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Nel contesto della riforma Cartabia la proposizione della domanda con ricorso è sufficiente a qualificare l’atto introduttivo come ricorso semplificato?
Di Maria Laura Guarnieri -
Trib. di Catanzaro, II sez., ord. 25/5/2023
La mera proposizione della domanda con ricorso in vigenza della riforma recata dal D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 e s.m.i. (cd. Riforma Cartabia), non è sufficiente ai fini della qualificazione dell’atto introduttivo come ricorso semplificato ex art. 281-decies e ss. c.p.c.
1.L’ordinanza che si segnala interviene in un giudizio ex l. n. 117/1988 introdotto con ricorso subito dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina del processo di cognizione (d.lgs. n. 149/2022). Nel provvedimento, il giudice, dopo aver constatato che la domanda doveva formularsi con atto di citazione e che il giudizio doveva proseguire secondo le regole del nuovo processo ordinario, dava disposizioni per la conversione del rito.
Il passaggio al rito ordinario, ad avviso del tribunale, si reggeva sul presupposto che la mera proposizione della domanda con ricorso non fosse sufficiente a qualificare l’atto introduttivo come ricorso semplificato. Pertanto, tenuto conto della data di deposito dell’atto, di poco successiva all’entrata in vigore della riforma, e dopo un richiamo all’art. 4, d.lgs. n. 150/2011, il giudicante rinviava ad una nuova udienza concedendo i termini ex art. 171-ter c.p.c.
La motivazione dell’ordinanza presta il fianco a qualche critica ma offre al contempo l’occasione per sviluppare delle prime considerazioni sul mutamento del rito nel nuovo processo di cognizione (la letteratura sul tema è ormai densa di contributi, si citano tra i tanti: G. Balena, Il (seminuovo) procedimento semplificato di cognizione, in Il giusto processo civile, 1/2023, 1 ss.; G. P. Califano, Il “rito semplificato” di cognizione, Bologna, 2023; A. Carratta, Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (II parte) – Due modelli processuali a confronto: il rito ordinario e quello semplificato, in Giur. It., 2023, 3, 697 ss.; R. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione (artt. 281-decies, 281-undecies, 281-duodecies, 281-terdecies c.p.c., in R. Tiscini (a cura di), La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pisa, 2023, 405 ss.).
2. Non avendo altri elementi, se non il testo dell’ordinanza, per ragionare attorno all’argomento usato dal giudice per motivare il provvedimento di conversione, due possono essere le situazioni processuali prospettabili: o il giudice ha disatteso la scelta dell’attore di introdurre il giudizio nelle forme semplificate, decidendo di instradare la causa sul binario ordinario a prescindere dalle condizioni che oggi ne giustificano l’applicazione, oppure ha ritenuto implicitamente che per qualificare l’atto introduttivo come ricorso semplificato occorra un quid pluris che l’atto introduttivo del giudizio in discorso non aveva. Entrambe le prospettive necessitano di essere indagate.
La prima, per essere adeguatamente investigata, presuppone un rapido cenno al sistema di raccordo che il legislatore della riforma ha instaurato tra il rito semplificato e quello ordinario. Si tratta di un meccanismo di conversione bidirezionale, che si sviluppa cioè sia in favore del rito ordinario, sia in favore del rito semplificato, la cui attivazione è condizionata al verificarsi di circostanze ben precise (sulla piena comunicazione tra i due riti: A. Merone, Il nuovo procedimento semplificato e la disciplina del mutamento del rito. Tanto rumore per nulla?, in Il Processo, 2023, 2, 675).
Le norme implicate nel meccanismo di conversione del rito sono gli artt. 183-bis e 281-duodecies, comma 1, c.p.c. A norma dell’art. 281-duodecies, comma 1, quando la causa è introdotta con ricorso egli può convertire il rito riversando la causa nella sede ordinaria ove, all’esito della prima udienza riscontri la mancanza dei presupposti di cui all’art. 281-decies, comma 1, c.p.c., ovvero ritenga che la causa non possa essere trattata nelle forme semplificate a causa della complessità della lite o dell’istruzione probatoria. Un potere speculare di conversione del rito – a cui è sotteso un analogo potere di indagine sulla complessità della controversia – è riconosciuto al giudice a norma dell’art. 183-bis c.p.c. nelle cause (erroneamente) introdotte con atto di citazione rispetto alle quali ricorrono invece i presupposti prescritti dall’art. 281-decies, comma 1, c.p.c.
Nel disegno del legislatore, dunque, il rito in concreto applicato è frutto di una duplice osservazione sulla natura della controversia. La scelta iniziale la compie l’attore sulla scorta di una valutazione prognostica della complessità/semplicità della lite e dell’istruttoria, potendo egli al momento della proposizione della domanda soltanto prevedere come si svilupperà la difesa del convenuto. Alla valutazione dell’attore si aggiunge quella compiuta dal giudice ai sensi degli artt. 171-bis, 183-bis, 281-duodecies, comma 1 c.p.c., il quale, facendo uso dei poteri di case management determinerà in concreto il canale processuale percorribile (sul tema si v. di M. De Cristofaro, Case management e riforma del processo civile: tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, 282 ss.).
Nel quadro dei rapporti appena tracciati possiamo giungere a due conclusioni: per un verso, è l’attore che scegliendo la forma della domanda (citazione/ricorso) determina il rito applicabile alla causa fintanto che il giudice non ne disponga la conversione; per altro verso, il potere discrezionale del giudice di convertire il rito nell’una o nell’altra direzione (ordinario/semplificato) deve in qualche modo trovare giustificazione in una valutazione della complessità dell’istruttoria (ossia delle condizioni descritte nell’art. 281-decies, co. 1 c.p.c.), in uno con il sindacato sulla complessità della lite.
Se sono queste le relazioni tra il giudizio ordinario e il procedimento semplificato, ad una prima lettura del provvedimento in epigrafe sembrerebbe che il giudice abbia ignorato la scelta dell’attore di incardinare il giudizio con ricorso (il quale richiama l’applicazione delle forme semplificate fino alla prima udienza), ed abbia scelto di applicare le norme che regolano il nuovo giudizio ordinario di cognizione prescindendo del tutto da una verifica delle condizioni che oggi rendono possibile l’organizzazione del processo secondo il modello disciplinato negli artt. 171-bis ss. c.p.c., e ciò in quanto nell’ordinanza non vi è traccia della valutazione circa la sussistenza (o meno) dei presupposti descritti dall’art. 281-decies, comma 1 e richiamati dall’art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c.
Nella vicenda in esame un minimo di motivazione sul punto sarebbe stata opportuna. Riteniamo, infatti, che sebbene ci si trovi davanti ad una fattispecie in cui l’applicazione del procedimento semplificato è possibile solo se sussistono i presupposti di snellezza tipici delle cause semplici, poichè appartiene al novero delle cause ex art. 50-bis c.p.c. (c.d. semplificato obbligatorio: sulla distinzione tra rito semplificato obbligatorio e facoltativo si v. per tutti A. Carratta, Le riforme del processo civile. D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, in attuazione della l. 26 novembre 2021, n. 206, Torino, 2023, 79 ss.), il provvedimento di conversione dovrebbe sempre esternare le ragioni che inducono il giudicante a mutare il rito, anche se insindacabile. Ciò in quanto l’appartenenza della causa alla decisione dell’organo collegiale non può generare una presunzione di complessità (istruttoria) che esonera il giudice da ogni valutazione attorno all’esistenza dei presupposti per applicare il procedimento semplificato di cognizione.
3. La seconda prospettiva, come premesso, apre all’eventualità che il giudice abbia ritenuto necessario un quid pluris per l’instaurazione del processo con le forme semplificate che nell’atto introduttivo mancava. Di fronte a questo secondo scenario viene da chiedersi se vi siano elementi che – nel contesto della riforma – un ricorso deve contenere per poter essere qualificato come ricorso semplificato e se sia sufficiente rivestire l’atto introduttivo della forma del ricorso per giustificare l’applicazione del rito semplificato.
Quanto ai contenuti dell’atto introduttivo, l’art. 281-undecies, comma 1, c.p.c. impone all’attore che sceglie il rito semplificato di predisporre un ricorso dal contenuto corrispondente a quello dell’atto di citazione (si v. F. P. Luiso, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, 132 ss.). Ad avviso di chi scrive, tuttavia, per innescare la sequenza procedimentale semplificata non basta rivestire l’atto introduttivo della forma del ricorso. Da una lettura delle norme che disciplinano l’ambito applicativo del rito semplificato (art. 281-decies c.p.c.) e la conversione del rito (art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c.) è possibile individuare un contenuto ulteriore che l’atto introduttivo dovrebbe presentare per poter essere qualificato come ricorso semplificato.
Visto il potere del giudice di convertire il rito sulla scorta di una valutazione discrezionale della complessità dell’istruttoria e della lite, l’attore che intende avvalersi delle forme semplificate per la trattazione e la decisione della controversia dovrebbe articolare a sostegno della propria scelta una prognosi circa la non contestazione dei fatti costitutivi (dello stesso avviso G. Fabbrizzi, Considerazioni sul procedimento semplificato di cognizione, in Riv. dir. proc., 2023, 4, 1572), dovrebbe valorizzare la presenza di prove documentali a dimostrazione dei fatti costitutivi e formulare al contempo le richieste istruttorie (di avviso contrario A. Merone, Il nuovo procedimento, cit., 676), tanto allo scopo di offrire al giudice una prospettiva su quella che potrebbe prefigurarsi un’istruttoria non complessa. Parimenti, all’interno del ricorso dovrebbe evidenziare la non complessità della lite, questa volta sulla base di elementi che potrebbero essere già in suo possesso quali, ad esempio, la semplicità della questio iuris, l’assenza di un cumulo di domande (fatte salve le difese del convenuto che potrebbero evolvere nella proposizione di una domanda riconvenzionale), la presenza di un solo convenuto e la probabile assenza di terzi interessati all’intervento o da coinvolgersi coattivamente.
È evidente che gli elementi (che potremmo definire) qualificanti il ricorso semplificato non sono richiesti a pena di nullità. Fatta eccezione per le richieste istruttorie, la cui assenza all’interno dell’atto potrebbe al più rilevare in termini di decadenza, per l’operare di possibili preclusioni[1], i contenuti che si sono appena descritti avrebbero la funzione di mantenere l’azione processuale sulla corsia semplificata, evitando la conversione del rito o, quanto meno, lo scopo di fornire al giudice un ventaglio di riferimenti cui agganciare la scelta del modello procedimentale in concreto più adatto alla trattazione e alla decisione della causa.
Si badi però che la mancanza di tali elementi all’interno dell’atto non può valere a giustificare la conversione del rito, poiché dalla mancanza degli elementi qualificanti il ricorso non si può far discendere la volontà dell’attore di instaurare un rito diverso, né tanto meno il potere del giudice di convertire il rito, dovendo il provvedimento di conversione passare sempre da una valutazione dei presupposti di cui agli artt. 281-decies e 281-duodecies, comma 1, c.p.c. Diversamente ragionando si eliderebbe la facoltà dell’attore di optare per il procedimento semplificato anche per le cause (come quella che viene alla nostra attenzione) riservate alla decisione collegiale.
4. Merita qualche considerazione anche il richiamo all’art. 4, d.lgs. n. 150/2011 (sul d.lgs. n. 150/11, si v. B. Sassani-R. Tiscini, La semplificazione dei riti civili, 2011, Roma; M. Bove, Non viene meno la frammentazione dei riti ma solo quella dei testi di legge da consultare, in Guida al dir., 2011, fasc. 27, 8 s.; C. Consolo, Prime osservazioni introduttive sul d.lgs. n. 150/2011 di riordino (e relativa “semplificazione”) dei riti settoriali, in Giusto proc. civ., 2011, 1490 ss.). Inserito nel testo dell’ordinanza quasi a voler rafforzare l’opzione della conversione, il riferimento normativo non ci sembra pertinente rispetto al contesto processuale in cui è evocato, giacché la controversia di cui si discute non rientra fra quelle che il d.lgs. n. 150/2011 assoggetta al regime di semplificazione dei riti. In quella cornice normativa l’art. 4 ha la funzione di regolare il mutamento del rito per le ipotesi in cui una controversia soggetta ad uno dei riti semplificati sia introdotta con forme diverse da quelle prescritte dal decreto (sulla disciplina del mutamento del rito prescritta dall’art. 4 d. lgs. n. 150 del 2011 si v. M. Bove, Applicazione del rito lavoro nel d.lgs. n. 150 del 2011, in www.judicium.it; R. Tiscini, Mutamento del rito, in La semplificazione dei riti civili a cura di B. Sassani e R. Tiscini, Roma, 2011, 44 ss). In caso di errore sul rito la disposizione fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda – valorizzando la forma in concreto adottata dall’attore-ricorrente – e lascia sopravvivere nel procedimento virtuoso il regime di preclusioni che connota il rito errato, stabilendo a chiare lettere che «restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento» (cfr. comma 5 dell’art. 4, d.lgs. n. 150/2011).
Il regime processuale declinato dalla norma, tuttavia, ha una operatività contenuta. La giurisprudenza di legittimità considera la disposizione come eccezionale e la ritiene applicabile esclusivamente nell’ambito tracciato dal testo normativo in cui è inserita (Cass. civ., 25 maggio 2018, n. 13072, in Giustizia Civile Massimario, 2018. In termini analoghi Cassazione civile sez. un., 13 gennaio 2022, n. 927, in Foro it., 2022, 9, I, 2793).
Lo stesso limite operativo l’art. 4, d.lgs. n. 150/2011 dovrebbe incontrarlo quando si renda necessario convertire il rito nei rapporti tra cause semplici e cause complesse, rispettivamente assoggettate alla disciplina del procedimento semplificato di cognizione e del giudizio ordinario a norma dell’art. 281-decies c.p.c. E ciò in quanto le norme implicate nel meccanismo di conversione (il riferimento è agli artt. 183-bis e 281-duodecies c.p.c.), sebbene cronologicamente successive all’art. 4, d.lgs. n. 150/2011 fanno parte di un corpo di disposizioni caratterizzato da generale applicabilità, essendo il processo ordinario e il processo semplificato riti applicabili in relazione alla generalità delle controversie civili, ben oltre la prospettiva applicativa segnata dai capi III e IV del d.lgs. n. 150/2011.
In quest’ordine di idee quando il transito dal rito semplificato al rito ordinario sia giustificato dalla complessità della lite o dell’istruttoria e la controversia non rientri fra quelle di cui al capo IV del d.lgs. n. 150/2011, la sola norma idonea a regolare il mutamento del rito è l’art. 281-duodecies comma 1, c.p.c. Parimenti, quando il passaggio dal rito semplificato al rito ordinario riguardi una controversia non complessa al contempo estranea al catalogo di cui al capo III del d.lgs. n. 150/2011, la norma che viene in rilievo ai fini della conversione è solo l’art. 183-bis c.p.c.
5. Qualche ultima notazione in ordine alle ricadute processuali dell’ordinanza in commento. Due sono i riflessi che il provvedimento di conversione produce sul processo. Uno riguarda l’adattamento delle attività svolte nel rito di provenienza al rito di approdo. L’altro, strettamente correlato al primo, concerne le conseguenze della violazione delle norme che regolano il mutamento del rito, posto che il giudice nel caso di specie ha disposto la conversione senza valutare i presupposti che la giustificano. Quanto al primo profilo, nel caso in esame, a seguito della conversione il rito ordinario riprende dal momento dello scambio delle memorie ex art. 171-ter c.p.c. con la piena reintegrazione delle parti nell’articolazione della fase introduttiva. Quanto al secondo profilo, riteniamo non ci siano margini per invertire la rotta del processo o per contestare la scelta organizzativa del giudice. La direzione che giudice ha impartito al processo si rivela irreversibile, trattandosi di una valutazione discrezionale non sindacabile dalle parti (già con riferimento al procedimento sommario di cognizione si v. Cass. civ., 10 maggio 2022, n. 14734 e Cass. civ., 5 settembre 2019, n. 22158). Gli art. 183-bis e 281-duodecies c.p.c. qualificano l’ordinanza non impugnabile, disegnando attorno al provvedimento uno statuto normativo ben preciso, quello delle ordinanze non modificabili e non revocabili di cui all’art. 177, comma 3, n. 2, c.p.c. (cfr. A. Merone, Il nuovo procedimento, cit., 682). Ciò implica che l’andamento del processo è definitivamente stabilito e «non si può tornare indietro» (l’espressione è di F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, cit., 141). Né tanto meno è possibile prospettare un pregiudizio al diritto di difesa tale da giustificare l’impugnazione della sentenza conclusiva del giudizio. Si consideri infatti che il nuovo rito ordinario, a dispetto del rito semplificato, offre alle parti la più ampia possibilità di esercitare il diritto di difesa, sviluppandosi su uno scambio di note integrative in cui attore e convenuto possono trattare tutte le questioni di fatto e di diritto sottese alla controversia. Per cui difficilmente si potrà lamentare la contrazione del diritto di difesa quando il giudice si determina erroneamente a convertire il rito da semplificato a ordinario.
[1] La considerazione espressa nel testo potrebbe trovare conferma qualora venisse definitivamente approvato il decreto legislativo correttivo n. 137/2024, attualmente in esame alle Camere, che intervenendo con l’art. 3, comma 2, lett. n), sulla disciplina del passaggio dal rito ordinario al rito semplificato, lascia intravedere la presenza di preclusioni istruttorie a carico delle parti sin dagli atti introduttivi del procedimento semplificato di cognizione. La presenza di preclusioni sin dagli atti introduttivi del processo semplificato è preannunciata anche da L. Salvaneschi, Luci e ombre nello Schema di decreto legislativo correttivo e integrativo delle disposizioni processuali introdotte con la riforma Cartabia, in www.judicium.it, § 7.