Note impromptu sul danno in re ipsa in Sez. Un. n. 33645/2022 e Sez. Un. n. 33659/2022.

Di Bruno Sassani, Beatrice De Santis -

Le due sentenze (gemelle) delle Sezioni Unite, intese a fissare il tema dell’ammissibilità del c.d. danno in re ipsa, rispondono alle due ordinanze di rimessione avutesi a distanza di poche settimane l’una dall’altra: in data 17 gennaio 2022 (da parte della III Sez.) e in data 8 febbraio 2022 (da parte della II Sez.). Le ordinanze avevano reso evidente l’urgenza di affrontare e risolvere una volta per tutte – questo era l’auspicio – il problema relativo alla prova del danno nell’ipotesi di occupazione sine titulo ed in particolare se, in tale materia, il pregiudizio dovesse o meno considerarsi in re ipsa.

Oggi le Sezioni Unite ammettono in linea di principio il concetto di danno in re ipsa (e in questo si può dire che aderiscono alla linea della seconda sezione) nell’ipotesi  dell’occupazione sine titulo  del terzo, anche se poi finiscono per attenuare la soluzione sul piano pratico.

Tre principi di diritto sono espressamente enunciati:

1.“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;

2.“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato”;

3.“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato”.

Le S.U. riconoscono quindi in apicibus la figura del danno in sé ammettendo che l’occupazione senza titolo sia fattispecie del diritto al risarcimento del danno per la sua attitudine a ostacolare o escludere il diritto di godimento. Con questa posizione  – riflessa dal primo principio di diritto – sembra superata la posizione ostile della terza sezione che, per esigenze di sistema, mira ad evitare il riconoscimento stesso della figura in linea di principio.

Contemporaneamente, però, è inserito un robusto freno alla potenzialità espansiva di tale riconoscimento. Infatti il danno in questione non solo va inteso quale danno da perdita subita (danno emergente), ma si deve manifestare come perdita della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento del bene. La concretezza della possibilità di esercizio – che può essere diretto o indiretto (concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo) –  indica perciò la necessità di individuare una perdita attuale, escludendo quindi la risarcibilità della perdita potenziale.

Sul presupposto della prova della perdita attuale (cioè dei fatti che permettono di concludere che la perdita – lungi dall’essere solo potenziale, in quanto meramente connessa allo status di proprietario – è legata ad un comportamento effettivamente impedito), il secondo principio di diritto detta la regola della determinazione del quantum nel caso (frequente) della difficoltà di prova dell’ammontare preciso: in tal caso il danno è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, eventualmente mediante il parametro del canone locativo di mercato.

Quanto poi al mancato guadagno, la Corte lo esemplifica nello specifico pregiudizio subito, quale la mancata concessione, a causa dell’occupazione, del godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato, ovvero la mancata vendita ad un prezzo più conveniente di quello di mercato. Questo pregiudizio deve ovviamente essere provato (cosa, peraltro, di cui nessuno ha mai dubitato).

In altri termini, le Sezioni Unite aprono all’idea del danno in re ipsa inteso come effetto del mancato godimento, ma ne riducono immediatamente la portata poiché ne impediscono l’espansione inserendo la necessità della prova di un danno concretamente subito. Che poi l’esistenza di tale danno si possa provare per presunzioni (come detto in motivazione) non toglie che esso finisca sempre per consistere in un danno-conseguenza, in un fatto da allegare e provare  quale fatto-pregiudizio conseguente al fatto-evento.

Questo attenua molto il riconoscimento iniziale della idoneità dell’occupazione abusiva a ledere il diritto di godimento: una lesione è concreta se è specifica, ed è specifica se non si riduce alla lesione generica del diritto di godimento. Sicché si ricade inevitabilmente nel danno-conseguenza che il danneggiato ha l’onere di provare; e che non è affatto presunto nel senso di presunzione-inversione (criterio di distribuzione dell’onere, art. 2728 c.c.): qui presunto significa frutto di un procedimento probatorio per presunzioni ex  art. 2729 c.c. Qualcosa che presuppone i risaputi oneri di allegazione e che lascia al nostro “occupato” il rischio di vedersi rigettata la domanda.

Detto questo d’impulso, e in attesa dei tanti commenti che certamente investiranno la scelta delle Sezioni Unite, completezza vuole che qui si espongano le posizioni assunte dalle due ordinanze di rimessione nel quadro di un dibattito quanto mai affollato di contributi dottrinale e giurisprudenziali.

III SEZ: la vicenda rimessa alla Cassazione prendeva avvio dalla richiesta di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale promossa da una società commerciale che aveva acquistato un immobile, che veniva però occupato parzialmente sine titulo da parte del convenuto. La ricorrente, che aveva acquistato il fabbricato in sede di esecuzione forzata circa 10 anni prima, lamentava quindi i danni subiti a causa dell’immobilizzazione dell’investimento, con particolare riferimento all’impossibilità di mettere a frutto l’immobile parzialmente occupato. Tuttavia Corte d’Appello di Firenze rigettava la domanda risarcitoria ritenendo che, anche se l’occupazione illegittima risultava ictu oculi, il risarcimento del danno non potesse essere considerato in re ipsa, trattandosi di un danno conseguenza, non sufficientemente provato dalla proprietaria ricorrente, che si era limitata ad evidenziare la sua ragione sociale e ad allegare una perizia giurata di un’immobile del valore di un milione di euro (e che, tra i danni allegati, metteva anche il costo del denaro preso a mutuo per l’acquisto).

II SEZ: La vicenda alla base della ordinanza di rimessione della II Sez. origina invece dalla domanda di rivendicazione e di risarcimento dei danni che la società attrice lamentava avverso un condominio che aveva occupato alcune aree adibite a parcheggio di proprietà società medesima e che, con una serie di condotte integranti turbative, aveva impedito all’attrice di vendere. In seguito ad un primo annullamento con rinvio pronunciato dai giudici di legittimità, la Corte d’Appello di Cagliari aveva accolto la domanda di rivendicazione avanzata dalla attrice, rigettando, di contro, la correlata domanda di risarcimento dei danni, non sussistenti in re ipsa[1].

Il dibattito sul punto ha generato nel tempo spesso orientamenti confliggenti in seno alle sezioni semplici. Può essere utile ripercorrere in breve gli orientamenti emersi in giurisprudenza[2]:

1)Un primo orientamento assume che il danno da occupazione senza titolo sussista in re ipsa, in quanto la perdita di un bene immobile si sostanzia nella perdita della facoltà di godere e di disporre del bene stesso. Ne deriva che la semplice perdita della disponibilità del bene da parte del titolare comporta l’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera dello stesso (secondo l’id quod plerumque accidit). In questo caso la quantificazione del risarcimento può essere operata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, facendo riferimento al cd. danno figurativo, cioè al valore locativo del bene abusivamente occupato[3], ferma restando, in alternativa, la possibilità di una liquidazione in via equitativa.

Tale presunzione avrebbe carattere non già assoluto ma relativo, iuris tantum, lasciando inalterata la possibilità, per il convenuto, di fornire la prova contraria, ossia la prova che il proprietario non avrebbe comunque sfruttato economicamente l’immobile.

A questa ricostruzione si obietta che essa rischia di essere ‘‘frutto di un assioma piuttosto che di un ragionamento presuntivo’’[4]: difatti sul punto la massima di esperienza per cui il bene immobile è dotato di una vocazione intrinsecamente fruttifera sarebbe smentita anche dall’istituto giuridico dell’usucapione, il quale conferma proprio come non sempre il proprietario scelga di mettere l’immobile a frutto[5].

2)Un’altra ricostruzione, diversamente, riconduce il danno da occupazione abusiva alla categoria del danno-conseguenza, derivandone la necessità per il danneggiato di provare l’effettiva lesione arrecata al proprio patrimonio per non aver potuto sfruttare economicamente il bene (p.e. locandolo, vendendolo, o utilizzandolo in altro modo)[6].

Questo perché vi è il timore, caro alla nostra tradizione civilistica in materia di responsabilità civile, che il danno in re ipsa possa fungere da grimaldello per erodere la funzione compensativo-riparatoria del risarcimento rendendola punitiva, in mancanza dell’intermediazione legislativa e quindi oltre i casi in cui ciò – a partire dalle Sez. Un. n. 16601/2017– risulta ammesso.

Difatti per tale orientamento, ove il danno da occupazione sine titulo di un immobile fosse in re ipsa, si configurerebbe un pregiudizio economico ritenuto conseguenza automatica di una data lesione, andando ben oltre le presunzioni, ed approdando alle pendici dei danni punitivi.

3)In via mediana poi si colloca una terza impostazione giurisprudenziale, che tende a stemperare la portata del contrasto, rinvenendo nella prova presuntiva il trait d’union degli orientamenti suesposti. In questo senso si osserva che il contrasto giurisprudenziale sarebbe soltanto apparente in quanto la tesi del danno in re ipsa non prescinde dall’accertamento di un danno effettivo, ma si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva[7].

Del pari ad una logica mediana aderisce anche da chi, pur prendendo formalmente le distanze dalla espressione “danno in re ipsa”, finisce poi per ricondurre il pregiudizio nell’alveo del danno–conseguenza ritenendo che la “esigenza di allegare e provare ‘l’intenzione concreta di mettere l’immobile a frutto’ confligge con l’affermazione della possibilità del ricorso a presunzioni. Difatti, trattandosi di praesumptio hominis, essa non attiene alle deduzioni delle parti, ma all’operato del giudice, il quale se ne avvale per risalire dagli elementi di fatto acquisiti ai fatti costitutivi della fattispecie sottoposta al proprio esame, ai sensi dell’art. 115, 2° comma, c.p.c., nella misura in cui rientrino nella sfera del notorio, ovvero avvalersi allo stesso modo delle c.d. massime d’esperienza, precipuamente intese a governare il ragionamento di tipo presuntivo”.[8]

Le due ordinanze hanno ad oggetto la medesima problematica ma guardata da due punti di vista parzialmente diversi (anche in conseguenza del diverso carico di lavoro che compete alle due sezioni rimettenti). Difatti entrambe si pongono l’interrogativo circa l’ammissibilità o meno del danno in re ipsa in materia di occupazione sine titulo, ma poi seguono percorsi diversi.

E difatti:

-l’ordinanza della II Sez. si muove lungo la linea del danno risarcibile, operando la distinzione di cui all’art. 1223 c.c. tra danno emergente e lucro cessante, mirando a verificare se il rovescio patrimoniale da occupazione sine titulo debba qualificarsi come “perdita” o come “mancato guadagno”, ovvero se debba considerarsi risarcibile ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 c.c. la compressione della facoltà di godimento del bene abusivamente occupato. Viene, quindi, operata una differenziazione tra danno subìto a causa della perdita di godimento diretto del bene – sussistente in re ipsa – e danno consistente nel mancato guadagno provocato dall’impossibilità di impiegare il bene “secondo la sua vocazione fruttifera”.

-l’ordinanza della III Sez. viene impostata sui confini degli oneri probatori a carico delle parti, quindi pone maggiormente l’attenzione sulla prova del danno da occupazione abusiva e sul ricorso alle presunzioni.

La rimessione, passa in rassegna le aree dei risarcimenti patrimoniali e non patrimoniali in cui si è sperimentata la categoria del danno in re ipsa e fra gli esempi più significativi richiama, in primo luogo, le pronunce di San Martino in materia di danno alla persona, ma poi anche le altre ipotesi del danno da fermo tecnico, del danno da sostanziale incommerciabilità del bene promesso in vendita una volta concluso il preliminare, del danno alla reputazione e all’immagine derivante da ingiusto protesto, del danno da diffamazione, del danno da vacanza rovinata, del danno da immissioni di rumore intollerabili, del danno da lesione dei dati personali…fino ad arrivare al danno da occupazione sine titulo di un immobile.[9]

Quindi la questione è presentata da due distinte angolazioni: da un lato, la III sez. si interroga sull’ammissibilità della qualificazione del danno in questione come danno in re ipsa, richiamando il dibattito già caro alla III Sez. con riguardo ad altri temi (quale, in primis, quello del danno non patrimoniale[10], dall’altro lato, la II sez. colloca al centro del discorso la struttura del diritto di proprietà, il quale si scinde nel potere di disporre, la cui lesione sarebbe destinata a risolversi solo in un lucro cessante, per il quale varrebbero in toto gli oneri di specifica allegazione e prova del pregiudizio lamentato, e nel potere di godere, dove invece a venire in considerazione sarebbe l’impedimento a ricavare dal bene occupato l’utilità diretta, ossia il godimento cui fa riferimento l’art. 832 cc, che non dovrebbe richiedere altra prova ulteriore rispetto a quella del fatto generatore del danno.[11]

Quindi:

-nella ordinanza della II Sez. in un certo senso si evoca una concezione reale del danno: vi è, cioè, una sorta di riemersione della possibilità di accreditare una concezione del danno, attinente alla compressione del potere di godimento in quanto tale del bene, anche a prescindere dalla possibilità di ritrarne frutti civili o naturali.

Questa impostazione consente di ipotizzare una duplice tutela risarcitoria, e, con riferimento alla componente statica del diritto di proprietà – che si riconduce all’utilizzo diretto del bene da parte del titolare del diritto – accorda la suddetta tutela in conseguenza della lesione in sé del godimento del bene (lesione produttiva di un danno-conseguenza che finisce per coincidere col danno-evento). In tal caso sussisterebbe la prova del danno in sé, in considerazione della sola perdita del diritto di godimento in capo al titolare (liquidabile secondo il criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c., al quale rimanda l’art. 2056 c.c., senza esclusione della possibilità di ricorrere – quale parametro di riferimento – al criterio di quantificazione riconducibile al c.d. “danno figurativo”).

Il danno in re ipsa è categoria invece particolarmente osteggiata dalla Terza Sezione, che di converso evidenzia come una tale ipotesi di danno si ponga in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui ciò che rileva ai fini risarcitori è il solo danno conseguenza (da allegare e provare), sia con lo sbarramento effettuato dalle medesime Sezioni Unite con riferimento ai danni punitivi.[12]

E tuttavia alla fine, pur muovendo da differenti ricostruzioni, in un certo senso si converge nel riconoscere che, se tra le facoltà del proprietario vi è quella di godere del bene anche scegliendo di non utilizzarlo, è difficile negare che l’occupazione sine titulo del bene stesso – per ciò solo – sia astrattamente produttiva di un danno.

Il contrasto sembra, allora, stemperarsi (almeno in parte) per il fatto che entrambi gli indirizzi riconoscono la facoltà di provare il danno mediante il ricorso alle presunzioni semplici o al fatto notorio. Il vero problema sta, dunque, nel contenuto del danno: se si tratti, cioè, di un danno emergente o di un lucro cessante, con tutto quanto ne consegue sul piano probatorio. Ciò, a sua volta, impone di prendere posizione sul contenuto del diritto di proprietà, stabilendo se il mero mancato godimento del bene possa integrare un danno.

Alle Sezioni Unite si ponevano così varie e intrecciate questioni.

La prima riguardava la configurabilità del danno in re ipsa – o meglio della sua prova – nell’ipotesi di danno da perdita di godimento per l’occupazione abusiva. La risposta affermativa alla prima questione avrebbe spostato la questione sull’onere di allegazione e prova del danno da mancato guadagno connesso alla mancata disponibilità dell’immobile. La risposta negativa a tale quesito avrebbe imposto, al contrario, di sciogliere il secondo punto problematico, consistente nella prova del danno da occupazione sine titulo, alla luce dei diversi orientamenti illustrati dall’ordinanza III Sezione.

Alla fine, dunque, ciò che emerge dalle due ordinanze di rimessione rispetto a cui hanno fatto da arbitro le Sezioni Unite, è che il dibattito tende inevitabilmente a scivolare dal piano sostanziale – quello della configurabilità del risarcimento nel caso di danno in re ipsa – al piano (processuale) dell’onere della prova. Anche l’indirizzo che ripudia l’ammissibilità di un danno presunto acconsente poi, alla fine, di andare ad alleggerire l’onere della prova gravante sul danneggiato, giungendo quasi ad una sua inversione, mediante il ricorso allo strumento delle presunzioni semplici. Le distanze fra i risultati attinti dai due orientamenti sono, in realtà, meno rilevanti di quanto appare prima facie.

La risposta di compromesso delle S.U. si muove, appunto, in una prospettiva riduzionistica. Ammessa in linea teorica, la nozione di danno in re ipsa viene stemperata finendo per approdare sul rassicurante terreno fatto di allegazione del pregiudizio, prova presuntiva, liquidazione in via equitativa.

Molto rumore, senz’altro; se per nulla, per poco oppure per molto lo diranno i futuri sviluppi.

[1] C. Barberio, Il danno da occupazione sine titulo di un immobile è in re ipsa?, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, n. 4/2022, pp. 775 ss.

[2] Cass., sez. II civile; ord. interlocutoria 8 febbraio 2022, n. 3946 e Cass., sez. III civile; ord. interlocutoria 17 gennaio 2022, n. 1162, in Foro.it, 2022, I, pp. 959 ss., con ampia nota di A.M.S. Caldoro.

[3] V. ex multis Cass., 7 gennaio 2021, n. 39; Cass. 23 novembre 2018, n. 30472; Cass. 21 ottobre 2018, n. 29990 e v. anche, nella medesima direzione, Cons. Stato, sez. IV, 27 maggio 2019, n. 3428.

[4] Cass., 4.12.2018, n. 31233, sez. III.

[5]G. Longo, Il danno derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Danno e resp., 2019, pp. 394 ss..

[6] V., anche qui, ex multis, Cass. 25 maggio 2021, n. 14268; Cass. 25 maggio 2018, n. 13071.

[7]V. Cass. 27 luglio 2015, n. 15757; e Cass. 27 giugno 2016, n. 13224 da cui si ricava che l’allegazione di determinate caratteristiche materiali e specifiche qualità giuridiche del bene immobile consentono di pervenire alla prova – fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit – che quel tipo di immobile sarebbe stato destinato ad un impego fruttifero.

[8] Cass. 12 maggio 2021, n. 12633, che, sia pur limitatamente all’occupazione abusiva da parte della P.A, aggiunge che, “[o]ve non si ritenga necessario uno sterile omaggio all’onere dell’allegazione in materia aquiliana, va quindi osservato che […] la durata pluriennale delle occupazioni rende ardua anche la mera indicazione, che non sia meramente assertiva, delle destinazioni che il danneggiato avrebbe inteso dare al bene occupato da altri soggetti”.

[10] v. Cass., ord. n. 1162/2022.

[11] Così C. Scognamiglio, Il danno ingiusto e la sua prova: l’occupazione abusiva di un immobile, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, n. 4/2022, p. 893.

[12]Anche se sul punto v. P. Trimarchi per cui la liquidazione equitativa del danno da “perdita”, più che in guisa di danno punitivo, si porrebbe come liquidazione di un danno incontestabile, ma difficile da provare, in Responsabilità civile punitiva?, in Riv. dir, civ., 2020, 687, 710 s., il quale, riguardo al danno di chi ha agito in giudizio, rileva che «un’insufficienza può derivare da difficoltà di prova o da una concezione restrittiva del danno risarcibile. Il problema di un’efficace tutela del danneggiato, anche quando la natura del danno implichi difficoltà di prova, si risolve con l’introduzione di semplificazioni probatorie e liquidazioni forfetarie … tutto ciò non ha nulla a che fare con finalità punitive o esemplari, ma semplicemente con la finalità di approssimare, nella misura del possibile, un’efficiente compensazione del danno da illecito.