Procedimento di correzione e condanna alle spese

Di Valentina Sperati -

1.Con l’ordinanza interlocutoria numero 27681 del 29/09/2023 la terza sezione civile della Corte di cassazione ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, nonché oggetto di contrasto, se, in tema di procedimento di correzione di errore materiale, ove la parte non ricorrente si costituisca e resista alla relativa istanza, così contrapponendo il proprio interesse a quello del ricorrente, si configuri, all’esito del giudizio, una situazione di soccombenza che impone al giudice di provvedere sulle spese processuali, ai sensi dell’art. 91 c.p.c.

La rimessione trae origine dalla seguente vicenda: un giudice dell’esecuzione aveva dichiarato inammissibile l’istanza di correzione di errore materiale formulata dall’istante condannandolo a  rimborsare alla controparte le spese del procedimento di correzione, in applicazione del principio per cui, in tale procedimento, ove la parte non ricorrente si costituisca e resista all’istanza di correzione, si configura, all’esito della decisione, una situazione tecnica di soccombenza. Avverso la statuizione sulle spese contenuta nell’ordinanza di reiezione dell’istanza di correzione, viene proposto ricorso straordinario per cassazione per violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 287 e 288 c.p.c. Il ricorrente sostiene che il procedimento di correzione di errore materiale avrebbe natura non giurisdizionale, bensì̀ amministrativa, e si concluderebbe con un provvedimento meramente ordinatorio, sicché non sarebbe applicabile l’art. 91 cod. proc. civ., in tema di condanna della parte soccombente alle spese del procedimento, poiché la situazione di soccombenza potrebbe formarsi solo nell’ambito di un procedimento giurisdizionale contenzioso.

Nel merito la Corte di cassazione, con l’ordinanza in commento, ritiene che la questione assurga a questione di massima di particolare importanza oggetto peraltro di contrasto, sia pure tra un orientamento prevalente ed uno assolutamente minoritario.

2.Con il procedimento di correzione[1] disciplinato agli artt. 287[2], 288 e 289 c.p.c. è possibile ottenere la correzione delle sentenze e delle ordinanze non revocabili, che siano affette da omissioni, errori materiali o di calcolo. Il procedimento di correzione si distingue nettamente dai mezzi di impugnazione come è fatto palese sia dalla collocazione della relativa disciplina tra le norme che regolano il giudizio di primo grado, anziché tra quelle relative alle impugnazioni, sia dalle forme stabilite per il procedimento in parola e il per provvedimento che lo conclude.

La correzione è, nelle intenzioni del legislatore, un mezzo a disposizione delle parti, diretto a provvedere, fuori da qualsiasi ricorso ai più macchinosi mezzi di impugnazione, vistosamente sproporzionati rispetto ai risultati che si intendono ottenere, alla eliminazione di errori in cui il giudice è incorso nella redazione grafica della pronunzia.

Il procedimento in esame è dunque volto a porre rimedio ad un vizio meramente formale della sentenza derivante da divergenza evidente e facilmente rettificabile tra l’intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, con esclusione di tutto ciò che attiene al processo formativo della sua volontà.

Coerentemente con tale finalità detto procedimento (ed il provvedimento mediante il quale la sentenza – o comunque i provvedimenti ad essa omologabili quoad effectum – può essere corretta) ha natura amministrativa[3].

L’errore emendabile nel procedimento di correzione è anzitutto l’errore materiale cioè quello che impedisce la piena corrispondenza del provvedimento alle intenzioni del suo autore. L’errore deve essere percepibile ictu oculi e non deve incidere sul contenuto e sulla portata concettuale della decisione; il mero errore materiale che dà luogo a semplice correzione va tenuto distinto dall’errore di fatto c.d. revocatorio che incide sulla portata della decisione e dà luogo ad impugnazione per revocazione[4].

È poi correggibile l’errore di calcolo cioè l’errore di conteggio in cui sia incorso il giudice.

Di fronte all’errore propriamente detto si pone il vizio omissivo che costituisce un “errore negativo”. L’omissione è la mancanza nella pronuncia di qualcosa che avrebbe dovuto esserci.

Venendo al tema generale affrontato nella ordinanza in esame, la soccombenza, come è noto, costituisce condizione imprescindibile per la condanna di una parte alla refusione delle spese giudiziali e, eventualmente, anche al risarcimento dei danni in favore dell’altra parte[5].

La responsabilità delle parti per le spese processuali è disciplinata nel sistema degli artt. 91 e 92 c.p.c.

Mentre l’art. 91 detta la norma fondamentale, che pone a carico del soccombente l’obbligo del rimborso delle spese a favore dell’altra, l’art. 92 contiene le regole in base alle quali il giudice può: escludere la ripetizione delle spese ritenute eccessive o superflue; indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso di spese (anche irripetibili) che ha causato alla parte avversaria, in trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.; compensare parzialmente o per intero se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

3. L’ordinanza interlocutoria in commento riporta l’attenzione sul dibattito riguardante l’applicabilità dei criteri di distribuzione delle spese al provvedimento che chiude una procedura di correzione.

Sulla scorta di un fermissimo orientamento, risalente  e ripetutamente confermato[6], nel procedimento di correzione degli errori materiali non sarebbe ammessa alcuna pronuncia sulle spese processuali in quanto la natura ordinatoria e sostanzialmente amministrativa del provvedimento che accoglie o rigetta l’istanza di correzione non consentirebbe di riconoscere la presenza dei presupposti richiesti dall’art. 91 c.p.c. che pongono riferimento, per una pronuncia di condanna sulle spese, ad un procedimento contenzioso idoneo a determinare una posizione di soccombenza[7], non sarebbe quindi possibile individuare una parte vittoriosa e una parte soccombente.

Concordemente anche parte della dottrina[8] ritiene che il criterio della soccombenza necessiterebbe per poter operare di un processo a parti contrapposte avente ad oggetto l’attribuzione di un bene della vita. Al di fuori di quest’ambito e così in tutti i processi “senza lite” non essendo possibile identificare una parte soccombente, l’art. 91 non sarebbe applicabile.

Il procedimento di correzione degli errori materiali, pertanto, anche quando instaurato ad iniziativa di una sola parte, non implicherebbe l’affermazione di un diritto nei confronti dell’altra o delle altre parti; il provvedimento di correzione, infatti, oltre a configurarsi quale incidente del giudizio in cui è stato pronunciato il provvedimento da correggere, non avrebbe natura decisoria perché non condurrebbe mai ad una statuizione sostitutiva di quella contenuta nel provvedimento corretto.

In senso contrario la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha affermato che nel procedimento per correzione di errore materiale, ove la parte non ricorrente si costituisca, resistendo all’istanza di correzione e questa venga disposta, deve provvedersi alla liquidazione delle spese di lite perché, contrariamente a quel che avviene nel caso contrario, la parte, all’esito del procedimento, è divenuta tecnicamente parte soccombente[9].

Conformemente a tale indirizzo giurisprudenziale altra parte della dottrina già in precedenza riteneva che nel caso in cui l’istanza fosse proposta da una sola parte vi sarebbe stato modo di configurare un soccombente[10]. Dovrebbe infatti distinguersi l’ipotesi prevista nel comma 1 dell’art. 288 c.p.c. (richiesta concorde) da quella del comma 2 della stessa norma (richiesta unilaterale). Per quanto riguarda la prima, il relativo decreto conclusivo non potrebbe recare in sè una disposizione di condanna alle spese, e ciò non tanto per la forma del provvedimento, quanto per il fatto che la fattispecie legislativa esclude la presenza di una lite, di una contestazione, e mancando questa mancherebbe il presupposto di una condanna e dunque della soccombenza. Colorazione diversa assume, invece, ad avviso di questa tesi, la ipotesi di richiesta unilaterale. Questa seconda forma di correzione si presenterebbe nelle forme della contrapposizione tipica del processo contenzioso, non vi sarebbero pertanto ostacoli alla applicabilità della disciplina di cui agli art. 91 e 92 c.p.c.

4.Questi differenti punti di vista affondano le radici in un diverso modo di concepire la soccombenza quale criterio di imputazione del carico delle spese giudiziali in un procedimento di natura sostanzialmente amministrativa quale quello di correzione.

Una presa di posizione al riguardo non è ovviamente possibile in questa sede.

Di fronte ad una simile questione possono assumersi diversi atteggiamenti.

In un’ottica estensiva si può porre a base della previsione positiva una più lata nozione di soccombenza collegata non all’accertamento del diritto bensì al semplice fatto dell’accoglimento o del rigetto della istanza volta a ottenere un determinato provvedimento e conseguentemente ritenere che il carattere non contenzioso del provvedimento non valga, di per sé, ad escludere il diritto al rimborso delle spese a favore di colui che consegue il provvedimento richiesto. Andrebbe quindi interpretata in senso ampio l’espressione “sentenza che chiude il processo” dell’art. 91 c.p.c fino a comprendervi qualunque provvedimento conclusivo sulla istanza anzidetta, dunque anche l’ordinanza o il decreto che conclude il procedimento di correzione.

Si può altrimenti valorizzare il comportamento processuale delle parti e conseguentemente ritenere che solo allorché queste ultime abbiano assunto posizioni contrastanti in merito all’oggetto della richiesta, le spese debbano essere poste a carico della parte la cui posizione sia stata in concreto disattesa dal provvedimento del giudice.

Nella prospettiva invece più restrittiva e conforme alle finalità e alla ratio dell’istituto in esame nessun rilievo potrebbe attribuirsi all’eventuale contrasto delle parti in ordine alla sussistenza o meno dell’errore materiale, trattandosi in ogni caso di provvedimento di carattere non contenzioso tendente unicamente ad adeguare la formula esteriore dell’atto rispetto al suo contenuto.

[1] Sul procedimento di correzione delle sentenze v. B. Sassani, Lineamenti del processo civile italiano,  Milano, 2023, 591; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano 2023, 226 ss.; S. Boccagna, Errore materiale e correzione dei provvedimenti del giudice, Napoli, 2017; M. Giuliano, La correzione delle sentenze, Napoli, 1971; G. Franceschini, Correzione delle sentenze, Bologna, 1894; Acone, voce «Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice», in Enc. Giur., LX, Roma, 1988; E. Fazzalari, voce «Sentenza», in Enc. Dir., XLI, Milano, 1989, 1245 ss.; G. Torregrossa, Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice, in Enc. Dir., X, 1962, 717 ss.

[2] Le sentenze contro le quali non è stato proposto appello e le ordinanze non revocabili possono essere corrette dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento. La norma è stata però dichiarata incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione limitatamente alle parole “contro le quali non è stato proposto appello”, pertanto, il giudice competente per la correzione è lo stesso che ha emanato la sentenza da correggere a nulla rilevando che la stessa sia stata oggetto di impugnazione.

[3] Sulla natura non contenziosa del procedimento di correzione v. M. Acone, Procedimento di correzione degli errori materiali e condanna alle spese, in Il Foro it., 2007, 3212 ss. Il rilievo della natura amministrativa del procedimento trova il suo addentellato nella tradizionale concezione che contrapponeva alla attività giurisdizionale in senso stretto, c.d. giurisdizione contenziosa, una attività che, pur essendo devoluta ad organi giurisdizionali, si collocava al di fuori della giurisdizione, caratterizzandosi, per la mancanza di un diritto soggettivo azionato e per l’assenza di contrasto di interessi tra le parti c.d. iurisdictio inter volentes, nonché per l’inidoneità al giudicato del provvedimento finale, assunto all’esito di un procedimento in camera di consiglio. Secondo la dottrina e la giurisprudenza, la presunta diversa natura delle due attività – giurisdizionale la prima, amministrativa la seconda – implicava l’assunzione di un differente statuto processuale, non trovando applicazione nella disciplina della giurisdizione volontaria, istituti tipici del processo contenzioso, e, soprattutto, la regola della soccombenza ai fini del carico delle spese, sul punto cfr., P. Pajardi, La responsabilità per le spese e i danni processuali nei procedimenti di volontaria giurisdizione, Milano, 1959, 297 ss. Dalla natura amministrativa del provvedimento discendono numerose conseguenze: anzitutto deriva l’inoperatività del principio della immutabilità del giudice, di cui all’art. 276 c.p.c. dovendosi intendere il riferimento di cui all’art. 287 alla correzione effettuata dallo “stesso giudice” nel senso di “stesso ufficio giudiziario” senza che rilevi la persona fisica del magistrato che ha pronunciato il provvedimento, v. Cass., sez VI- III, 22 gennaio 2015, ord. n. 1207.

In senso difforme A. Figurelli Notarbartolo, Correzione di sentenza e condanna alle spese, in Giur. merito, 1985, 605 ss., l’a. giunge a riconoscere al procedimento ex art. 287 c.p.c. – nei casi di richiesta proveniente da una sola parte – natura contenziosa sulla base del rilievo secondo cui, in presenza di una sentenza affetta da errore materiale, le parti sarebbero tenute a conformare la propria condotta al reale contenuto del provvedimento giudiziale, sicchè il ricorso alla correzione presupporrebbe il rifiuto di una di esse di riconoscere l’errore materiale e la pretesa di individuare quale fonte di regolamentazione del rapporto il provvedimento “apparente”. In senso parzialmente difforme S. Boccagna, Errore materiale e correzione dei provvedimenti del giudice, cit., 271 s. ad avviso del quale si tratterebbe si di un procedimento giurisdizionale ma di natura non contenziosa, e in quanto tale soggetto alle diposizioni generali contenute nel libro primo del codice di procedura civile, ivi comprese quelle in tema di spese.

[4] Così B. Sassani, op. loc. ult. cit.

[5] In argomento cfr. F. Cordopatri, voce «Soccombenza (dir. proc. civ.)», in Enc. Dir., XLII, 1990, 797-798; E. Fazzalari, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960, 37 ss.; F. Lancellotti, La soccombenza requisito di legittimazione delle impugnazioni, Modena, 1979; B. Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, cit., 226 ss., 519 ss.

[6] Cfr., Cass. 8 luglio 1983, n. 591, Foro it., 1984, I, 191; Cass., SS.UU., 27 giugno 2002, n. 9438; Cass., sez. lav., 1° agosto 2002, n. 11483, 2003, I, 533, Cass., SS.UU., 27 giugno 2002, n. 9438, conforme Cass., sez. VI-II, 17 settembre 2013, ord. n. 21213, Cass., sez. VI-II, ord. 22 giugno 2020, n. 12184.

[7] Cass., sez. III, 28 marzo 2008, n. 8103, conforme Cass., sez. VI-I, ord. 6 novembre 2019, n. 28610.

[8] In tal senso M. Acone, voce «Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice», cit., Id., Procedimento di correzione degli errori materiali e condanna alle spese, cit., 3212.

[9] Cass., sez. I, ord. 5 luglio 2019, n. 18221.

[10] Cfr., A. Gualandi, Spese e danni nel processo civile, Milano, 1962, 173; E. Grasso, in Commentario del codice di procedura civile, Torino, 1973, 494; A. Figurelli Notarbartolo, Correzione di sentenza e condanna alle spese, cit., 605 ss.