conto aggiungere due elementi: a) il legislatore della riforma ha introdotto nel codice anche l’art. 183-quater, il quale disciplina l’istituto per così dire inverso, ossia l’ordinanza di rigetto, la cui disamina, tuttavia, esula dal presente scritto; b) il correttivo alla riforma, con riguardo all’ordinanza di accoglimento, propone di modificare il comma 4° dell’art. 183-ter, disponendo che l’ordinanza, in mancanza di reclamo o di reiezione dello stesso, oltre a definire il giudizio e ad essere non ulteriormente impugnabile, costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale; il correttivo, inoltre, intende derogare alla generale disciplina transitoria contenuta nell’articolo 35, comma 1, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, sancendo che quanto disposto dall’183-ter (oltre che dagli artt. 183-quater e 281-sexies c.p.c.), chiaramente come modificato dal correttivo stesso, si applichi anche ai procedimenti già pendenti alla data del 28 febbraio 2023, sì da incentivare l’applicazione di questi istituti nuovi o ridefiniti.

[3] Tra i tanti contributi sul punto, segnaliamo: Capponi, Sulla nuova ordinanza di accoglimento (art. 183-ter c.p.c.), in Judicium on-line, 19 gennaio 2024; Luiso, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, 84 ss.; Carratta, Le riforme del processo civile, Torino, 2023, 55 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Aggiornamento alla riforma del processo civile del 2022 (d.lgs. n. 149 del 2022), Torino, 2023, 9 ss.; Ghirga, L’abuso del processo e alcune norme nell’ultima riforma della giustizia civile, in Riv. dir. proc., 2023, 390 ss.; Menchini, in Menchini-Merlin, Le nuove norme sul processo ordinario di primo grado davanti al tribunale, in Riv. dir. proc., 2023, 613 ss.; Califano, Le nuove ordinanze “decisorie” di cui agli articoli 183-ter e quater, c.p.c., in Il dir. proc. civ. it. e comp., 2023, 268 ss.; Stella, Interest rei publicae ut sit finis litium. Le nuove ordinanze di accoglimento e di rigetto della domanda nel corso del giudizio di primo grado (artt. 183-ter e 183-quater c.p.c.), ibidem, 241 ss.; Reali, Le ordinanze definitorie di cui agli artt. 183-ter e 183-quater c.p.c., in Il giusto proc. civ., 2023, 413 ss.; Trisorio Liuzzi, Le nuove ordinanze definitorie (art. 183 ter e 183 quater c.p.c.), in Foro it., 2022, 4, 105 ss.; Turroni, Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (I parte) – La definizione anticipata del giudizio – artt. 183-ter e 183-quater c.p.c., in Giur. it., 2023, 454 ss.; Caruso, Le nuove ordinanze provvisorie, in Il processo, 2023, 355 ss.; Mingolla, I provvedimenti provvisori, in Cecchella (a cura di), Il processo civile dopo la riforma. D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Bologna, 2023, 121 ss.; Pezzella, Riforma del processo civile: le ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto della domanda, in ilProcessocivile.com, 2022; P. D’Alessandro, Le nuove ordinanze di accoglimento e di rigetto della domanda, in Giustizia Civile.com, 7 febbraio 2023; Galanti, Le nuove ordinanze definitorie del giudizio di primo grado, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2023, 947 ss.; Guarnieri, Le ordinanze sommarie ex artt. 183-ter e 183-quater c.p.c. nella trama del giudizio a cognizione piena, in Judicium on-line, 26 maggio 2023; D’Addazio, Ordinanze di accoglimento e di rigetto, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Tiscini, Pisa, 2023, 312 ss.;  Masoni, Le nuove ordinanze definitorie introdotte dalla Riforma del processo civile, in Giustizia Civile.com, 9 gennaio 2023; Metafora, Le nuove ordinanze di manifesta fondatezza e infondatezza introdotte dalla Riforma del processo civile, in Giustizia Civile.com, 13 gennaio 2023. Nella manualistica v., tra gli altri, Luiso., Diritto processuale civile, II, 14ª ed., Milano, 2023, 71 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, 6ª ed., Torino, 2023, 258-259; Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, 9ª ed., Milano, 2023, 387 ss.

[4] Per le quali rinviamo ai contributi citati nella nota precedente. In questa sede, casomai, ci preme precisare che, in specie in relazione alla parte del comma 1° dell’art. 183-ter che richiama le controversie di competenza del tribunale aventi ad oggetto diritti disponibili (il che vale anche per il comma 1° del nuovo art. 183-quater), non intendiamo soffermarci sulla questione afferente all’ambito oggettivo di applicazione del nuovo istituto, ritenendo che le riflessioni contenute nel presente scritto – sviluppate avendo come paradigma di riferimento il rito ordinario di cognizione – possano valere in generale. Ci limitiamo a osservare che è pressoché pacifica l’idea che la nuova disciplina non opera, oltre che nei procedimenti aventi ad oggetto diritti indisponibili, nei processi dinanzi al giudice di pace e alla corte d’appello, così come nei processi nei quali il tribunale è giudice del gravame. Di contro, idee contrastanti sono state formulate riguardo alla possibilità che l’ordinanza di accoglimento sia pronunciata nei procedimenti nei quali il tribunale giudica (in primo grado) in composizione collegiale (ma l’opinione nettamente prevalente accoglie la soluzione affermativa: cfr.: Menchini, op. cit., 616; Carratta, op. cit., 56-57; Metafora, op. cit., 5; Ghirga, op. cit., 396; Califano, op. cit., 271), nel “nuovo” rito semplificato di cui agli artt. 281-decies ss. c.p.c. (anche qui la dottrina prevalente opta per la soluzione positiva: cfr. Luiso, Diritto processuale civile, cit., 72-73; Carratta, op. cit., 57; Menchini, op. cit., 616-617; Stella, op. cit., 246; Guarnieri, op. cit., § 3; contra Metafora, op. cit., 5; Califano, op. cit., 272) e nei riti speciali di cognizione, quali ad esempio il rito del lavoro e quello locatizio (in parte qua la discussione sembra essere più equilibrata: per la soluzione restrittiva cfr. Menchini, op. cit., 617; Metafora, op. loc. cit.; Califano, op. loc. cit.; per la soluzione estensiva v., invece, Carratta, op. loc. cit.; Stella, op. loc. cit.).

[5] E – in caso di approvazione della versione dell’art. 183-ter come modificata dal correttivo alla riforma – costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.

[6] V, per tutti, Menchini, op. cit., 624; Consolo, Spiegazioni, cit., 258-259; Luiso, Diritto, cit., 72.

[7] Menchini, op. loc. cit.

[8] Una volta che abbia definito il giudizio ai sensi del comma 4° dell’art. 183-ter c.p.c.

[9] Cfr., per questa definizione, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, 6ª ed., Torino, 2023, 373.

[10] Cfr. Luiso, op. ult. cit., 73; Menchini, op. cit., 624-625; Trisorio Liuzzi, op. cit., 109; Ghirga, op. cit., 407; Galanti, op. cit., 964; Guarnieri, op. cit., § 6; ammette la configurabilità di contenziosi anche in sede esecutiva Capponi, op. cit., § 2.

[11] Cfr. Consolo, Spiegazioni, I, cit., 367 ss.

[12] Così testualmente Menchini, op. cit., 625.

[13] Consolo, op. ult. cit., 259; Stella, op. cit., 244-245, 255.

[14] Stella, op. cit., 245.

[15] Consolo, op. loc. ult. cit.; Stella, op. loc. cit.; anche Carratta, op. cit., 59, ritiene ammissibile l’azione di accertamento negativo.

[16] Cfr., tra gli altri, Menchini, op. cit., 621-622; Stella, op. cit., 253; v. anche Galanti, op. cit., 953.

[17] Menchini, op. cit., 622; Carratta, op. cit., 57; v. anche Galanti, op. cit., 953.

[18] L’art. 183-quater c.p.c., con riferimento all’ordinanza di rigetto, specifica invece che il giudice può pronunciare tale ordinanza «all’esito dell’udienza di cui all’articolo 183».

[19] Cfr. Ghirga, op. cit., 403; Menchini, op. cit, 622; v. anche Califano, op. cit., 271; Luiso, op. ult. cit., 73; Caruso, op. cit., 363. Secondo altri, invece, il giudice può provvedere in limine litis (cfr. Galanti, op. cit., 952).

[20] Metafora, op. cit., 8; Ghirga, op. cit., 403; Menchini, op. cit., 622, tra gli incombenti da espletare in prima udienza richiama, oltre al tentativo di conciliazione, anche l’autorizzazione all’attore a chiamare in causa un terzo e lo svolgimento dell’interrogatorio libero delle parti.

[21] Su quest’ultimo rilievo v., tra gli altri, Pezzella, Prime riflessioni sulla nuova fase introduttiva e di trattazione del giudizio di cognizione di primo grado, in Giust. civ., 2023, 280; Merlin, in Menchini-Merlin, Le nuove norme sul processo ordinario di primo grado davanti al tribunale, in Riv. dir. proc., 2023, 596.

[22] Peraltro, non deve essere trascurata l’ipotesi che, per esigenze di contraddittorio, l’attività assertiva e probatoria sia svolta direttamente alla prima udienza: cfr. Menchini, op. cit., 607, il quale segnala l’eventualità che il confronto dialettico tra le parti non si esaurisca con le tre memorie ex art. 171-ter, ad esempio laddove con la terza memoria una parte abbia legittimamente introdotto per la prima volta un fatto o un mezzo di prova, talché l’altra parte debba poter replicare, deducendo mezzi di prova relativamente al fatto da ultimo allegato oppure controprove rispetto alla prova dedotta con la terza memoria. Ancora, occorre tener conto pure di quanto previsto dal comma 5° dell’art. 183 c.p.c., il quale contempla l’eventualità che il giudice, con l’ordinanza con cui provvede sulle richieste istruttorie, disponga d’ufficio mezzi di prova: questa eventualità comporta l’assegnazione alle parti di un termine per dedurre i mezzi di prova necessari in relazione a quelli disposti dal giudice e di un altro termine per il deposito di una memoria di replica.

[23] Non può infatti escludersi l’eventualità che il convenuto si costituisca direttamente all’udienza, ivi dispiegando, ad esempio, attività di contestazione di quanto ex adverso dedotto.

[24] Quanto al termine finale, in dottrina si è fatta strada l’idea che esso coincida con la rimessione della causa in decisione (cfr. Ghirga, op. loc. cit.; Menchini, op. loc. cit., il quale giustamente rileva che, comunque, l’ipotesi prospettata è meramente teorica, essendo a quel punto per l’attore preferibile la pronuncia della sentenza e non già di un provvedimento inidoneo al giudicato).

[25] Cfr. Stella, op. cit., 253-254, anche per una panoramica degli scenari in cui il giudice potrà legittimamente pronunciare l’ordinanza in questione senza bisogno di istruttoria.

[26] V. però la precisazione in nota 2, ribadita in nota 5.

[27] Un regime analogo – a parte l’esecutività – è previsto dall’art. 183-quater c.p.c. per l’ordinanza di rigetto della domanda.

[28] Cfr., tra gli altri, Consolo, Spiegazioni, I, cit., 2023; Luiso, Diritto processuale civile, IV, 13ª ed., Milano, 2023, 233. In giurisprudenza v., tra le altre, Trib. Milano 21 luglio 2022, in ilcaso.it; Trib. Catanzaro 27 maggio 1997, in Giust. civ., 1998, I, 2653; Trib. Torino 14 maggio 1997, in Giur. it., 1999, 538.

[29] Stella, op. cit., 262.

[30] Turroni, op. cit., § 11; Menchini, op. cit., 623.

[31] In questo senso cfr. anche Luiso, op. ult. cit., 72.

[32] Per spunti nel senso indicato, cfr. Luiso, op. ult. cit., 71; Menchini, op. cit., 623 ss.; Carratta, op. cit., 59.

[33] Menchini, op. cit., 619 ss., al quale rinviamo anche per le ulteriori considerazioni attinenti alle ipotesi in cui la statuizione condannatoria è dipendente rispetto a un capo costitutivo o di accertamento pregiudiziale; Stella, op. cit., 255-256; v. anche Califano, op. cit., 272; Turroni, op. cit., § 12. Ritiene invece che non si possa escludere l’utilizzabilità dell’ordinanza di accoglimento anche in caso di domande di accertamento o costitutive Carratta, op. cit., 58; v. anche P. D’alessandro, op. cit., 7.

[34] Il cui bias si giustifica proprio perché il primo giudice ha ritenuto fondata la domanda ed inverosimili le difese proprio sulla base di quello stesso materiale che il Collegio ha considerato improduttivo.

[35] Anche perché in tal caso il convenuto dovrebbe comunque farsi carico dei rischi e degli oneri correlati all’avvio di una causa comunque in costanza di efficacia esecutiva del titolo; questo spunto, evidentemente, si aggancia anche al tema dell’esperibilità dell’opposizione di merito all’esecuzione avviata dal creditore in forza dell’ordinanza di accoglimento, su cui v. il prossimo paragrafo.

[36] Così Menchini, op. cit., 623, il quale aggiunge che, poiché il provvedimento è non definitivo, oltre che non decisorio, non è ammesso il ricorso straordinario in cassazione; v. anche Luiso, op. ult. cit., 72, il quale afferma che il reclamo è un gravame con il quale si chiede un riesame dei presupposti di concedibilità dell’ordinanza, e Guarnieri, op. cit., § 6, secondo la quale l’impugnazione prevista dall’art. 183-ter, comma 3°, c.p.c. (così come quella di cui all’art. 183-quater, comma 2°, c.p.c.) non investe il merito della decisione, ma riguarda esclusivamente la sussistenza dei presupposti per l’emissione dell’ordinanza.

[37] Potendo peraltro valere a quel punto – in caso di approvazione della modifica proposta dal correttivo alla riforma – anche come titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.

[38] A nostro avviso, prima della definizione del processo ai sensi della norma richiamata nel testo, non è esperibile l’opposizione di merito all’esecuzione – avviata in forza dell’ordinanza di accoglimento, bensì reclamabile ma immediatamente esecutiva – poiché l’eventuale accoglimento del reclamo determinerebbe la prosecuzione del giudizio di merito che, sotto l’egida di un diverso magistrato, verrebbe questa volta diretto verso l’accertamento pieno circa l’esistenza del diritto conteso: una sorta di “litispendenza” non dissimile rispetto a quella che rende inammissibile l’opposizione di merito all’esecuzione in pendenza di giudizio d’appello o d’opposizione al decreto ingiuntivo.

[39] Cfr. Stella, op. cit., 256.

[40] Il riferimento è a Merlin, L’ordinanza di pagamento delle somme non contestate (dall’art. 423 all’art. 186-bis c.p.c.), in Riv. dir. proc., 1994, 1009 ss., spec. 1054.

[41] Cfr. ancora Merlin, op. ult. cit., 1057.

[42] Stella, op. cit. 256-257; anche Consolo, Spiegazioni, I, cit., 371 ss., sul versante della (preclusione alla) opposizione all’esecuzione per ragioni di merito, equipara l’ordinanza ex art. 183-ter alle ordinanze di cui agli artt. 186-bis ss. c.p.c. e, con particolare riguardo all’ordinanza di pagamento di somme non contestate, osserva che questo provvedimento, pur sopravvivendo all’estinzione del processo, non ha attitudine al giudicato, ma si fonda sull’assunto, giustificato dall’art. 115, comma 1°, c.p.c., che all’interno del processo possono considerarsi esistenti tutti i fatti costitutivi non contestati.

[43] Cfr., anche per ogni più ampio approfondimento e per gli opportuni riferimenti, tra gli altri, Negri, sub art. 186-bis, in Codice di procedura civile commentato, I, 6ª ed., diretto da Consolo, Milano, 2018, 278 ss.; Vincre, Le ordinanze anticipatorie di condanna, in Trattato “Omnia” di diritto processuale civile, II, a cura di Dittrich, Torino, 2019, 1671 ss.; Sassani-Tiscini, Provvedimenti anticipatori (dir. proc. civ.), in Enc. Dir., agg. V, 2001, 877-878; v. anche Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, 5ª ed., Bari, 2019, 251. La Cassazione, seppure in obiter dictum, ha affermato che l’ordinanza ex art. 186-bis in caso di estinzione del giudizio conserva la sua efficacia, alla stregua di un decreto ingiuntivo non opposto (ovvero opposto, se il giudizio di opposizione si estingue) (Cass. 15 gennaio 2015, n. 576).

[44] A tacere del rilievo generale, da più parti segnalato, circa la diversa funzionalità a cui rispondono le ordinanze anticipatorie – giustappunto l’anticipazione degli effetti della futura sentenza che sarà pronunciata all’esito del processo che prosegue – rispetto all’ordinanza definitoria di nuovo conio (cfr. Carratta, op. cit., 58; Capponi, op. cit., § 1; Trisorio Liuzzi, op. cit., 107; v. anche Luiso, Diritto processuale, cit., 71).

[45] V., tra gli altri, Negri, op. cit., 277-278; Sassani-Tiscini, op. cit., 876-877.

[46] Ovviamente possono essere fatte valere anche le contestazioni formali del titolo: cfr. Menchini, op. cit., 624. Ancora, nel caso in cui venisse approvata la modifica dell’art. 183-ter ipotizzata dal correttivo alla riforma, e dunque l’ordinanza di accoglimento definitoria divenisse titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, l’opposizione all’esecuzione, almeno a nostro avviso, potrebbe rappresentare la sede nella quale chiedere e ottenere l’ordine di cancellazione dell’ipoteca, per la cui efficacia l’art. 2884 c.c. tutt’oggi richiede il medium indispensabile di una pronuncia idonea al giudicato.

[47] Questo assunto, a nostro avviso, è tendenzialmente replicabile anche in caso di rito semplificato (ove si aderisse all’opinione maggioritaria che ammette l’operatività della disciplina ex art. 183-ter in tale modello processuale; v. retro, nota 4); vien fatto semmai di precisare che anche qui l’udienza (disciplinata dall’art. 281-duodecies) potrebbe costituire, in linea di principio, il primo momento utile per la pronuncia dell’ordinanza, salvo che la dialettica processuale conduca al dispiegamento delle attività difensive contemplate dai commi 3° e 4° dell’articolo richiamato, anch’essi peraltro oggetto di modifica ad opera del correttivo alla riforma, nell’ottica di salvaguardare – come riportato nella relazione illustrativa – l’esigenza che gli atti introduttivi siano il più completi possibile. Peraltro, in parte qua, non può non valorizzarsi il rilievo (Menchini, op. cit., 617) secondo il quale la minor probabilità che, all’interno del processo semplificato, la parte interessata formuli l’istanza dell’art. 183-ter c.p.c., è direttamente proporzionale ai tempi di fissazione dell’udienza per la pronuncia di sentenza con efficacia di giudicato ex art. 281-terdecies c.p.c.

[48] Cfr. Menchini, op. cit., 622. Invero, com’è stato osservato (Galanti, op. cit., 953), il presupposto della manifesta infondatezza delle difese del convenuto richiede una valutazione che lascia un ampio margine di apprezzamento al giudice, anche in merito alla distinzione tra infondatezza per così dire semplice e infondatezza «manifesta». Proprio su questo aspetto, in sede di esame del d.d.l. avente ad oggetto la delega legislativa da cui poi è scaturito il d.lgs. 149/2022, in dottrina si era rimarcato che la distinzione tra “difese infondate” e “difese manifestamente infondate” è troppo labile e questo potrebbe generare confusione, oppure attribuire al giudice margini di discrezionalità troppo ampi; donde l’idea che il provvedimento deve esser concesso non quando, a fronte della prova dei fatti costitutivi, le difese del convenuto sono “manifestamente infondate” ma quando il convenuto non sia riuscito a fornire la prova di almeno un fatto impeditivo, modificativo o estintivo dei fatti costitutivi già provati in giudizio dall’attore (Scarselli, Osservazioni al maxiemendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in Giustiziainsieme.it, 24 maggio 2021, § 3).

[49] D.l. 132/2014, convertito con modifiche in l. 162/2014; l’art. 92, comma 2, frutto della modifica apportata dalla citata novella, in ottica compensativa richiama esclusivamente la soccombenza reciproca, l’assoluta novità della questione trattata e il mutamento della giurisprudenza.

[50] Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77, in Nuova giur. civ., 2018, 1632 ss., con nota di Nascosi e in Riv. dir. proc., 2019, 257 ss., con nota di Di Grazia. In argomento, v. anche Trisorio Liuzzi, La Corte costituzionale e la compensazione delle spese, in Giusto proc. civ., 2018, 457 ss.; Nappi, sub art. 92, in Codice di procedura civile commentato, I, 6ª ed., diretto da Consolo, Milano, 2018, 1038 ss.; Consolo, Spiegazioni, I, cit., 685-686.

[51] Per spunti in questo senso cfr. Nascosi, La Consulta amplia lo spazio della compensazione delle spese di lite, in Nuova giur. civ., 2018, 1632 ss., § 3.

[52] Vale la pena richiamare sul punto anche la relazione illustrativa al correttivo ove, con riguardo alla previsione secondo cui l’ordinanza definitoria costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, si spiega che ciò è finalizzato a rendere lo strumento più efficace in vista della riscossione del credito e quindi a promuoverne e incrementarne l’utilizzo come più celere strumento di definizione dei procedimenti e, in ultima analisi, come mezzo utile a deflazionare il contenzioso pendente

[53] In parte qua, qualora venisse approvata la versione dell’art. 183-ter modificata dal correttivo alla riforma, occorrerebbe tener conto che quanto sancito dall’art. 96, comma 2° vale anche nel caso in cui il creditore, senza la normale prudenza, abbia iscritto ipoteca giudiziale.

[54] Cfr., tra gli altri, Nappi, op. cit., 1063; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Napoli, 2006, 313.

[55] Cfr. Cass., sez. un., 21 settembre 2021, n. 25478, in Riv. dir. proc., 2022, 735 ss., con nota di Marino, la quale ha affermato il seguente principio di diritto: «L’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2, per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale. Ricorrendo, invece, quest’ultima ipotesi, la domanda andrà posta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; e, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo».

Posto ciò, va ricordato che l’ordinanza di accoglimento ex art. 183-ter c.p.c., pur essendo reclamabile, può essere immediatamente posta in esecuzione. In questa ipotesi – in relazione alla quale, a nostro avviso, non è configurabile l’opposizione di merito all’esecuzione (v. retro, nota 38) –, ove venga interposto reclamo e questo sia accolto, l’istanza ex art. 96, comma 2°, c.p.c. va proposta nel giudizio di cognizione che prosegue; ove, invece, l’ordinanza sia posta in esecuzione solo dopo aver definito il giudizio, la domanda risarcitoria ex art. 96, comma 2° andrà proposta in sede di opposizione all’esecuzione (ma v. anche infra, nota 59).

[56] Cass. 9 novembre 2017, n. 26515.

[57] Mutatis mutandis queste considerazioni pare possano essere confermate anche laddove venga approvata la modifica dell’art. 183-ter proposta dal correttivo. Inoltre, proprio con riguardo all’ipotesi dell’iscrizione di ipoteca giudiziale, si tenga conto che, secondo la giurisprudenza più recente, laddove risulti accertata l’inesistenza del diritto per cui è stata iscritta l’ipoteca e la normale prudenza del creditore nel procedere all’iscrizione de qua, è comunque configurabile in capo al suddetto creditore la responsabilità ex art. 96 c.p.c., comma 2°, quando non ha usato la nomale diligenza nell’iscrivere ipoteca sui beni per un valore proporzionato rispetto al credito garantito, secondo i parametri individuati nella legge (artt. 2875 e 2876 c.c.), così ponendo in essere, mediante l’eccedenza del valore dei beni rispetto alla cautela, un abuso del diritto della garanzia patrimoniale in danno del debitore (Cass. 5 aprile 2016, n. 6533, in Giur. it., 2016, 2103 ss., con nota di Amendolagine). Viceversa, sulla base del precedente e consolidato orientamento, non incorre in responsabilità il creditore, il quale iscriva ipoteca su beni il cui valore complessivo ecceda di gran lunga l’importo del credito garantito; in questi casi, una responsabilità del creditore è ipotizzabile, ai sensi dell’art. 96, comma 1°, c.p.c., soltanto nel caso in cui egli resista con mala fede o colpa grave nel giudizio per la riduzione delle ipoteche proposto dal debitore (cfr., tra le altre, Cass. 7 maggio 2007, n. 10299; Cass. 24 luglio 2007, n. 16308). Proprio con precipuo riferimento al tema della riduzione delle ipoteche, pare meritevole di menzione una pronuncia con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di costituzionalità, oltre che dell’art. 2884 c.c., dell’art. 2877, comma 2° c.c. (per asserito contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui le citate disposizioni codicistiche non prevedono che il giudice possa anche disporre la riduzione con provvedimento cautelare d’urgenza), facendo tra l’altro leva sulla giurisprudenza di legittimità e di merito che ritiene applicabile l’art. 96 c.p.c. anche nei procedimenti che si concludono con ordinanza (Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 271).

[58] Scarselli, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, 356 ss., spec. 378 ove delinea le seguenti tre ipotesi: i) quando la parte sia a conoscenza che il provvedimento ottenuto si fonda su un artificio o raggiro subìto dalla controparte e/o dal giudice e costituisca un provvedimento astrattamente impugnabile con la revocazione di cui all’art. 395 n. 1 c.p.c. (malafede); ii) quando la parte, pur non essendo scientemente a conoscenza di ciò, tiene un comportamento oggettivamente tale da poter essere d’inganno o di raggiro per il giudice o la controparte (colpa grave); iii) infine quando la parte tenga i comportamenti in questione sottovalutando per imprudenza, imperizia o negligenza un fatto determinante ai fini della decisione della controversia stessa (colpa lieve).

[59] L’assunto formulato nel testo implica che il processo (di cognizione) instaurato per la ripetizione dell’indebito rappresenti una sede idonea alla proposizione dell’istanza – ancorché per sancirne il rigetto per mancanza dei relativi presupposti “sostanziali” – di cui all’art. 96, comma 2, c.p.c. Da questo punto di vista, peraltro, occorre tener conto di quanto statuito dalle Sezioni Unite (Cass. sez. un. 25478/2021, cit; v. retro, nota 55), le quali hanno affermato che la presentazione dell’istanza de qua in un giudizio autonomo è concepibile in ipotesi residuali, e cioè soltanto laddove sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda nel giudizio cognitivo in cui è stato formato il titolo esecutivo (successivamente caducato) o in subordine – laddove ad esempio il giudizio presupposto presenti delle preclusioni di carattere processuale oppure si sia già concluso – nel giudizio di opposizione all’esecuzione. Quanto a quest’ultimo, le Sezioni Unite hanno spiegato che l’ostacolo potrebbe essere costituito dal fatto che, nel momento in cui il danno si è manifestato, il processo di esecuzione potrebbe già essere stato chiuso. In questo ordine di idee, a nostro avviso non sembra da escludere, almeno in linea di principio, la configurabilità del giudizio di ripetizione dell’indebito (successivo al compimento dell’esecuzione forzata) come sede processuale astrattamente idonea a recepire l’istanza risarcitoria di cui all’art. 96, comma 2°, c.p.c.

[60] In argomento v., amplius, Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino, 2018, passim; Carratta, Dovere di verità e completezza nel processo civile. Parte prima, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 47 ss.; Id., Dovere di verità e completezza nel processo civile. Parte seconda, ibidem, 491 ss.

[61] Cfr., tra gli altri, Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 109 ss., il quale peraltro non esclude l’operatività del dovere di verità in alcune ipotesi eccezionali; Id., Le spese, cit., 257 ss.; per ogni più ampio approfondimento e ulteriori riferimenti v. Carratta, Dovere di verità e completezza nel processo civile. Parte prima, cit., 68 e ivi note; Gradi, Il divieto di menzogna e di reticenza delle parti nel processo civile, in Diritto e formazione, 2009, 793 ss.; Lupano, Responsabilità per le spese e condotta delle parti, Torino, 2013, 155 ss.

[62] Carratta, op. loc. ult. cit.; Gradi, L’obbligo di verità, cit., passim; A.D. De Santis, Buona fede processuale nel diritto italiano, in Civil Procedure Review, 2/2021, 141 ss.

[63] Cfr., tra le altre, Cass. 25 ottobre 1986, n. 6261; Trib. Roma 18 ottobre 2006, in Giur. merito, 2007, 1606 ss., con nota di Masoni. Un ambito nel quale la giurisprudenza ha sovente avuto modo di esprimersi soffermandosi sulla rilevanza del mendacio o del silenzio della parte sui fatti di causa è quello del dolo revocatorio (art. 395, n. 1, c.p.c.); in parte qua la Cassazione, pur riconoscendo la rilevanza del silenzio sotto il profilo del dovere di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., afferma che il silenzio su fatti decisivi può integrare dolo processuale revocatorio se ed in quanto costituisca elemento essenziale di una macchinazione fraudolenta, diretta a trarre in inganno la controparte e idonea, in relazione alle circostanze, a pregiudicarne la difesa nonché ad impedire al giudice l’accertamento della verità (v., tra le più recenti, Cass. 4 dicembre 2019, n. 31687).

[64] La dottrina favorevole alla predicabilità del dovere di verità e completezza nel processo civile ritiene che l’omessa presentazione di mezzi di prova non integri, di per sé, una menzogna o una reticenza della parte, onde non è possibile configurare un autonomo obbligo positivo della parte di produrre documenti o di avanzare istanze istruttorie (Gradi, L’obbligo di verità, cit., 341). Tuttavia, pare innegabile come l’ordinamento non resti indifferente a fronte delle carenze probatorie del fatto allegato, approntando “sanzioni” di varia portata: basti pensare alla regola di cui all’art. 2697 c.c. e alle conseguenze del mancato assolvimento dell’onus probandi e al divieto generale, posto dall’art. 345, comma 3° c.p.c. nell’ambito del rito ordinario di cognizione e del (nuovo) rito semplificato, di nuove deduzioni istruttorie e di nuove produzioni documentali in appello «salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile».

[65] V. quanto precisato nel precedente paragrafo e in nota 58.

[66] Cfr. Cass. 20 marzo 2007, n. 6635; Cass. 1° dicembre 2000, n. 15353; Cass. 14 novembre 1975, n. 3845. In dottrina, v. Scarselli, op. ult. cit., 139; Lupano, op. cit., 155 ss. Non sono peraltro mancate occasioni in cui la Cassazione è sembrata aperta alla possibilità di dar rilievo anche a una condotta preprocessuale della parte vittoriosa violativa dell’obbligo di lealtà e probità (cfr. Cass. 12 settembre 2003, n. 13427).