Piermaria Piacentini, Il Palazzaccio. Storia di un appalto a cavallo tra due secoli. Aracne.

Di Hadrian Simonetti -

Il libro racconta la storia dell’appalto – nella realtà una serie di appalti svoltisi in sequenza e durati circa venti anni, il primo dei quali aggiudicato nel 1889 – dei lavori per la costruzione del Palazzo di giustizia di Piazza Cavour a Roma, nel quartiere Prati, dove oggi hanno sede la Corte di cassazione e il Tribunale superiore delle acque pubbliche, nonché il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma.

All’origine della vicenda, l’idea di un nuovo edificio che all’indomani dell’Unità d’Italia e di Roma capitale “riunificasse” anche i vari organi giudiziari, fortemente voluta dal Ministro guardasigilli Giuseppe Zanardelli, e la convenzione tra il Ministero di Grazia e di Giustizia e il comune di Roma, con la quale il primo si impegnava ad eseguire il progetto in nome e per conto del secondo. La costruzione di un palazzo dalla mole imponente, in cemento armato rivestito di travertino, su di un terreno alluvionale poco adatto ad accoglierlo, sarebbe stata interrotta e ritardata da diversi accadimenti, tra i quali il ritrovamento di due sarcofagi di epoca romana, uno dei quali appartenente ad una giovane donna morta prematuramente di cui fu ritrovata anche una bambola snodabile. Rispetto all’ambizioso progetto iniziale dell’architetto Guglielmo Calderini, preferito ad Ernesto Basile, nel corso dei lavori, proprio per la scarsa resistenza del terreno a sostenere un peso giudicato troppo elevato si sarebbe rinunciato a realizzare il terzo piano in origine previsto (il che non impedirà che negli anni sessanta del secolo scorso il palazzo, in seguito ad alcuni distacchi e cedimenti, debba essere temporaneamente chiuso, per essere poi riaperto ma “alleggerito” degli uffici del tribunale e della corte di appello, civile e penale, traslocati rispettivamente nella caserme di via Lepanto e nello straniante complesso di  Piazzale Clodio).

Nel libro uno dei punti più oscuri, dell’intera vicenda che accompagna la costruzione del Palazzaccio di Piazza Cavour, è individuato nella stipula del terzo appalto in favore della Impresa edile Borrelli di Napoli, ditta di modeste dimensioni e di dubbia reputazione, inizialmente esclusa e poi riammessa in gara grazie all’intervento di influenti personalità politiche dell’epoca.

Si tratta di una storia “dimenticata”, contrassegnata da forti ritardi maturati nella realizzazione dell’opera e dall’enorme lievitare dei costi rispetto alle stime del progetto iniziale; ritardi e maggiori costi dovuti a diversi fattori, tra i quali, anche allora, la mala amministrazione. E’ soprattutto ad essa (più che alla corruzione dei singoli protagonisti a vario titolo coinvolti nella vicenda) che l’autore del libro imputa, dapprima, i difetti di progettazione e le imperfezioni del capitolato speciale, in seguito le reticenze e le omissioni nella direzione dei lavori (nel controllare l’avanzamento dei lavori e nell’esaminare le cd. riserve dell’appaltatore), che resero necessario apportare sostanziose modifiche in corso d’opera (le famigerate “varianti”).

Di qui il sorgere di una serie di contenziosi tra le parti, committente (nel frattempo il Ministero dei lavori pubblici era subentrato a quello di Grazia e Giustizia) e appaltatori (in particolare l’impresa edile Borrelli già ricordata), demandati alla risoluzione di arbitri privati, per lo più magistrati della Corte di appello o del Consiglio di Stato, il cui giudizio più spesso favorevole alla parte appaltatrice sarebbe stato oggetto di critiche, determinando anni dopo, quando i lavori erano finiti, un vero e proprio scandalo (si direbbe ora) “politico-mediatico”. Uno scandalo lungamente raccontato dagli organi di stampa e culminato in arresti eccellenti e in una relazione parlamentare di condanna nella quale pesanti ombre si sarebbero levate, tra gli altri, sull’onestà di un parlamentare e consigliere di Stato, molto vicino al Presidente del Consiglio dei Ministri del tempo, Giovanni Giolitti, e considerato un possibile candidato alla presidenza del Consiglio di Stato, di nome Attilio Brunialti, che in alcuni di quei contenziosi aveva rivestito la figura di arbitro e che anni prima si era fatto costruire un villino nello stesso quartiere Prati da un prestanome dell’impresa Borrelli. Brunialti finirà per essere destituito da parte dello stesso Consiglio di Stato in sede disciplinare, ma senza che tale destituzione gli impedisca di essere rieletto deputato ancora per un’ultima volta: un episodio a lungo taciuto e “riscoperto” alcuni anni fa dallo storico del diritto Guido Melis.

Il racconto della vicenda dell’appalto, oscurata sul piano storiografico dal più celebre scandalo della Banca Romana e dal sopraggiungere della prima guerra mondiale – i reati contestati saranno in parte dichiarati prescritti e in altra parte amnistiati nel 1916 – è nel libro ripercorsa in filigrana attraverso la stampa del tempo (a cominciare nel 1908 da uno scritto del giornalista Renzo Rossi) e le relazioni sia della commissione ministeriale che di quella parlamentare d’inchiesta istituita nel 1912, ed offre uno spaccato sicuramente interessante dell’Italia liberale e delle sue classi dirigenti. In un’epoca, tra fine Ottocento e inizio Novecento, di politica senza ancora partiti organizzati, o quasi, e di cui (avrebbe osservato Gramsci alcuni anni dopo nei suoi Quaderni del carcere) i giornali, legati a doppio filo a questo o a quell’uomo politico o gruppo industriale, facevano intanto le veci, informando ma soprattutto “dirigendo”; di radicali trasformazioni economiche, sociali, urbanistiche e di “trasformismo” (e decadenza) parlamentare, preludio alla crisi che condurrà poi al fascismo (e proprio sotto il fascismo il Palazzaccio ospiterà, tra il 1926 e il 1943, la sede del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, comminando in decine di processi politici quella stessa pena di morte che, ironia della storia, il codice “liberale” del ministro Zanardelli aveva in precedenza abolita).

Il libro ricorda le voci più consapevolmente dissenzienti, levatesi allora nella discussione, in particolare quella, di severa critica giuridica al sistema dell’arbitrato, di Ludovico Mortara, e quella politica di Filippo Turati che interviene alla Camera nella seduta del 10 maggio 1913. Ma sono voci di minoranza destinate a rimanere inascoltate (i magistrati continueranno a partecipare a collegi arbitrali per altri cento anni), se è vero che sulla rivista Critica sociale si scrisse allora con accenti manzoniani che “(l)a Camera si disponeva a finirla così…una via d’uscita: questo si chiedeva, questo s’implorava. Si  andava in traccia di una formula che chiudesse, che seppellisse, che togliesse di pena. Prender atto. Rammaricarsi. Far voti. Invocare provvedimenti…per l’avvenire. Rinviare a qualcuno; agli archivi; alla storia; all’oblio…”.

Dovunque il lettore de “Il Palazzaccio” si volti, ha davanti un milieu confuso e opaco di professionisti, giuristi e imprenditori a vario titolo debitori (della) o legati alla politica di allora. Tutti – si direbbe – a loro modo all’occorrenza un poco politici e comunque dipendenti dalla politica, ma nell’assenza di partiti politici degni di questo nome: una nebulosa che presenta più di qualche somiglianza con quella dei nostri giorni, di una politica (divenuta o meglio, come in un giro di valzer, ritornata) senza più partiti o quasi, e per questo più debole nei confronti di poteri diversi. Ed altre ancora potrebbero essere le analogie (ad esempio quanto al ruolo dei media, spesso più di “direzione” della politica generale, che di informazione) tra il tempo presente e gli anni nei quali si svolge la vicenda della costruzione del “Palazzaccio”.

Sempre ai nostri giorni, ma con specifico riguardo alla materia dei contratti pubblici, di nuovo al centro della discussione in vista dell’ennesima riforma legislativa in corso (il Consiglio di Stato ha appena consegnato al Governo lo schema di un nuovo codice di settore), il volume offre più di uno spunto di riflessione e di confronto per comprendere come i principali problemi si debbano ricercare, oggi come allora, soprattutto nella scarsa capacità delle amministrazioni pubbliche italiane di progettare i lavori e di seguirne poi la realizzazione. Un’incapacità (alle volte procurata o indotta, altre volte lasciata correre) che conduce o ad abdicare al proprio ruolo mostrandosi cedevoli nei confronti delle imprese e degli interessi privati più forti e organizzati, sacrificando così risorse e interesse pubblici; oppure a cercare protezione e rifugio in discipline e rimedi “speciali” o eccezionali rispetto al diritto comune: un alternarsi, negli appalti come nelle concessioni, ora di debolezze ora di privilegi, comunque all’insegna di una relazione asimmetrica e squilibrata con il mercato.