Novità (del 2022) sul titolo esecutivo

Di Bruno Capponi -

Sommario: 1.- Abbandono della formula esecutiva. 2.- Dubbi sul regime transitorio. 3.- Certezza del diritto rappresentato nel titolo e spedizione in forma esecutiva. 4.- Abrogazione dell’art. 476 c.p.c.

1.- In tema di esecuzione forzata, la più rilevante novità tra quelle portate dal d.lgs. n. 149/2022 è stata l’abolizione della spedizione in forma esecutiva per i titoli di formazione giudiziale e amministrativa e così l’abbandono della formula esecutiva secondo il letterale dettato dell’art. 475, comma 3, c.p.c. (testo abrogato); ora, i titoli utili ai fini esecutivi debbono semplicemente essere «rilasciati in copia attestata conforme all’originale» (art. 475, comma 1, nuovo testo).

Sono stati modificati gli artt. 475, 478, 479 e l’art. 488 c.p.c.; l’art. 476 c.p.c. (altre copie in forma esecutiva) è stato abrogato (con l’art. 154 disp. att.). In altre norme di dettaglio, che qui non vale la pena ricordare (cfr. la Relazione al d.lgs. n. 149), è stato eliminato il riferimento alla spedizione e alla formula esecutiva.

Colpisce che un passaggio letterale della formula esecutiva (abrogato art. 475, comma 3, c.p.c.) sia stato inserito, quale nuovo ultimo comma, nell’art. 474 c.p.c.: «Il titolo è messo in esecuzione da tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e da chiunque spetti, con l’assistenza del pubblico ministero e il concorso di tutti gli ufficiali della forza pubblica, quando ne siano legalmente richiesti». È evidente che nel nuovo contesto tale passaggio mantiene, al più, un valore puramente descrittivo; ma è certamente sintomatico che il legislatore delegato, nel momento stesso dell’eliminazione della formula esecutiva, abbia avvertito il bisogno di mantenerla nel c.p.c. (sia pure allo stato di “rudere”) quasi ad avvertire che l’esecutorietà, olim da quella garantita, è ora propria del titolo esecutivo in sé (fatto di cui, a dire il vero, nessuno dubitava).

Non molto chiara è la ragione del mantenimento dell’obbligo, in capo al creditore, di presentare l’originale del titolo esecutivo a richiesta del g.e., come prevede il comma 2 dell’art. 488 c.p.c. (nuovo testo). Infatti, la norma abrogata prevedeva la possibilità, per il g.e., di autorizzare il creditore procedente a depositare, in luogo dell’originale, una copia autentica del titolo (si discuteva se spedita o no in forma esecutiva) e tale previsione era ricollegata: (a) alla regola secondo cui poteva essere rilasciata una sola copia del titolo in forma esecutiva (abrogato art. 476 c.p.c.); (b) al diritto del creditore procedente a valersi cumulativamente dei diversi mezzi di espropriazione forzata (art. 483 c.p.c., norma invariata). Peraltro, quanto ai titoli spediti in forma esecutiva il termine “originale” è sempre stato usato impropriamente perché quella spedita per l’esecuzione era pur sempre una copia, mentre l’originale del titolo (che è uno soltanto) era conservato in raccolta dall’ufficio giudiziario come dal notaio.

Nel nuovo contesto, ogni copia attestata conforme autorizza il compimento degli atti dell’esecuzione, e tra le varie possibili copie non sarà dato di individuare un “originale” (sia pure nella lezione impropria di cui s’è appena detto), neppure nel senso di “primo” originale (ossia di copia rilasciata per prima). Secondo la Relazione al d.lgs. n. 149 (commi 34 e 35), la regola sarebbe stata mantenuta «anche in considerazione del fatto che vi sono in circolazione ancora molti titoli non in copia digitale»; ma la circostanza avrebbe al più autorizzato di dettare una specifica disposizione transitoria, con applicazione limitata nel tempo, non certo il mantenimento di una norma del c.p.c. “a regime” i cui riferimenti obiettivi più non esistono.

Nel “correttivo” della riforma (A.C. n. 137, trasmesso alla Presidenza il 6 marzo 2024) si prevedono nuovi interventi sull’articolo 488 c.p.c. appena modificato: 1) al primo comma, le parole «fascicolo telematico» sono sostituite dalle seguenti: «fascicolo informatico»; 2) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il creditore è obbligato a presentare l’originale del titolo esecutivo nella sua disponibilità, il duplicato informatico o la copia attestata conforme all’originale a ogni richiesta del giudice».

Come si vede, tali interventi non riguardano il tema qui segnalato.

2.- La norma transitoria ad hoc [(art. 35, comma 8, d.lgs. n. 149 nel testo modificato dalla legge di stabilità per il 2023 (n. 197/2022)] prevede che: «Le disposizioni di cui all’articolo 3, comma 34, lettere b), c), d) ed e), si applicano agli atti di precetto notificati successivamente al 28 febbraio 2023». Le lettere richiamate si riferiscono, rispettivamente, agli artt. 475, 476, 478 e 479 c.p.c.; l’atto di precetto è invece disciplinato dall’art. 480 c.p.c., norma che non è stata interessata dalla riforma.

Le norme sulla confezione del titolo esecutivo e così sull’apposizione della formula nulla hanno a che vedere con la compilazione dell’atto di precetto. Tra l’altro, non è detto che la notificazione di titolo e precetto sia sempre contestuale, e anzi nel caso dell’esecuzione contro la P.A. la notificazione del titolo deve precedere di ben quattro mesi quella dell’atto di precetto (art. 14 decreto-legge n. 669/1996 convertito dalla legge n. 30/1997 e successive modifiche).

L’impressione è che una disciplina transitoria che avrebbe dovuto essere riferita alle soppresse norme che regolavano l’apposizione della formula sia stata invece riferita a un atto (il precetto) che a quella stessa formula è del tutto estraneo; ciò, probabilmente, perseguendo l’obiettivo di collocare l’efficacia della novella in epoca successiva al 28 febbraio 2023. Obiettivo senz’altro non colto: chi, separatamente dall’atto di precetto (che regge la norma transitoria), avesse dovuto notificare dopo il 28 febbraio un titolo formato prima di quella data non avrebbe potuto sapere – in applicazione della normativa in esame – se quel titolo richiedeva la spedizione in forma esecutiva oppure no.

Dobbiamo così chiederci quale avrebbe dovuto essere una disciplina transitoria utile, a fronte della riforma degli artt. 475, 476, 478 e 479 c.p.c.

La risposta è semplice: si trattava infatti di capire se l’abolizione della formula esecutiva interessasse i soli titoli formati (provvedimenti pubblicati o atti rogati) dopo il 28 febbraio 2023, ovvero se le nuove norme avrebbero dovuto trovare applicazione anche con riferimento a titoli formati prima di quella data.

La necessità di una disciplina transitoria ad hoc deriva dal fatto che si potrebbe ritenere che il titolo venuto ad esistenza prima del 28 febbraio trascini con sé, anche dopo quella data, il regime al quale esso resta soggetto in base alla fondamentale regola tempus regit actum; così come potrebbe ritenersi, sulla base del diverso principio dell’applicazione immediata delle norme processuali (salvo un diverso regime transitorio), che l’avvenuta abrogazione, a far data dal 28 febbraio 2023, dell’istituto dell’apposizione della formula renda quello stesso istituto, che più non esiste, inapplicabile anche ai titoli formati prima di quella fatidica data (c’è qui il rischio dell’applicazione retroattiva delle nuove norme).

Il problema ricorda da vicino quello che si pose, dopo il 1990 (legge n. 353), a seguito della modifica dell’art. 282 c.p.c. col riconoscimento dell’efficacia provvisoriamente esecutiva a tutte le sentenze di primo grado («la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti»). Di fronte a tale novità, la prevalente dottrina si era orientata nel senso di ritenere che tutte le sentenze di primo grado, appellabili o appellate, fossero interessate dalla riforma: anche quelle alle quali la clausola di esecutorietà fosse stata negata dal giudice di primo grado o sospesa dal giudice d’appello, in applicazione del vecchio testo dell’art. 282 c.p.c. Le cancellerie dei tribunali vennero prese d’assalto. Fu necessaria un’apposita norma transitoria (art. 4 decreto-legge n. 571/1994, convertito dalla legge n. 673/1994), per richiamare, relativamente alle sentenze pubblicate prima del 30 aprile 1995 (data di entrata in vigore della riforma), l’applicazione degli artt. 282, 283 e 337 c.p.c. nel testo anteriormente vigente: l’aspetto curioso della vicenda è che la norma transitoria del 1994 non ha fatto che confermare la regola generale sulla successione delle leggi nel tempo, che la prevalente dottrina aveva deformato sovrapponendo i concetti di applicazione immediata e applicazione retroattiva della legge processuale.

La regola generale della disciplina transitoria del d.lgs. n. 149 (art. 35, comma 1, sempre nel testo novellato dalla legge n. 197/2022) è che «le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data». Non è chiaro, né risulta dai lavori preparatori, per quale ragione il legislatore abbia pensato a una disciplina ad hoc per l’abolizione della formula esecutiva: verosimilmente, ha ragionato sul riflesso per cui, in carenza di titoli spediti in forma esecutiva, non potevano darsi “procedure esecutive pendenti”.

Se è vero che gli interventi del legislatore sul titolo esecutivo hanno sempre posto problemi per la scarsa chiarezza di idee sulle nozioni di diritto intertemporale (volto a identificare la disciplina applicabile nel “conflitto di leggi”) e diritto transitorio (volto a dettare regole particolari per facilitare il passaggio dal vecchio al nuovo regime), è però la prima volta che una disciplina transitoria propria di un certo atto (il titolo esecutivo) viene impropriamente riferita a un altro atto non interessato dalla riforma (il precetto) lasciando la modifica del primo del tutto priva di disciplina transitoria ad hoc. Il legislatore delegato ha pensato di risolvere il problema del quando titolo e precetto dovessero essere notificati, non anche del cosa dovesse essere oggetto di quella notifica.

3.- Sul requisito della “certezza” del diritto rappresentato nel titolo occorre svolgere qualche breve premessa.

Anzitutto, il nostro sistema, a differenza di altri, non prevede un’autorizzazione giudiziale al compimento degli atti dell’esecuzione forzata, che è quanto dire un controllo preliminare sui requisiti di contenuto-forma del titolo esecutivo.

Inoltre, nel nostro sistema l’esecuzione è virtualmente separata dalla cognizione, ragion per cui il titolo esecutivo – istituto che quella separazione è destinato a realizzare – deve contenere ogni possibile informazione volta alla realizzazione coattiva del diritto.

Per questo la giurisprudenza, guardando opportunamente agli aspetti pratici, ha da sempre ritenuto che certezza del diritto equivalesse a identificazione documentale del soggetto che ha diritto di richiedere, del soggetto che deve prestare e dell’oggetto della prestazione (per tutte, Cass., n. 1455/1983) e, appunto, l’insieme combinato di tali elementi deve risultare chiaramente dal titolo.

La stessa giurisprudenza, tuttavia, non ha tenuto conto delle medesime esigenze pratiche laddove ha ritenuto – con orientamento altrettanto stabile – che la nozione di “parte” di cui all’abrogato art. 475, comma 2, c.p.c. non fosse riferita alla persona bensì al centro di interessi (e così in caso di successione dal lato attivo la spedizione in forma esecutiva eseguita in favore del dante causa potrà essere utilizzata dall’avente causa, sebbene non identificato dal titolo), che l’irregolarità o addirittura la mancanza della formula esecutiva rappresentassero mere nullità riassorbibili e addirittura che la denunzia, in sede di opposizione agli atti, del vizio della spedizione in forma esecutiva dovesse implicare la dimostrazione dello specifico pregiudizio sofferto non essendo configurabile un diritto astratto al rispetto delle regole formali dettate dal codice di procedura.

È così rimasto in ombra che in caso di successione dal lato attivo la spedizione in forma esecutiva poteva svolgere la funzione di attualizzare i riferimenti del titolo, identificando il soggetto che, a seguito del fenomeno successorio, era legittimato a compiere gli atti dell’esecuzione. Anche questo fenomeno poteva essere posto in relazione alla “certezza” del diritto rappresentato nel titolo esecutivo, ma in argomento la giurisprudenza ha sempre scelto di utilizzare un metro diverso svalutando l’istituto della spedizione in forma esecutiva quale inutile residuo del passato (non diversamente da quello che è, oggi, l’ultimo comma dell’art. 474 c.p.c.).

La ragione di simile svalutazione deriva probabilmente da un equivoco: la giurisprudenza ha inteso affermare che non era la spedizione in forma esecutiva a imprimere, dall’esterno, l’esecutorietà al titolo giudiziale (che ne fosse di per sé sprovvisto); e, una volta riconosciuto che quel titolo possedeva l’efficacia esecutiva senza alcun bisogno di interventi esterni, si è persa di vista ogni possibile altra funzione della spedizione.

Invece, paradossalmente, le esigenze di certezza del titolo appaiono molto più pressanti in caso di successione dal lato attivo, perché mentre nell’ipotesi contraria è il titolo stesso che identifica il soggetto attivamente legittimato, nel caso della successione il soggetto che agisce non è quello che risulta creditore in base al titolo: di qui la necessità della sua identificazione nella formula.

L’intervento demolitorio del legislatore delegato ha ovviamente esaltato il problema, e ciò è avvenuto in un contesto economico-sociale in cui sono sempre più frequenti e diffusi i fenomeni di successione (cessioni in blocco, cartolarizzazione, gestione dei crediti non performanti etc.). È quindi sempre più frequente che il debitore si trovi di fronte un creditore a lui del tutto sconosciuto, il quale agisce in base a un titolo formato a favore dell’originario titolare del credito che, d’altra parte, potrebbe già aver formato oggetto di ripetute cessioni (ciò rappresenta la normalità nel settore bancario).

È dunque più che legittimo il dubbio che l’art. 475, comma 2, c.p.c., quando avvertiva che «la spedizione del titolo in forma esecutiva può farsi soltanto alla parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l’obbligazione, o ai suoi successori, con indicazione in calce della persona alla quale è spedita», volesse appunto identificare con certezza “la persona” legittimata al compimento degli atti dell’esecuzione e tale “persona”, in caso di successione, avrebbe dovuto richiedere a suo nome la spedizione in forma esecutiva del titolo appunto al fine di identificarsi come legittimato, del tutto prescindendo dal fatto che una precedente spedizione fosse stata eseguita a favore della parte indicata nel titolo, non più titolare del diritto. In simile prospettiva, la cessione del diritto avrebbe dovuto fungere da elemento risolutivo della formula, che finiva per rappresentare una situazione non più attuale; ma tale prospettiva non è mai stata recepita dalla giurisprudenza, che ha di fatto posto le premesse dell’intervento demolitorio che si sta commentando.

4.- L’abolizione della spedizione in forma esecutiva e della relativa formula ha trascinato con sé l’abrogazione della regola secondo cui non poteva essere posta in circolazione più di una copia esecutiva del titolo (abrogato art. 476 c.p.c.); regola la cui ratio era quella di prevenire l’abuso delle esecuzioni fondate sul medesimo titolo anche da parte di soggetti diversi dall’effettivo creditore, salva l’applicazione dell’art. 483 c.p.c. (cui sopra abbiamo fatto cenno), che tuttavia richiedeva il compimento di talune formalità.

Si tratta di un tema connesso a quello della identificazione del creditore in base al titolo, perché l’unica copia esecutiva avrebbe dovuto identificare l’unico soggetto (risultante dal titolo ovvero dalla spedizione in forma esecutiva in caso di successione) avente diritto di procedere ad esecuzione forzata.

Nella situazione attuale – è curioso che si parli al riguardo di “semplificazione” – può invece avvenire che una pluralità di soggetti diversi, in quanto successivi titolari del diritto di credito, proceda agli atti dell’esecuzione forzata senza che il titolo valga a identificare il soggetto effettivamente legittimato; l’identificazione del reale o attuale creditore sarà possibile soltanto all’interno del processo esecutivo, grazie all’opposizione del debitore che contesti, in capo a chi stia agendo, l’esistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Come attenta dottrina ha osservato, non è escluso il conflitto tra creditori, i quali si ritengano legittimati ad agire anche in relazione a possibili vizi dei negozi che abbiano autorizzato la circolazione del diritto di credito. Senza contare che, già nel sistema abrogato, non sono stati infrequenti i casi di ripetuto esercizio dell’azione esecutiva, in base al medesimo titolo, nei confronti di enti e pubbliche amministrazioni che non sempre hanno la possibilità di controllare il corretto comportamento del creditore (di qui le prassi, in uso presso vari tribunali, di non restituire il titolo esecutivo al creditore soddisfatto ovvero di restituirlo con una stampigliatura in cui si dia atto dell’avvenuta soddisfazione, totale o parziale).

Possiamo quindi parlare, come in altre recenti riforme di istituti dell’esecuzione forzata (si pensi, per tutti, alla straziata materia del pignoramento presso terzi), di “semplificazione” che è e resta tale soltanto in assenza di contenziosi; tramite i quali, è ovvio, si riverseranno nella sede dell’esecuzione forzata questioni – anche quelle legate alla “certezza” del titolo – che avrebbero dovuto essere risolte prima. Ci sembra indubitabile che l’unico titolo esecutivo avente (anche) la funzione di identificare senza incertezze il soggetto legittimato all’esecuzione era – con tutti i suoi limiti – un istituto che dava un contributo alla separatezza dei ruoli tra cognizione ed esecuzione così come alla certezza del diritto posto a base dell’esecuzione forzata. Contributo che avrebbe dovuto essere apprezzato anche da chi – e si tratta senz’altro della maggioranza – pensava che l’esecutorietà fosse propria del titolo in sé, non il portato della spedizione in forma esecutiva.

(*) Relazione tenuta il 6 maggio 2024 al corso su Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata e custodia dei beni pignorati organizzato dall’Università del Sannio (prof. Ernesto Fabiani). L’origine dello scritto giustifica l’assenza di note di riferimento.