Novità sul concetto di dolo della parte nell’art. 395, n. 1, c.p.c. (a proposito di Cass. sez.  I, ord. 31 gennaio 2023 n. 2862)

Di Manfredi Latini Vaccarella -

1.La vicenda processuale.

La prima sezione della Corte di cassazione, con ordinanza del 31 gennaio 2023 n. 2862 ha accolto il ricorso presentato da una società pubblica avverso la sentenza emessa, in sede di revocazione, della Corte di appello di Roma del 1 dicembre 2020 n. 6029[1]. L’ordinanza è unica nel suo genere, poiché costituisce il primo caso – dato anche dalla particolarità della vicenda – in cui si è affermato il principio di diritto secondo cui al debitore ceduto è consentito  esercitare la revocazione della sentenza «effetto del dolo di una parte in danno dell’altra» verso il creditore cessionario anche se la condotta dolosa è stata posta in essere dal cedente: la «funzione della revocazione non è quella di sanzionare la parte avvantaggiata in quanto, e perché, autrice della condotta dolosa, ma è quella di impedire che l’altra parte subisca il danno derivante dal fatto oggettivo che al giudice è stato impedito di formarsi correttamente il proprio prudente convincimento)».

La vicenda processuale merita di essere rapidamente ricostruita.

Una società pubblica veniva condannata, prima dal Tribunale di Roma e successivamente dalla Corte di appello di Roma nel 2017, al pagamento di un’ingente somma di denaro a titolo risarcitorio per responsabilità extracontrattuale nei confronti di una società privata, rigettando l’eccezione di prescrizione essendo stato il termine interrotto da una lettera che invitava la società pubblica a risarcire i danni. Il ricorso per cassazione veniva dichiarato intempestivo e quindi inammissibile con la sentenza n. 13446 del 2020.

Il 22 febbraio 2018, veniva notificata da parte della società pubblica la citazione per revocazione della sentenza del 2017 della Corte di appello di Roma, ai sensi del primo motivo, in quanto «effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra». Il tutto scaturiva dalla falsificazione della documentazione da cui risultava la ricezione della lettera che avrebbe dovuto interrompere la prescrizione e che invece non sarebbe mai pervenuta – perché mai inviata – alla società pubblica in quanto postuma ed artefatta. Nonostante ciò, il giudice di merito – dato atto della tempestività dell’impugnazione rispetto alla scoperta del dolo – rigettava la revocazione poiché sosteneva che il dolo ai sensi del primo motivo dell’art. 395 c.p.c. impone necessariamente un’imputazione soggettiva di chi ha portato a termine la condotta fraudolenta e non può essere imputabile (anche) a chi succede nel diritto di credito.

2. La successione nel diritto controverso inquinato dal dolo.

La società pubblica denunciava con due motivi la violazione dell’art. 395, n. 1, c.p.c. per avere la sentenza della Corte romana ritenuto decisiva, al fine di escludere il «dolo di una delle parti in danno dell’altra», l’assenza di un accertato collegamento tra la società cessionaria e il dominus (mandante della falsificazione del documento) della società cedente del diritto di credito poiché sarebbe esclusa la rilevanza nei confronti di quest’ultima, trattandosi di condotta antecedente alla cessione delle azioni. La ricorrente rimarcava come fosse inconcepibile che alla società pubblica, estranea alla cessione del diritto di credito, fosse impedito di «opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al creditore originario (cedente)».

La Corte di merito accoglieva la tesi difensiva della società cessionaria secondo cui quello rappresentato non costitutiva un fatto doloso da essa cagionato quale parte processuale, in quanto realizzato – secondo la società pubblica – in epoca precedente alla cessione delle azioni realizzate con atti negoziali successivi, con la conseguenza che la società cessionaria era verosimilmente all’oscuro dell’azione fraudolenta da accertare in sede penale. Pertanto, la ratio decidendi si basava sull’assunto che ad aver commesso il fatto doloso non fosse la società cessionaria e quindi non avrebbe nulla a che fare con chi ha materialmente compiuto l’atto doloso. Poiché la società cessionaria non sarebbe né autrice né consapevole della condotta dolosa, imputabile ad altri soggetti, non sarebbe configurabile la fattispecie del dolo revocatorio che dev’essere riferibile necessariamente ad «una delle parti» e quindi esclusivamente in senso soggettivo.

Tuttavia, come osservato dal giudice di legittimità, la controversia dev’essere esaminata alla luce della peculiarità della fattispecie, nella quale la società ha agito in giudizio nella veste di cessionaria e successore (a titolo universale o particolare che sia), per effetto della cessione delle azioni, nell’interesse della quale sarebbe stata compiuta l’azione dolosa da parte del suo dominus[2].

La Suprema Corte, a differenza del giudice di merito, pone la questione sul piano del rapporto tra cedente e cessionario nella successione a titolo particolare: «è noto che nel caso di cessione del credito il debitore ceduto (omissis) diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui lo era verso il creditore originario e, pertanto, può opporre al cessionario tutte le eccezioni sia dirette a far valere l’invalidità del titolo del credito e dell’originario rapporto sia i fatti estintivi e modificativi (pagamento e prescrizione) – anche anteriori al trasferimento – che avrebbe potuto opporre all’originario creditore cedente (ex plurimis, Cass. n. 9842 del 2018 e n. 1257 del 1988). Tale identica posizione il debitore ceduto conserva nel giudizio promosso dal cessionario, non potendo sostenersi che, in conseguenza di un fatto inter alios qual è la cessione del credito, le sue facoltà e diritto processuali vengano sacrificati rispetto a quelli che avrebbe avuto ove avesse agito il creditore originario».

Quindi, il successore a titolo universale o particolare (sarà il giudice di merito in sede di rinvio a verificarlo), non può essere considerato terzo poiché è l’effettivo titolare del diritto in contestazione, assumendo la stessa posizione del suo dante causa e venendo a profittare di tutti i diritti, le azioni e le facoltà inerenti al titolo[3].

Secondo questo principio nel caso della successione a titolo particolare nel diritto controverso anteriormente al processo non è ammessa l’impugnazione ordinaria, ex art. 111, ultimo comma, c.p.c., ma il successore è legittimato (ex art. 344 e 404, secondo comma, c.p.c.) ad impugnare la sentenza pronunciata tra il suo dante causa ed un terzo, nonché ad intervenire nel procedimento di impugnazione già instaurato, quando la sentenza impugnata sia effetto di dolo o collusione a suo danno (cfr. Cass. n. 4130 del 1976), non vi è ragione di ritenere che il debitore ceduto non sia legittimato ad impugnare per revocazione la sentenza di condanna nei suoi confronti che costituisca effetto di dolo del dante causa della controparte che ne abbia beneficiato nel processo.

Come osservato dalla Suprema Corte, la ricorrente nella sua memoria, sottolineava come «il diritto trasferito dal dominus alla società cessionaria è quello – inquinato dal dolo – del quale il dante causa, il dominus, disponeva: “imputabile alla parte” non significa che la parte debba esser autrice materiale del fatto doloso, ma che il fatto doloso “provenga” da essa. Se il diritto trasferito dal dante causa – qui quello del risarcimento – era stato tenuto in vita dal dominus grazie alla dolosa e fraudolenta “creazione” di un atto interruttivo della prescrizione, esso è pervenuto tal quale, con quella fraudolenta sua caratteristica, all’avente causa omissis: e certamente il fatto della cessione non ha mondato il diritto trasferito della sua dolosa e fraudolenta connotazione», non potendo ammettersi che le difese opponibili dalla parte ceduta siano menomate per effetto della cessione intervenuta tra altri soggetti.

Il giudice di legittimità ritiene senza ombra di dubbio, e avrebbe dovuto fare lo stesso anche il giudice di appello, che la falsificazione della lettera – il cui unico scopo era di interrompere la prescrizione – rientri in quella condotta «intenzionalmente fraudolenta che si concretizzi in artifici o raggiri volti a pregiudicare l’esito del procedimento (ex plurimis, Cass. n. 41792 del 2021) )» e perciò suscettibile di impugnazione per revocazione.

Il nocciolo dell’ordinanza può ricavarsi nella statuizione dei seguenti principi di diritto.

Innanzitutto, «la funzione della revocazione non è quella di sanzionare la parte avvantaggiata in quanto, e perché, autrice della condotta dolosa, ma è quella di impedire che l’altra parte subisca il danno derivante dal fatto oggettivo che al giudice è stato impedito di formarsi correttamente il proprio prudente convincimento)». Ed infatti, «l’ipotesi di cui al cit. art. 395 n. 1 c.p.c. richiede che la sentenza sia “l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra”, nel senso che essa avrebbe avuto un diverso contenuto in assenza della condotta fraudolenta (Cass. n. 4959 del 2016)».

La decisione della Corte romana secondo la Suprema Corte non è quindi compatibile «con il principio – che si deve qui formulare – secondo cui al debitore ceduto è consentito di esercitare l’azione di revocazione ex art. 395, n. 1, c.p.c. (per dolo di una parte) verso il creditore cessionario di un credito (nella specie, per responsabilità extracontrattuale e/o contrattuale), il quale si sia avvalso della condotta dolosa posta in essere dal creditore cedente (mediante falsificazione di una lettera con effetto interruttivo della prescrizione, al fine di tenere viva la pretesa risarcitoria altrimenti prescritta), con l’effetto di impedire la corretta formazione del convincimento del giudice nel giudizio instaurato dal cessionario nei confronti del debitore ceduto e di determinare la condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni».

Conclusivamente, l’istituto della revocazione deve essere inteso nel senso che il fatto doloso dà luogo a revocazione quando da un comportamento fraudolento è danneggiata una delle parti a vantaggio dell’altra. Il fatto che una parte benefici della condotta dolosa di un terzo dovrebbe essere motivo più che sufficiente, non tanto per censurare la parte, ma più semplicemente, per eliminare la sentenza che, grazie a quella condotta, ingiustamente danneggerebbe l’altra parte.

[1] A tal fine, si segnala la nota a sentenza Latini Vaccarella, Dolo della parte e successione nel diritto controverso, in Judicium – Il processo civile in Italia e in Europa, 2022, I, 129-144. Il richiamo a questa mia primissima nota, per quanto inelegante, è doveroso per una più dettagliata ricostruzione della vicenda processuale e i dubbi espressi sulla motivazione della Corte d’appello di Roma. Inoltre mi scuso con il lettore per aver trasposto erroneamente il numero della sentenza. Il n. 1817 è infatti quello dell’iscrizione a ruolo della causa.

[2] Per la dottrina sul punto si vedano soprattutto i maestri di fine Ottocento inizio Novecento per una ricostruzione dell’istituto che propende a valorizzarlo nel senso dell’ordinanza qui annotata. Si v. Gargiulo, Codice di procedura civile, vol. III, Napoli, 1887, 360; Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile, IV, Torino, 1896, 780; Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di procedura civile, Il procedimento di dichiarazione in prima istanza (fine) I mezzi per impugnare le sentenze, vol. IV, III, Milano, 1905; Attardi, La revocazione, Padova, 1959, 157-158 dove sottolinea lo stretto nesso di causalità tra il dolo di una parte a danno dell’altra e l’effetto della sentenza. Per la dottrina più recente si v. De Stefano, La revocazione, Milano, 1957, 124 dove l’autore si concerta in particolar modo sull’impatto del dolo revocatorio sulla decisione del giudice. Andrioli, Commentario al Codice di procedura civile, II, Napoli, 1960;  Godio-Onniboni, Commento art. 395 c.p.c., in AA.VV., Codice di procedura civile commentario, a cura di Consolo, Tomo II, Artt. 287-632, VI, Milano, 2018, 68-89; Petrillo, Commento all’art. 395 c.p.c., in AA.VV., Commentario del Codice di procedura civile, Tomo V, Articoli 395-473, diretto da Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Milano 2013, 33-88. Infine Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino, 2018, 725-726.

[3] Nell’ordinanza viene richiama la sentenza n. 8284 del 2016 dove si rimarca lo stesso principio per l’erede, successore nella situazione giuridica del de cuius e come esso non sia titolare di un diritto autonomo, bensì «di un diritto derivativo che lo legittima ad impugnare per revocazione o con l’opposizione di terzo una sentenza effetto di dolo o collusione ai danni del suo autore, tanto che se a costui sia rimasto precluso l’esercizio delle azioni trasmissibili con l’eredità, la medesima preclusione vale anche per il successore)».