Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Prime osservazioni sul procedimento semplificato di cognizione
Di Alessandro Motto -
1.Premessa e lineamenti generali del rito. 2. L’ambito di applicazione. 3. La fase introduttiva. 4. La fase di trattazione. 5. La fase istruttoria. 6. Il cumulo di cause e il simultaneus processus; 7. La fase decisoria e il regime delle impugnazioni.
1.Premessa e lineamenti generali del rito.
La riforma (art. 3, comma 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149) inserisce al Titolo I del Libro II del c.p.c. un nuovo Capo III-quater, composto dagli artt. da 281-decies a 281-terdecies c.p.c., disciplinante il procedimento semplificato di cognizione, in attuazione del criterio di delega (art. 1, comma 5, lett. n), l. 26 novembre 2021, n. 206) che indicava di “collocare sistematicamente” nel Libro II del Codice, modificandone la denominazione, il processo sommario di cognizione di cui al Capo III-bis del Titolo I del Libro IV (artt. da 702-bis a 702-quater c.p.c.), che è stato conseguentemente abrogato.
Lo spostamento dal Titolo I del Libro IV (dedicato ai processi sommari) al Titolo I del Libro II (recante la disciplina del procedimento di cognizione dinanzi al tribunale) e il cambio di denominazione rivelano l’intenzione del legislatore di qualificare “sistematicamente” questo processo come un giudizio a cognizione piena (e non sommaria) semplificata, accogliendo la ricostruzione proposta da parte della dottrina e dalla giurisprudenza dell’abrogato procedimento sommario.
Non si tratta, tuttavia, di un’operazione di mera forma: il legislatore, come vedremo, ha aumentato il tasso di predeterminazione legale della disciplina dello svolgimento del processo anche nelle fasi di trattazione e istruttoria, corrispondentemente diminuendo l’ambito dei poteri discrezionali del magistrato che in parte qua caratterizzavano il processo sommario (c.d. case management giudiziale).
Il risultato è che il procedimento semplificato si configura come un rito a cognizione piena ed esauriente con una disciplina normativamente prevista, la quale non prevede poteri discrezionali del giudice nella regolamentazione del processo maggiori di quelli del rito ordinario.
A marcare l’omogeneità strutturale (oltre che funzionale) del rito semplificato con il rito ordinario è previsto che esso si concluda con sentenza, anziché con ordinanza, impugnabile nei modi ordinari (art. 281-terdecies c.p.c.).
Il rito semplificato, come già il rito sommario, si inscrive all’interno della tutela dichiarativa, in quanto si conclude con un provvedimento idoneo ad assumere autorità di cosa giudicata sostanziale ex art. 2909 c.c.
Pertanto, costituisce un processo a cognizione piena a rito speciale, alternativo al processo a cognizione piena a rito ordinario, idoneo ad impartire la tutela dichiarativa nella stessa identica misura di quest’ultimo; è un istituto parallelo al rito ordinario, dal quale diverge per taluni profili strutturali, ma non nel risultato.
Come vedremo, la scelta tra il procedimento semplificato e il procedimento ordinario è talvolta vincolata (in base alle caratteristiche della lite), mentre in altri casi è rimessa alla determinazione di chi assume l’iniziativa processuale. Ci si potrebbe quindi chiedere se non sia possibile (o addirittura più opportuno) discorrere, anziché di “rito speciale”, di due modelli di rito ordinario (semplificato e non)[1].
Il procedimento semplificato si differenzia, quindi, dai riti speciali a cognizione piena ed esauriente, i quali costituiscono riti di cognizione sostitutivi e non concorrenti con il rito ordinario, per la trattazione e la decisione delle controversie di volta in volta previste.
Questo, tuttavia, in linea generale.
Infatti, come già il processo sommario, il procedimento semplificato costituisce il rito esclusivo per la trattazione e la decisione delle controversie previste al Capo III del d.lgs. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, e delle cause di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria disciplinate dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (art. 8, comma 3), le cui disposizioni sono state corrispondentemente modificate dall’art. 15 del d.lgs. 149/2022[2].
Sotto altro aspetto, l’art. 183-bis c.p.c., in modo analogo (ma non identico, come vedremo) a quanto già previsto per il rito sommario, stabilisce che il giudice, alla prima udienza di comparizione e trattazione nel rito ordinario, disponga, se ne sussistono i presupposti, la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato di cognizione.
La riforma (art. 3, comma 24) ha modificato l’art. 316, comma 1, c.p.c., stabilendo che davanti al giudice di pace la domanda si propone nelle forme del procedimento semplificato di cognizione, in quanto compatibili.
Ha altresì adeguato (art. 15) l’art. 1-ter della l. 24 marzo 2001, n. 89 in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: costituiscono “rimedio preventivo” ai fini di tale legge la proposizione della domanda nelle forme del rito semplificato e la richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito semplificato a norma dell’art. 183-bis c.p.c.
Ai sensi dell’art. 35, comma 1, d.lgs. 149/2022, come sostituito dall’art. 1, comma 378, della l. 29 dicembre 2022, n. 197, le disposizioni sul nuovo rito semplificato si applicano ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023, mentre i procedimenti sommari di cognizione pendenti continuano ad essere disciplinati dalle disposizioni anteriormente vigenti; il discrimine è pertanto costituito dal giorno di deposito del ricorso introduttivo nel primo grado di giudizio.
2.L’ambito di applicazione.
Il comma 1 dell’art. 281-decies c.p.c. definisce l’ambito di applicazione del procedimento facendo riferimento alle caratteristiche della controversia (“quando i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruzione non complessa”); il comma 2 prevede che, nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda “può essere sempre proposta nelle forme del procedimento semplificato”.
Prima di soffermarsi sui requisiti previsti dalla disposizione, è opportuno porre in evidenza le altre indicazioni sull’ambito di applicazione del procedimento che da essa si traggono e i profili dinamici.
Innanzitutto, dal raffronto tra il primo e il secondo comma si ricava che, a differenza del rito sommario, il procedimento semplificato di cognizione è utilizzabile anche per le cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale (come indicava la legge delega, al num. 3) dell’art. 5, comma 1, lett. n)).
Il rito semplificato si applica ai giudizi di primo grado di competenza del tribunale (come espressamente indicava il criterio di delega appena richiamato). Non si applica, invece, alle cause di competenza della corte d’appello in unico grado (a meno che non si tratti di una delle cause attribuite alla competenza in unico grado della corte d’appello contemplate al Capo III del d.lgs. 150/2011 sopra menzionato), e neppure alle cause attribuite in grado di appello al tribunale (le quali sono soggette alle regole dettate per l’appello, incompatibili con quelle in esame).
Come il rito sommario – e a differenza di quanto generalmente avviene, quando sono previsti riti speciali volti a impartire la tutela dichiarativa – il procedimento semplificato ha un ambito di applicazione atipico per quanto riguarda i diritti che ne possono essere oggetto e le forme di tutela che possono essere richieste: può riguardare ogni tipologia di diritto e rapporto giuridico, e possono essere formulate domande di mero accertamento, di condanna e costitutive.
Il procedimento semplificato non è utilizzabile per le cause assoggettate a un rito speciale a cognizione piena ad esauriente (lavoro, locazioni, ecc.). Lo si desume dall’art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c., per il quale il giudice, quando ritiene che manchino i presupposti per la decisione con il rito semplificato, dispone “la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario fissando l’udienza di cui all’articolo 183 (….)” e dall’art. 40, comma 3, c.p.c., che disciplina la deroga alle regole sul rito, in caso di connessione con una causa assoggettata a un rito speciale; lo conferma, infine, la collocazione del rito semplificato nel Titolo I del Libro II del c.p.c., e tale collocazione – come sottolinea la Relazione – “è coerente con l’alternatività di tale rito rispetto al rito ordinario”.
Tornando all’art. 281-decies c.p.c., occorre sottolineare una differenza nel tenore letterale del comma 1 rispetto al comma 2: al ricorrere dei presupposti previsti dal comma 1, il giudizio “è” introdotto nelle forme del procedimento semplificato, mentre il comma 2, per le cause di competenza del tribunale in composizione monocratica, stabilisce che la domanda “può” essere sempre proposta nelle forme del procedimento semplificato.
La differente formulazione esprime un diverso significato normativo: le cause che presentano le caratteristiche del comma 1 – come si legge nella Relazione – devono essere “obbligatoriamente trattate” con il rito semplificato, come prevedeva il criterio di delega di cui la disposizione è attuazione: “ferma la possibilità che l’attore vi ricorra di sua iniziativa nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica, debba essere adottato in ogni procedimento, anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa siano tutti non controversi, quando l’istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un’attività istruttoria costituenda non complessa, stabilendo che, in difetto, la causa sia trattata con il rito ordinario di cognizione e che nello stesso modo si proceda ove sia avanzata domanda riconvenzionale priva delle condizioni di applicabilità del procedimento semplificato” (art. 5, comma 1, lett. n), num. 3)).
Pertanto, il procedimento semplificato costituisce, nell’ambito delle controversie soggette al rito ordinario, di competenza in primo grado del tribunale in composizione collegiale o monocratica, il rito esclusivo e sostitutivo di quello ordinario al ricorrere dei presupposti del comma 1; costituisce invece un rito concorrente e alternativo a quello ordinario, ad iniziativa di chi assume l’iniziativa processuale, al di fuori di tali ipotesi e purché la causa sia di competenza del tribunale in composizione monocratica.
Ai sensi dell’art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c., se alla prima udienza il giudice rileva che per la domanda principale o per la domanda riconvenzionale non ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’articolo 281-decies c.p.c. dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario. Nello stesso modo provvede, quando, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, ritiene che la causa debba essere trattata con il rito ordinario.
Qualora, invece, il processo sia stato introdotto con le forme del rito ordinario, la sussistenza dei presupposti per procedere con il rito semplificato è oggetto delle verifiche preliminari compiute dal giudice ai sensi dell’art. 171-bis, comma 1, c.p.c., e tale questione è trattata dalle parti nelle memorie integrative dell’art. 171-ter c.p.c.
Il giudice, alla prima udienza di trattazione (e non dopo questa udienza), ai sensi dell’art. 183-bis c.p.c. “valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria e sentite le parti, se rileva che in relazione a tutte le domande proposte ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’articolo 281-decies, dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato e si applica il comma quinto dell’articolo 281-duodecies”.
A differenza di quanto stabiliva il previgente art. 183-bis, al ricorrere dei presupposti indicati, il giudice “dispone” – e non “può disporre” – la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato. Il che conferma il carattere esclusivo e sostitutivo del rito semplificato rispetto al rito ordinario, al ricorrere dei presupposti del comma 1 dell’art. 281-decies, e salva la valutazione da parte del giudice della complessità della lite e della istruzione probatoria.
Sennonché, l’utilità di disporre il passaggio al rito semplificato alla prima udienza del rito ordinario è limitata: da un lato, in questo momento, nel rito ordinario riformato, si è già avuto lo scambio tra le parti delle memorie integrative; da un altro lato, come vedremo, nel procedimento semplificato la fase istruttoria segue le stesse regole del rito ordinario.
Da queste disposizioni ricaviamo che, a differenza di quanto era stabilito per il processo sommario di cognizione (dall’art. 702-ter, comma 2, c.p.c., con soluzione che sollevava seri dubbi di legittimità costituzionale)[3], la proposizione con le forme del rito semplificato di cognizione di una causa che non può essere decisa con tale rito (e lo stesso vale nell’ipotesi inversa, disciplinata dall’art. 183-bis c.p.c.) non costituisce in alcun caso un vizio processuale insanabile, che determina il rigetto in rito della domanda (con perdita dei relativi effetti sostanziali e processuali).
Ne consegue che l’errore compiuto dal giudice di primo grado (che abbia trattato e deciso con il rito ordinario una causa che non avrebbe dovuto esserlo, in quanto sussistevano i requisiti dell’art. 281-decies, comma 1, o viceversa) non integra un vizio di nullità della sentenza, deducibile quale motivo di appello.
Nell’ipotesi in cui il rito semplificato non sia applicabile, perché la causa è soggetta a un rito speciale (v. sopra), viene in rilievo un errore sul rito, a cui può essere posto rimedio secondo le regole ordinarie sulla conversione del rito (artt. 426, 427 e 439 c.p.c., art. 4 d.lgs. 150/2011).
Veniamo adesso all’analisi dei requisiti previsti dall’art. 281-decies per definire l’ambito di applicazione del procedimento semplificato.
Il comma 1 definisce l’ambito di applicazione del rito, indicando quattro “presupposti” (come li definisce l’art. 281-undecies, comma 1, c.p.c.) tra loro alternativi. Essi attengono – come si è anticipato – alle caratteristiche della controversia, e loro comune denominatore è rappresentato dall’individuare le ipotesi in cui la controversia può essere decisa nel merito senza che sia necessario compiere attività istruttoria, o sulla base di un’istruttoria non complessa.
Sebbene la legge li indichi come presupposti per la introduzione del processo (art. 281-decies, comma 1, c.p.c.), l’attore, al momento della proposizione della domanda, compie una prognosi circa la semplicità (nel senso chiarito) della controversia: se essa presenti o meno i caratteri previsti dalla disposizione dipende dalle difese del convenuto, ed è alla luce di queste ultime che il giudice alla prima udienza verifica se tali caratteri ricorrono o meno.
Il primo è che i fatti di causa non siano controversi e, quindi, che non siano contestati ai sensi dell’art. 115, comma 1, c.p.c. Come specificava la legge delega, tutti i fatti di causa non devono essere controversi e, quindi, oltre ai fatti costitutivi, i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto dedotto in giudizio. Non è infatti possibile distinguere, ai fini dell’applicazione di un procedimento preordinato ad assumere una decisione idonea ad assumere autorità di giudicato, a seconda che ad essere pacifici siano gli uni o gli altri: tutti i fatti principali, ai sensi dell’art. 2697 c.c., hanno pari rilevanza ai fini della decisione sulla domanda proposta.
Gli altri presupposti sono riferiti (forse non del tutto appropriatamente) alla “domanda”: al procedimento semplificato è possibile fare ricorso, “quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruzione non complessa”.
La domanda è fondata su prova documentale, quando “i fatti (…) costituenti le ragioni della domanda” (art. 163, comma 1, n. 4), c.p.c.) e, quindi, i fatti costitutivi del diritto con essa dedotto in giudizio, risultano da una prova documentale. Se si condivide quanto poco sopra osservato, questa indicazione deve essere integrata: nel caso in cui il convenuto abbia allegato fatti estintivi, modificativi o impeditivi, e l’attore li abbia contestati, il presupposto in esame è integrato, a condizione che anche questi ultimi risultano da prova documentale.
Se i fatti principali sono controversi e non risultano da prova documentale, e occorre quindi compiere attività istruttoria per l’assunzione di prove costituende, la causa può essere decisa in forme semplificate, purché l’istruttoria non sia complessa[4].
Meno agevole è individuare il quid con cui porre in relazione il presupposto della “pronta soluzione”, che la legge delega riferiva alla prova dei fatti (come anche il c.p.c., all’art. 648 c.p.c.), e che invece la disposizione riferisce alla “domanda” in quanto tale. Si potrebbe quindi sostenere che il presupposto possa attenere tanto alla prova dei fatti (sebbene non sia agevole individuarne un autonomo ambito applicativo, dato che la legge contempla specificamente sia l’ipotesi in cui i fatti risultano da prova documentale, sia il caso in cui essi necessitano di un’istruttoria non complessa), quanto alla domanda in quanto tale. La domanda potrebbe ritenersi di pronta soluzione, se appaia manifestamente fondata o infondata; quest’ultima ipotesi ricorre, ad esempio, se difetti di concludenza (anche qualora i fatti costitutivi allegati dall’attore fossero esistenti, comunque ad essi non seguirebbe l’effetto giuridico invocato con la domanda), o vi sia una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito idonea a determinarne il rigetto. Siamo tuttavia consapevoli che questa interpretazione, pur essendo ragionevole e in grado di soddisfare esigenze pratiche, può ritenersi, se non incompatibile con la lettera della legge, almeno in parte in contrasto con l’intenzione del legislatore: l’art. 281-decies, comma 1, c.p.c. riferisce il requisito alla introduzione del procedimento da parte dell’attore, ed appare quindi contraddittorio ritenere che la domanda di “pronta soluzione” sia quella destinata al rigetto.
L’art. 281-duodecies, comma 1, al secondo periodo prevede che il giudice disponga la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario, quando, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, ritiene che la causa debba essere trattata con il rito ordinario.
La previsione va posta in relazione, innanzitutto, con le ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 281-decies. Poiché l’attore, ai sensi di quest’ultima disposizione, “può sempre” introdurre il processo in forma semplificata per le cause di competenza del tribunale in composizione monocratica, la disposizione chiarisce che, se la scelta del ricorrente non è opportuna in relazione alle caratteristiche della controversia, il giudice può disporre la conversione del rito.
Il requisito della complessità dell’istruzione probatoria è già previsto dalla prima parte della disposizione, e in ordine ad esso vale quanto sopra detto. La disposizione, tuttavia, fa riferimento, più ampiamente, alla complessità della lite: pertanto, essa consente al giudice (anche per le cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale) di adottare il provvedimento di conversione anche per liti che presentano i requisiti del primo comma dell’art. 281-decies c.p.c. (e quindi non richiedono di svolgere attività istruttoria, o un’istruttoria complessa), ma nondimeno siano “complesse”; ad esempio, per il numero delle parti in causa o delle domande cumulate, oppure, ancora, in considerazione del numero e della complessità delle questioni di rito e di merito controverse[5]. Il che trova perfetta corrispondenza, nella speculare valutazione che il giudice è chiamato a compiere alla prima udienza del giudizio ordinario, ai fini della prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato (art. 183-bis c.p.c.).
3.La fase introduttiva.
La fase introduttiva del processo è regolata dall’art. 281-undecies c.p.c., che disciplina la forma e il contenuto degli atti introduttivi delle parti, i tempi e le modalità di instaurazione del contraddittorio.
La fase introduttiva del processo, come già avveniva nel rito sommario, è analiticamente predeterminata dalla legge, e presenta i caratteri propri di un rito a cognizione piena ed esauriente.
La forma dell’atto introduttivo è il ricorso; quanto al suo contenuto, deve recare le indicazioni previste per la citazione dal comma 3 dell’art. 163 c.p.c., con l’ovvia eccezione dell’invito a comparire a udienza fissa di cui al num. 7), richiamato limitatamente all’avvertimento (peraltro da adeguare ai pertinenti riferimenti normativi del procedimento semplificato e ai relativi termini di costituzione). Il ricorso, quindi, deve contenere i consueti elementi necessari per l’individuazione della domanda e l’instaurazione del contraddittorio; sotto questo profilo, non si differenzia dall’atto introduttivo del processo di cognizione a rito ordinario.
A seguito del deposito del ricorso, il giudice, entro cinque giorni dalla designazione, fissa con decreto l’udienza di comparizione, assegnando al convenuto il termine per la costituzione, che deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza.
Il ricorso e il decreto devono essere notificati a cura dell’attore al convenuto; tra la notificazione e l’udienza devono intercorrere almeno 40 giorni liberi (60 se il luogo della notificazione si trova all’estero).
Ai sensi del comma 3, il convenuto si costituisce depositando la comparsa di risposta, che ha il medesimo contenuto previsto per la comparsa nel rito ordinario di cognizione; identiche sono anche le attività che la legge prevede debbano essere compiute a pena di preclusione nel primo atto tempestivamente depositato.
Il convenuto deve proporre le sue difese e prendere posizione in modo chiaro e specifico sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni. A pena di decadenza, deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d’ufficio.
Se intende chiamare in causa un terzo, il convenuto deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta, chiedendo al giudice lo spostamento dell’udienza (comma 4). La chiamata in causa è consentita in tutte le ipotesi di cui all’art. 106 c.p.c., e pertanto sia in caso di garanzia sia di comunanza di causa (mentre l’art. 702-bis, comma 5, c.p.c. faceva riferimento alla sola chiamata in garanzia, e ciò aveva indotto la giurisprudenza teorica e pratica prevalente ad adottare adottato un’interpretazione correttiva della disposizione).
Il giudice autorizza la chiamata del terzo con decreto, con il quale fissa la nuova udienza di comparizione, assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo, che deve costituirsi a norma del terzo comma (dunque, secondo quanto previsto per la costituzione del convenuto). La disposizione non stabilisce né il termine di comparizione né il termine di costituzione del terzo; appare pertanto ragionevole fare riferimento a quanto prevede l’art. 281-undecies, comma 2, c.p.c., per il convenuto.
L’art. 281-undecies c.p.c. delinea una fase introduttiva del procedimento semplificato che coincide, mutato quel che vi è da mutare, con quella del processo a rito ordinario. Ed è ovvio che sia così, dato che, come abbiamo anticipato e vedremo meglio tra poco, alla prima udienza il giudice può disporre la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario, mediante la fissazione della prima udienza ex art. 183 c.p.c., senza regressione del processo agli atti introduttivi; il che è possibile, in quanto gli atti introduttivi nel procedimento semplificato coincidano nel loro contenuto con quanto previsto per il rito ordinario.
Ciò detto in linea generale, occorre soffermarsi con maggiore attenzione sugli atti introduttivi e, in particolare, sulle preclusioni che subiscono le parti già in questo momento.
Nel successivo corso del procedimento semplificato, come vedremo, le parti possono esercitare le attività difensive che sono conseguenza delle domande ed eccezioni delle altre parti (art. 281-duodecies, comma 3, c.p.c.) e possono modificare e precisare le domande, le eccezioni e le conclusioni, produrre documenti e formulare istanze istruttorie, solo se autorizzate dal giudice per un giustificato motivo (art. 281-duodecies, comma 4, c.p.c.).
Pertanto, ferma la possibilità di svolgere le attività che sono giustificate dallo svolgimento dialettico del processo, le parti, nel procedimento semplificato, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, se non sono autorizzate dal giudice in presenza di un “giustificato motivo”, non possono produrre documenti e formulare istanze istruttorie, né possono liberamente modificare e precisare le domande e le eccezioni nel corso del procedimento (ius poenitendi).
Salvo comprendere cosa debba intendersi per “giustificato motivo” ai sensi di questa disposizione, al momento rileva sottolineare che questo sistema ha inevitabili conseguenze sul contenuto degli atti introduttivi.
Se le parti nel corso del processo non possono esercitare liberamente (nell’ambito dell’oggetto del giudizio definito dalla domanda) le attività assertive e probatorie, salvo che si verifichino le speciali condizioni che le consentono, ciò significa che esse hanno l’onere di compierle sin dal primo atto. Pertanto, anche rispetto a queste attività, le parti subiscono una preclusione negli atti introduttivi, la quale, benché non sia espressamente sancita, è nondimeno ricavabile per implicito dalla disciplina legislativa[6].
A questa condizione, può ritenersi attuato il criterio di delega che indicava di disciplinare il procedimento semplificato, “mediante l’indicazione di termini e tempi prevedibili e ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti” (art. 1, comma 5, lett. n), n. 4), l. 206/2021).
Ne deriva, innanzitutto, che, insieme alla allegazione del fatto, le parti debbono effettuare la produzione documentale o la richiesta istruttoria volta a dimostrarlo (ancorché in questo momento non si sappia se il fatto sarà contestato dalla controparte e quindi sarà bisognoso di prova): l’attore, relativamente ai fatti costitutivi del diritto oggetto della domanda; il convenuto, relativamente ai fatti estintivi, modificativi o impeditivi dedotti come eccezione.
In secondo luogo, l’attore (e il convenuto in caso di domanda riconvenzionale) deve allegare tutti i fatti posti a fondamento della domanda, anche se non aventi rilievo individuatore del diritto dedotto in giudizio (fatti costitutivi dei diritti autoindividuati e fatti costitutivi non identificatori di un diritto eteroindividuato); più ampiamente, deve effettuare quelle attività (inerenti all’allegazione dei fatti, all’articolazione del petitum e alle richieste di tutela) che rientrano nell’ampio concetto di modificazione della domanda, come delineato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione[7].
Il legislatore ha quindi disciplinato un rito, in cui alla prima udienza il thema decidendum e il thema probandum sono definiti, salvo quanto è reso necessario dallo sviluppo dialettico del processo o è ritenuto opportuno per giustificati motivi. Il procedimento semplificato si configura come un rito concentrato, sotto questo profilo analogo (ma non identico) al rito del lavoro, in cui alla prima udienza il quadro delle difese delle parti è tendenzialmente definito, e il magistrato può procedere a una rapida definizione del processo o a dare corso all’istruttoria sui fatti rilevanti bisognosi di prova.
Appare pertanto ragionevole ritenere, seppure il comma 3 dell’art. 281 undecies c.p.c. non sancisca espressamente la preclusione, che il convenuto nella comparsa di risposta debba a pena di decadenza prendere posizione in modo chiaro e specifico sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, e quindi debba effettuare in questo momento la contestazione dei fatti allegati nel ricorso introduttivo[8].
L’obbligo di effettuare la contestazione nella comparsa è coerente con la concentrazione negli atti introduttivi delle allegazioni e delle richieste istruttorie; se si consentisse al convenuto di contestare successivamente i fatti, ciò determinerebbe la tardività delle attività strumentali alla trattazione della causa (in quanto dovrebbe essere consentito all’attore formulare le richieste istruttorie e compiere eventuali allegazioni), con un’inevitabile disarticolazione delle scansioni processuali delineate dal legislatore.
Restano le eccezioni in senso lato, che appare ragionevole ritenere il convenuto possa proporre nella comparsa anche non tempestivamente depositata nei dieci giorni prima dell’udienza.
4.La fase di trattazione.
L’art. 281-duodecies disciplina procedimento.
La fase introduttiva del processo semplificato coincide, mutato quel che vi è da mutare, con quella del processo a cognizione piena ed esauriente, se si eccettua la riduzione dei termini di comparizione. Dove il processo semplificato si differenzia dal processo ordinario è nella disciplina della fase di trattazione; differenza che attiene al contenuto delle regole di svolgimento del processo, ma non alla circostanza che, anche nel procedimento semplificato, queste regole sono dettate dalla legge.
Sotto questo profilo si registra una fondamentale novità del procedimento semplificato rispetto al procedimento sommario di cognizione.
La legge non predeterminava le regole di svolgimento del processo sommario di cognizione, ma rimetteva al giudice il compito di dettarle di volta in volta, per ogni singolo processo, nell’esercizio di un potere discrezionale attribuito al magistrato dall’art. 702-ter, comma 5, c.p.c. (“ (…)…alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti (….)”). Ragion per cui la dottrina che ravvisa i caratteri della cognizione piena ed esauriente (quale attuazione della garanzia del giusto processo regolato per legge, ex art. 111, comma 1, Cost.) nella predeterminazione legale delle regole di svolgimento del processo ascriveva il rito sommario di cognizione, in considerazione dei suoi caratteri strutturali, ai processi sommari. In modo diverso, come è noto, la giurisprudenza, anche costituzionale, che – a dispetto della denominazione e della collocazione dell’istituto – discorreva di rito “speciale” a cognizione piena, ancorché “destrutturato” dal punto di vista formale[9]. Questa qualificazione si fondava sulla sovrapposizione del dato funzionale (degli effetti della decisione, idonea al giudicato sostanziale) al dato strutturale (della cognizione, sommaria) e, ad avviso di chi scrive, presentava l’inconveniente di lasciare in ombra il profilo di criticità dell’istituto, che risiede(va) nel ricorso alla cognizione sommaria per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali dichiarative, senza che fosse prevista, con la necessaria e dovuta chiarezza, la garanzia per le parti di disporre – se vi avessero interesse – di almeno un grado a cognizione piena ed esauriente; garanzia invece prevista per altri processi sommari (come quello di ingiunzione di convalida di sfratto) e che dovrebbe costituire condizione necessaria per riconoscere al provvedimento giurisdizionale decisorio, emesso all’esito di un processo sommario, l’idoneità ad assumere autorità di cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c.[10].
Come si è anticipato, nel procedimento semplificato il legislatore non conferisce più al giudice il potere di regolare nel modo ritenuto opportuno lo svolgimento del giudizio, bensì (pre)stabilisce le regole del processo, indicando i poteri processuali che le parti possono esercitare, con quali modalità e i relativi termini. Il principio di delega che si è già sopra riportato faceva infatti riferimento alla “indicazione di termini e tempi prevedibili e ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni (….)” e la Relazione precisa che “l’attuazione del rito semplificato deve coniugarsi con la necessità di prevedere una scansione processuale in cui maturano in modo chiaro e prevedibile le preclusioni e consenta di prevedere i tempi di trattazione del procedimento con questo rito, fermo restando il necessario rispetto del principio del contraddittorio”: nella prevedibilità delle regole disciplinanti i poteri processuali (delle parti e del giudice), in quanto esse sono predeterminate dalla legge, risiede appunto il valore della cognizione piena ed esauriente.
Ciò posto in generale, passiamo ad analizzare le singole disposizioni dell’art. 281-duodecies.
Il primo comma, come abbiamo anticipato, indica le ipotesi in cui il processo non può proseguire con le forme del rito semplificato, perché la causa richiede di essere trattata e decisa con il rito ordinario.
Rispetto al rito sommario, il legislatore non fa più riferimento, in negativo, alle “difese delle parti che richiedono un’istruttoria non sommaria”, bensì, mediante il rinvio all’art. 281-decies, comma 1, c.p.c., indica le caratteristiche che la causa deve presentare affinché possa (e debba) essere definita con il rito semplificato.
Come abbiamo visto, deve trattarsi di cause che non richiedono lo svolgimento di attività istruttoria, perché i fatti non sono controversi (la lite è di puro diritto) o, pur essendolo, sono provati documentalmente, oppure, ancora, di cause che richiedono lo svolgimento della fase istruttoria, purché le prove siano di pronta soluzione o comunque non sia complessa. In queste due ultime ipotesi, il legislatore, facendo ricorso a concetti giuridici indeterminati, rimette al magistrato una valutazione discrezionale, che implica un margine di apprezzamento riservato e insindacabile. Ci limitiamo ad osservare, da un lato, che la complessità dell’istruttoria dipende dal numero e dalla tipologia dei fatti controversi e delle prove da assumere; da un altro lato, che la disposizione sancisce – come già si riconosceva nel vigore del rito sommario[11] – la compatibilità del procedimento semplificato con lo svolgimento di una fase istruttoria volta all’assunzione di prove costituende (inclusa la consulenza tecnica).
Come abbiamo visto sopra, ai sensi del secondo periodo dell’art. 281 duodecies, comma 1, c.p.c. il giudice può disporre il passaggio al rito ordinario, anche in considerazione della complessità della lite in quanto tale, a prescindere dalla necessità di compiere attività istruttoria e dalla complessità della stessa.
Il giudice dispone la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario fissando l’udienza di cui all’articolo 183, rispetto alla quale decorrono ex lege i termini previsti dall’articolo 171-ter. Il giudice provvede con ordinanza non impugnabile e, pertanto, neppure modificabile e revocabile; come abbiamo già detto, l’errore sul rito non costituisce causa di nullità della sentenza e pertanto neppure motivo di appello.
Entro la prima udienza, l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto: si pensi al convenuto che abbia proposto una domanda riconvenzionale e l’attore abbia interesse a chiamare in garanzia un terzo, o al caso in cui abbia contestato di essere il c.d. “vero obbligato” e l’attore abbia interesse a chiamare il terzo indicato come responsabile. Sebbene la legge non lo preveda espressamente, l’attore deve formulare la richiesta a pena di decadenza alla prima udienza, come sancito espressamente dal comma 3 per le altre attività che conseguono allo svolgimento dialettico del processo.
Il giudice, se autorizza la chiamata, fissa la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo, il quale si costituisce in giudizio a norma dell’art. 281-undecies, comma 3 (e, quindi, secondo quanto previsto per il convenuto). La disposizione non stabilisce né il termine di comparizione né il termine di costituzione del terzo; anche in questo caso, è ragionevole fare riferimento a quanto prevede l’art. 281-undecies, comma 2, c.p.c. per il convenuto.
Nel caso in cui alla prima udienza il giudice disponga la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario, con l’ordinanza di conversione del rito provvede altresì sulla autorizzazione alla chiamata del terzo.
Veniamo adesso ai comma 3 e 4 della disposizione, che è opportuno trascrivere: “Alla stessa udienza, a pena di decadenza, le parti possono proporre le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dalle altre parti. Se richiesto e sussiste giustificato motivo, il giudice può concedere alle parti un termine perentorio non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, e un ulteriore termine non superiore a dieci giorni per replicare e dedurre prova contraria”.
La formulazione letterale della legge e ragioni di carattere sistematico inducono a ritenere che le due disposizioni si differenzino per oggetto e funzione: il comma 3 disciplina le attività che sono conseguenza delle difese della controparte, e quindi concorre ad attuare il principio del contraddittorio, assicurando alle parti la possibilità di replica alle novità introdotte in giudizio dall’avversario; il comma 4 disciplina invece le attività assertive e probatorie (allegazione dei fatti e richieste istruttorie) che non sono giustificate dalla dialettica processuale, in quanto dipendono da una migliore messa a fuoco delle difese indipendente dallo svolgimento del giudizio.
Iniziando dal comma 3, la disposizione necessita di un’interpretazione correttiva ed integrativa, necessaria per assicurare quella piena (e doverosa) attuazione del principio del contraddittorio, a cui essa è preordinata.
Quanto ai presupposti, vanno incluse, a fianco alle domande riconvenzionali ed alle eccezioni, anche le mere difese, in fatto e in diritto, perché anche queste ultime – pur non essendo innovative in ordine alle situazioni giuridiche oggetto del processo e ai fatti allegati – possono porre l’attore nell’esigenza di svolgere una replica; come del resto la disposizione relativa alla chiamata in causa di un terzo prevede, e pacificamente si afferma in relazione all’omologa disposizione di cui al previgente art. 183, comma 5, c.p.c.[12].
Sempre in ordine ai presupposti, l’esigenza di attuare il contraddittorio può sorgere anche dal rilievo da parte del giudice di una o più questioni: non è infatti dubbio (art. 101, comma 2, c.p.c.), che le parti debbono poter svolgere le difese che conseguono al rilievo officioso da parte del giudice di una o più questioni (di fatto o di diritto) che esse avevano trascurato nell’impostazione della causa.
Opportunamente, la legge fa riferimento alle difese svolte “dalle altre parti”: oltre alle difese del convenuto rispetto alla domanda dell’attore, possono venire in rilievo quelle proposte dal terzo chiamato in causa (o intervenuto volontariamente) e quelle che riguardano i rapporti interni tra i più convenuti evocati in giudizio.
Più ampiamente, e generalizzando, sotto questo profilo assume rilievo ogni elemento (di carattere innovativo o meno) che emerge nello sviluppo dialettico del processo (difese avversarie, rilievo officioso di questioni, risultanze dell’eventuale interrogatorio libero), e che pone la parte nell’esigenza di svolgere attività in replica.
Quanto alle attività difensive che possono essere compiute in replica, la legge fa riferimento alle “eccezioni”, ma non è dubbio che il principio contraddittorio imponga di garantire la possibilità di replica mediante un’apertura piena a tutte le deduzioni difensive che siano conseguenza dello sviluppo dialettico del processo.
Pertanto, devono ritenersi ammesse in replica: la modificazione della domanda, delle eccezioni e delle conclusioni, il rilievo di nuove eccezioni (anche in senso stretto) e più in generale l’allegazione dei fatti, con la deduzione delle prove volte a dimostrarli. Se il convenuto ha eccepito la prescrizione, l’attore può allegare i fatti interruttivi o sospensivi del termine, produrre i documenti e formulare le richieste istruttorie volti a dimostrare tali fatti; se il giudice ha rilevato d’ufficio la nullità del contratto, ritenendo che l’attore sia un consumatore, il convenuto può allegare e offrire la prova della specifica contrattazione della clausola o gli elementi per cui l’attore deve qualificarsi come professionista, e così via.
In breve: deve essere ammesso l’esercizio di ogni potere processuale (assertivo e probatorio), che sia giustificato dallo sviluppo dialettico del processo.
Se non si ritenga che la disposizione di cui al comma 3 sia suscettibile di questa interpretazione correttiva, non è dubbio che le difese delle altre parti costituiscano un “giustificato motivo” ai sensi del comma 4, in base al quale il giudice può (anzi, deve) assegnare un termine alle parti per compiere le attività in replica che ne sono conseguenza.
A fortiori, nel caso in cui il convenuto si sia costituito all’udienza, in base a quest’ultima disposizione può ritenersi consentita la concessione all’attore di un termine perentorio per l’esercizio delle attività di replica.
La legge non prevede, tra le attività che possono essere svolte in replica, la formulazione di nuove “domande”, a differenza di quanto è espressamente consentito nel rito ordinario (ai sensi del previgente art. 183, comma 5, c.p.c. e, oggi, dell’art. 171-ter, comma 1, num. 1), c.p.c.)[13].
Con ogni probabilità, l’esclusione è frutto una scelta consapevole del legislatore, volta ad evitare le conseguenze che l’ampliamento dell’oggetto del giudizio potrebbe determinare, in ordine ai tempi del processo (considerato che la celere definizione della controversia costituisce la ragion d’essere del procedimento semplificato) e riguardo alla sussistenza dei presupposti per la decisione della lite in forme semplificate riguardo a tutte le cause cumulate (su cui v. il § 6).
Questa scelta non pone alcun problema sotto il profilo della attuazione del contraddittorio e del rispetto del diritto di difesa delle parti, in quanto questi principi sono pienamente garantiti dalla possibilità per le parti di svolgere le attività difensive sopra indicate. Vero è che, a fronte della domanda riconvenzionale del convenuto, la proposizione da parte dell’attore di una domanda avente ad oggetto un diritto incompatibile assolve a una funzione difensiva rispetto alla prima; tuttavia, la situazione giuridica incompatibile può essere dedotta in via di eccezione, e ciò è sufficiente per soddisfare integralmente le esigenze difensive della parte.
Nella maggior parte dei casi, non emergono controindicazioni neppure sotto il profilo dell’opportunità, dato che l’ampio concetto di “modifica” di domanda adottato dalla Corte di cassazione consente di ricomprendere molte ipotesi tra le attività difensive senz’altro ammesse, in base a quanto sopra indicato. Ad esempio, rilevata la nullità del contratto di cui è stato domandato l’adempimento, l’attore potrà chiedere l’ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.[14]
Ciò non toglie, tuttavia, che, in alcuni casi, lo sviluppo dialettico del processo può sollecitare la proposizione di una vera e propria domanda, che esula dall’ambito oggettivo di quella originaria.
Nello stesso esempio appena fatto, l’attore potrebbe chiedere la restituzione delle prestazioni eseguite; a seguito del rilievo officioso della nullità, entrambe le parti potrebbero avere interesse a proporre ex art. 34 c.p.c. la domanda di accertamento incidentale della nullità del contratto.
La conseguenza di impedire la proposizione di queste domande all’interno del processo pendente è l’ammissibilità delle stesse in un autonomo e separato giudizio.
Veniamo adesso al comma 4 della disposizione, che, secondo l’interpretazione proposta, disciplina le attività assertive e probatorie che non sono conseguenza delle difese avversarie e consentono alla parte “correzioni di rotta” indipendenti dallo svolgimento dialettico del processo.
Nel rito semplificato, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, le parti non hanno lo ius poenitendi, cioè la facoltà di liberamente modificare le domande e le eccezioni già proposte, né possono, nel corso del processo, liberamente formulare richieste istruttorie e produrre documenti, in quanto, ai sensi della disposizione in esame, l’esercizio di tali poteri presuppone l’autorizzazione del giudice, in presenza di un “giustificato motivo”.
Non è tuttavia agevole comprendere cosa debba intendersi per “giustificato motivo”, se si ritenga che l’esigenza di replicare alle difese avversarie sia presa in considerazione e disciplinata per intero dal comma 3, e tenuto conto che la rimessione in termini per l’esercizio di poteri processuali da cui la parte è decaduta per causa non imputabile è già prevista dalla figura generale dell’art. 153, comma 2, c.p.c.
Probabilmente, con la disposizione in esame il legislatore ha inteso temperare il rigore di un rito caratterizzato da preclusioni anticipate, predisponendo una “valvola di sicurezza”, che, sotto il controllo del giudice, consente alle parti di modificare e integrare il quadro fattuale e probatorio della causa, quando ciò sia ritenuto opportuno, in considerazione delle caratteristiche della controversia e della vicenda sostanziale da cui essa origina.
Il giudice, se accoglie la richiesta, assegna alle parti un termine perentorio, non superiore a venti giorni, per compiere queste attività (evidentemente, mediante il deposito di memorie), e un ulteriore termine, non superiore a dieci giorni (dalla scadenza del primo termine), per replicare alle nuove attività e dedurre le prove contrarie.
Alla prima udienza, possono quindi verificarsi queste ipotesi; il giudice: a) dispone la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario (comma 1); b) autorizza la chiamata in causa del terzo richiesta dall’attore e fissa una nuova udienza (comma 2); c) assegna alle parti i termini per le memorie autorizzate (comma 4); d) dispone la sanatoria dei vizi dei presupposti processuali sanabili, in base alle regole generali.
Se non provvede in uno dei modi descritti, come precisa il comma 5 dell’art. 281-duodecies, il giudice: e) se ritiene la causa matura per la decisione, senza che sia necessaria svolgere attività istruttoria, la rimette in decisione; f) in caso contrario, ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione.
La causa è matura per la decisione senza bisogno di assumere mezzi di prova nelle ipotesi dell’art. 187 c.p.c.: se la controversia è di puro diritto (come avviene, ad esempio, se i fatti non sono contestati), oppure se i fatti sono contestasti, ma risultano da prove documentali; se il giudice ritiene che vi sia una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito in grado di definire il processo.
5.La fase istruttoria.
Riguardo alla fase istruttoria, si registra un’altra fondamentale novità rispetto al rito sommario.
Nel rito sommario, il giudice procedeva “nel modo più opportuno agli atti di istruzione rilevanti” (art. 702-ter, comma 5, c.p.c.), e pertanto esso si connotava per la “destrutturazione formale rispetto a quello ordinario di cognizione poiché è prevista un’udienza tendenzialmente unica e l’eventuale istruttoria non ha le cadenze predeterminate dal secondo libro del codice di rito” (Corte cost. 253/2020) e per una fase istruttoria – come la ha definita in altra occasione sempre la Corte costituzionale – “semplificata” e “deformalizzata”, in cui era rimesso – qui sta il punto – “al giudice di assicurare, pur nell’ambito dell’istruttoria deformalizzata, propria del procedimento sommario di cognizione, le garanzie che egli ritiene necessarie ai fini del rispetto dei parametri costituzionali invocati” (Corte cost., 23 gennaio 2013, n. 10)[15]. Ragion per cui, il rito sommario non costituiva, a nostro avviso, quel giusto processo regolato per legge a cui si riferisce l’art. 111, comma 1, Cost.: il valore della cognizione piena ed esauriente risiede non tanto nel contenuto delle regole processuali, quanto nella circostanza che esse siano (pre)stabilite dalla legge, e non sia rimesso al giudice il potere di dettare – lui – quelle regole, in occasione dello svolgimento del singolo giudizio.
Nel rito semplificato, invece, il “giudice ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione”: il magistrato deve pertanto attenersi alle medesime regole che disciplinano l’attività istruttoria nel rito ordinario, quanto all’individuazione dei mezzi di prova utilizzabili, alla loro ammissibilità, alle modalità di assunzione ed all’efficacia degli stessi. I poteri istruttori officiosi sono i medesimi che al giudice spettano nel rito ordinario di cognizione.
Anche riguardo all’istruttoria, si constata – come si legge nella Relazione – il “rafforzamento” del procedimento semplificato rispetto al rito sommario: e ciò nel senso che esso presenta una disciplina normativamente prevista anche riguardo all’istruttoria, e non prevede poteri discrezionali del giudice maggiori di quelli previsti nel rito ordinario circa i mezzi di prova utilizzabili e le modalità della loro assunzione.
6.Il cumulo di cause e il simultaneus processus.
Un profilo che merita specifica attenzione riguarda la disciplina del processo cumulato, che, come abbiamo notato, nel rito semplificato può realizzarsi, quantomeno, in via di domanda riconvenzionale (cumulo oggettivo) e di chiamata in causa di un terzo (cumulo soggettivo e, di norma, anche oggettivo).
A questo riguardo, assumono rilievo l’art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c. e l’art. 40, comma 3, c.p.c., come integrato dalla riforma.
La prima disposizione stabilisce che la valutazione dei requisiti circa l’utilizzabilità del rito semplificato deve essere fatta sia per la domanda principale sia per la domanda riconvenzionale, e che qualora, per l’una o per l’altra, detti requisiti non sussistano, il processo prosegue secondo il rito ordinario per entrambe le domande; pertanto, le domande debbono seguire lo stesso rito e se per una di esse non è possibile adottare il procedimento semplificato, entrambe sono trattate e decise con il rito ordinario, in modo da realizzare il simultaneus processus delle cause connesse.
La soluzione è opposta a quella prevista per il rito sommario dall’art. 702-bis, comma 4, c.p.c., il quale stabiliva che se la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiedeva un’istruzione non sommaria, il giudice ne disponeva la separazione; parimenti escludeva la realizzazione del processo cumulato il comma 2, secondo periodo, della disposizione, che prevedeva (addirittura) la dichiarazione di inammissibilità della domanda riconvenzionale che non rientrasse tra quelle per le quali era consentito il ricorso al rito sommario.
Queste disposizioni accoglievano un principio opposto a quello del simultaneus processus, in contrasto con le linee di tendenze del sistema, che sono volte a favorire la trattazione e la decisione cumulata delle cause connesse, in funzione della realizzazione della economia processuale e della coerenza degli accertamenti e delle decisioni. Inoltre, esse potevano dare luogo a inconvenienti gravi, quale in particolare il rischio della pronuncia di decisioni in contrasto logico e pratico, nelle ipotesi in cui la domanda riconvenzionale o la domanda formulata con la chiamata in causa fossero connesse in modo qualificato (o “forte”), per pregiudizialità-dipendenza o incompatibilità[16]; inconvenienti, che avevano condotto alla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 702-bis, comma 2, secondo periodo, c.p.c.[17].
La regola prevista dall’art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c. sul simultaneus processus si applica in tutti i casi di cumulo oggettivo di cause, a prescindere da come esso si è realizzato; dunque, oltre al caso contemplato dalla legge (domanda riconvenzionale), vengono in rilievo tutte le ipotesi di cumulo, iniziale (proposizione di più domande contro la stessa parte o nei confronti di più convenuti, ex art. 103 c.p.c.) e successivo (per effetto di chiamata in causa innovativa ex art. 106 c.p.c., di intervento volontario del terzo ex art. 105, comma 1, c.p.c. o di riunione delle cause separatamente proposte ex artt. 39, comma 2, 40 e 274 c.p.c.).
E’ ragionevole ritenere che la regola operi, a prescindere dalla tipologia di connessione tra le cause cumulate, e pertanto anche in caso di connessioni deboli, dato che la disposizione fa riferimento alla domanda riconvenzionale, senza limitare il proprio raggio di applicazione alle ipotesi di domande riconvenzionali connesse con la principale ai sensi dell’art. 36 c.p.c. (essendo ammessa, come è noto, la proposizione di domande riconvenzionali non connesse). Resta ovviamente fermo il potere del giudice di disporre la separazione delle cause (in base al principio generale dell’art. 103, comma 2, c.p.c.), quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e sempre che la connessione tra le cause sia compatibile con lo scioglimento del cumulo e la loro trattazione e decisione separate (e pertanto non nelle ipotesi di litisconsorzio necessario e unitario, di pregiudizialità-dipendenza, di incompatibilità e di alternatività, che impongono il coordinamento delle decisioni).
La realizzazione del cumulo processuale tra cause connesse può trovare ostacolo nella diversità del rito di cognizione a cui esse sono soggette.
Per questa ragione, avendo introdotto il rito semplificato di cognizione, il legislatore ha opportunamente (e, forse, necessariamente) integrato l’art. 40, comma 3, c.p.c., nel quale ha inserito un secondo periodo, che estende al rito semplificato la medesima regola prevista in caso di connessione tra cause soggette al rito ordinario e a un rito speciale di cognizione.
Pertanto, nel caso in cui le causa soggetta al rito semplificato sia connessa con una causa soggetta a un rito speciale, si applica ad entrambe il rito semplificato, a meno che la causa connessa sia di lavoro (art. 409 c.p.c.) o di previdenza (art. 442 c.p.c.), nel quale caso si applica il rito speciale del lavoro e previdenziale ad entrambe; l’eccezione opera – lo si sottolinea – solo quando la causa sia di lavoro o previdenziale, di guisa che il rito ordinario prevale, se il rito speciale del lavoro o previdenziale sia utilizzato per cause che non sono di lavoro o previdenziali[18].
L’estensione al rito semplificato della stessa regola dettata per il rito ordinario ha un chiaro fondamento razionale: poiché il primo è alternativo al secondo, la disciplina sulla deroga al rito ordinariamente applicabile per ragioni di connessione, in funzione della realizzazione del simultaneus processus, è la medesima; come conferma anche la collocazione della previsione, la quale è inserita al medesimo comma 3 dell’art. 40 c.p.c.
Non ci nascondiamo, tuttavia, che tra il primo e il secondo periodo del comma 3 si riscontra una differenza di formulazione lessicale: mentre il primo dispone l’applicazione del rito speciale “quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442”, il secondo discorre di “causa sottoposta a rito speciale diverso da quello previsto dal primo periodo”, facendo pertanto riferimento al rito a cui è sottoposta la causa, a prescindere dall’oggetto di quest’ultima. Il che potrebbe legittimare un’interpretazione in parte diversa da quella (preferibile) sopra avanzata, giusta la quale il rito semplificato di cognizione prevale se la causa connessa è soggetta a un rito speciale, a meno che non sia soggetta al rito del lavoro o previdenziale, nel quale caso si applica quest’ultimo, indipendentemente da quale sia l’oggetto della causa, e quindi anche se non si tratti di una delle cause di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c., a differenza di quanto avviene se la causa connessa sia trattata con il rito ordinario.
Resta infine da segnalare che la deroga alla regola ordinaria sul rito applicabile opera solo per le connessioni di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Pertanto, in caso di connessione ai sensi dell’art. 33 c.p.c. tra una causa soggetta al rito semplificato e un’altra a un rito speciale, non è possibile realizzare il simultaneus processus, esattamente come non sarebbe possibile realizzarlo, se la causa fosse soggetta al rito ordinario (art. 40, comma 3, primo periodo, c.p.c.).
7.La fase decisoria e il regime delle impugnazioni.
Nel rito sommario erano previste regole speciali, circa la fase decisoria, la forma del provvedimento e il regime di impugnazione.
Anche sotto questi aspetti, emergono rilevanti differenze del procedimento semplificato rispetto al procedimento sommario.
A norma dell’art. 281-terdecies, comma 1, c.p.c., la fase decisoria segue le medesime regole dettate per il rito ordinario di cognizione; con l’unica precisazione che la decisione è sempre assunta secondo il modulo della discussione orale di cui all’art. 281-sexies e dell’art. 275-bis c.p.c., a seconda che il tribunale giudichi in composizione monocratica o collegiale[19].
Il provvedimento finale ha la forma di sentenza, e non più di ordinanza; alla previsione di carattere generale, la riforma ha opportunamente adeguato le disposizioni specifiche contenute nel Capo III del d.lgs. 150/2011 per le controversie regolate dal procedimento semplificato di cognizione.
Restano ferme – almeno secondo l’interpretazione che appare più ragionevole – le disposizioni di parte generale che prevedono la forma dell’ordinanza per la decisione sulla competenza, anche ai sensi degli artt. 39 (litispendenza e continenza) e 40 (connessione) c.p.c., e il relativo regime di impugnazione.
La sentenza, come precisa il comma 2 dell’art. 281-terdecies, è impugnabile nei modi ordinari.
Innanzitutto, quindi, è esperibile l’appello, che segue le regole ordinarie[20]. La configurazione del procedimento semplificato come giudizio a cognizione piena ed esauriente, in cui è assicurato alle parti il pieno esercizio dei poteri processuali, ha fatto venire meno l’esigenza di dettare regole speciali per il giudizio di gravame, che erano invece previste dagli artt. 702-quater e 348-bis c.p.c.
Conseguenza dell’avere previsto che la decisione sia assunta con sentenza è che tra i mezzi di impugnazione esperibili vi sono anche la revocazione ex art. 395 c.p.c. e l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., secondo le regole ordinarie applicabili a questi istituti.
Viene così meno il problema di estendere, in assenza di espressa previsione di legge, la revocazione e l’opposizione di terzo a un provvedimento decisorio assunto in forma diversa della sentenza. Problema, che, in relazione al procedimento sommario di cognizione, aveva recentemente dato luogo a una sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale, circa l’impugnabilità per errore di fatto revocatorio ex art. 395, comma 1, num. 4), c.p.c. dell’ordinanza resa all’esito di un procedimento sommario concernente la liquidazione di competenze di avvocato, dichiarata non appellabile dall’art. 14, comma 4, d.lgs. 150/2011[21].
[1] E. Merlin, Elementi di diritto processuale civile, I – Parte generale, Torino 2022, 38.
[2] L’art. 791-bis, comma 4, c.p.c., per l’opposizione alla vendita di beni o di contestazione del progetto di divisione nell’ambito del procedimento di divisione a domanda congiunta, prevede che “il giudice procede secondo le disposizioni di cui al Libro quarto, Titolo I, Capo III-bis; non si applicano quelle di cui ai commi secondo e terzo dell’art. 702 ter”; il rinvio deve oggi intendersi effettuato al Libro I, Titolo, Capo III-quater, e alle relative disposizioni sul procedimento semplificato.
[3] Non del tutto venuti meno a seguito di Corte cost., 26 novembre 2020, n. 253, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della disposizione (al riguardo, v. il § 6).
[5] Come indicava la giurisprudenza in relazione al rito sommario: “(….) la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e segg., e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti, bensì all’intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l’altro, della complessità della controversia, del numero e della natura delle questioni in discussione” (Cass., 10 maggio 2022, n. 14734; conf., Cass., 14 marzo 2017, n. 65639).
[6] Nel rito del lavoro, la decadenza dell’attore rispetto ai poteri istruttori nel ricorso introduttivo, non espressamente prevista dalla legge, è ricavata, oltre che dal principio di parità delle parti, dalla disposizione (art. 420, comma 5, c.p.c.), che consente alle parti all’udienza di discussione di richiedere nuovi mezzi di prova, solo se non li abbiano potuto proporre prima (Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353; Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 13).
[7] Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310; Cass., sez. un., 13 settembre 2018, n. 22404; al riguardo, sia consentito rinviare a A. Motto, Domande nuove e modificate nel primo grado di giudizio a rito ordinario, in Problemi attuali di diritto processuale civile, fasc. speciale Foro It., 1/2021, a cura di D. Dalfino, 2021, c. 69 ss., e ivi gli opportuni riferimenti.
[8] In modo analogo a quanto, secondo un’interpretazione, deve affermarsi nel rito del lavoro (F.P. Luiso, Diritto processuale civile. IV. I processi speciali, 11° ed., Milano 2021, 39; Cass., 12 febbraio 2016, n. 2832; Cass., 10 luglio 2009, n. 16201; Cass., 16 marzo 2005, n. 5691); tuttavia, per una diversa opinione (probabilmente maggioritaria), il termine di preclusione della contestazione dei fatti allegati nel ricorso coincide con quello previsto dall’art. 420, comma 1, c.p.c. per la modificazione di “domande, eccezioni e conclusioni già formulate” all’udienza di discussione (Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761; G. Trisorio Liuzzi – N. Dalfino, Manuale del processo del lavoro, Bari, 2021, 58-59).
[9] Corte cost., 26 novembre 2020, n. 253; Corte cost., 5 maggio 2021, n. 89; cfr. anche Cass., sez. un., 5 ottobre 2022, n. 28975.
[10] Profilo di criticità che, come è noto, parte della dottrina segnala da tempo con riferimento all’utilizzo del rito camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. per la risoluzione di controversie su diritti soggettivi.
[12] Cass., sez. un., 27 dicembre 2010, n. 26128; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, 5° ed., Bari, 2019, 76.
[13] Ma non nel rito del lavoro, nel quale, ai sensi dell’art. 420, comma 1, c.p.c., le parti, se autorizzate dal giudice in presenza di gravi motivi, possono “modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate”, disposizione da cui la giurisprudenza ricava che “deve escludersi che possano, altresì, proporre domande nuove per petitum o causa petendi” (Cass., 8 marzo 2019, n. 6728; Cass., 24 dicembre 2020, n. 29596); in modo diverso, per la ammissibilità di nuove domande che siano conseguenza delle difese avversarie, G. Trisorio Liuzzi, Domande nuove e modificate nel processo del lavoro, in Giusto proc. civ., 2016, 611 ss., specie 613 ss.; G. Reali, La mutatio e l’emendatio libelli nel processo del lavoro, in Problemi attuali di diritto processuale civile, a cura di D. Dalfino, Speciale Foro It., 1/2021, c. 109 ss., specie c. 112 ss., a cui si rinvia anche per gli opportuni riferimenti.
[15] Nel rito sommario, era “lo stesso giudice a determinare le modalità attraverso le quali procedere all’istruzione, omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio” (Cass., 10 maggio 2022, n. 14734).
[16] Cass., sez. un., 23 febbraio 2018, n. 4485, in caso di riconvenzionale connessa per pregiudizialità alla domanda principale, ma non suscettibile di trattazione e decisione nel rito sommario in quanto bisognosa di un’istruttoria non deformalizzata, aveva affermato l’applicazione della sospensione ex art. 295 c.p.c., al fine di prevenire il rischio di decisioni contrastanti.
[17] Corte cost., n. 253/2020, cit. ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 702-ter, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che, qualora con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice adito possa disporre il mutamento del rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ.”.
[18] Così, con riferimento all’art. 40, comma 3, c.p.c., anteriormente alla riforma, per tutti, R. Tiscini, Modificazioni dela competenza per ragioni di connessione. Difetto di giurisdizione, incompetenza e litispendenza, in Commentario del Codice di Procedura Civile a cura di S. Chiarloni, Bologna 2016, 580-581.
[19] Vengono pertanto meno i problemi circa la decorrenza del termine per impugnare il provvedimento finale, che si erano posti in relazione all’ordinanza pronunciata all’esito del rito sommario (ed erano stati risolti da Cass., sez. un., 5 ottobre 2022, n. 28975).
[20] L’applicazione delle regole ordinarie consente di superare il problema della forma dell’atto introduttivo del giudizio di gravame, che dovrà avere forma di citazione (art. 342 c.p.c.), come peraltro ritenuto dalla Corte di cassazione (per molte, Cass., 15 dicembre 2014, n. 26326; Cass., 30 settembre 2019, n. 24379).