Mediazione e spese processuali: gli orientamenti della giurisprudenza

Di Anita Miorelli -

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le spese in materia di mediazione civile e commerciale. – 3. I diversi orientamenti giurisprudenziali. – 4. Le spese di mediazione assimilate alle spese del processo (Cass. n. 32306 del 21/11/2023). – 5. Patrocinio a spese dello Stato in mediazione. – 6. Considerazioni conclusive.

1.Introduzione

Il ricorso a qualsivoglia procedura di risoluzione delle controversie comporta dei costi, al pari di qualsiasi altra attività umana ([1]). In concreto essi possono ripartirsi quantomeno in due categorie: le spese dovute a titolo di imposte, tasse e bolli per accedere al sistema di giustizia da un lato; i costi per l’assistenza e la difesa tecnica (c.d. spese legali) dall’altro.

La disciplina dedicata alla regolamentazione e ripartizione delle spese processuali assume una spiccata rilevanza pratica essendo destinata ad influenzare, di volta in volta, l’avvio, l’andamento e la definizione della controversia nel caso concreto.

Basti pensare che, dal punto di vista di coloro che accedono alla giustizia, la prevedibilità dei costi consente di stimare i gravami economici e i benefici fiscali relativi a ciascun’attività (giudiziale o stragiudiziale che sia), permettendo alle parti di individuare la modalità di risoluzione del conflitto più adeguata alle proprie esigenze, anche economiche ([2]).

Inoltre, in relazione al ruolo dei professionisti che intervengono nella procedura – quali avvocati, intermediari e ausiliari (periti, ufficiali giudiziari, interpreti, mediatori etc.) – la legge regola la modalità di remunerazione e l’entità del compenso dovuto loro per l’attività prestata e ciò influenza la qualità del servizio offerto.

A tale dimensione particolare, che guarda cioè al caso concreto singolarmente osservato, si aggiunga, in una prospettiva pubblicistica, il rilievo per il quale è sullo Stato che grava l’onere di garantire l’equilibrio tra il rendere la giustizia sufficientemente accessibile ai cittadini e alle imprese e, al contempo, assicurare che il costo pubblico della somministrazione del sistema di giustizia civile sia coperto. Da qui la necessità di attuare un’attenta e calibrata ripartizione dei costi di finanziamento del processo, nonché delle sue alternative (ADR – Alternative Dispute Resolution), al fine di garantire, appunto, il funzionamento dei mezzi di tutela delle situazioni giuridiche sostanziali e un adeguato accesso alla giustizia, ovvero di assicurare l’esistenza stessa dello Stato di diritto.

Quanto al processo che si svolge davanti al giudice, luogo tradizionale di risoluzione delle controversie, il Legislatore italiano ha optato per una combinazione di fondi pubblici e pagamenti da parte dei singoli litiganti ([3]), in forza della quale una parte della spesa è sostenuta dallo Stato (si pensi, ad esempio, allo stipendio dei magistrati) e la restante quota è dapprima anticipata dalle singole parti in causa ([4]) e successivamente sopportata  dalle stesse, in via definitiva, in esecuzione della condanna contenuta nel provvedimento che chiude il giudizio (v. artt. 91 e ss c.p.c.) ([5]).

2. Le spese in materia di mediazione civile e commerciale

Quanto, invece, ai costi necessari ad accedere alla procedura conciliativa di mediazione ex D.lgs. n. 28/2010 ([6]) quale strumento c.d. alternativo (al processo) di risoluzione delle controversie, la materia è regolata come segue.

Al momento della presentazione della domanda di mediazione (o di adesione, per la parte invitata) ciascuna parte corrisponde all’organismo un importo forfettario a titolo di indennità per lo svolgimento del primo incontro ([7]). L’importo comprende le spese di avvio della procedura e le c.d. spese di mediazione, nonché il compenso dovuto al mediatore per la sua prestazione (v. art. 17 D.lgs. n. 28/2010 e art. 28 D.M. 150/2023) ([8]).

Sono altresì dovute e versate le spese vive, diverse dalle spese di avvio, costituite dagli esborsi documentati effettuati dall’organismo di mediazione – ad esempio, per la convocazione delle parti, per la sottoscrizione digitale dei verbali e degli accordi quando la parte è priva di propria firma digitale o per il rilascio delle copie dei documenti richiesti dalla legge. Infine, le parti che si rivolgono alla professionalità del mediatore con l’assistenza del proprio legale dovranno sostenere le relative spese, e dunque versare al proprio avvocato il compenso professionale per l’assistenza tecnica ([9]).In un simile contesto, appare chiaro e esente da interpretazioni difformi il regime normativo che regola la ripartizione dei costi della procedura quando la mediazione ha successo, concludendosi cioè con la risoluzione amichevole della controversia. Ed invero, in omaggio all’animus transigendi et conciliandi che ispira l’intera procedura, quando le parti raggiungono l’accordo, ciascuna di esse sopporta in via definitiva le spese già anticipate (cioè le spese di avvio e di svolgimento del primo incontro, le eventuali spese di mediazione per gli incontri successivi al primo e le spese legali), alle quali si aggiunge un ulteriore importo dovuto per la conclusione dell’accordo ([10]) – senza dimenticare, peraltro, la possibilità per le parti di accedere agli importanti benefici fiscali che la legge riconosce in caso di raggiungimento dell’accordo conciliativo ([11]).

Una questione applicativa discussa in giurisprudenza attiene, invece, alla recuperabilità delle spese di mediazione in giudizio. Ed invero, ci si è domandati se, nell’ipotesi in cui la mediazione si concluda senza l’accordo conciliativo, la parte, poi, dichiarata vittoriosa nel merito abbia diritto al rimborso altresì delle spese di mediazione in applicazione dei generali principi di soccombenza e di causalità; questione la cui rilevanza evidentemente si intensifica nei casi in cui l’esperimento della procedura conciliativa è previsto ex lege come condizione di procedibilità della domanda in giudizio – c.d. mediazione obbligatoria (v. artt. 5, 5-quater e 5-sexies D.lgs. 28/2010).

3. I diversi orientamenti giurisprudenziali

La giurisprudenza impegnata sul tema della recuperabilità delle spese stragiuziali (di mediazione) in giudizio si è occupata, principalmente, delle fattispecie di mediazione obbligatoria ([12]), atteso il loro spiccato risvolto pratico in termini di accesso alla giustizia.

L’orientamento consolidatosi a partire dalle prime pronunce successive all’entrata in vigore del D.lgs. n. 28/2010 era pressoché unanime nel ricondurre i costi della procedura di mediazione obbligatoria nel novero delle spese processuali di cui all’art. 91 c.p.c. (in tal senso, v. Trib. Modena n. 479/2012; Trib. Verona n. 13807/2015; Tribunale Massa, Sent., 09/11/2016). Conseguentemente, ne affermava la legittima recuperabilità all’esito del giudizio in applicazione dei generali principi di soccombenza e di causalità di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c.

Premesso che, come è noto, la regolamentazione delle spese processuali è retta dal principio di causalità ([13]) e che detto principio esprime la regola per la quale “alla parte le cui richieste siano state disattese dal giudice si imputano gli oneri processuali necessari ai fini della relativa decisione, per avervi dato causa” (v. Cass. S.U. n. 32061/2022), ecco che, detto criterio, ben si presta a trovare applicazione anche per la procedura di mediazione obbligatoria.

Ed invero, come reso evidente dall’orientamento giurisprudenziale sopra citato, nei casi in cui il ricorso alla mediazione sia imposto ex lege come condizione per l’esercizio dell’azione in giudizio, l’esperimento della procedura medesima (e il relativo costo) è causalmente connesso – o “eziologicamente riconducibile”, per usare l’espressione adottata dalla giurisprudenza – alla richiesta di tutela ([14]).

Pertanto, facendo applicazione di criteri di interpretazione logico-sistematica dell’impianto normativo, appare ragionevole concludere che le spese sostenute per tale obbligatoria procedura non possano che essere assoggettate alla medesima disciplina prevista per le spese processuali “in senso stretto”, trattandosi, in entrambi i casi, di esborsi necessitati dall’esercizio del diritto di azione – il quale, in determinate ipotesi, è per legge condizionato dall’esperimento della procedura conciliativa, appunto.

Quanto, poi, al contenuto del rimborso, accanto ai costi afferenti all’onere economico imposto per l’accesso al servizio (indennità dell’organismo e spese vive), il diritto restitutorio ha ad oggetto altresì la spesa sostenuta per l’assistenza prestata dall’avvocato nel corso della mediazione, trattandosi, essa, di attività stragiudiziale ex art. 20 del D.M. 55/2014 con autonoma rilevanza rispetto all’attività di difesa svolta nel giudizio.

In definitiva, secondo la tesi proposta, le spese di mediazione obbligatoria sono da qualificarsi come esborsi ex art. 91 c.p.c. (spese processuali), ivi comprese le spese legali per l’attività di assistenza stragiudiziale, e pertanto esse possono essere recuperate dalla parte, all’esito del giudizio, in forza della medesima statuizione che decide sulle spese processuali ex artt. 91 e 92 c.p.c..

Tale orientamento è rimasto costante durante i primi anni di applicazione del D.lgs. n. 28/2010 e fino all’arresto giurisprudenziale registratori nel 2017, anno in cui la Corte di Cassazione – anche a Sezioni Unite – propone un’interpretazione contraria.

La Cassazione ritiene infatti che le spese per l’attività stragiudiziale (“anche se svolta da un avvocato”) hanno natura intrinsecamente diversa dalle spese processuali vere e proprie. Trattasi, piuttosto, di una voce di danno emergente, consistente nel “costo sostenuto per l’attività svolta da un legale nella fase pre-contenziosa” che, come tale, resta soggetta – quanto al suo risarcimento – ai normali oneri di domanda e allegazione (v. Cass. S.U. 10 luglio 2017, n. 16990 e Cass. 13 marzo 2017, n. 6422).

Gli Ermellini, in aperto contrasto con l’orientamento di merito sopracitato, escludono dunque che le spese legali dovute per l’espletamento di attività stragiudiziale, alla quale è poi seguita un’attività giudiziale in senso stretto, possano formare oggetto di liquidazione con la c.d. nota spese (di cui all’art. 75 disp. att. cod. proc. civ.), dovendosi rilevare una distinzione prima di tutto funzionale fra le due fasi (pre-contenziosa e contenziosa, appunto).

In forza di detta diversità intrinseca, i costi sostenuti per l’attività stragiudiziale – trattandosi, secondo la Corte, di spese non necessitate né giustificate in funzione dell’esercizio del diritto di azione – non sono assoggettabili alla specifica disciplina dedicata alle spese processuali; bensì, essi potranno essere risarciti in applicazione dei “normali oneri di domanda, allegazione e prova secondo l’ordinaria scansione processuale, al pari delle altre voci di danno emergente” (Cass. S.U. 10 luglio 2017, n. 16990; nello stesso senso Cass. 13 marzo 2017, n. 6422) ([15]) ([16]).

L’orientamento così proposto dalla Corte di Cassazione nel 2017 non è stato accolto in maniera uniforme sul territorio nazionale, anzi sono stati molti i provvedimenti di segno contrario adottati.

Fra gli altri, con sentenza del 9 aprile 2018, n. 19480, il tribunale di Mantova rifiuta di accogliere la tesi per la quale la liquidazione delle spese della fase stragiudiziale possa costituire un’autonoma voce di danno, rilevando come, ai fini della fondatezza di una simile domanda risarcitoria, difetti qualsivoglia comportamento illecito imputabile alla parte soccombente nel merito ([17]).

Del resto, attraverso l’attività stragiudiziale, la parte semplicemente “esercita il suo legittimo diritto, anche costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.), di resistere (anche se solo stragiudizialmente) alle domande di controparte; che tale rimane anche se il giudice successivamente le avrà dato torto” (Trib. Mantova, sent. n. 19480/2018).

A ciò si aggiunga, in ogni caso, che una volta che siano state ritenute funzionali alla difesa della parte vittoriosa, non è condivisibile la tesi che “distingue il fondamento per la imputabilità delle spese legali di soccombenza a seconda che esse siano maturate nella fase stragiudiziale (mediazione) o nella successiva fase giudiziale dovendo (il fondamento) essere identico per ovvie ragioni di identità e coerenza”.

In altre parole, ai fini della recuperabilità delle spese di giustizia, a nulla rileva che la domanda di tutela sia stata esercitata “solo” in giudizio (provocando unicamente esborsi di natura strettamente processuale) o che sia stata affrontata altresì dinanzi al mediatore (comportando, dunque, aggiuntive spese “stragiudiziali”). E ciò perché il fondamento della responsabilità per le spese si rinviene esclusivamente nel comportamento antigiuridico della parte, la quale ha provocato ingiustificatamente la necessità del processo (in tal senso, Cass. 26 aprile 2022, n. 13031, Cass. 29 luglio 2021, n. 21823 e, ancora, Cass. 9 gennaio 2017, n. 189).

L’orientamento proposto dal tribunale di Mantova (in continuità alle prime pronunce di merito) appare, in realtà, l’orientamento maggioritario in tema di mediazione obbligatoria, trovando esso riscontro in numerosi provvedimenti adottati sul territorio nazionale anche successivamente all’arresto giurisprudenziale del 2017 (cfr. sul punto, inter alia,  Trib. Trieste sent. 11.03.2021; Trib. Catanzaro del 22.03.2023, n. 464; Trib. Roma sent. n. 11906 del 31.07.2023; Trib. Lecce sent. n. 2805 del 18.10.2023), nonché, da ultimo, nella recente pronuncia della Corte di Cassazione del novembre 2023 (sent. n. 32306/2023), che parrebbe aver messo un punto alla questione.

4. Le spese di mediazione assimilate alle spese del processo (Cass. n. 32306 del 21/11/2023).

Ed invero, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della liquidazione delle spese di mediazione obbligatoria, da ultimo, con ordinanza del 21 novembre 2023, n. 32306, riconoscendo che le stesse[…] vanno assimilate alle spese del processo”, con conseguente applicazione (in tema di mediazione) dei medesimi principi che regolano la materia dal punto di vista processuale (artt. 91 e ss c.p.c.). La Corte è stata chiamata ad esprimersi sul ricorso per regolamento di competenza proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale di Firenze dichiarava la propria incompetenza per valore in favore di quella del giudice di pace. In concreto, i ricorrenti lamentavano che il Tribunale avesse omesso di considerare la domanda di condanna dei convenuti alla rifusione delle spese di mediazione (obbligatoria) ai fini della determinazione del valore della controversia, deducendone così – quantomeno implicitamente – la natura di esborsi risarcibili a titolo di danno emergente (in linea con l’orientamento espresso dalla Cass. S.U. 16990/2017 già citata). La questione è stata risolta dagli Ermellini rilevando l’infondatezza del ricorso (che pertanto è stato rigettato) sulla scorta della dirimente considerazione che “le spese di mediazione vanno assimilate alle spese del processo […] le quali – come è noto – non sono cumulabili alla domanda ai fini della determinazione del valore di essa (cfr. Cass. 7695/2019, Cass. 26592/2009 e Cass. 6901/1982)”.L’attenzione della Corte si concentra, in particolare, sul legame ontologico che sussiste fra la mediazione e l’attività processuale strettamente intesa, e al conseguente coordinamento che si rende necessario in forza del rapporto funzionale che collega le due attività, appunto. In presenza di un simile legame, non può ritenersi che l’attività stragiudiziale di mediazione (e il relativo costo) non abbia ricadute nel successivo giudizio di merito, anche in termini di spesa; e tanto più nei casi di mediazione obbligatoria, in cui il coordinamento fra le due attività è reso ancor più stringente poiché imposto direttamente dalla legge.

Del resto, il rapporto tra mediazione e processo civile non si limita ad una relazione “cronologica”, necessaria (nelle ipotesi di mediazione obbligatoria) ovvero facoltativa, bensì implica il coordinamento tra le due attività sotto una pluralità di profili ([18]).

Alla luce di tali considerazioni, non è accoglibile la tesi che distingue il fondamento per l’imputabilità delle spese processuali a seconda della fase in cui esse sono maturate, e ciò non solo perché una simile interpretazione non trova alcun riscontro nel diritto positivo, ma anche perché le due attività (stragiudiziale e giudiziale) condividono la stessa funzione, essendo teleologicamente orientate al medesimo scopo: risolvere la controversia ([19]).Il principio di diritto così enunciato risulta confortato dalla previsione contenuta all’art. 13, co. 1 del D.lgs. n. 28/2010, rubricato “spese processuali in caso di rifiuto della proposta di conciliazione”, la quale “laddove parla di esclusione della ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, considera pure le spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto, così assimilando – secondo la Cassazione – le spese del procedimento di mediazione a quelle giudiziali in senso proprio”.In particolare, la norma disciplina il caso in cui la mediazione venga esperita infruttuosamente (cioè si concluda senza raggiungimento dell’accordo conciliativo) e la controversia prosegua in giudizio per essere definita con provvedimento del giudice.  In tali casi, “quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della sentenza, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo […]” (art. 13, co. 1 D.lgs. 28/2010) ([20]).Da un simile contesto normativo, possono ricavarsi due importi considerazioni.In primo luogo, una considerazione di carattere letterale, per la quale il fatto che il Legislatore abbia indicato espressamente “l’indennità corrisposta al mediatore e il compenso dovuto all’esperto” fra le spese “processuali” (come rubricato dalla norma) non ripetibili ex art. 13, co. 1, D.lgs. 28/2010 è espressione della manifesta volontà di assimilare le spese occasionate dalla procedura di mediazione a quelle giudiziali in senso stretto.In secondo luogo, emerge un argomento di carattere sistematico, per il quale risulta del tutto coerente alle ordinarie regole processuali il regime normativo dettato all’art. 13 cit., nella parte in cui la previsione esclude il diritto alla ripetizione delle spese per la parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta conciliativa; del resto, è proprio tale parte che, con il suo comportamento, provoca la necessità del processo (o, comunque, ne prolunga irragionevolmente la durata) rifiutando la proposta del mediatore risultata, poi, equivalente alla sentenza ([21]). In tal senso, la disposizione si ispira evidentemente ai già citati principi di soccombenza e di causalità ex artt. 91 e ss del c.p.c., e recepisce la regola sostanziale per la quale non è esente dal sopportare l’onere delle spese di lite la parte che col suo comportamento abbia provocato la necessità del processo, prescindendo dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata ([22]).

A ciò si aggiunga, per rimarcare la sovrapponibilità della disciplina processualistica a quella dettata in tema di mediazione, che l’art. 13, co. 1 D.lgs. 28/2010 richiama espressamente gli artt. 92 e 96 c.p.c., la cui applicabilità deve quindi sempre ammettersi, con la funzione di temperamento della condanna ([23]), ogniqualvolta siano percorribili le strade della compensazione totale o parziale (art. 92 c.p.c.) e nel caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio incorrendo in responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.

In definitiva, l’orientamento da ultimo proposto dalla Corte di Cassazione, in forza dei suesposti rilievi, impone di assimilare le spese di mediazione alle spese processuali in senso stretto. Da ciò consegue che: con la sentenza che chiude il processo, nell’ambito del quale sia stato esperito il tentativo obbligatorio di mediazione, il giudice statuisca altresì sulle spese della procedura stragiudiziale, condannandone la parte soccombente al pagamento in favore della parte vittoriosa e liquidandone l’ammontare secondo il disposto dell’art. 13 D.lgs. n. 28/2010 – posto che, per quanto detto sopra, l’ambito di applicazione dell’art. 91 c.p.c. è sovrapponibile, ma rispetto al quale l’art. 13 D.lgs. n. 28/2010 prevale stante la specialità della disciplina ([24]).

5. Patrocinio a spese dello stato in mediazione

Un’altra importante questione afferente al tema delle spese stragiudiziali di mediazione riguarda, poi, il regime di ammissibilità al patrocinio a spese dello Stato (anche detto, comunemente, “gratuito patrocinio”).

Si tratta, come è noto, di un beneficio economico riconosciuto al ricorrere di determinate condizioni reddituali, che si risolve, sinteticamente, nella facoltà per le parti di porre a carico dello Stato il compenso dovuto all’avvocato per l’attività di assistenza e difesa tecnica prestata in giudizio.

L’istituto è stato espressamente introdotto anche per la procedura di mediazione civile e commerciale solo a seguito dell’entrata in vigore della c.d. Riforma Cartabia (adottata con D.lgs. n. 149/2022, in attuazione della Legge delega n. 206/2021) ([25]). Precedentemente alla Riforma, l’applicabilità dell’istituto alla procedura di mediazione civile e commerciale non era espressamente affrontata nel corpo del D.lgs. n. 28/2010 ([26]): detta lacuna ha generato incertezze applicative di non poco conto, che hanno avuto un impattato sulla realtà concreta tale da occasionare il giudizio di legittimità costituzionale sul tema (Corte Cost. sentenza del 20 gennaio 2022, n. 10).

Per organizzare fruttuosamente il discorso è necessario premettere che, come è noto, la regolamentazione dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato è stata unificata e razionalizzata dal Legislatore con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico in materia di spese di giustizia – TUSG), il quale detta una disciplina unica per tutti i processi (penale, civile, amministrativo, contabile, tributario, di volontaria giurisdizione) (v.  art. 74, co. 1 del TUSG).

L’art. 75 del TUSG afferma, poi, che l’ammissione al beneficio “è valida […] per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse” al processo. Infine, l’art. 83 TUSG attribuisce all’autorità giudiziaria che ha proceduto la competenza per la liquidazione dell’onorario e delle spese spettanti al difensore della parte ammessa al patrocinio.

I ripetuti e specifici richiami al “processo” e “all’attività giudiziaria” contenuti nel TUSG ([27]), suggeriscono che l’istituto sia stato contemplato dal Legislatore in chiave “eminentemente processuale” – per citare la Consulta ([28]) – il che ha consentito ad alcuni giudici di considerare l’operatività del beneficio subordinata, dal punto di vista oggettivo, allo svolgimento di una (qualsivoglia) attività in sede processuale ([29]).

In altre parole, è stata proposta in giurisprudenza un’interpretazione letterale dell’impianto normativo di cui al citato D.P.R. n. 115/2002, per la quale la disciplina in esso contenuta limiterebbe l’operatività del patrocinio all’ambito del procedimento (penale, civile, amministrativo, contabile, tributario, di volontaria giurisdizione), postulando pertanto l’intervenuto avvio della lite in giudizio. Di conseguenza, sarebbe da escludersi il riconoscimento del diritto dell’avvocato (della parte ammessa al patrocinio) di ottenere dallo Stato il compenso maturato per l’attività legale stragiudiziale a cui non sia seguita la proposizione della lite in giudizio (cfr. Cass., sent. 31 agosto 2020, n. 18123).

L’applicazione al caso concreto di una simile interpretazione solleva alcune importanti questioni. In particolare, con specifico riferimento alla procedura di mediazione, porterebbe alla (irrazionale) conclusione che: nei casi in cui la mediazione fallisca, determinando la necessità del processo, il compenso dovuto all’avvocato per l’attività stragiudiziale prestata sarebbe legittimamente retribuitile dallo Stato all’esito del giudizio; di contro, quando, in virtù del suo esito positivo, alla mediazione non abbia fatto seguito l’instaurazione del processo, il compenso dell’avvocato sarebbe escluso dal patrocinio non potendosi ancorare la sua attività professionale ad alcuna iniziativa giudiziaria ([30]).

L’irrazionalità della disciplina si accentua, peraltro, nelle ipotesi di mediazione obbligatoria, per le quali il Legislatore impone il preliminare esperimento della procedura conciliativa, omettendo però di concedere ai non abbienti gli strumenti necessari (l’assistenza tecnica dell’avvocato) per parteciparvi in maniera effettiva ed efficace.

Trattasi dei rilievi di irragionevolezza e disuguaglianza sostanziale sollevati dai tribunali di Oristano e di Palermo e accolti dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 10, del 20 gennaio 2022 ([31]).

Chiamata ad esprimersi sulla questione di legittimità degli artt. 74 e 75 TUSG, la Corte Costituzionale ha rilevato la violazione del principio di ragionevolezza della disciplina nella parte in cui, gli articoli sopracitati, escludono l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato proprio quando la mediazione obbligatoria, avendo successo, raggiunge il suo scopo deflattivo.

Ed invero, posto che il Legislatore ha introdotto nell’ordinamento le ipotesi di mediazione obbligatoria con il dichiarato intento di deflazionare il contenzioso civile ([32]), appare evidente l’irragionevolezza della disciplina nella parte in cui essa esclude l’ammissione al beneficio proprio quando la mediazione raggiunge il suo scopo, cioè evitare l’instaurazione del processo.

Ed anzi, la Corte evidenzia come detta esclusione produce proprio l’effetto opposto rispetto a quello previsto dalla legge: i non abbienti e i loro difensori, infatti, saranno indotti “[…] a non raggiungere l’accordo e ad adire quindi comunque il giudice, all’unico scopo di ottenere, una volta introdotto il processo, le relative spese difensive”, evenienza che non solo disincentiva la cultura della mediazione, ma altresì ne altera la funzione deflattiva ([33]).

Oltre che irragionevole, la disciplina contenuta nel TUSG appare altresì illegittima rispetto alle previsioni di cui agli artt. 3, co. 2 e 24, co. 3 Cost., che recepiscono nel nostro ordinamento il principio di eguaglianza sostanziale.

Ed invero, agli occhi della Corte appare censurabile che il Legislatore, da un lato, imponga di partecipare ad un procedimento conciliativo – “che, peraltro, è strumentale al giudizio al punto da condizionare l’esercizio del diritto di azione e il relativo esito” – e, dall’altro, ometta di fornire al non abbiente i mezzi necessari per valutare l’opportunità della conciliazione, con evidente lesione del loro diritto di difesa ([34]).

Il ragionamento affrontato nella motivazione della sentenza muove dal rilievo che, nei casi di mediazione obbligatoria, è imposta ex lege non solo la partecipazione personale delle parti alla procedura, ma altresì la presenza dell’avvocato con funzione di assistenza tecnica (art. 5, co. 1, D.lgs. n. 28/2010) ([35]). Sennonché, precludendo la possibilità di ammissione al patrocinio per la sola attività stragiudiziale, la legge, di fatto, destina i non abbienti a subire l’asimmetria rispetto alla controparte abbiente, peraltro, “[…] in relazione a un procedimento che, come si è chiarito, in determinate materie è direttamente imposto dalla legge” (Corte Cost., 20 gennaio 2022, n. 10).

In un simile contesto, la disciplina si pone in evidente contrasto con il principio di eguaglianza sostanziale, in forza del quale grava sullo Stato l’onere di predisporre i mezzi necessari affinché i non abbienti possano agire e difendersi in giudizio e di garantire loro le “giuste chances di successo nelle liti”, facendo fronte alle asimmetrie economiche appunto.

I rilievi di irragionevolezza e disuguaglianza sostanziale rilevati dalla Corte nell’esaminata sentenza – e che hanno comportato la declaratoria di illegittimità degli artt. 74, co. 2, e 75, co. 1, nonché dell’art. 83, co. 2 TUSG ([36]) – sono stati in gran parte superati dall’introduzione del nuovo Capo II-bis, del D.lgs. n. 28/2010, rubricato “Disposizioni sul patrocinio a spese dello stato nella mediazione civile e commerciale” ([37]).

In particolare, la nuova disciplina speciale consente espressamente l’accesso al beneficio del “gratuito patrocinio” nei casi in cui la mediazione è condizione di procedibilità dell’azione in giudizio (cioè per le mediazioni obbligatorie, demandate dal giudice o da clausola contrattuale ex art. 5-sexies) anche quando è raggiunto l’accordo conciliativo prima di adire l’autorità giudiziaria (v. art. 15-bis, co. 1, D.lgs. 28/2010) – nel rispetto, ovviamente, delle condizioni reddituali previste dalla legge ([38]).

Inoltre, è rimasta in vigore la previsione, già contenuta nel testo precedente alla Riforma, in forza della quale, nei casi di cui agli artt. 5 e 5-quater D.lgs. 28/2010, la parte può beneficiare del patrocinio a spese dello Stato altresì per l’indennità dell’organismo, e ciò a prescindere dall’esito positivo o meno della mediazione (v. art. 17, co. 6 D.lgs. n. 28/2010).

6. Considerazioni conclusive

La ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali ut supra analizzati suggerisce l’applicabilità dei principi e delle regole previste in tema di condanna alle spese processuali (di cui agli artt. 91 e ss. c.p.c.) anche per la liquidazione in giudizio delle spese stragiudiziali di mediazione ([39]).

Ed invero, le spese sostenute dalle parti per l’esperimento del preliminare tentativo di conciliazione sono equiparabili, quanto alla loro natura, alle spese processuali in senso proprio, avendo le due attività – giudiziale e stragiudiziale – la medesima funzione di garantire la tutela dei diritti soggettivi, nonché il medesimo scopo di risolvere la controversia.

Detto principio di diritto trova senz’altro applicazione nelle ipotesi di mediazione c.d. obbligatoria, in cui la legge impone il coordinamento fra l’attività stragiudiziale e quella giudiziale, prevedendo l’esperimento della procedura conciliativa come condizione per l’esercizio della domanda in giudizio.

In un simile contesto, le (inevitabili) spese sostenute dalle parti per l’esperimento della mediazione vanno qualificate come esborsi ex art. 91 e ss c.p.c., in quanto espressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito ex artt. 3 e 24 Cost. – al pari delle spese processuali, appunto. In tali casi, invero, la mediazione “rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria giacché condiziona l’esercizio del diritto di azione” (Corte Cost. n. 10/2022), e pertanto il criterio di imputabilità dei costi relativi alla suddetta procedura non può che condividere con il processo il medesimo fondamento giuridico, per evidenti ragioni di logicità e coerenza.

Si tratta di un argomento evidenziato, peraltro, dalla Corte costituzionale che, nell’affrontare la questione di legittimità del regime di applicabilità del patrocinio a spese dello Stato (v. paragrafo 5), ha ritenuto non giustificata la previsione per la quale, nella mediazione obbligatoria, venisse riservato ai non abbienti un trattamento differenziato rispetto a quello previsto nel processo ([40]).

Ad una diversa conclusione, almeno parzialmente, si giunge in tema di mediazione c.d. facoltativa (v. art. 2 D.lgs. n. 28/2010), che riguarda, cioè, il tentativo di conciliazione esperito volontariamente dalle parti al di fuori delle materie obbligatorie ex art. 5 D.lgs. n. 28/2010.

Posto che anche per i casi di mediazione volontaria valgono le medesime conclusioni esposte in tema di mediazione obbligatoria con riguardo alla natura delle spese inerenti alla procedura – da qualificarsi, dunque, quali esborsi giustificati dall’esercizio del diritto di difesa – si dà atto di un orientamento giurisprudenziale che, tuttavia, ne esclude la ripetibilità in giudizio.

In concreto, secondo un’interpretazione adottata dal tribunale di Venezia in una recente sentenza del 2023, i costi di mediazione facoltativa, pur rientrando nel novero delle spese processuali, sarebbero da escludersi dall’elenco delle spese ripetibili in quanto esborsi non necessari (secondo la definizione contenuta all’art. 92, co. 1 c.p.c.) ([41]). Trattasi invero di spese “che la parte sceglie liberamente di sostenere, indipendentemente dal fatto che (altrettanto liberamente, peraltro) parte convenuta decida di sottrarsi al procedimento di mediazione volontaria – appunto” (tribunale di Venezia, sent. n. 1669/2023) ([42]).

Tale interpretazione parrebbe confortata peraltro dalla previsione di esclusione delle spese di mediazione volontaria dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato (v. art. art. 15-bis, co. 1, D.lgs. 28/2010) ([43]).

Senza entrare ulteriormente nel merito della questione, per il cui approfondimento rimaniamo in attesa di ulteriori pronunce di merito e di legittimità, si permettano alcune considerazioni conclusive.

Anzitutto, si evidenzia la necessità che, al momento del conferimento dell’incarico, l’avvocato informi puntualmente il proprio assistito non solo della facoltà di ricorrere alla procedura di mediazione e delle agevolazioni fiscali di cui agli artt. 17 e 20 (già oggetto di specifica previsione all’art. 4, co. 3 D.lgs. 28/2010), ma altresì del regime di recuperabilità applicabile alle spese della procedura conciliativa medesima – tanto nelle ipotesi di mediazione volontaria, tanto in quelle di mediazione obbligatoria o demandata.

Inoltre, è quantomeno opportuno che durante tale fase informativa l’avvocato renda edotto il proprio assistito altresì dell’evidenza che il ricorso alla procedura conciliativa (anche volontaria) è sempre da considerarsi una valida scelta di opportunità, poiché – quando si conclude positivamente – permette un significativo risparmio di tempo e di spesa rispetto al processo ([44]), nonché (tendenzialmente) un maggior grado di soddisfazione nelle parti per la risoluzione del conflitto.

In conclusione, appare importante a chi scrive ribadire che la procedura di mediazione civile e commerciale non deve (e, per il vero, non può) essere considerata una “giustizia minore”, meno meritevole di veder allocate risorse economiche – pubbliche e private – rispetto allo strumento giurisdizionale, non potendosi ormai più rinnegare la sua funzione giurisdizionale. Ed anzi, in ragione degli innegabili vantaggi economici e sociali che garantisce (nonché alla luce della situazione di difficoltà ormai conclamata in cui versa il sistema processuale civile nel rimanere al passo con le esigenze del mondo moderno) è piuttosto il ricorso al processo a dover essere considerato una extrema ratio ([45]).

([1]) Sull’inevitabilità di questa considerazione, cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I. Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Giappichelli, 2023, 681.

([2])  Il fatto che l’attività processuale civile abbia un costo per i cittadini può costituire un deterrente all’accesso alla giustizia, realizzando in questo modo, secondo alcuni autori (ad esempio Dworkin, Hart, Fuller, Llewellyn e Raz), una delle funzioni del contenzioso civile: la modifica del comportamento dei consociati. Su questa funzione di modifica del comportamento del contenzioso civile si veda, tra gli altri, K. E. Scott Two Models of the Civil Process, Vol. 27 in Stanford Law Review, 1975, pp. 937 e ss.

([3]) Del resto, è utopico pensare che un ordinamento possa farsi integralmente carico di tutte le spese di funzionamento del sistema giudiziario, tanto per ragioni di sostenibilità economica quanto per ragioni di responsabilizzazione delle parti (sul punto v. Corte cost., sent. 8 luglio 1967, n. 93 in cui si evidenzia che “la ragione dell’onere [dell’anticipazione] sta nell’esigenza di stimolare la parte ad un uso cosciente del suo diritto di difesa ed a evitare che ne abusi per fini dilatori o sterili”).

([4]) Il principio di anticipazione provvisoria delle spese è codificato all’art. 8 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo Unico in materia di spese di giustizia), che ha sostituito l’abrogato art. 90 c.p.c., e che al primo comma recita: “Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato”. In concreto, l’individuazione della parte chiamata ad anticipare la spesa di una certa attività avviene in base all’interesse che ciascuna di esse ha all’espletamento dell’atto (criterio dell’interesse al compimento dell’atto).

([5]) Sinteticamente, il criterio della soccombenza – espressione del principio victus victori – impone al giudice di “condanna(re) la parte soccombente al rimborso delle spese (legali e processuali) a favore dell’altra parte (vincitrice)” (art. 91, co. 1 c.p.c.); condanna che, in concreto, viene mitigata alla luce del principio di causalità, in virtù del quale a dover sostenere i costi del giudizio è colui che l’ha reso necessario, proponendolo o resistendovi indebitamente. Sul punto, fra le altre, v. Cass. 26 aprile 2022, n. 13031, Cass. 29 luglio 2021, n. 21823 e, ancora, Cass. 9 gennaio 2017, n. 189.

([6]) DECRETO LEGISLATIVO 4 marzo 2010, n. 28 – Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, modificato, da ultimo, dal D.L.gs 10 ottobre 2022, n. 149, dalla L. 29 dicembre 2022, n.197 e dal D.lgs. 10 marzo 2023, n. 28. Le disposizioni contenute nel D.lgs. n. 28/2010 sono entrate in vigore il 20 marzo 2011, fatta eccezione per le norme riferite alle controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, la cui vigenza è stata differita al 20 marzo 2012.

([7]) Cfr. Consiglio di Stato sent. 17 novembre 2015, n. 5230, nella quale si afferma che “[…] posto che il primo incontro [di mediazione] non costituisce un passaggio esterno e preliminare della procedura di mediazione, ma ne è invece parte integrante […] e dal momento che tale fase il legislatore ha inteso configurare come obbligatoria per chiunque intenda adire la giustizia in determinate materie, indipendentemente dalla scelta successiva se avvalersi o meno della mediazione, ne discende la coerenza e ragionevolezza della scelta di scaricare i relativi costi non sulla collettività generale, ma sull’utenza che effettivamente si avvarrà di detto servizio”.

([8]) I criteri per la determinazione delle spese relative all’indennità del servizio di mediazione sono ora indicati agli artt. 28 e ss del D.M. 150/2023 (G.U. Serie Generale n. 255 del 31/10/2023), le cui disposizioni sono entrare in vigore a partire dal 15 novembre 2023. In particolare, quanto alle c.d. “spese di avvio”, sono dovuti importi predeterminati (fissi e forfettari) che variano da un minimo di € 40,00, per le liti di valore fino a € 1.000,00, fino ad un massimo di € 110,00 per le liti di valore superiore a €50.000,00 e indeterminato; anche le c.d. spese di mediazione sono dovute da ciascuna parte in base al valore della controversia (da un minimo di € 60,00 ad un massimo di € 170,00). Inoltre, quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda (tanto nel caso di mediazione obbligatoria ex art. 5, co. 1 d.lgs. 28/2010, quanto di mediazione demandata dal giudice ex art. 5-quater, d.lgs. 28/2010) l’indennità di mediazione – comprensiva di spese di avvio e spese di mediazione – è ridotta di un quinto (v. art. 28, co. 8 D.M. 150/2023). Per un approfondimento sul nuovo regime di finanziamento della procedura di mediazione v. F. FERRARS, Il regolamento di procedura e le spese di mediazione secondo il nuovo d.m. n. 150 del 2023 (ovvero come rendere sovrabbondante ciò che avrebbe dovuto rimanere essenziale, comprensibile e contenuto), in Giustizia Consensuale, Vol. IV, n. 1 2024, pp. 57 e ss.

([9]) Si ricorda che ai sensi dell’art. 8, co. 5, d.lgs. n. 28/2010, “nei casi previsti dall’articolo 5, comma 1, e quando la mediazione è demandata dal giudice, le parti sono assististe dai rispettivi avvocati”. L’interpretazione letterale della norma suggerisce che, nei casi in cui l’esperimento della procedura di mediazione è condizione di procedibilità della domanda in sede giudiziale, la presenza dell’avvocato con funzione di difesa tecnica è necessaria e, dunque, obbligatoria; di contro, nei casi di mediazione volontaria, si ritiene che la procedura possa essere esperita anche in assenza del proprio avvocato.

([10]) Ai sensi dell’art. 17, co. 4, D.lgs. 28/2010 è rimessa all’autonomia regolamentare dei singoli organismi di mediazione indicare nel proprio regolamento “le ulteriori spese di mediazione dovute dalle parti per la conclusione dell’accordo di conciliazione e per gli incontri successivi al primo”. In ogni caso, rientra tra le facoltà delle parti quella di accordarsi in un modo differente circa le spese sostenute, essendo possibile (e non raro nella prassi) che una parte si accolli l’intero costo della procedura.

([11]) Il riferimento è all’esenzione dall’imposta di registro prevista per il verbale di conciliazione nel limite di valore di € 100.000 (v. art. 17, co. 2 D.lgs. 28/2010); o alla previsione per la quale alle parti che raggiungono un accordo in sede di mediazione è riconosciuto un credito di imposta commisurato all’indennità corrisposta, fino a concorrenza di € 600,00 (v. art. 20 D.lgs. 2872010), al quale se ne aggiunge uno ulteriore, commisurato al compenso corrisposto al proprio avvocato, nel caso di mediazione obbligatoria e/o mediazione demandata dal giudice. In caso di insuccesso della mediazione, i crediti d’imposta sono ridotti della metà.

([12]) Sulla mediazione facoltativa, v. par. 6.

([13]) In particolare, la Cassazione afferma che il criterio della soccombenza, espressione del principio victus victori, “[…] costituirebbe (soltanto) un’applicazione o un indice rivelatore del principio di causalità, in forza del quale i costi del processo devono essere fatti gravare sulla parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece vi ha dato causa” (v. da ultimo Cass. S.U. n. 32061/2022).

([14]) In concreto, il fondamento del diritto della parte vittoriosa nel merito ad ottenere il rimborso delle spese di mediazione obbligatoria si rinviene alla luce della “riconducibilità eziologica del procedimento di composizione della lite all’accertato inadempimento del convenuto” (cfr. Trib. Modena sent. n. 479/2012; nonché Trib. Trieste sent. 11.03.2021 – Est. Fanelli) – al pari di quanto stabilito per la condanna alle spese processuali in senso proprio.

([15]) In tal senso anche Trib. Milano sent. n. 9205/2016 in tema di mediazione volontaria.

([16]) Quanto alle condizioni in presenza delle quali è possibile porre a carico della controparte il rimborso delle spese per l’attività stragiudiziale, questa deve essere valutata ex ante come “utile” (“cioè in vista di quello che poteva ragionevolmente presumersi essere l’esito del futuro giudizio”) e non deve essere stata in concreto superflua.

([17]) Trattandosi di un comportamento del tutto lecito è escluso in radice il sorgere di qualsivoglia profilo di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c) e di un relativo obbligo risarcitorio. Al più, la condotta della controparte potrebbe integrare una fattispecie di atto lecito dannoso, determinando il sorgere in capo al soccombente di un’obbligazione indennitaria (per un approfondimento sul tema v. R. Calvo, La responsabilità civile. Principi ordinatori e regole applicative, Zanichelli, 2024).

([18]) Il Legislatore in primis dà rilievo a detto legame prevedendo il necessario coordinamento fra l’attività stragiudiziale e quella processuale in senso stretto. Si pensi, ad esempio, al disposto dell’art. 12-bis D.lgs. n. 28/2010 che disciplina le “conseguenze processuali della mancata partecipazione al procedimento di mediazione” oppure alla previsione per la quale le parti, al momento del conferimento dell’incarico all’eventuale esperto nominato in sede di mediazione, possono convenire la producibilità in giudizio della sua relazione, la quale verrà valutata dal giudice ai sensi dell’art. 116, co. 1 c,p.c. (art. 8, co. 7 D.lgs. 28/2010).

([19]) Sulla giurisdizione come servizio pubblico diretto alla composizione delle controversie v. fra gli altri R. CAPONI, Il principio di proporzionalità nella giustizia civile: prime note sistematiche, in Riv. trim. dir proc. civ., 2011, nonché A. CARRATTA, Funzione sociale e processo civile fra XX e XXI secolo, 2017, in F. Macario e M. N. Miletti (a cura di), La funzione sociale nel diritto privato tra XX e XXI secolo (pp. 87-138).

([20]) In particolare, la norma stabilisce che, all’esito della procedura di mediazione durante la quale sia stata formulata una proposta conciliativa, non accolta dalle parti, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della suddetta proposta: a) quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che l’ha rifiutata, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto; b) quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto.

([21]) La coerenza all’ordinamento della previsione di cui all’art. 13, D.lgs. 28/2010 si avverte anche con riferimento al comma 2 della disposizione, nella parte in cui stabilisce che qualora il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponda interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore per l’indennità corrisposta al mediatore […], indicando esplicitamente nella motivazione le ragioni di tale provvedimento (sul tema, v. Cass. n. 12712 del 14/05/2019). Si tratta di una previsione che risulta del tutto coerente con la disciplina generale in materia di spese processuali se si pensa ai diversi e significativi temperamenti che l’ordinamento prevede e codifica rispetto all’applicazione in termini assoluti del principio della soccombenza quale fondamento della remunerazione processuale. Basti pensare, ad esempio, al riconoscimento del potere del giudice di condannare al pagamento delle spese processuali la parte che abbia rifiutato ingiustificatamente la proposta conciliativa formulata ex art. 185 bis c.p.c. anche laddove detta parte risultasse vincitrice nel merito (v. art. 91 c.p.c.); analogo potere di condanna è previsto per tutte le spese che la parte vincitrice abbia causato all’altra parte in violazione dei doveri di lealtà e probità stabiliti dall’art 88 c.p.c. (v. art. 92 c.p.c.); ancora, si pensi alla facoltà del giudice di escludere dalla condanna il rimborso di singoli atti, codificata all’art. 92, co. 1 c.p.c..

([22]) Per un approfondimento sul rapporto tra l’art. 13 D.lgs. n. 28/2010 ed il principio generale della causalità in materia di spese di lite v. A. D. De santis in Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, op. cit.; F.P. Luiso, Diritto Processuale Civile, I, Milano, 2017, 432.

([23]) Sulla natura sanzionatoria della condanna ex art. 13 D.lgs. 28/2010 v. A. D. De Santis, in Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, op. cit., 281 ss. In particolare, l’autore evidenzia la “spiccata portata sanzionatoria” della disciplina, apprezzabile alla luce della circostanza che, in tema di condanna ex art. 13, co. 1 D.lgs. 28/2010,  manca ogni riferimento alla giustificatezza del rifiuto della proposta del mediatore (rispetto a quanto previsto, invece, dall’art. 91 c.p.c., che subordina la condanna alle spese processuali all’assenza di un giustificato motivato di rifiuto della proposta conciliativa del giudice); inoltre, la portata sanzionatoria della norma in esame risulterebbe ulteriormente arricchita dalla previsione per la quale la parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta il cui contenuto si sia rivelato identico al disposto della sentenza, oltre a non poter ripetere le somme per le spese di mediazione e ad andare incontro alla condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte soccombente, subisce altresì la condanna (di tipo punitivo-sanzionatorio) al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto.

([24]) In tal senso A. D. De Santis in Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, op. cit., 283.

([25]) Per un approfondimento sul tema v. G. Reali, Il patrocinio dei non abbienti in sede di mediazione obbligatoria tra cassazione, Corte costituzionale e riforma del processo civile, in Giusto proc. Civ., 2022, 494; anche P. Comoglio, Il processo come fenomeno economico di massa. Problemi di finanziamento e di remunerazione delle controversie civili, op. cit., pp. 40-75.

([26]) L’unica previsione sul tema aveva ad oggetto l’indennità dovuta all’organismo di mediazione (e non al compenso dovuto all’avvocato), nella misura in cui l’art. 17 D.lgs. 28/2010 prevedeva (e prevede tutt’ora) che nei casi in cui la mediazione è condizione di procedibilità della domanda in sede giudiziale, all’organismo non è dovuta alcuna indennità dalla parte che si trovi nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 76 del Testo Unico sulle Spese di Giustizia.

([27]) La definizione di “processo” contenuta all’art. 3, lett. o) del TUSG riporta l’indicazione di “qualunque procedimento contenzioso o non contenzioso di natura giurisdizionale”.

([28]) Corte Cost., 20 gennaio 2022, n. 10.

([29]) V. in tal senso, fra le altre, Trib. Roma, 11 gennaio 2018; Trib. Tempio Pausania, 19 luglio 2016.

([30]) In particolare, si afferma che non è liquidabile il compenso al difensore per la fase della mediazione, cui non è seguita la proposizione della lite, “poiché ciò non è consentito dalla attuale disciplina legislativa portata nel Decreto Legislativo n. 28 del 2010, che, ritenendo applicabile il patrocinio a spese dello stato nei casi previsti dall’art.17, comma 5 bis, prevede tuttavia che dal procedimento di mediazione non possano derivare oneri economici a carico dello Stato” (Cass., sent. 31 agosto 2020, n. 18123).

([31]) Il ricorso alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità degli artt. 74, 75 e 83 TUSG è stato presentato dai tribunali di Oristano e di Palermo, chiamati entrambi a decidere sulla liquidazione del compenso spettante all’avvocato della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato per l’attività di assistenza prestata in una procedura di mediazione obbligatoria conclusasi con accordo anteriormente all’instaurazione del processo.

([32]) Cfr. par. 9.1, Corte Cost., 20 gennaio 2022, n. 10.

([33]) Inoltre, come sottolineato dalla Corte, “tale evenienza porterebbe nocumento non solo alla funzione della mediazione, ma anche a quella della giurisdizione che, a dispetto della sua natura sussidiaria rispetto alla mediazione stessa, finirebbe per essere strumentalizzata per obiettivi diverso dallo ius dicere, ciò che determinerebbe ulteriori irragionevoli ricadute di sistema per il sicuro aumento degli oneri a carico dello Stato, chiamato a sostenere anche i costi dello svolgimento del giudizio”.

([34]) La questione si rende ulteriormente gravosa se si considera che l’assenza di difesa tecnica nel procedimento di mediazione potrebbe riflettersi sull’esito del successivo processo, ove si consideri la disciplina dettata al già citato art. 13, D.lgs. 28/2010.

([35]) Sull’obbligatorietà dell’assistenza legale in mediazione ex art. 8, co. 5 D.lgs. 28/2010, cfr. Corte Cass., sent. 27 marzo 2019, n. 8473. In ogni caso, anche a voler considerare come non necessaria l’assistenza dell’avvocato, la mediazione presuppone sin dalla sua attivazione il possesso di specifiche cognizioni tecniche di cui la parte non abbiente potrebbe essere priva (si pensi ad, esempio, agli strumenti e alle conoscenze che si rendono necessarie per valutare l’equità delle proposte provenienti dalla controparte e/o dal mediatore).

([36]) Con specifico riferimento alla individuazione del giudice al quale l’avvocato deve rivolgersi per ottenere la liquidazione del compenso, la Consulta opta per l’autorità giudiziaria che avrebbe dovuto decidere la controversia in assenza di accordo (conseguentemente, dichiarando l’illegittimità dell’art. 83, co. 2 TUSG, nella parte in cui non prevede tale competenza).

([37]) L’introduzione nel testo del D.lgs. 28/2010 del nuovo Capo II-bis, rubricato “Disposizioni sul patrocinio a spese dello stato nella mediazione civile e commerciale” è stata occasionata dall’approvazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, con la quale è stata conferita al Governo una delega legislativa recante, tra i principi e i criteri direttivi, quello dell’estensione del patrocinio a spese dello Stato alle procedure di mediazione e di negoziazione assistita (art. 1, comma 4, lettera a).

([38]) Le modalità di presentazione dell’istanza nonché i criteri di determinazione dell’importo degli onorari dovuti all’avvocato della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato nelle procedure di mediazione e di negoziazione assistita sono regolare nel D.M. 1° agosto 2023 – Incentivi fiscali nella forma del credito di imposta nei procedimenti di mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita (pubblicato in GU n.183 del 7-8-2023).

([39])In tal senso, fra le ultime, Trib. Livorno, 14 ottobre 2024, sent. n. 1032.

([40]) V. sul punto M. Lupano, La Corte estende il patrocinio a spese dello Stato in mediazione, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 1, 2022.

([41]) In particolare, il comma 1, dell’art. 92 c.p.c. prevede che “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue”. La disposizione recepisce il c.d. principio di necessità, in forza del quale la parte vincitrice ha diritto ad ottenere la rifusione non già di tutte le spese sostenute per la propria difesa, ma solo di quelle necessarie, con conseguente esclusione delle spese che, pur giustificate e necessitate dalla difesa in giudizio, il giudice ritenga superflue o eccessive.

([42]) In tal senso anche Trib. Novara, 1° settembre 2024, sent. n. 528.

([43]) Alcuni ritengono che l’esclusione del diritto nei casi di mediazione facoltativa potrebbe trovare giustificazione nella volontà di evitare il rischio di abusi, ovvero che i procedimenti vengano instaurati al solo fine consentire all’avvocato di maturare il diritto al compenso (V. sul punto M. Lupano, La Corte estende il patrocinio a spese dello Stato in mediazione, op.cit.).

([44]) In tale prospettiva, per così dire di “risparmio di spesa”, si pongono gli interventi riformatori degli ultimi tempi che, con il dichiarato intento di incrementare l’effettività e l’efficacia del ricorso alla procedura di mediazione, hanno introdotto importanti incentivi e benefici fiscali in materia (v. par. 2), da ultimo, con l’introduzione della facoltà di accedere al patrocinio a spese dello Stato anche per la procedura di mediazione obbligatoria.

([45]) Si osservi a tal proposito che nella citata sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2022, la Consulta attribuisce espressamente alla giurisdizione “natura sussidiaria rispetto alla mediazione stessa” (par. 9.1., considerando in diritto).