Oltre la contesa: la conciliazione giudiziale come esercizio virtuoso della giurisdizione. Radici e valori di una antica tradizione giuridica.

Di Nicola Morgese -

1.La conciliazione giudiziale tra giurisdizione e prudentia iuris. 2. Criticità e nuove prospettive della conciliazione. Le novità della riforma Cartabia. 3. Il carattere pre-giudiziale della conciliazione: applicazioni recenti di un principio antico. 4. Dalla contesa all’intesa: un radicale cambio di prospettiva. Il ruolo decisivo del giudice. 5. Radici culturali della conciliazione e della disposizione all’intesa. L’attenzione per l’altro di Simon Weil e la lezione dell’Antigone. 6. L’utilitas della conciliazione. 7. In forma di conclusioni.

1.La conciliazione giudiziale tra giurisdizione e prudentia iuris.

Nell’attuale panorama giuridico, la conciliazione giudiziale si atteggia ad elemento cardine dell’esercizio della giurisdizione civile, come attestato dalla crescente attenzione del legislatore nel predisporre strumenti volti ad incentivarne la diffusione.

È infatti riconosciuto che la conciliazione non solo agevola la gestione dei conflitti ma alleggerisce anche il carico degli Uffici giudiziari, contribuendo a perseguire un servizio giustizia più efficiente e accessibile; costituisce, inoltre, un indicatore quantitativo di efficienza del sistema giudiziario, con importanti ricadute sia sugli indici di produttività (indici di ricambio e di smaltimento) sia sulla durata effettiva e prognostica dei processi (c.d. disposition time), assumendo per questo un rilievo primario ai fini del conseguimento dei target del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[1].

L’obiettivo immediato delle più recenti riforme, orientate a potenziare gli strumenti di risoluzione del contenzioso già presenti nell’ordinamento, non deve tuttavia far dimenticare il nucleo più profondo della conciliazione che esprime una prassi foriera di valori e condotte che vanno al di là delle sue ricadute pratiche.

L’intento di questo scritto è quello di riportarlo alla luce, contribuendo a disvelare le radici di un dispositivo che trova antichissime corrispondenze nella nostra tradizione culturale e giuridica.

Prima di approfondire tali aspetti, è opportuno porre l’accento su due punti che ci sembrano fondamentali.

In primo luogo, la conciliazione giudiziale non va intesa, come per troppo tempo si è ritenuto, come un’opzione processuale disgiunta o persino distante dalla giurisdizione[2], rappresentando piuttosto una declinazione della stessa sostanza tecnico-giuridica che produce la decisione giudiziale. Ne consegue che la stessa non può che essere ricompensa, come peraltro ritenuto da risalente dottrina, nell’alveo della giurisdizione contenziosa[3].

Se è infatti vero che, secondo la definizione di Carnelutti, la giurisdizione è attività di «composizione delle liti»[4], è indubbio che la conciliazione rappresenta uno dei modi attraverso cui questa composizione può essere raggiunta, sempre mediante l’intervento solutorio del giudice. Per di più, come annotava l’Autore, «la composizione ottenuta mediante la conciliazione ha nel pensiero della legge un carattere particolare (la giustizia) che la distacca dalla semplice composizione contrattuale e la avvicina alla composizione giudiziale…un equivalente del processo non tanto dal lato della efficacia quanto anche dal lato della sostanza»[5].

Seguendo tali coordinate, non coglie dunque nel segno l’argomentazione che mira a contrapporre la conciliazione all’attività giurisdizionale[6], sostenendo che solo quest’ultima sarebbe vincolata all’attuazione della legge. All’obiezione, infatti, è facile rispondere che la conciliazione giudiziale, pur godendo di maggiore flessibilità, ha di mira lo stesso risultato di giustizia perseguito dall’attività giurisdizionale strictu senso intesa e per questo non può prescindere, anche in virtù dell’intervento attivo del giudice, dal formale rispetto della legge e dei principi costituzionali.

Tale consapevolezza sembra ormai diffusa nella stessa giurisprudenza di legittimità[7] che di recente, proprio evidenziando la diversità esistente fra conciliazione giudiziale e composizione negoziale della lite, ha riaffermato la portata qualificante che nella prima assume la funzione del giudice. L’intervento giudiziario, infatti, unitamente al rispetto delle formalità di cui all’art. 88 disp. att., conferisce alla conciliazione una peculiarità distintiva rispetto ai normali negozi di diritto privato -fra cui la transazione-, con la conseguenza di «essere valida anche se ha ad oggetto diritti indisponibili».

Ciò detto e pervenendo al secondo punto nodale, va sottolineato che la conciliazione non è un dispositivo processuale qualsiasi ma è forse l’unico in grado di realizzare pienamente quella sintesi virtuosa tra giustizia e ragionevolezza in cui si compendia la principale qualità del giudice: quella prudenza deliberativa che si esprime tanto nell’interpretazione del diritto quanto nell’interpretazione dei fatti (e delle vere ragioni) che alimentano la contesa.

È infatti noto che la prudentia iuris, definita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite come un imprescindibile «connotato del mestiere del giudice»[8], esprime la capacità giuridica di cogliere gli elementi qualificanti della fattispecie e coincide con quella particolare sensibilità, messa a fuoco dall’esperienza pratica, di comprendere il quadro d’insieme delle cose, addentrarsi nell’ordito dei fatti e rinvenirne il punto focale (status causae).

È quindi evidente che l’impiego di tale specifica “qualità” del giudice appare imprescindibile ai fini conciliativi, in quanto il raggiungimento di una soluzione concordata presuppone pur sempre l’individuazione, nell’ambito delle contrapposte argomentazioni, di tutti gli elementi che possono fungere da catalizzatori per la composizione della lite.

In questo contesto, il giudice è quindi chiamato a identificare le specifiche ragioni e gli elementi in fatto e in diritto (c.d. indici di mediabilità e leve conciliative) che, opportunamente valorizzati, possono agevolare il raggiungimento di un’intesa tra le parti: operazione che richiede non solo una profonda conoscenza del diritto, ma anche una spiccata sensibilità alle dinamiche umane e sociali sottese al conflitto.

Condivise tali argomentazioni, risulta chiaro che il ricorso alla conciliazione non deve essere visto -come per troppo tempo è avvenuto- con malcelato disfavore ma piuttosto come l’occasione per i protagonisti del processo di cogliere una opportunità di segno qualificante: i) per le parti, di evitare una lunga e dispendiosa contesa legale, sobbarcandosi i relativi rischi e costi; ii)  per il giudice, di esercitare virtuosamente la prudentia iuris, con l’obiettivo di pervenire, sempre mediante l’impiego di risorse tecnico-giuridiche, ad una composizione condivisa e soddisfacente della lite.

2. Criticità e nuove prospettive della conciliazione. Le novità della riforma Cartabia.

Alla luce di tali premesse, è possibile superare definitivamente le esitazioni che hanno finora decretato lo scarso successo degli strumenti conciliativi, vincendo le resistenze culturali e organizzative che ne hanno osteggiato il percorso, fra cui, come indicato da autorevole dottrina[9]: «la maggiore propensione dei giudici a svolgere la funzione decisoria; la mancanza di una specifica formazione e preparazione; la mancanza di tempo; l’insufficienza di strutture e risorse strumentali; l’irrilevanza dell’attività ai fini della valutazione della carriera».

Proprio su tale ultimo aspetto, va subito detto che il disincentivo rappresentato dal mancato riconoscimento ai fini professionali delle attività conciliative è stato di recente superato dal disposto di cui all’art. 5 quinquies del D.lgs. n.28 del 2010, inserito dall’articolo 7, comma 1, lettera e), del D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che prevede ora la valorizzazione, in chiave premiale, del «numero e la qualità degli affari definiti con ordinanza di mediazione o mediante accordi conciliativi». Tali elementi, che dovranno essere anche oggetto di rilevazione statistica (comma 3), costituiscono oggi, proprio ai fini delle valutazioni di professionalità, «indicatori di impegno, capacità e laboriosità del magistrato», così da assumere la medesima dignità tecnica dell’attività decisoria.

Inoltre, come previsto dall’art. 5, comma 4, lett. b) del D.lgs. n.44 del 28.03.2024, in attuazione dell’art. 3, comma 1, lett. h e i) della L. 17.06.2022, n.71, (c.d. Legge delega per le riforma dell’ordinamento giudiziario), fra «i dati conoscitivi sull’attività giudiziaria svolta dal magistrato» richiesti ai fini della valutazione di professionalità è ricompresa per l’appunto l’attività «espletata con finalità di mediazione e conciliazione».

In coerenza con tali disposizioni, il legislatore delegato ha inoltre introdotto sul piano eminentemente processuale diverse misure volte ad incentivare il ricorso alla conciliazione giudiziale, incidendo principalmente sugli articoli 183 e 185 bis c.p.c.[10].

Come è noto, la prima novità introdotta dal D.lgs. 10 ottobre 2022, n.149 è fortemente indicativa e prescrive, ai sensi del novellato art. 183 c.p.c., l’obbligo per le parti di «comparire personalmente» all’udienza di «prima comparizione delle parti e trattazione della causa», proprio al fine di esperire attivamente il tentativo di conciliazione.

Il primo comma della norma stabilisce, infatti, che all’udienza fissata per la prima comparizione e la trattazione «le parti devono comparire personalmente», specificando che «la mancata comparizione… senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’articolo 116, secondo comma». In armonia con tale previsione, la norma dispone poi al 3 comma che: «Il giudice, interroga liberamente le parti, richiedendo sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e tenta la conciliazione a norma dell’art. 185».

Dal testo della norma appare indubitabile la volontà del legislatore di assegnare ai contendenti, anche mediante la previsione di una sanzione processuale, il compito di farsi direttamente carico della contesa, rendendosi parte attiva nel momento cruciale dell’apertura del processo. L’incontro personale con il giudice e l’interlocuzione con quest’ultimo, infatti, oltre a rappresentare un valore aggiunto per la qualità della giurisdizione, mirano ad impedire che lo schermo della rappresentanza processuale finisca, come troppo spesso accade, per generare fenomeni di deresponsabilizzazione, incentivando le parti a disinteressarsi del processo sino al suo epilogo giudiziario.

Non va dimenticato che la riforma del 1990 aveva già introdotto, ispirandosi al modello del processo del lavoro, l’obbligatorietà dell’interrogatorio libero nel corso della prima udienza ma nella pratica giudiziaria questa innovazione si rivelò un evidente insuccesso: ragione per cui con la riforma del 2005 venne ripristinata, al di fuori dei casi di richiesta congiunta delle parti, la discrezionalità del giudice nell’applicazione dell’istituto.

Il superamento del precedente assetto da parte del legislatore del 2022 va poi vagliato nel contesto della più ampia riforma della fase introduttiva del giudizio, secondo cui l’incontro con le parti avviene adesso a valle delle «verifiche preliminari» e delle memorie di cui agli artt. 171 bis e ter c.p.c.: situazione processuale che consente al giudice di tentare più opportunamente la conciliazione una volta definiti il thema decidendum e il thema probandum della disputa.

Un’altra significativa modifica riguarda poi l’art. 185 bis c.p.c. che, in coerenza con il nuovo quadro normativo, estende il previgente termine previsto per la formulazione della proposta del giudice: termine che, data la sua centralità, non trova più un limite nell’esaurimento dell’istruttoria ma coincide adesso con il successivo momento in cui è fissata l’udienza di rimessione della causa in decisione. Resta fermo che il 3 comma dell’art. 185 c.p.c. consente comunque al giudice di «rinnovare il tentativo di conciliazione» in qualunque fase dell’istruzione seppure, come precisato dalla novella, «nel rispetto del calendario del processo».

L’intervento di riforma conferma dunque la volontà del legislatore di rafforzare il ruolo del giudice nell’attività conciliativa, incentivandolo ad attivarsi in tal senso sin dall’udienza di prima comparizione e non solo, come nel previgente sistema, in presenza dei presupposti per la fissazione dell’udienza di cui all’art. 185 c.p.c..

3. Il carattere pre-giudiziale della conciliazione. Applicazioni recenti di un principio antico.

Va sottolineato che il modello di recente introdotto nel rito civile non costituisce un unicum nel panorama processuale ma si pone in sostanziale continuità con quanto previsto dall’art. 420 c.p.c.: disposizione introdotta nel rito giuslavoristico sin dal 1973[11] e applicata con successo dai giudici del lavoro[12] .

In particolare, come emerge dal testo della norma, modificata prima dall’art. 31, comma 4, della L. 4 novembre 2010, n. 183 e poi dall’art. 77, comma 1, lett. b) del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, l’impianto concettuale è sostanzialmente analogo a quello del combinato disposto degli artt. 183 c.p.c. e 185 bis c.p.c., contemplando un obbligo di condotta delle parti (tenute alla comparizione personale e ad esperire attivamente il tentativo di conciliazione, esprimendosi sulla proposta conciliativa del giudice) assistito da una sanzione processuale corrispondente all’art. 116 c.p.c., comma 2 -che permette al giudice di trarre argomenti di prova anche «dal contegno delle parti nel processo».

Il senso di tale sanzione, chiaramente tesa a rafforzare la serietà del tentativo di conciliazione, può essere colto con maggiore evidenza tenendo conto di quanto disposto dal comma 4, secondo cui: «Se la conciliazione non riesce e il giudice ritiene la causa matura per la decisione…il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza…».

Da questo inciso, infatti, ricaviamo un dato di notevole importanza spesso trascurato nelle sue implicazioni: il tentativo di conciliazione, piuttosto che un’eventualità rimessa all’arbitrio delle parti o del giudice assume nelle intenzioni del legislatore una valenza propedeutica rispetto all’avvio della causa, dovendosi procedere alla sua trattazione e decisione solo in caso di verificato insuccesso di tale esperimento («Se la conciliazione non riesce…»).

E questa scansione procedimentale, per effetto della recente riforma, deve intendersi estesa anche al rito civile ordinario atteso che, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 4, la trattazione della causa postula pur sempre l’avvenuto espletamento degli incombenti di cui al comma 3, con conseguente onere delle parti di comparire all’udienza e di prendere posizione sulla proposta conciliativa avanzata dalla controparte ovvero dal giudice.

Il carattere pre-giudiziale della conciliazione nell’ambito del giudizio non deve tuttavia sorprendere, ponendosi nel solco di una tradizione antica che risale alle origini della nostra esperienza giuridica, se è vero che, già agli albori del diritto romano, l’avvio del processo era condizionato dalla mancata conciliazione delle parti.  Ed infatti, nella legislazione decemvirale era previsto che i contendenti privati potessero procedere con il giudizio vero e proprio solo in caso di insuccesso del tentativo di composizione bonaria della controversia («Rem ubi pacunt, orato. Ni pacunt, in comitio aut in foro… causam coinciunto»[13]).

Analoga impronta si rinviene inoltre nell’ordinamento greco classico in cui le parti, prima di avviare il giudizio, erano tenute a comparire innanzi ad un arbitro pubblico (διαιτητής) che tentava la risoluzione della lite in via amichevole; solo in caso di fallimento di tale tentativo, la controversia poteva essere portata dinanzi ai giudici (δικασταί)[14] ovvero decisa dallo stesso arbitro secondo epieikeia[15].

È importante notare che sin d’allora la mancata cooperazione delle parti al tentativo di conciliazione era considerata, seppur nell’ambito di un diverso sistema di valori, come un comportamento reprensibile tanto che, come già rilevato in dottrina[16], costituiva un topos frequentemente diffuso nei resoconti delle cause private giustificare il ricorso al processo adducendo il rifiuto della controparte di percorrere le vie transattive o arbitrali.

In linea con tale impostazione, anche nell’attuale contesto normativo, il contegno ingiustamente riottoso da una delle parti durante la fase conciliativa assume rilievo, come detto, sia ai sensi dell’art. 116 c.p.c. sia ai fini della statuizione sulle spese, dovendosi al riguardo tener conto, come di recente precisato in termini assiologici dalla giurisprudenza di legittimità: «…non tanto della mancata conciliazione in sé, quanto piuttosto dell’abuso del processo e dello scorretto comportamento della parte che, pur nella sostanza vittoriosa, si sia sottratta ad una seria e ragionevole piattaforma conciliativa proposta o accettata dall’avversario»[17].

4.Dalla contesa all’intesa: un radicale cambio di prospettiva. Il ruolo decisivo del giudice.

Il riferimento alle origini della nostra esperienza giuridica ci permette a questo punto di mutare l’angolazione prospettica del discorso e di mostrare come la conciliazione, al di là delle sue ricadute processuali, rappresenti l’espressione di una concezione antica e per certi versi evolutiva della giustizia[18].

In quest’ottica, il processo giudiziario si svincola dalla logica del gioco a somma zero in cui il prevalere delle ragioni di una parte implica quasi sempre la soccombenza dell’altra, per configurarsi innanzitutto come un’occasione di incontro tra i contendenti primariamente volto, con l’ausilio di un soggetto terzo, alla ricomposizione del conflitto.

Si tratta di un ideale antico che affonda le radici nei primordi del sistema giuridico ma al contempo profondamente attuale, in quanto capace di rispondere alle esigenze di una società pluralistica come quella odierna in cui il dialogo e la mediazione degli interessi costituiscono valori imprescindibili.

Il ricorso a tale dispositivo, inoltre, consente di perseguire un altro obiettivo difficilmente raggiungibile sul piano contenzioso, in quanto mira all’estinzione radicale del conflitto e a disinnescare l’animosità ed il risentimento che persistono nei casi in cui la soluzione della contesa sia integralmente demandata alla decisione del giudice.

È indubbio, infatti, che mentre un accordo conciliativo può contribuire alla ricomposizione integrale della relazione perduta, estinguendo in tal modo il sentimento litigioso, la pronuncia della sentenza, a prescindere dal suo pregio giuridico, non conduce quasi mai ad un acquietamento delle parti. Più frequentemente essa produce, anche in ragione dell’esecuzione coattiva del titolo, l’innesco di un ulteriore confronto dialettico incentrato nella critica delle sue motivazioni.

Per uscire da questo labirinto, è dunque richiesto un diverso approccio al problema giuridico, capace di accantonare l’istinto di affermazione sull’avversario a vantaggio di una nuova sintassi del confronto improntata al dialogo: un atto di reciproca apertura che valichi la logica della con-tesa per approdare al raggiungimento di una in-tesa, secondo un cambio di prospettiva che rispecchia plasticamente il significato originario dei due termini.

Ed infatti, il termine contesa -dal latino contendere, composto dal prefisso con (insieme ma nei composti anche contro) e tendere (tendere verso, mirare) – sta ad indicare un tendere in direzioni opposte e contrastanti. Per questa ragione la contesa evoca propriamente uno scontro: un conflitto di interessi divergenti che si fronteggiano.

Al contrario, il termine intesa -dal latino intendere, formato dal prefisso in (verso) e tendere– esprime un tendere idealmente rivolto verso una medesima direzione; una tensione dell’animo verso qualche cosa che deve essere compreso. In fedele aderenza alle sue radici etimologiche, l’in-tesa si dispiega quindi quale espressione di una concordanza di vedute: un accordo raggiunto attraverso l’ascolto delle rispettive ragioni, volto ad infrangere il muro di incomunicabilità eretto fra i contendenti.

Sappiamo infatti che l’origine della controversia giudiziale, prima ancora che negli aspetti puramente tecnico-giuridici, si annida spesso in un moto di aprioristica negazione delle contrapposte ragioni dell’altro. È quando un soggetto rifiuta di riconoscere dignità alle rivendicazioni di un’altra parte che sorge il conflitto nelle più diverse forme: dalla discriminazione all’oppressione e che spesso, nei rapporti civili, prende forma di una controversia legale.

Buona parte della soluzione del problema passa quindi dalla capacità di prendere coscienza di questa preconcetta negazione e di riaprire consapevolmente un canale di dialogo con la controparte, ricostruendo quella relazione fra pari trasfigurata nel teatro del processo in uno infecondo conflitto fra antagonisti.

Risulta dunque indispensabile la presenza di un organo giudiziario che, ponendosi, almeno in questa prima fase, in una posizione mediana fra i contendenti (inter partes piuttosto che super partes) sia capace di sovvertire la dinamica conflittuale che ha originato la contesa e di trasformare la contrapposizione dialettica in giustapposizione dialogica di ragioni da armonizzare.

Questo obiettivo, tuttavia, non può scaturire meccanicamente dall’applicazione, seppur rigorosa, di semplici norme processuale ma è piuttosto il frutto di un’azione giudiziale complessa e sapientemente orientata.

In questo senso, il giudice è chiamato al delicato compito di rivolgersi alle parti con lealtà e franchezza e di invitarle, con linearità espressiva e gentili ammonimenti, a palesare i reali interessi in gioco, anche al di là delle posizioni formalmente assunte negli atti processuali; è in questi termini che va infatti interpretato il contenuto delle incombenze descritte nell’art. 183 c.p.c., secondo cui «il giudice interroga liberamente le parti richiedendo, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e tenta la conciliazione…».

Inoltre, spetta al giudice l’onere di offrire ai contendenti un realistico cambio di prospettiva, consentendo di osservare il conflitto da un punto di vista diverso da quello (a volte apodittico) contenuto negli scritti difensivi e di portarli a riflettere su una soluzione condivisa della contesa; del tutto corretta, in quest’ottica, appare quindi la scelta del legislatore di escludere, ex art. 185 bis c.p.c., che un intervento anche risoluto del giudice in questa fase, seguito dalla formulazione di una proposta mirata, possa «costituire motivo di ricusazione o astensione…».

Da ultimo ma non meno importante è il contegno richiesto al giudice nell’espletamento dell’attività compositiva che deve essere rivolto ad incoraggiare le parti ad intraprendere il percorso transattivo, presentando il tentativo di conciliazione non già come un inutile orpello ma come un’opportunità da cogliere nell’interesse di entrambe.

5. Radici culturali della conciliazione e della disposizione all’intesa. L’attenzione per l’altro di Simone Weil e la lezione dell’Antigone.

La complessa attività delineata dal legislatore, sebbene imprescindibile ai nostri fini, non è ancora sufficiente a garantire il successo del percorso conciliativo.  Per giungere a questo risultato è infatti essenziale che le parti in causa si convincano, a loro volta, del fatto che la soluzione del problema giuridico non passa tanto dall’affermazione della pretesa inviolabilità delle proprie ragioni quanto dalla volontà di annullare quella distanza, intrinseca nella polarità IoEsso[19], che è all’origine della disputa.

È necessario, in altri termini, che i contendenti assumano, anche grazie al sapiente intervento dei difensori e del giudice, un atteggiamento di apertura e dialogo che postula un ulteriore e preziosissimo tassello: l’esercizio di una particolare forma di attenzione per le ragioni della controparte.

Per cogliere appieno la rilevanza di questo aspetto, è utile fare riferimento alle riflessioni di Simone Weil la cui analisi, pur estendersi a tematiche di più ampio respiro[20], illumina aspetti significativi del nostro tema.

Nell’ambito dei suoi scritti, la pensatrice francese sottolinea a più riprese il valore centrale dell’attenzione come atteggiamento virtuoso, intesa come capacità di «sospendere il proprio pensiero»[21] per fare spazio alla realtà e l’importanza di saper assumere uno «sguardo attento» capace di accogliere pienamente l’altro: «l’essere che sta guardando così com’è, in tutta la sua verità»[22].

In questo senso, Weil elabora un’idea di attenzione per il prossimo che va ben oltre la semplice tensione cognitiva, per abbracciare una dimensione etica contrapposta alla naturale propensione a svalutare l’alterità.

Scrive in particolare Weil: «Una simile attenzione è creatrice. Ma nel momento in cui si produce è rinuncia. Per lo meno se è pura. L’uomo accetta di diminuirsi concentrandosi in un dispendio di energia che è diretto non ad accrescere il suo potere, ma solo a conferire esistenza a un altro essere, indipendente da lui. Per di più, volere l’esistenza dell’altro equivale a trasferirsi in lui per simpatia, e di conseguenza significa condividere il suo stato di materia inerte»[23].

Queste parole, cariche di tensione speculativa, invitano a comprendere come tale atteggiamento etico -che è sempre foriero di inaspettate rivelazioni- postula pur sempre una radicale rimodulazione del proprio istinto di affermazione, delineando un modello di interazione che costituisce la prima pietra per l’edificazione di una intesa.

Si tratta quindi di realizzare, anche nel contesto processuale, un cambio di postura rispetto all’approccio tipico dei contendenti ed incline ad attuare una vicendevole e parziale forma di rinuncia. Un moto che segue l’andamento tipico di chi si ritrae temporaneamente dalla linea di contesa, per lasciare spazio e prestare attenzione (tendere ad) alle altrui motivazioni.

Non è un caso che, sempre nel solco tracciato da Weil, un’altra pensatrice dello scorso secolo, Maria Zambrano, valorizzando l’importanza dell’attenzione nel discorso etico, evidenzia che la sua «prima azione» è costituita proprio da «…una ritirata del soggetto stesso, così da permettere alla realtà, proprio lei, di manifestarsi»[24].

Se infatti, come proverbialmente noto, ad alimentare la fiamma dei conflitti è la tendenza ad attribuire «a sé stessi la massima importanza, il minimo peso invece agli altri»[25], l’antidoto risiede quindi nella capacità di ritrarre il proprio io e la propria volontà di affermazione per consentire, anche attraverso un radicale cambio del linguaggio, la libera emersione delle (buone) ragioni dell’altro.  Tutto questo nella certezza, per nulla trascurabile, che come evidenziava ancora Weil: «Parole come “Ho il diritto di…”, “Non ha il diritto di…” racchiudono una guerra latente e svegliano uno spirito di guerra»[26].

È solo recuperando questa disposizione d’animo che può quindi instaurarsi fra i contendenti una relazione costruttiva che possa mirare all’intesa, capace di attecchire solo a condizione che entrambe le parti, accantonate le false lusinghe della “forza del diritto”, si dispongano lealmente su un piano paritario alla ricerca di una soluzione condivisa.

Questo approccio al problema giuridico -che è anche l’unico, poiché teso al ripristino della relazione con l’avversario, ad apparire vincente– non sorge dal nulla ma trova corrispondenza in un’antica forma di sapienza che emerge, fra l’altro, nei versi di uno dei capolavori del pensiero occidentale: l’Antigone di Sofocle. È in quest’opera che rinveniamo spunti preziosi per delineare la disposizione d’animo che dovrebbe assumere chi vuole saggiamente impedire il protrarsi di una contesa e rivolgere il conflitto verso una soluzione ragionevole.

Nella celebre tragedia, il personaggio di Emone, figlio di Creonte, lungi dal rappresentare, come spesso e a torto si ritiene, una figura secondaria nell’articolarsi del dramma, assume un suo primario rilievo, dando voce, in un contesto di insanabile conflitto fra le contrapposte visioni giuridiche (νόμος di Creonte e ἄγραπτα νόμιμα di Antigone), alla più nobili risorse della ragionevolezza e della mitezza.

In particolare, di fronte all’ostinazione del padre, Emone[27] lo esorta, agendo come un mediatore, a temperare i rigori della sua posizione, mutando il modo di rapportarsi agli altri, senza arroccarsi nell’idea -troppo spesso diffusa fra i contendenti- di essere l’unico depositario della giustizia: «Non trincerarti nell’idea che solo ciò che dici tu, e nient’altro, sia giusto».

Evidenzia infatti che la convinzione di essere, sempre e comunque, gli unici depositari del giusto, escludendo che «anche qualcun altro possa avere ragione», è spesso foriera di comportamenti ostinati che nascondono un «vuoto» inconciliabile con la vera giustizia[28].

Gli ingenui ammonimenti del giovane, a questo punto, cedono il passo ad una serie di immagini poetiche che esortano Creonte a mostrare flessibilità e saggezza nel conflitto con Antigone, attraverso l’illuminante metafora degli alberi lungo i torrenti in piena e del marinaio che, nel corso della tempesta, si ostina a tenere le scotte troppo tese.

Prosegue infatti il testo: «Sai bene come lungo i torrenti gonfiati dalle piene invernali gli alberi che si piegano (ὑπείκει) conservano i rami, mentre quelli che resistono finiscono divelti con tutte le radici. E allo stesso modo il marinaio che tiene troppo tese le scotte, senza mai allentarle, fa rovesciare l’imbarcazione e si trova a navigare a chiglia capovolta. Coraggio, ritraiti (εἴκε) e concedi al tuo animo qualche cambiamento. Se io, benché giovane, posso esprimere il mio pensiero, dirò che sarebbe stupendo se gli uomini possedessero per nascita la perfetta saggezza. Altrimenti…è buona norma imparare da chi dice il giusto».

Le celebri allegorie suggeriscono che per assumere, in ogni forma di conflitto, un atteggiamento improntato a saggezza, è richiesta la capacità di rendersi flessibile e di adattarsi alle diverse situazioni; di arretrare quando è necessario per fare spazio alle ragioni dell’altro nonché di modificare, anche ascoltando le altrui motivazioni, le proprie originarie convinzioni, il tutto in nome di una superiore forma di giustizia.

Non è un caso che il verbo εἴκω impiegato nel testo della tragedia e che significa, per l’appunto, ritrarsi, arretrare e cedere, è anche alla base del termine epi-eikeia, l’equità: un concetto ben noto ai giuristi e sviluppato originariamente da Aristotele che nell’Etica Nicomachea la definì la suprema forma di correzione della legge, là dove è difettosa per la sua universalità[29].

Ma questa è solo una delle accezioni del termine, atteso che nei lessici è attestato anche il significato di ragionevolezza e mitezza.

In tale contesto semantico, come ben evidenziato da Jacqueline de Romilly[30] con parole che riportano al nostro discorso, «l’epieikeia, designa piuttosto una disposizione interiore»; se infatti «La giustizia indica ciò che è dovuto a ciascuno, l’epieikeia invita ad accordare un po’ di vantaggio, a lasciare agli altri il beneficio del dubbio e a dare prova di indulgenza».

Ancora una volta, i testi classici sembrano consegnarci un insegnamento attualissimo, tanto più se applicato al nostro campo di indagine.

Chi ricerca la vera giustizia non si arrocca con ostinazione nelle proprie posizioni ma mantiene un atteggiamento equilibrato e flessibile; ripudia la caparbietà e sa adattarsi prudentemente alle circostanze; non si chiude mai in sé stesso ma ha somma cura delle ragioni dell’altro; non si ostina nei puntigli ma cerca sempre soluzioni ragionevoli: tutte virtù indispensabili ad una società civile che aspiri non solo a risolvere i conflitti, ma anche a prevenirli.

Pur con le dovute distinzioni, non può non avvertirsi in queste pagine l’eco delle parole di chi più di tutti ha saputo raccogliere, in tempi più recenti, l’eredità di questa antica tradizione, rievocando l’alto valore della mitezza quale «virtù sociale»[31].

E infatti, come annotava Bobbio nell’omonimo saggio, la mitezza è proprio quella «disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro», a riprova del suo carattere relazionale; inoltre, «mite», nell’accezione del filosofo torinese, «è colui che “lascia essere l’altro quello che è”, anche se l’altro è l’arrogante, il protervo, il prepotente. Non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere o alla fine di vincere. È completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità e quindi anche della vittoria»[32].

È evidente che, al di là delle diverse declinazioni, il tema che circola nelle pagine richiamate è unico e sembra condensarsi intorno ad un principio cardine: abbandonare lo spirito di rivalità e l’atteggiamento di rivalsa che anima le contese, oltre ad essere una scelta improntata a saggezza, scaturisce da una disposizione interiore ben precisa che incarna una superiore istanza etica.

Solo attraverso questo salto qualitativo è possibile sublimare la logica primaria dell’equivalenza perennemente sottesa al conflitto (se tu mi hai fatto questo, io “ho diritto” di farti questo) nella logica virtuosa del riconoscimento in cui fioriscono le conciliazioni.

6. L’utilitas della conciliazione

Quanto sinora esposto, per quanto sufficiente a riaffermare il ruolo eminente della conciliazione nell’ambito nostra esperienza giuridica, va raccordato, per completezza di esposizione, con la dimensione più immediata e pragmatica di questo dispositivo.

In tal senso, non è superfluo volgere l’attenzione agli innumerevoli vantaggi pratici che una conciliazione giudiziale può offrire rispetto ai processi tradizionali e che il giudice deve essere in grado di valorizzare nel dialogo di iniziale confronto con le parti.

La disamina, lungi dall’essere una mera considerazione utilitaristica, si configura come il naturale completamento dell’analisi finora condotta, fungendo da anello di congiunzione tra l’elevato piano dei principi etici e la realtà dell’esperienza giuridica quotidiana.

In primo luogo, è indubbio che la conciliazione produce un notevole risparmio di tempo, in quanto permette alle parti di risolvere le controversie in modo più celere rispetto ai processi tradizionali che richiedono, pur con il massimo impegno dei giudici, tempi non sempre contenuti per il raggiungimento di una sentenza definitiva.

Tale aspetto non si limita a un mero dato temporale ma si traduce anche in un beneficio economico tangibile per le parti e per l’apparato statale, in quanto la riduzione dei tempi e di conseguenza dei costi processuali non solo alleggerisce il carico finanziario sui contendenti ma libera risorse pubbliche che possono essere destinate al miglioramento del sistema giudiziario nel suo complesso.

La conciliazione giudiziale, inoltre, offre margini di flessibilità sconosciuta al rigido meccanismo processuale, poiché consente alle parti di plasmare soluzioni su misura, capaci di adattarsi alle peculiarità di ogni singola controversia. Questa duttilità permette anche di superare la logica binaria del “vincitore-vinto” tipica del contenzioso, aprendo la strada a soluzioni creative che possono soddisfare, in termini ragionevoli, gli interessi di entrambe le parti.

Un altro profilo di cruciale importanza spesso sottovalutato è poi la capacità della conciliazione di preservare, come già evidenziato, le relazioni tra le parti; nell’epoca attuale, in cui i rapporti personali e professionali si intrecciano spesso in reti complesse, la salvaguardia delle relazioni assume un enorme valore e, in questo senso, la conciliazione, ottenuta attraverso un percorso di dialogo e vicendevole riconoscimento, offre la possibilità di risolvere il conflitto senza recidere i legami, aprendo anzi la strada a una rinnovata comprensione.

Tale aspetto si apprezza ancor di più nei rapporti di durata in cui la contesa insorge nell’ambito di una relazione destinata a proseguire anche all’esito del contenzioso: in questi casi, cercare consensualmente un accordo piuttosto che indugiare nel conflitto può contribuire anche a ricostruire un rapporto di fiducia che sarebbe irrimediabilmente reciso da una sentenza sfavorevole ad una delle parti.

Inoltre, non va trascurato che, mentre nel processo tradizionale i contendenti si trovano spesso a subire passivamente una decisione calata dall’alto, nel percorso conciliativo sono le parti stesse, guidate dal giudice e dai procuratori, a forgiare la soluzione della loro controversia.  E questo coinvolgimento attivo non solo aumenta le probabilità di giungere a una soluzione realmente soddisfacente per entrambe le parti, ma accresce anche il senso di responsabilità e di impegno verso l’accordo raggiunto; non è un caso che gli accordi conciliativi godano di un tasso di adempimento spontaneo significativamente più elevato rispetto alle composizioni imposte con sentenza.

Oltre alle ricadute sul piano giuridico-procedurale, la conciliazione assume poi un ruolo di primaria importanza anche e soprattutto su quello psicologico ed emotivo dei soggetti coinvolti. Ed infatti, pur richiedendo un maggior impegno iniziale, il percorso conciliativo implica, in termini assoluti, un dispiego di minori energie e tensioni personali per le parti in causa, poiché consente alle stesse di evitare il confronto formale e ripetuto nelle aule giudiziarie nonché di risolvere la controversia in un contesto più disteso e senza il timore di essere giudicate o sconfitte.

Da ultimo, ma non per importanza, va detto che i vantaggi pratici della conciliazione non si limitano alla sfera individuale delle parti coinvolte ma si estendono all’intera compagine sociale.

Ed infatti, la promozione di una cultura del dialogo e della risoluzione pacifica dei conflitti si configura come la prima via percorribile per realizzare, anche in ambito processuale, quell’ideale di «convivenza mite…nemica di ogni ideale di sopraffazione»[33] teorizzato, nel solco della richiamata tradizione, da Zagrebelsky nel suo celebre saggio sul “diritto mite”.

Questo modello, opponendosi ad ogni forma di prevaricazione, richiede per l’appunto «una pienezza di vita collettiva che esige atteggiamenti moderati (un’aura medietas) ma positivi e costruttivi e che può essere sostenuta con la consapevolezza di chi sa che questo ideale corrisponde a una visione della vita e a un ethos tutt’altro che disprezzabili».

Tali principi, in un ordinamento che aspiri alla giustizia e all’armonia sociale, meritano senza dubbio la massima considerazione, rivelando la straordinaria ricchezza delle implicazioni derivanti da una virtuosa prassi conciliativa.

7. In forma di conclusioni.

È solo muovendo da questi fondamenti -come visto frutto di una sapienza antica- che la conciliazione giudiziale può ancora disvelare ai moderni il suo volto più prezioso ed autentico: la sua essenza di processo virtuoso che non prescinde ma si alimenta delle buone intenzioni dell’altro, spezzando la catena di ripicche e di risentimenti che imprigiona ogni lite e deteriora i rapporti sociali.

Ma perché un’autentica cultura conciliativa possa attecchire è richiesta una profonda comprensione dei benefici di tale opzione processuale, unita ad una educazione al dialogo che può prodursi solo grazie ad una pratica giudiziaria orientata in tal senso[34], così da agevolare, in ogni singolo processo, un radicale cambio di paradigma che incoraggi le parti a deporre le armi e a focalizzarsi nella soluzione della lite.

Quando questo terreno viene coltivato, le ragioni di intesa sono libere di imporsi e di sopravanzare i motivi di contesa, tacitando ogni sterile rivendicazione.

In tale articolato panorama, può dunque comprendersi come la stessa figura del giudice assume un rilievo multiforme che va oltre la sua principale vocazione decisoria. È infatti mediante il suo prudente intervento che possono realizzarsi, sin dalla prima udienza e con il supporto degli avvocati, le condizioni per avviare i contendenti ad un confronto costruttivo che stemperi i toni e riattivi un linguaggio consono all’intesa.

Per questo il giudice non può essere considerato solo come l’organo che impone la decisione ma prima di tutto come un agevolatore di soluzioni concrete orientate a giustizia, capaci di offrire alle parti non soltanto la composizione del singolo conflitto ma una definitiva e compiuta pacificazione.

Tale assunto, peraltro, lungi dal sovvertire l’immagine tipica del giudice, si pone per certi versi in linea con le indicazioni della più autorevole dottrina, secondo cui nel diritto postmoderno: «la funzione del giudicare non consiste più nel ricercare sostanze normative enunciate in una loro definita oggettività ma nella chiave della prospettiva costituzionale tendere ad un risultato di giustizia»[35].

Se queste sono le condizioni, è dunque auspicabile che sia sempre più diffusa fra gli operatori del diritto la consapevolezza del valore primario della conciliazione e che si realizzi, in coerenza con gli intenti delle più recenti riforme, un contesto processuale seriamente disposto ad inverare, nella cornice della giurisdizione, questo forma virtuosa e irrinunciabile di giustizia.

[1] In termini più generali, l’importanza oggi attribuita alle cosiddette “Alternative Dispute Resolution” nell’ambito del processo civile è evidenziata anche dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in cui si sottolinea come l’accentuazione del ricorso agli strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie costituisce «una delle tre dorsali» della riforma del processo civile.

[2] Secondo MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano, 1923, n. 9, 11 e 12, la conciliazione si poneva al più «una zona estrema, o di confine, della giurisdizione contenziosa», avente con quest’ultima «affinità cooperatrice e relazione di buon vicinato».

[3] Cfr. sul punto già SATTA, in Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 43.

[4] F. CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, vol. I, Padova, Cedam, 1936, pp. 49, 78.

[5] Ivi, 59, 173 s.

[6] Di tale dibattito dà puntualmente conto A. Albanese, Dalla giurisdizione alla conciliazione. Riflessioni sulla mediazione nelle controversie civili e commerciali, in Europa e diritto privato – 1/12, p. 241.

[7] Cfr. Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2024, n.8898 che, richiamando Cass. civ., sez. lav., 26 ottobre 2017, n.25472, ha di recente ribadito che “la conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi, strutturalmente, per il necessario intervento del giudice e per le formalità di cui all’art. 88 disp. att. c.p.c. e, funzionalmente, per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene e per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti; essa è pertanto valida anche se ha ad oggetto diritti indisponibili, poichè l’art. 2113, ultimo comma, c.p.c. fa salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli artt. 185,410 e 411 c.p.c., in cui l’intervento in funzione di garanzia del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale), diretto a superare la presunzione di condizionamento della libertà di espressione del consenso del lavoratore, viene a proteggere adeguatamente la sua posizione”.

[8] Cass. civ, sez. un., 9 settembre 2021, n.24414.

[9] D. DALFINO, Mediazione civile e commerciale, in Commentario del codice di procedura civile, fondato da S. Chiarloni, Torino, 2022, 323 s.

[10] Per una compiuta disamina della riforma, si veda R. TARANTINO, La conciliazione giudiziale in La Riforma del processo civile, a cura di D. DALFINO, Gli Speciali 4/2022 del Foro Italiano.

[11] Legge 11 agosto 1973, n.533, recante Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatori che ha modificato il titolo IV del libro secondo del Codice di procedura civile approvato con R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443.

        [12] È infatti noto che, ai sensi dell’art. 420 c.p.c., come modificato dalla legge 4 novembre 2010, n.183, nell’udienza fissata per la discussione della causa: «il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa…la mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio».

[13] Precetto estratto dalla Legge delle XII tavole, XII Tab I. 6-7. In questo solco, si inseriva poi la regola evangelica tratto dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,58): “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada fai di tutto per accordarti con lui, perché non ti trascini dal giudice…”; negli stessi termini, Matteo 5, 25.

   [14] Su distinzione fra di funzioni fra giudici (Dikastài) ed arbitri (Diaitetès) cfr. di recente E. Stolfi, La cultura giuridica dell’antica Grecia, Roma 2020, p. 205.

   [15] In merito al criterio di giudizio seguito dagli arbitri cfr. Aristotele, Retorica 1374 B 20-22.

[16] Cfr. M. TALAMANCA, Il diritto in Grecia p. 68, in Il diritto in Grecia e a Roma di M. Talamanca e M. Bretone, Bari, 1981.

[17] Cfr. Cass., civ., sez. II, 16 marzo 2023, n. 7591, in tema di art. 91 c.p.c., comma 1. Si veda anche Corte cost., n. 268 del 11.12.2020 che ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 420, co.1, c.p.c. laddove consente al giudice di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa ai fini della statuizione sulle spese di lite, con possibilità di compensarle, in tutto o in parte, nei confronti della parte vittoriosa, anche in assenza dei presupposti ex art. 92, co.2, c.p.c..

[18] Questa concezione che si pone nel solco della visione platonica di giustizia basata sull’armonia dell’anima e della società ha sempre convissuto con l’idea del giusto come “utile del più forte“, secondo l’espressione attribuita dal Platone a Trasimaco nel primo libro della Repubblica di Platone, (Rep.338e-339a).

   [19] Sulla portata di questa diade si veda M. BUBER, L’Io e il Tu, in Il Principio dialogico, Milano, 1959, p. 9. Secondo il filosofo austriaco, all’origine del conflitto, infatti, c’è spesso il rifiuto di quella coppia fondamentale “Io-tu“, che è l’unica capace di generare una interazione diretta e personale, in cui l’avversario sia visto non già come una nuda res ma come soggetto con cui stabilire una relazione. È solo in questa prospettiva e quindi attraverso l’incontro Io-Tu che è possibile instaurare quel riconoscimento reciproco, idoneo a riscoprire, senza più barriere o preconcetti, un punto d’incontro utile a disinnescare radicalmente la lite.

[20] Cfr. su questo e su altri temi, S. WEIL, L’Attesa di Dio, Milano, 2008.

[21] S. WEIL, op.cit. p.197.

[22] S. WEIL, op.cit. p.200

[23] S. WEIL, op.cit. p. 107-108.

[24] M. ZAMBRANO, in Per l’amore e per la libertà. Scritti sulla filosofía e sull’educazione, Genova, 2008 p. 50.

[25] Il riferimento è a quella forma di superbia tipica dei conflitti, definita da ERASMO DA ROTTHERDAM come la vera «fonte dei dissidi… in cui ognuno attribuisce a sé stesso la massima importanza, il minimo peso invece agli altri», in Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram theologiam, Basel, 1519, trad. it. in Scritti teologici e politici, a cura di E. CERASI E S. SALVADORI, Bompiani, 2011.

[26] S. WEIL, La persona ed il sacro, trad. it., Milano, 2012, p. 51.

[27] SOFOCLE, Antigone, Milano, 1982 e in particolare vv. 683 e ss. da cui sono tratte le citazioni.

[28] È questo il paradosso di chi, credendo di essere nel giusto, finisce per manifestare superbia, scadendo nell’ingiustizia, come ammoniva secoli dopo Sant’Agostino, chiosando nel Commentario al Vangelo di San Giovanni, 95, 2, secondo cui: «Chi, infatti, si fa troppo giusto, perciò stesso diventa ingiusto».

[29] ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 14.

[30] J. DE ROMILLY, La Grèce antique contre la violence, 2000, p. 22.

[31] N. BOBBIO, Elogio della mitezza, Milano 1994, pag. 12.

[32] N. BOBBIO, op.cit., pag. 16.

[33] G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Giulio Einaudi Editore, 1992, p. 12-13.

[34] Molto utili appaiono, nella pratica giudiziale, anche le raccolte di precedenti conciliativi che possono guidare il giudice nell’individuazione degli “indici di mediabilità” e delle “leve conciliative” estensibili a controversie analoghe. Sul punto, è prezioso il progetto definito «Banca Dati Digitale Conciliativa (BDDC)» nato, su impulso della dott.ssa M. Delia, nel Distretto della Corte di Appello di Bari, censito nell’area Best Practice del portale istituzionale del Csm con numero di registrazione 2526 e validato nel Manuale delle Best Practices del CSM nella Macroaerea 3-Modello 20 che contiene la raccolta digitale dei precedenti conciliativi provenienti dai diversi Uffici giudiziari aderenti al protocollo. L’Archivio è liberamente consultabile nell’area «Buone prassi» del sito web della Corte di appello di Bari, all’indirizzo: https://ca-bari.giustizia.it/it/buone_prassi.page.

[35] N. LIPARI, Diritto civile e ragione, Milano 2019, p.31.