Mala tempora currunt

Di Giuliano Scarselli -

Sommario: 1. Premessa. Qualche preoccupazione per la nostra giustizia civile. 2. Prima preoccupazione: che la standardizzazione degli atti processuali possa esser finalizzata a consentire la loro lettura a delle macchine. 3. Seconda preoccupazione: che delle macchine possano porre in essere il primo vaglio dell’ammissibilità delle domande o delle eccezioni. 4. Terza preoccupazione: che le macchine, col tempo, facciano venir meno le udienze. 5. Quarta preoccupazione: che la nostra giustizia si sposti sempre più su criteri di Common law. 6. Quinta preoccupazione: che il Governo entri sempre più nella gestione della funzione giurisdizionale. 7. Che giustizia civile ci aspetta? 8. Un pensiero conclusivo tra serio e faceto.

Premessa. Qualche preoccupazione per la nostra giustizia civile.

1. Questo scritto non serve per interpretare i nodi della riforma del processo civile e non ha alcuna utilità per risolvere i problemi che dovremmo affrontare con l’entrata in vigore del d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149.
Chi sia interessato solo a ciò, non lo legga.
Esso ha ad oggetto, al contrario, l’esternazione delle mie preoccupazioni, che riguardano non solo il processo civile, bensì più propriamente, e tutto assieme, il futuro dei diritti delle persone, ed anche, se mi è consentito, il futuro del lavoro e della vita degli avvocati e dei giudici.
Forse perché sono invecchiato, tutte queste novità mi spaventano.
Esternando queste mie paure, magari qualcuno mi dice che sbaglio, che vedo problemi che non esistono, che sono, appunto, invecchiato; mi va di creare un dibattitto, se mi riesce, su questi temi.
Di seguito, dunque, sono esposti i timori che una lettura non meramente esegetica di questa riforma mi ha suscitato.
Considerate questo mio intervento soprattutto una lettura di svago, qualcosa che non ha affatto la pretesa di essere un saggio processuale.
Se qualcuno mi risponderà, ne sarò lieto.

Prima preoccupazione: che la standardizzazione degli atti processuali possa esser finalizzata a consentire la loro lettura a delle macchine

2. Una prima preoccupazione a mio avviso sorge dal nuovo art. 46 disp. att. c.p.c.
Si tratta di un tema importante: fino ad ieri vigeva il principio della libertà delle forme degli atti processuali, oggi questa libertà non sembra più sussistere.
La legge delega prevedeva la regolamentazione degli atti sulla esigenza della raccolta dati nel processo telematico, mentre il decreto legislativo di attuazione ha inserito questa nuova norma, la quale dispone, oltre a quanto era già previsto nella legge delega, che un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà altresì “i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti, e che l’atto processuale deve avere in ogni caso “un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso”.
Si tratta di una norma che sembra presentare due aspetti di criticità:
a) sotto un primo profilo la norma appare in eccesso di delega, in quanto pone una regolamentazione ministeriale degli atti processuali di tipo generale (……rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione……), e non solo dei limiti nella raccolta telematica dei dati, così come prevedeva la legge delega.
b) Sotto altro profilo la norma appare superare l’art. 110 Cost. poiché, come noto, al Ministro della Giustizia spettano solo “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, e certo non rientrano, ne’ sono mai rientrati, nel concetto di servizi relativi alla giustizia, la determinazione delle modalità di stesura degli atti processuali.
Peraltro, i limiti di cui parla l’art. 46 disp. att. c.p.c. potrebbero sì essere solo i limiti spaziali (ovvero, 4 pagine per un atto, 8 pagine per un altro), ma potrebbero anche essere limiti attinenti alla strutturazione dell’atto, ovvero limiti non solo finalizzati alla misura, bensì anche alle modalità di redazione.
Peraltro questo timore potrebbe trovare conferma nel penultimo comma della medesima norma, ove si legge che “Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto………”, ecc……..
Sembra, infatti, per la norma, che una cosa siano i criteri dell’atto, altra cosa i suoi limiti.
Il decreto del Ministero della Giustizia, così, non solo potrebbe imporre un limite di pagine ma anche un criterio con il quale, appunto, stabilire le modalità di strutturazione di quelle pagine.
E’ possibile si arrivi a tanto?
Sinceramente, mi chiedo perché no.
Sta succedendo di tutto, e non vedo perché un prossimo decreto ministeriale non potrebbe aggiungere ai limiti anche i criteri, differenziando gli uni dagli altri, così come peraltro già li differenzia il penultimo comma dell’art. 46 disp. att. c.p.c.

2.1. Nel mondo giudiziario vi sono una pluralità di sensibilità, e certo qualcuno potrebbe sostenere che non è assolutamente preoccupante che da domani le sentenze, le ordinanze, i ricorsi, le citazioni, siano redatte secondo le indicazioni e le misure stabilite dal Ministro della Giustizia.
Il tema, però, è altro, e affatto anodino.
V’è da chiedersi, infatti, perché in futuro gli atti giudiziari si dovranno necessariamente uniformare a certi schemi e essere redatti secondo modelli comuni.
E la ragione, a mio parere, è quella che si vuole quanto prima affidare la lettura di essi alle macchine, e non più agli esseri umani.
D’altronde, per quali motivi sennò gli atti giudiziari dovrebbero tutti rispettare criteri e limiti comuni?
Davvero lo si fa perché si è scoperto (solo ora) che i giudici e gli avvocati non sanno scrivere?
Si pensi: se ogni giudice e ogni avvocato redige gli atti in libertà, quegli atti non possono esser letti dalle macchine; al contrario, se tutti i giudici e tutti gli avvocati redigono gli atti secondo schemi e misure standard, quegli atti possono essere letti dalle macchine.
Pertanto, fin d’ora, tutti devono abituarsi all’idea che nessuno ha più la libertà di redigere gli atti secondo sua scienza e coscienza, poiché questa libertà infrange la possibilità per la macchina di leggere l’atto, e la possibilità della macchina di leggere l’atto, a breve, sarà rappresentata come un diritto collettivo, di eguaglianza e celerità dei giudizi, un diritto fondamentale e sociale, che tutti devono riconoscere e rispettare.
Io, di questo, non sono spaventato per me, probabilmente io riuscirò ad andare in pensione prima dell’arrivo di queste macchine, e potrò forse dire, alla fine della mia carriera, che tutti i miei atti giudiziari sono sempre stati letti e giudicati da essere umani, come lo sono stato io nell’ardore dell’esercizio del diritto alla difesa.
Io sono spaventato per le nuove generazioni, sono preoccupato per mia figlia.
Chi come me ritiene dunque che gli atti giudiziari non possono e non devono essere letti dalle macchine, prenda per favore posizione, e non aderisca a delle modernità che in cambio di una decisione più rapida chiedono all’essere umano un passo indietro nella funzione giurisdizionale.

Seconda preoccupazione: che delle macchine possano porre in essere il primo vaglio dell’ammissibilità delle domande o delle eccezioni.

3. La seconda preoccupazione, connessa a questa appena esposta, attiene alle due nuove norme con le quali, in limite litis, il giudice può oggi accogliere (art. 183 ter c.p.c.) oppure rigettare (art. 183 quater c.p.c.) la domanda fatta valere in giudizio.
Esattamente, il diritto alla difesa può subire una contrazione che consente al giudice di non portare a termine il processo accogliendo immediatamente la domanda quando “i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate” (art. 183 ter c.p.c.), e parimenti il diritto di azione può subire egualmente una contrazione che consente al giudice, all’esito dell’udienza ex art. 183 c.p.c., di rigettare la domanda “quando questa è manifestamente infondata” (art. 183 quater c.p.c.).
Queste nuove disposizioni, per come sono congegnate, istituiscono una sorta di nuova ammissibilità della domanda e della difesa, che è quella della loro non manifesta infondatezza, cosicché, presentata al giudice una domanda oppure una difesa, il giudice non deve stabilire se queste sono o non sono fondate, ma deve preliminarmente valutare che queste non siano, appunto, manifestamente infondate, e solo se non hanno questa caratteristica esse saranno ammesse al giudizio di merito.
Ma, deve rilevarsi, la manifesta infondatezza è concetto giuridico vago, e quindi le norme, nella sostanza, rimettono alla discrezionalità del giudice il proseguimento o meno del processo.
Dunque gli avvocati stiano bene attenti nella composizione degli atti introduttivi del giudizio, poiché imminente incombe su di loro sempre il rischio che tutto possa definirsi senza una reale cognizione piena dell’oggetto del contendere.

3.1. Nei tanti studi sulla cognizione sommaria fatti dalla processualistica italiana (e, primi fra tutti, metterei proprio gli studi di oltre cinquanta anni del mio maestro Andrea Proto Pisani), a nessuno era mai venuto in mente che un provvedimento sommario potesse essere rimesso all’intera discrezionalità del giudice, e che la decisione così presa, ancorché senza attitudine al giudicato, potesse chiudere il processo e impedire, in quel processo, la continuazione dell’accertamento giurisdizionale con cognizione piena.
Oggi questo è invece possibile, ed è esattamente quello che prevedono gli artt. 183 ter e quater c.p.c.
Ma, di nuovo, non è questo il tema da rilevare; di nuovo qualcuno potrebbe considerare tutto ciò per niente preoccupante e interamente conforme ai nuovi tempi.
La preoccupazione è invece quella che, a pensarci, questo vaglio preliminare delle domande e delle eccezioni, secondo la loro (o meno) manifesta in/fondatezza, potrebbe essere affidato a delle macchine.
Gli atti introduttivi del giudizio dovranno così essere composti secondo modelli standard per consentire la lettura degli stessi alle macchine, e saranno poi le macchine a compiere questo vaglio preliminare.
E solo se la macchina darà disco verde a questo primo vaglio il processo potrà continuare ed esser preso in esame da un giudice persona.
Altrimenti no, il processo si fermerà lì.
E’ una prospettiva inquietante, e lo è, sia consentito, non solo per gli avvocati, bensì soprattutto per i giudici.

Terza preoccupazione: che le macchine, col tempo, facciano venir meno le udienze.

4. Poi, par evidente, la realizzazione di quella che può esser definita la smaterializzazione della giustizia, o, se vogliamo, la sua disumanizzazione, non può che passare (anche) attraverso una intera rivisitazione del concetto di udienza.
L’idea di udienza, infatti, ovvero l’idea che la giustizia sia resa con l’incontro personale e diretto tra le parti, i difensori e il giudice, è idea che contrasta con questo nuovo modo di intendere il processo, e quindi, tendenzialmente, in una giustizia predittiva e meccanicizzata, le udienze non possono avere un ruolo centrale, ed anzi meglio se spariscono.
Che fare?
Alla transizione tra il vecchio e il nuovo modo di intendere il processo provvedono ora gli artt. 127, 3° comma c.p.c, 127 bis c.p.c. e 127 ter c.p.c.
Per l’artt. 127, 3° comma c.p.c.: “il giudice può disporre che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza o sia sostituita dal deposito di note scritte” (nuovo art. 127, 3° comma c.p.c.); l’art. 127 bis c.p.c. disciplina infine l’udienza mediante collegamenti audiovisivi e l’art. 127 ter c.p.c. il deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza.
Si tratta di disposizioni in parte analoghe, ed esattamente esse statuiscono che il giudice possa, con decreto, nelle udienze che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice, disporre, a sua discrezione, (“può essere disposto dal giudice”) ora l’udienza mediante collegamenti audiovisivi, ora il deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza.
Da segnalare, inoltre, che. – si tratta di un decreto privo di motivazione, visto che i decreti sono motivati solo se la legge dispone che debbano esserlo (art. 135, 4° comma c.p.c.); – si tratta di determinazione completamente discrezionale, poiché la legge non prevede in quali casi l’udienza possa essere sostituita mediante collegamenti audiovisivi o mediante il deposito di note scritte; – e si tratta infine di decisioni sostanzialmente non impugnabili, poiché in caso di opposizione il giudice ha di nuovo piena libertà di concedere o meno l’udienza tradizionalmente intesa.
Ora, io credo sia certo preoccupante che il giudice, con decreti non impugnabili e non motivati, abbia assoluta libertà di scegliere le modalità di svolgimento delle udienze, visto che le modalità di svolgimento dell’udienza attengono molto più all’esercizio del diritto di azione e di difesa che non a quello decisionale; tuttavia, di nuovo, il tema non è questo, il tema è che questa novità nient’altro può essere se non un ponte verso la nuova procedura civile che ci attende.
Una nuova procedura dove le udienze non esisteranno praticamente più, visto che l’udienza costituisce il momento dell’incontro tra gli esseri umani, mentre la nuova giustizia vuole prescindere dall’essere umano, e ritiene infatti che gli esseri umani, meno si incontrano, meglio è.
A breve, probabilmente, i processi si faranno senza udienze; esse d’altronde sono (quasi) già sparite in cassazione e già fortemente diminuite anche dinanzi ai giudici di merito.
La sparizione delle udienze sarà per molti un sollievo, una perdita di tempo in meno, un contatto antipatico che i nuovi mezzi informatici riescono fortunatamente ad evitare.

Quarta preoccupazione: che la nostra giustizia si sposti sempre più su criteri di Common law.

5. Quarta preoccupazione: da un po’ di tempo a questa parte io ho la sensazione che il nostro sistema di tutela dei diritti si stia sempre più allontanando dalla nostra tradizione di civil law per abbracciare quello di common law (in una certa misura, e ovviamente senza perfetta aderenza).
Io, con la mia imperitura voglia di scherzare, mettendo insieme l’inglese con il dialetto romanesco, ho chiamato questa tendenza la common law de noantri; però non so quanto questo fenomeno debba farci ridere piuttosto che preoccupare.
Esso si sta sviluppando in tre diversi modi: – nel considerare sempre più i precedenti della Corte di cassazione come vincolanti; – nel consentire alla giurisprudenza di rendersi fonte di diritto con l’applicazione diretta ai casi concreti di principi generali; – nella decadenza del ruolo della dottrina, della classe forense, e soprattutto dell’analisi sistematica del diritto scritto.

5.1. Precisamente, quanto all’idea di vincolare i giudici ai precedenti della Cassazione, si tratta di una marcia iniziata da tempo.
a) Vi sono state, già negli anni 2006, 2009 e 2012, delle prime riforme processuali volte a rafforzare l’onere di vincolatività del precedente; tra queste ricordo l’art. 374, 3° comma c.p.c., l’art. 118 disp. att. c.p.c., e l’art. 348 ter c.p.c.
Oggi soprattutto noi abbiamo il nuovo strumento processuale di cui all’art. 363 bis c.p.c., con il quale, come sappiamo, il giudice del merito può rimettere in ogni tempo alla Corte di cassazione la risoluzione di un dubbio giuridico, se la questione è nuova, di particolare importanza e suscettibile di porsi in numerose future controversie; ed è evidente che nello spirito della riforma, una volta che la cassazione si sia pronunciata sulla questione di diritto a lei rimessa in via anticipata, tutti i giudici, e non solo il remittente, sono tenuti, in un certo modo e in una certa misura, ad adeguarsi a quel dettato, atteso che la riforma si giustifica con una esigenza di uniformità delle decisioni anche nel rispetto dell’art. 3 Cost., e non vi sarebbe alcuna uniformità, e quindi alcuna giustificazione della riforma, se non si pretendesse che tutti i giudici, e non soltanto il remittente, si adeguino poi al parere preventivo manifestato dalla cassazione.
b) Va parimenti in questo contesto ricordata la legge delega 17 giugno 2022 n. 71 di riforma dell’ordinamento giudiziario, la quale, nell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1, dispone: “Prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato (circa) la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio”.
Sostanzialmente, si chiede ai giudici di stare attenti a non emanare provvedimenti che possano essere riformati e/o cassati, poiché a tutti loro, ai fini della valutazione della professionalità, è richiesto appunto di non subire oltre una certa misura, o non subire proprio, riforme dei provvedimenti assunti.
Si tratta di un meccanismo che sostanzialmente mira ad un rafforzamento del vincolo del precedente giurisprudenziale, in un cammino verso un giudice burocrate e gerarchizzato.
c) Ma, soprattutto, si inserisce in questo contesto il tema della c.d. giustizia predittiva e/o realizzata con l’aiuto di algoritmi.
Il materiale in base al quale la previsione o l’esito della lite è dato attiene infatti ai precedenti giurisprudenziali e nient’altro; e quindi par evidente che anche la giustizia predittiva costituisce strumento di rafforzamento del vincolo del precedente giurisprudenziale.

5.2. Inoltre, la tendenza della nostra giurisprudenza a rendersi (sempre più) fonte di diritto, confermata da tante e numerose pronunce della cassazione avute in questi anni, è stata altresì legittimata dalla stessa Corte Costituzionale, che con due decisioni gemelle ha statuito che: “deve tenersi conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò per il precetto dell’articolo 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato disposto con il canone della buona fede” (Corte Cost. 24 ottobre 2013 n. 248 e Corte Cost. 2 aprile 2014 n.77).

5.3. Infine, che vi sia attualmente una crisi del ruolo della dottrina, dell’avvocatura e dello studio sistematico del diritto scritto, credo sia dato che non necessiti di particolari dimostrazioni, e possa considerarsi “fatto notorio”.
Peraltro, oggi un avvocato non può che muoversi nell’ambito degli orientamenti della Corte di Cassazione, perché ogni esternazione ad un cliente di una sua opinione che non sia basata su precisi e concordi precedenti giurisprudenziali, potrebbe addirittura costituire per lui illecito disciplinare, se non fonte di responsabilità civile risarcitoria (v., infatti, tra le molte, Cass. 17 novembre 2021 n. 34993, e Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226 in punto di lite temeraria).

5.4. E’ preoccupante questa marcia verso la common law?
Poco, se è solo una tendenza casuale.
Molto, se è qualcosa che qualcuno vuole.
Credo, infatti, che, in una logica di globalizzazione, i paesi di civil law debbano abbandonare le loro tradizioni in favore di quelle della common law, poiché quest’ultimo sistema meglio si presta ad una semplificazione dei processi, che è l’obiettivo oggi primario del potere economico.
Però, è evidente, che questa globalizzazione, portata avanti in nome della immediatezza, ha per conseguenza, per i paesi di civil law, la banalizzazione del lavoro dei giudici e avvocati.
Entrambi, con una attività che solo lato sensu potrà continuare a dirsi intellettuale, dovranno solo replicare l’esistente, e ogni diversa eccezione, ogni dissertazione, ogni analisi logico/giuridica, ogni dissenso, saranno considerati perdite di tempo, se non, per gli avvocati, addirittura, alle volte, illeciti disciplinari.
Inoltre, questo abbandono delle nostre tradizioni di civil law può minare il concetto stesso di “diritto soggettivo”.
Ed infatti, direi, il concetto di diritto soggettivo è strettamente legato ad un principio di legalità formale, e la crisi della legalità formale non può non essere anche la crisi dei diritti soggettivi.
Ovviamente, questo percorso si realizzerà lentamente, a piccoli passi, di riforma in riforma; ma l’approdo sembra segnato, ed anche ineluttabile.

Quinta preoccupazione: che il Governo entri sempre più nella gestione della funzione giurisdizionale.

6. Una quinta, e ultima, preoccupazione, è probabilmente solo una mia paura, destituita di ogni fondamento; e spero sia così, poiché altrimenti essa sarebbe in verità la preoccupazione più grande tra quelle che si debbano avere.
Esattamente, ho notato, nello studio delle ultime riforme ruotanti intorno alla giustizia civile, che sempre più il Governo, soprattutto con il Ministero della Giustizia, si è ricavato degli spazi nell’esercizio della funzione giurisdizionale che prima non aveva.
Mi sia consentito ricordarli.

6.1. Prenderei le mosse dalla legge 12 aprile 2019 n. 31, che nel disciplinare la nuova class action, ha introdotto nel codice di procedura civile gli artt. 840 bis e ss.
Ricordo, tra le molte cose, che l’azione c.d. di classe può essere proposta “esclusivamente dalle organizzazioni e dalle associazioni iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia” (art. 840 bis c.p.c.), e le parti, per intervenire nel giudizio, devono predisporre “un modulo conforme al modello approvato con decreto del Ministero della giustizia, che stabilisce anche le istruzioni per la sua compilazione”; con quel modulo le parti dichiarano altresì: “Consapevole della responsabilità penale prevista dalle disposizioni in materia di dichiarazioni sostitutive, attesto che i dati e i fatti esposti nella domanda e nei documenti prodotti sono veritieri” (art. 840 septies c.p.c.).
Oltre ciò, per ben sette volte, la legge fa riferimento all’area pubblica del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia, dove tutto viene pubblicato, e dove da detta pubblicazione assai spesso decorrono i termini processuali: lo fa la prima volta con l’art. 840 ter c.p.c., la seconda con l’art. 840 quater c.p.c., la terza con l’art. 840 quinquies c.p.c., la quarta con l’art. 840 sexies c.p.c., la quinta con l’art. 840 septies c.p.c., la sesta con l’art. 840 decies c.p.c., la settima con l’art. 840 quaterdecies c.p.c.

6.2. Un ruolo particolare ha poi attribuito al Ministero dell’economia e della finanza la recente riforma della giustizia tributaria di cui alla legge 31 agosto 2022 n. 130.
In primo luogo la riforma ha inserito un nuovo comma 2 bis all’art. 24, l. 545/1992, che oggi prevede un Ufficio ispettivo presso il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria.
Il comma 2 bis dell’art. 24 l. 545/1992 espressamente prevede che: “al fine di garantire l’esercizio efficiente delle attribuzioni di cui al comma 2, presso il Consiglio di presidenza è istituito, con carattere di autonomia e indipendenza, l’Ufficio ispettivo, a cui sono assegnati sei magistrati o giudici tributari, tra o quali è nominato un direttore. L’ufficio ispettivo può svolgere, col supporto della direzione della giustizia tributaria del dipartimento delle finanze, attività presso le Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di rispettiva competenza”.
Inoltre, l’art. 1, l. 130/2022, nei punti 10 e 11, e al fine di “incrementare il livello di efficienza degli uffici e delle strutture centrali e territoriali della giustizia tributaria”, ha creato due nuovi uffici dirigenziali presso il MEF, nonché diciotto posizioni dirigenziali da destinare alla direzione di uno o più uffici di segreteria, ed inoltre il MEF ha facoltà di assumere con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in aggiunta alle vigenti facoltà di assunzione: “per l’anno 2022, 20 unità di personale dirigenziale e 50 unità di personale non dirigenziale…..per l’anno 2023, 75 unità di personale non dirigenziale”, personale in gran parte da destinare “ad uno o più uffici di segreteria di Corti di giustizia tributaria”.
Infine, la banca dati di giurisprudenza tributaria “è gestita dal Ministero dell’economia e delle finanze” (art. 24 bis,4° comma, d. lgs. 545/1992) e corre altresì l’idea della realizzazione di un nuovo software in grado di determinare l’esito delle liti. Il progetto sarebbe portato avanti proprio dal MEF, e ciò al fine di consentire ad ogni contribuente di conoscere, sulla base dei precedenti, il probabile esisto di ogni determinato tipo di causa tributaria.

6.3. Qualcosa di simile si trova inoltre nella legge 21 ottobre 2021 n. 147 che ha convertito e modificato il decreto legge 24 agosto 2021 n. 118 in tema di misure in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale, poi confluita nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Ai sensi dell’art. 2: “L’imprenditore commerciale e agricolo che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario può chiedere la nomina di un esperto” e, per far ciò, l’imprenditore deve accedere ad una piattaforma telematica nazionale posta sotto la vigilanza dal Ministero della Giustizia di concerto con il Ministero dello sviluppo economico.
Recita a tal fine l’art. 3 che: “E’ istituita una piattaforma telematica nazionale accessibile agli imprenditori iscritti nel registro delle imprese attraverso il sito internet”.
L’iscrizione all’albo degli esperti è subordinata: “al possesso della specifica formazione prevista con il decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia di cui al comma 2” (art. 3, comma 3 e 4).
La domanda per la nomina dell’esperto si fa riempiendo un modulo predisposto dal Ministero della Giustizia (art. 5), allegando la documentazione relativa a tutta la vita dell’impresa, e inserita nella piattaforma gestita sempre dal Ministero della Giustizia; ogni dettaglio è poi regolato dal decreto 28 settembre 2021 della Direzione generale del Ministero della Giustizia: lì vi si trova il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento, la lista di controllo (check list) per la redazione del piano di risanamento e per la analisi della sua coerenza, il protocollo di conduzione della composizione negoziata.
Nel caso di richiesta di misure cautelari e/o protettive, l’istanza deve inoltre essere pubblicata nel registro delle imprese insieme all’accettazione dell’esperto, e la sua contestuale presentazione al Tribunale competente va inserita nella piattaforma telematica; inoltre l’imprenditore deve chiedere la pubblicazione nel registro delle imprese del numero di ruolo generale del procedimento instaurato presso il Tribunale avente ad oggetto il ricorso per misura cautelare e/o protettiva (art. 7, 1° comma), e, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, deve depositare una serie lunghissima di documenti, ovvero tutti quelli indicati nell’art. 7, nonché una dichiarazione che l’impresa può essere risanata con valore di autocertificazione attestante.

6.4. Soprattutto, di nuovo, in base all’art. 46 disp. att. c.p.c., un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà “i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti”, e l’atto processuale, per detto decreto ministeriale, dovrà avere in ogni caso “un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso”.

6.5. Che dire di tutto questo?
Certo, sono piccole cose, molte certamente prive di quella malizia che io qui invece lascio intendere vi sia.
Semplicemente, quanto meno nella legge sulla class action e sulla crisi d’impresa, v’era la necessità di rendere di pubblico dominio certe vicende giudiziarie, e così si è pensato di pubblicizzarle con il deposito presso portali ministeriali; nient’altro.
Nessuno, con ciò, intendeva minimamente mettere in discussione Charles Louis de Montesquieu.
Però, si capisce, una giustizia che si immagina predittiva, se non addirittura presto resa da macchine, potrebbe trovare eccessive tutte quelle disamine del filosofo francese, e fuorvianti le idee dell’illuminismo rispetto alle nuove esigenze di celerità ed efficienza; e probabilmente, se si dovesse chiedere già oggi a molti Stati non europei cosa pensano di Montesquieu, questi risponderebbero quello che disse Benito Mussolini in un discorso tenuto ai magistrati il 30 ottobre 1939: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Nella mia concezione il potere è unitario: non v’è divisione di poteri, c’è divisione di funzioni”.
In Italia, attualmente, non è così; in Italia si ritiene ancora che una cosa sia la Giustizia, altra cosa il Ministro della Giustizia.
Speriamo che questa distinzione riesca a mantenersi.

Che giustizia civile ci aspetta?

7. Nei giorni tristi della pandemia, preoccupato dalla chiusura dei tribunali e dall’impossibilità di potervi accedere, io fantasticai sul futuro della nostra giustizia.
Se mi consentite di giocare, con qualche modificazione, ripropongo quei timori.
Si possono infatti individuare più fasi della smaterializzazione della giustizia.
a) Sotto il profilo normativo si potrebbe, in primo luogo, abolire tutte le norme sulla competenza per territorio.
Si potrebbe dire che se il processo è telematico, e tutto avviene e si realizza a distanza, senza più riferimento ad un luogo spaziale, non ha più senso parlare di Tribunale di Roma, piuttosto che di Firenze o Milano.
I processi, infatti, non si svolgeranno più ne’ a Firenze ne’ a Roma o Milano, bensì sine loco, fuori da ogni dimensione spaziale.
Ci sarà, allora, un sistema telematico centralizzato gestito dal Ministero della Giustizia, e spariranno così i primi 50 articoli del codice di procedura civile, ormai residui di un passato del quale nessuno deve avere nostalgia.
Chi voglia giustizia inserirà una domanda in questo sistema; il sistema nominerà un giudice con il quale gli avvocati si relazioneranno in via cartolare e/o da remoto; alla fine questo giudice, aiutato da macchine e algoritmi, emetterà la sentenza.
Molti plauderanno l’avere finalmente un processo che mira all’essenziale, che evita gli spostamenti, che unisce il territorio nazionale e lo uniforma.
Con la soppressione di tutte le norme sulla competenza, una serie di altre disposizioni del codice di procedura civile saranno poi abolite, e tutta l’idea che il processo debba essere predeterminato da un codice sarà messa in discussione dalla dottrina, che reclamerà al suo posto snellezza, sinteticità, flessibilità, modernizzazione.
Sul piano fattuale, invece, la smaterializzazione della giustizia comporterà il venir meno dei palazzi di giustizia.
I palazzi di giustizia non costituiranno più luogo di incontro, morirà l’idea del Forum di romana memoria.
Inevitabilmente, i palazzi di giustizia si svuoteranno e gli spazi a comune, dalle sale riunioni ai caffè, dai punti di rivendita di libri e giornali alle biblioteche, verranno prima ridimensionati e poi chiusi.
Gli immobili attuali saranno abbandonati perché sovrabbondanti e troppo vasti, e se ne cercheranno di più piccoli, e poi di più piccoli ancora; alla fine i palazzi di giustizia non saranno proprio più necessari, e verranno sostituiti con un numero verde: qualcuno chiamerà da Napoli, un altro risponderà da Bologna.
Poi nessuno chiamerà più, e tutto avverrà per PEC, o con qualche altra nuova diavoleria meccanica.
b) Indebolito il codice di rito, si riterranno poi addirittura dannose le regole processuali che predetermino il processo a prescindere dalle sue esigenze concrete, e, sempre in nome della flessibilità, si inizierà a sostenere che devono essere dei meccanismi automatici e predeterminati a stabilire lo svolgimento del giudizio, caso per caso.
Questo passaggio segnerà la fine del diritto processuale.
Il giudice, a remoto, indicherà ai difensori le regole processuali predeterminate dalle macchine, e gli avvocati avranno pochissimi spazi per litigare con la macchina, poiché sarà ovviamente difficile esercitare il contraddittorio con essa.
A questo punto, par evidente, il diritto processuale non sarà più materia obbligatoria di insegnamento nei dipartimenti di giurisprudenza; la sua fine sarà salutata come l’abbandono dei formalismi e dei cavilli dei legulei.
Sempre in questa fase si perfezioneranno i sistemi telematici di raccolta dei dati e dei precedenti giurisprudenziali e si renderà obbligatoria una tendenza già in atto secondo la quale il giudice deve decidere in base ai precedenti.
c) Infine sì dirà che un processo così strutturato non ha più bisogno ne’ di avvocati ne’ di giudici.
Per quanto riguarderà gli avvocati si dirà che la loro funzione è finita, quanto meno nel senso che non è più necessario, ed anzi è in contrasto con gli obiettivi di questa nuova giustizia, quella di una figura professionale che all’affermazione di una regola ponga una eccezione, che all’esposizione di una tesi elabori un’antitesi, esaltando un diritto al contraddittorio che altro non è se non l’esercizio sterile di uno sproloquio cavilloso e deviante.
Ed infine si dirà che il sempre maggior accesso ai dati normativi e giurisprudenziali del quale tutti i cittadini possano godere a mezzo internet, rende superflua la presenza di un difensore nel processo, poiché nessuno avrà più bisogno di essere aiutato (ad vocatus) per far valer un diritto in un sistema così ben organizzato.
Gli avvocati protesteranno, e allora la loro morte sarà organizzata in due tempi: in un primo momento si sopprimerà l’obbligatorietà della difesa tecnica in primo grado, mantenendola però nelle impugnazioni, a fronte delle quali si continuerà a ritenere necessaria la presenza del difensore professionale; al tempo stesso, però, si inizierà a sostenere l’inutilità di molti mezzi di impugnazione, asserendo che una giustizia predittiva fatta di precedenti, e con poche libertà per il giudice, difficilmente sbaglia, dal che l’inutilità dei gravami, che ai più appariranno come strumenti costosi, lunghi, ed espressivi di una società ormai superata.
La figura dell’avvocato sarà così definitivamente soppressa, di pari passo con la riduzione, e poi cancellazione, dei mezzi di impugnazione.
Ma nemmeno i giudici saranno risparmiati.
Venuta meno l’idea dell’ufficio giudiziario, soppresse le norme sulla competenza, e smaterializzato il processo, ai giudici non sarà più concessa alcuna carriera: non ci saranno più i presidenti degli uffici, i presidenti di sezione, tutto andrà in automatico con il sistema di giustizia organizzato dal Ministero.
Ai giudici rimarrà la carriera per i gradi ma poi, come detto, soppresse gran parte delle impugnazioni, in un progetto di giustizia che mira a fare a meno dei controlli, anche quel tipo di carriera sarà loro impedita.
Inoltre, tutte le controversie più semplici saranno direttamente decise dalle macchine, mentre le altre passeranno al vaglio del giudice, ma solo dopo che su di esse si sia espresso, in un aspetto o più, una macchina.
I giudici diminuiranno per questa ragione nel numero, di pari passo anche con la diminuzione della mole del contenzioso; e probabilmente sarà loro ridotto anche lo stipendio, in proporzione della perdita della loro funzione sociale.
Questa ultima fase, evidentemente, porterà alla fine del concetto di “diritto soggettivo”, poiché in una situazione di questo genere, nessun cittadino potrà infatti ritenere di avere dei diritti, e tutto sarà semplicemente ricondotto a meri interessi tutelati dallo Stato attraverso algoritmi.
Molti saluteranno con soddisfazione questo epilogo; diranno che la morte dei diritti soggettivi è la morte degli egoismi e delle individualità.

Un pensiero conclusivo tra serio e faceto.

8. Alla fine, tra il serio e il faceto, non si sa nemmeno con chi prendersela.
Non con le commissioni di esperti che lavorano a queste riforme, poiché i loro elaborati, molto spesso, vengono mutati e disattesi dagli uffici legislativi dei vari Ministeri, primo fra tutti quello del Ministero della Giustizia.
Non con gli uffici ministeriali, perché il potere legislativo non spetta a loro.
Non con il Parlamento, poiché spessissimo il Parlamento si trova ad approvare leggi sulla fiducia posta dal Governo, e quasi sempre emana leggi che dipendono dalla Comunità europea. Direi, anzi, che, esclusa forse solo la legge di bilancio, tutte le altre leggi sono ormai richieste dalla UE, sono approvate in attuazione di legislazione UE, sono disposte in conformità a quanto stabilito nel PNRR, ecc…. cosicché, praticamente, al Parlamento italiano non si possono muovere rimproveri.
E nemmeno possiamo prendercela con la Comunità europea, poiché anch’essa non si sa come funziona; io, sinceramente, ho difficoltà a capire i suoi meccanismi, da studente nemmeno feci l’esame di Diritto dell’unione europea.
Però, da adolescente, negli anni ’70, rimasi assai affascinato dal film Amici miei: forse perché interamente girato a Firenze, oppure per quel sentimento di tristezza e nostalgia che caratterizzava i protagonisti, o ancora per la loro volontà di combattere le banalità, fino a ridere, nella scena finale del film, al funerale del loro amico.
Molti ricorderanno Righi Niccolò, il pensionato al quale gli Amici miei fanno credere di essere una banda che spaccia la droga.
Righi Niccolò, per arrotondare la pensione, vuole unirsi a loro, e allora loro lo portano dal Capo, ovvero dal prof. Sassaroli, per sapere se è possibile.
All’incontro, Righi Niccolò incappucciato, il Capo dice: “proviamolo”, e l’auto riparte.
Il giornalista Perozzi, rivolgendosi a Righi Niccolò, afferma: “Lui non è che un capo zona, chi c’è sopra di lui non si sa”; e l’architetto Melandri: “L’organizzazione è una piramide di cui nessuno conosce il vertice”.
Ecco, non so, da un po’ di tempo, io mi sento dentro quella scena.