Progresso medico scientifico, applicazioni tecnologiche e soluzioni giuridiche negli anni Trenta del Novecento

Di Gianfranco Stanco -

Sommario: 1. «I trapianti di glandole sessuali rappresentano la fase più recente dei progressi ottenuti dalla scienza e dalla tecnica chirurgica in materia di trapianti di parti del corpo da una persona all’altra». – 2. Il «diritto all’integrità del proprio corpo è disponibile tutte le volte che l’interesse del singolo alla disponibilità stessa si può conciliare con l’interesse sociale. E verso questo principio l’orientamento della dottrina e della legislazione moderna si accentua ogni giorno più». − 3. «La causa, che ha avuto il suo epilogo in questa notevolissima sentenza della Corte Suprema, si riferisce ad un caso non comune di lesione consensuale per asportazione ed innesto di glandola sessuale: offre perciò all’esame degli studiosi una delle ipotesi più interessanti e più caratteristiche di lesione consensuale». – 4. Conclusione.

1. «I trapianti di glandole sessuali rappresentano la fase più recente dei progressi ottenuti dalla scienza e dalla tecnica chirurgica in materia di trapianti di parti del corpo da una persona all’altra»[1].

 

Poche questioni all’attenzione del giurista si presentano talmente interessanti come la rilevanza giuridico-penale delle lesioni che avvengono in occasione di una gara di boxe e dei trapianti consensuali omoplastici. E ciò non per la frequenza dei casi nelle aule giudiziarie, ma per l’intrinseca difficoltà con cui il problema si porge allo studio. In quanto che esso investe alcune fra le questioni fondamentali del diritto, quali il carattere eccezionale o no del diritto penale, l’ammissibilità dell’analogia e dei principi generali di diritto in materia penale, la disponibilità dei diritti in genere e dei diritti personalissimi in particolare, la natura giuridica del consenso dell’avente diritto[2].

Così esordiva Carlo Saltelli in un appassionato volume, che rappresentava la summa conclusiva, in termini di riflessione giuridica, di un caso di trapianto omoplastico consensuale trattato davanti alla II sezione della Cassazione, durante la sua presidenza. L’ascesa ai vertici della Suprema Corte era stata favorita dalle indubbie qualità, maturate presso la Corte d’appello di Roma, e dalla stretta collaborazione con Alfredo Rocco, «il principale costruttore delle strutture istituzionali del regime fascista»[3]. Negli anni di stesura della legislazione fascista, in particolar modo sul fronte della codificazione e della procedura penale, Saltelli si era rivelato dall’alto dei molteplici incarichi ministeriali come «l’eminenza grigia del Ministero, governandone di fatto la vita quotidiana»[4]. Con la nomina al Dicastero di grazia e giustizia di Pietro de Francisci, Saltelli era ritornato a pieno ritmo all’attività giudiziaria, nondimeno, aveva continuato ad esprimere le sue posizioni dottrinali, nella cornice di una matrice legalistica che si faveva carico della «tutela dell’“integrità e [del]l’avvenire della stirpe”, [del]la salvaguardia dello Stato, della religione, della famiglia»[5].

La materia sportiva, con utilizzo della violenza ai fini dello svolgimento della competizione, non presentava particolari problematiche: «la soluzione dipende da quella del problema intorno alla illiceità o non illiceità delle lesioni prodotte con mezzi normali al giuoco»[6]. Ciò che invece appariva intrigante per il magistrato e il fine studioso era la rilevanza giuridico-penale conseguente alla «fase più recente dei progressi ottenuti dalla scienza e dalla tecnica chirurgica in materia di trapianti di parti del corpo da una persona all’altra»[7].

In fatto di attentato all’integrità personale, la novità nel campo del trapianto di ghiandole sessuali poneva molteplici interrogativi sui profili della disponibilità del diritto, del consenso dell’avente diritto, della responsabilità del medico, dei rapporti tra lesione e trattamento medico-chirurgico, diritto punitivo e fonti naturalistiche, diritto privato, diritto penale e principi generali del diritto, in un contesto di avanzamento della “fede” nel positivismo giuridico penale e di «azione energica da parte dello Stato nella lotta contro la delinquenza»[8]. L’intento dottrinale di collocare l’argomento del consenso nell’alveo proprio del diritto penale per la fattispecie esaminata, «disciogliendolo dalla nebulosa nella quale certe ricerche extrapenali avevano finito per relegarlo»[9], era ben rappresentato da Eugenio Florian:

A mio avviso, alieno come sono da tanto abili complicazioni, la povera e negletta realtà quotidiana dovrebbe indicare la via: messa da parte la teorica negatrice del dir. pen., che la volontà del titolare del bene od interesse giuridico soppresso o menomato o messo in pericolo possa cancellare la nota di antigiuridicità impressa dallo Stato ad un fatto proclamato reato, il consenso non potrebbe agire che sul dolo, con svariata efficienza[10]. […] il consenso non muta il fatto, il quale resta quello che è segnato nella legge; bensì muta o può mutare l’elemento soggettivo e l’avere agito col consenso dell’offeso è o può essere indice che normalmente l’agente non è pericoloso e la sanzione è superflua. La verità umana, al disopra delle categorie dialettiche, è proprio questa[11].

Nel libro dell’allievo di Enrico Altavilla, il promettente Vincenzo Spiezia, beneficiato dalla prefazione del Florian, era dato ampio risalto alla necessità di fissare con precisione certosina l’orizzonte definitorio del concetto di lesione, come «alterazione anatomica e funzionale, la quale sia in contrasto con le condizioni organiche anteriori alla produzione dell’evento lesione e che ponga il paziente in una condizione di anormalità – somatica e anatomica – e di inferiorità rispetto allo stato di salute, in cui era anteriormente alla lesione», e del concetto di trattamento medico-chirurgico, considerabile soltanto nella dimensione dello scopo curativo, come «complesso di atti, che il medico, secondo le norme della scienza medica, compie sull’organismo di un uomo per guarirlo da una malattia nel corpo o nella mente, o per migliorare la sua bellezza fisica»[12].

Per afferrare il problema della rilevanza giuridico-penale, circa gli atti di trapianto di ghiandola sessuale, occorre fare un piccolo passo indietro, facendosi guidare dalle indicazioni fornite dal Florian: «la povera e negletta realtà quotidiana dovrebbe indicare la via». E la “povera e negletta realtà quotidiana” ci porta nella Napoli dei primissimi anni Trenta del Novecento, per seguire le vicende di uno studente squattrinato, di alcuni medici sperimentatori, di un benestante con problemi di fertilità, e di magistrati alle prese con i temi della volontà privata, in particolare dell’efficacia del consenso dell’offeso, nella veste di “arbitra” di interessi tutelati dal diritto penale, con il riflesso nel caso concreto della negazione o difetto dell’interesse a punire.

Il 21 ottobre 1930 un rapporto del commissario di pubblica sicurezza di Castel Capuano informò il procuratore regio su un’operazione chirurgica dagli esiti sconvolgenti. Paolo Salvatori si era prestato, dietro compenso di diecimila lire, a cedere una ghiandola sessuale in favore di Vittorio La Pegna (Lapegna), proveniente da San Francisco di Cordoba, di età non superiore ai quarant’anni. Il ventiquattrenne studente di Scienze economiche e sociali era stato reclutato come volontario durante un ricovero presso l’Ospedale degli Incurabili da un’équipe medica che aveva un progetto ambizioso, quello di importare in Italia, per la prima volta da uomo a uomo, le tecniche del chirurgo Serge Voronoff. Il 27 agosto di quell’anno, presso la clinica cittadina del chirurgo Gabriele Jannelli, si era proceduto all’ablazione del testicolo sinistro del Salvatori con successivo innesto sulla persona del La Pegna[13].

Il prestigio di Voronoff in Italia può dedursi dal successo riscontrato nel 1924 presso l’Istituto di Patologia Generale Sperimentale e Batteriologia della Regia Università di Firenze, inaugurato un anno prima. Era stato invitato dal professore Alessandro Lustig, uno dei più importanti capi scuola della patologia generale italiana. Secondo il racconto dello scrittore e giornalista Ugo Ojetti, una «folla di medici e cerusici» aveva invaso il nuovo Istituto per ascoltare «questo iperboreo lungo e segaligno, vestito di nero […] venuto a prometterci giovinezza a volontà», nei pressi di un luogo, prossimo alla Villa Medicea, evocatore, in un gioco di specchi deformanti, dei versi immortali del Magnifico: «Quant’è bella giovinezza – che si fugge tuttavia […] Chi vuol esser lieto sia: – di doman non c’è certezza»[14].

Il chirurgo franco-russo, abituato a districarsi tra le vicende d’America, Europa ed Africa, si era mostrato all’uditorio fiorentino come fine oratore, che «gioca agilissimo col tempo e con lo spazio, con la vita e con la morte»[15]. Ma gli esperimenti di cui narrava, se da una parte suscitavano ammirazione in un ambiente medico entusiasta di aprirsi alle nuove frontiere che la scienza offriva, dall’altra prestavano il fianco al novelliere e romanziere per consolidare, mediante il gusto dei classici, una proiezione antimodernistica a strenua difesa di una tradizione storicizzata ritenuta in pericolo:

A chi assomiglia? Ecco, per indicare non so che sullo schermo, afferra una bacchetta. Finalmente è un mago, anzi Mefistofele in persona, ché solo la barbetta a freccia gli manca. Certo s’è ben nascosto dietro le sue formule, i suoi studi, la sua scienza, il suo abito da diplomatico e i suoi gesti da ecclesiastico. Ma la sua stessa modestia di scienziato che niente osa affermare senza le prove dovute, ogni minuto manda faville diaboliche. Le corna dei suoi negri caproni ch’egli fa vivere oltre i limiti comandati dalla natura, l’orgoglio faustiano che vedi scintillare negli occhi dei suoi ringiovaniti, quelle mani, quella fronte, quel melato sorriso: come mai a questi attributi non lo riconoscono tutti, i dottissimi che l’acclamano? […] La luce è tornata. Il discorso è finito. L’aula s’è svuotata. Riesco a restare due minuti solo con lui. […] Infilandosi un paio di guanti bianchi mi dice: – Ieri ero ad Assisi, ho visitato la chiesa e la tomba di San Francesco… Mi ficco le due mani nelle tasche per non farmi, d’istinto, il segno della croce[16].

Lo scrittore aveva evidenziato con pochi, ma efficaci tratti di penna, le perplessità di fronte all’ansia sperimentatrice del Voronoff, che poneva l’indole del suo genio a misurarsi con generi e forme non sempre accreditati dalla letteratura scientifica, a causa di contaminazioni innovatrici e trasgressive ai confini dei problemi del vero e del verosimile, tanto da incontrare non poche critiche, finanche nel Congresso internazionale di fisiologia tenutosi a Stoccolma nel 1926. Nel contempo, non residuali erano le problematiche giuridiche che si sollevavano, quando la prospettiva utopica incrociava la realtà del possibile e si riversava sulla vita delle persone in carne ed ossa. I primi commenti da parte della dottrina giuridica italiana si erano incentrati sulla punibilità o meno del chirurgo rispetto alla resezione di un corpo genitale sano ad un individuo consenziente a scopo di trapianto. Si oscillava dalla responsabilità all’irresponsabilità penale, che, in quest’ultimo caso, era collegata all’aforisma scientia non petit vincula e all’esercizio del diritto di disporre di singole parti del proprio corpo[17].

Il caso Salvatori fu preso in carico dal pubblico ministero Biagio Petrocelli, che si premurò di indagare sulle inedite risultanze operatorie e post-operatorie. La perizia acquisita certificò una guarigione dello studente nello spazio di otto giorni, in relazione a una operazione priva di «alcunché di morboso sia negli organi della vita vegetativa e nel sistema nervoso, sia negli organi genitali e nella annessa funzione virile e fecondativa […] confortando il […] parere [dei periti] con quello di illustri scienziati»[18].

Il procuratore del Re ritenne che sussistevano gli elementi sufficienti per intentare un’azione penale relativamente al reato di lesione personale volontaria, ex artt. 372 e 373, c.p. del 1889:

La pena è: 1° della reclusione da uno a cinque anni, se il fatto produca l’indebolimento permanente di un senso o di un organo, od una permanente difficoltà della favella, od uno sfregio permanente del viso, ovvero se produca pericolo di vita, od una malattia di mente o di corpo durata venti o più giorni, o, per ugual tempo, l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, ovvero, se commesso contro donna incinta, ne acceleri il  parto [art. 372, n. 1]. […] Quando nel fatto preveduto nell’articolo precedente concorra alcuna delle circostanze indicate nei numeri 2° e 3° dell’articolo 365, ovvero il fatto sia commesso con armi insidiose o con ogni arma propriamente detta, o con sostanze corrosive, la pena è aumentata da un sesto ad un terzo [art. 373, 1a parte][19].

Secondo l’impostazione dell’organo inquirente, l’operazione di ablazione era stata effettuata su una persona sana. Era da escludersi, quindi, ogni possibile riferimento ai casi di trattamento chirurgico lecito, perché questi ultimi implicavano la presenza di una necessità patologica da parte di pazienti ammalati, allo scopo curativo di scongiurare un danno. La resezione dell’organo aveva, invece, prodotto un danno oggettivo, senza alcun beneficio per lo stato di salute dello studente napoletano, che andava valutato all’interno di una prospettiva più ampia rispetto al semplice decorso degli otto giorni per la guarigione dall’intervento, come da perizia medica. Il quadro lesivo imponeva di sondare gli effetti dannosi permanenti ad ampio raggio, indagando dal punto di vista della spermiogenesi, della funzione endocrina e di quella vicariante. Il vantaggio in favore di un terzo non escludeva il dolo dei medici, in presenza del danno e della commissione consapevole, in concorso, del fatto tipico di reato. A fronte della prestazione del consenso da parte del titolare di un diritto soggettivo privato, come elemento di efficacia discriminante, l’accusa opponeva la presenza dell’illiceità della lesione di un bene individuale ritenuto indisponibile. Lo Stato, oltre ad assicurare la tutela degli individui, era tenuto a salvaguardare la vita e l’integrità dei cittadini, i quali erano chiamati a contribuire al benessere e al progresso sociale, nel campo della difesa militare, dello sviluppo demografico e della produzione della ricchezza della nazione[20].

I capi di imputazione erano i seguenti: dovevano rispondere per il «reato di lesione personale volontaria con istrumento atto ad offendere» l’autore dell’operazione Giuseppe Fersina, per concorso nel reato Giuseppe De Nita, Gaetano Manfredi e Gabriele Jannelli, per «la stessa correità per aver determinato gli altri a commetterlo» Vittorio La Pegna. In seguito alla fase istruttoria, era invece uscito di scena il medico Eugenio Reale, liberato da ogni addebito per aver soltanto assistito in modo passivo[21]. Per il reato ascritto in rubrica, gli imputati furono citati a comparire davanti al Tribunale di Napoli, che si trovò, da subito, a fare i conti con l’introduzione del nuovo codice penale, pubblicato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398 ed entrato in vigore il 1° luglio 1931. Da qui la ponderazione del quadro accusatorio tra il punto di partenza, l’art. 372, c.p. del 1889, e quello di approdo, l’art. 50, c.p. del 1930.

In punto di diritto, la sezione XV del tribunale si trovò ad affrontare la questione della causa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto, a fronte del consenso prestato dal destinatario di una lesione nell’ambito della propria integrità fisica. Il discorso si ampliava circa l’ammissibilità o meno del concetto di «un diritto sulla propria persona». La dottrina sul punto non era univoca. Per evitare di arrischiarsi in un ginepraio pericoloso, furono evidenziate nel campo civilistico le obiezioni ostative all’ammissibilità fornite da Adolfo Ravà e da Nicola Coviello[22].

I termini della disputa scientifica possono compendiarsi mediante il ricorso a una lungimirante esposizione di Roberto De Ruggiero, uno dei padri della civilistica italiana[23], rivelatrice dei molteplici interessi e delle profonde conoscenze dei modelli tedesco e francese, nella temperie del lavoro della Commissione reale per la riforma dei codici, con «il bisogno di porre le vecchie regole in miglior consonanza con le nuove esigenze della vita e di veder colmate lacune gravi e difetti sensibili che il nostro vecchio testo del 1865 presenta»[24]:

Ora, in via generale, contro il concetto di un diritto sulla propria persona si oppongono queste due obbiezioni: primo, che né le forze fisiche né le psichiche o intelletuali, come estrinsecazioni della multiforme attività umana, possono distaccarsi dall’uomo da cui promanano e rappresentarsi siccome entità a sé, e parti separate della persona, la quale costituisce un tutto organico incapace d’essere scomposto nelle funzioni e negli elementi che lo compongono; secondo, che a voler considerare la persona stessa come oggetto del diritto (soggettivo), si va incontro alla difficoltà insormontabile, di dare alla persona contemporaneamente due funzioni contraddittorie e inconciliabili nel rapporto giuridico così concepito, di soggetto cioè e ad un tempo di oggetto del diritto. Il che è vero in quanto un effettivo reale distacco delle singole parti dal tutto non è possibile; ma esso è concepibile astrattamente soprattutto ove si consideri la personalità in sé, come entità complessa ed autonoma, qual soggetto dei singoli diritti che nella categoria in esame rientrerebbero. Più particolarmente se si guarda ai diritti costituenti la personalità in quanto toccano l’elemento fisico e materiale, tutto il problema si riduce a vedere se la persona abbia un diritto sul proprio corpo; e la questione si presenta sotto un triplice aspetto, secondo che s’abbia riguardo al corpo della persona vivente, al cadavere, alle parti staccate di esso, ma la soluzione è affermativa in tutti e tre. […] Nel primo caso non può parlarsi certo di un diritto di proprietà, che la persona abbia sul proprio corpo, o comunque d’un diritto patrimoniale […]; ma d’un diritto personale sì, in quanto all’uomo è garantita dal diritto obbiettivo la facoltà naturale ch’egli ha di disporre del proprio corpo, della propria vita, della propria attività fisica. Se da ciò si debba poi dedurre, come logica conseguenza di siffatta premessa, la esistenza d’un diritto al suicidio, o all’automutilazione o alla distruzione del feto come portio viscerum da parte della madre, è questione che va risoluta a tenore delle norme particolari, che ciascun diritto positivo reputi opportuno di dettare per limitarlo o sopprimerlo. E limitazioni varie si hanno infatti in ogni ordinamento giuridico, dettate soprattutto da motivi di ordine pubblico o di buon costume, che non consentono certi abusi di libertà, anche quando essi cadano sulla persona propria. […] Nel terzo finalmente è indiscutibile il sorgere di un vero diritto di proprietà sulle parti distaccate dal corpo (come la treccia, il dente, ecc.), che divengono così, a differenza del cadavere, cose commerciabili. Il progetto nel nuovo titolo sulle persone fisiche contempla espressamente questo diritto sul proprio corpo, purché la disposizione di esso o di sue parti non sia contraria alla legge e al buon costume[25].

La vastità del tema impose all’organo giudicante di orientare il profilo argomentativo, utilizzando come elemento di confronto le teorie di Filippo Grispigni e del suo mentore tedesco Franz von Liszt[26], sulla base di riflessioni che esprimevano, nonostante l’originaria impronta positivista, un dibattito più articolato nella penalistica italiana ed europea tra Otto e Novecento[27]. L’allievo di Enrico Ferri si era occupato a più riprese della teoria del reato, con il «saggio su La responsabilità pen. per il trattamento medico-chirurgico arbitrario (1914) e il poderoso volume su Il consenso dell’offeso (1924), che insieme a un’analisi dettagliatissima contiene idee moderne del consenso dell’avente diritto come “condizione risolutiva della tutela giuridica di un bene”, la distinzione tra il consenso che rende lecita un’offesa da quello che toglie addirittura di fatto la lesione stessa, l’analisi del consenso nei reati colposi e in quelli di pericolo etc., che anticipano concezioni liberal sull’autoesposizione al pericolo come causa di atipicità del fatto e sul consenso come elemento negativo del fatto e della stessa offesa»[28].

Il consenso era un presupposto necessario per determinare gli elementi costitutivi del reato e stabilire gli elementi dell’illecito civile. Sulla liceità e punibilità dell’azione influivano la qualità del soggetto passivo, i suoi rapporti con l’autore del fatto, la sua condotta, la manifestazione di volontà in relazione alla conservazione e alla tutela del bene giuridico contro cui era diretta l’offesa. Il consenso dell’offeso era una «condizione risolutiva» che, nell’esercizio della sfera del diritto di libertà, non contrastava né con il carattere imperativo della norma giuridica, né con la funzione della tutela dei beni. Vi era una «facoltà riconosciuta dall’ordinamento giuridico al titolare di un bene, di sospendere, nei riguardi di una o più persone, l’efficacia della norma giuridica che tutela quel bene»[29]. Il consenso neutralizzava l’illiceità dell’azione, sia nell’ambito penale, sia in quello civile, in merito alla violazione del diritto oggettivo e alla lesione di un bene giuridico. Il diritto oggettivo garantiva e tutelava il titolare del diritto soggettivo, che constava di diversi poteri, in primis nella sfera del diritto di proprietà, con la possibilità di esercitare la facoltà giuridica di consentire l’offesa relativamente al bene che ne formava il contenuto. Partendo dalle teorie di Nicola Coviello, Grispigni aveva identificato la natura del consenso dell’offeso nella dimensione di negozio giuridico di diritto privato, unilaterale e non recettizio. Il giurista viterbese partecipò, con funzioni di segretario generale, alla Commissione Ferri per riformare il codice Zanardelli e la sua opera esercitò una qual certa influenza sul legislatore del 1930, in merito al rilievo giuridico del consenso dell’avente diritto. Egli ammetteva la liceità del suicidio, ma si differenziava dal maestro Ferri in materia di eutanasia, in quanto riteneva che all’uomo era precluso ogni arbitrio rispetto agli eventi della nascita e della morte[30].

Si trattava, in quest’ultimo caso, di attraversare una zona grigia di estrema importanza, sulla quale era intervenuto il codice Zanardelli del 1889, con l’incriminazione dell’istigazione e aiuto al suicidio (art. 370), in seguito il codice Rocco del 1930, circa le fattispecie dell’omicidio del consenziente (art. 579) e dell’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580), che, con l’evoluzione delle tecnologie mediche e biologiche, solleverà tra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo un acceso dibattito sulle “decisioni di fine vita” nell’ambito del trattamento medico-chirurgico, circa la possibilità di estendere i nuovi orizzonti giuridici dell’autodeterminazione terapeutica alle fasi finali della vita umana[31].

Secondo il Tribunale di Napoli, Franz von Liszt aveva collegato la validità del consenso alla validità della convenzione, vale a dire alla possibilità di disporre del bene tramite contratto. L’incommerciabilità del bene oggetto del contratto rendeva nullo il negozio ed invalido il consenso anche ai fini penali. Secondo il suo insegnamento, seguito dal Grispigni e pacifico in dottrina, «le parti non distaccate del proprio corpo non possono formare obbietto di convenzione»[32].

I casi ricorrenti di trasfusione di sangue o di trapianto di pelle, tuttavia, dimostravano come, a dispetto dell’indisponibilità del bene tramite contratto, fosse ritenuta giuridicamente lecita la prestazione sanitaria per effetto del consenso valido ed efficace della parte lesa. Occorreva, quindi, trovare un punto di mediazione, tra collocazione dogmatica e dimensione pratica, riguardo ai confini della non punibilità e agli istituti che quest’ultima poteva ricomprendere. Alla luce della mancanza di un unanime consenso, occoreva districarsi tra gli orientamenti linguistico-concettuali, relativi alle diverse sensibilità delle due grandi scuole penalistiche, la scuola classica e la scuola positiva, nonché, soprattutto, della emergente terza scuola, vale a dire il c.d. indirizzo tecnico-giuridico, che si era affermata nel codice penale del 1930:

Altri, ad esempio il FLORIAN, vorrebbero subordinare l’efficacia del consenso alla nobiltà del fine, sostenendo che non basti la disponibilità del bene da parte del consenziente quando non occorre anche il motivo legittimo e sociale che determina l’azione. Il CARRARA (Programma, parte generale, § 1415) ritiene che, se il diritto alla vita è un diritto inalienabile, non lo è sempre altrettanto il diritto che l’uomo ha sulla integrità del suo corpo. Nega che il consenso tolga la imputabilità all’offensore e ritiene che la ragione per cui si discriminano le operazioni chirurgiche sia la mancanza di dolo. Avverte però che ogni qualvolta si configuri nella lesione consentita dal leso un fine doloso devesi riconoscerne l’imputabilità. Il PESSINA (Elementi, II, p. 27) propende a che venga negata ogni efficacia al consenso, e l’ALIMENA invece (Principii, p. 405) esplicitamente dichiara che la lesione consentita debba andar sempre impunita. Il MANZINI nel suo Trattato (I, p. 467) scrive che l’integrità personale costituisca una condizione perfetta per la quale il privato ha potestà di fare ciò che gli piace verso se stesso, tranne però nel caso in cui il suo fatto ed il suo consenso portino alla lesione di un pubblico interesse, come sarebbe nella mutilazione a scopo di sottrarsi al servizio militare. Il GRISPIGNI, che più di ogni altro esaurientemente ha trattato una tale materia, dopo avere detto nel suo libro innanzi citato che in base alla legislazione penale (quella cioè del cessato Codice) non potesse considerarsi disponibile il diritto alla integrità personale, che nei casi soltanto di una lesione lievissima (p. 458), tuttavia deve riconoscere a p. 690 che il senso etico-giuridico reclamasse di evitare gli estremi e quindi mentre appariva troppo ristretto il limite sopra accennato, nel tempo sembrava eccessivo riconoscere efficacia al consenso anche nel caso di lesioni gravissime. Epperò credeva che si dovesse riconoscere efficacia al consenso in tutte le lesioni personali, eccettuate quelle previste dal n. 2 dell’art. 372 C.p. ora abrogato, e cioè quando il fatto avesse prodotto una malattia di mente o di corpo certamente o probabilmente insanabile, ed in tutti gli altri casi previsti dal citato articolo[33].

Il Tribunale di Napoli aveva indagato a fondo sulle posizioni dei diversificati indirizzi scientifici. Era, pertanto, consapevole di operare su un crinale scivoloso. La lacunosità in materia del codice Zanardelli non era stata risolta dal subentrante codice Rocco. L’art. 372 del codice Zanardelli aveva disciplinato la fattispecie della lesione personale intervenendo con pene severe in caso di menomazione della salute psicofisica della persona lesa, pressoché invalidante ed insanabile. Negli altri casi di lesione, era rinvenibile un implicito meccanismo di salvaguardia rispetto alla libera disponibilità dell’integrità personale, tramite la previsione dell’attivazione del procedimento penale mediante l’istituto della querela, con pene detentive e pecuniarie piuttosto miti[34], in conformità a un diritto penale nazionale «sensibile ai principi del liberalismo politico […] che sa cogliere i frutti maturi dell’elaborazione penalistica italiana»[35].

Il codice Rocco poggiava su alcune scelte di stampo autoritario, conseguenti all’avvento del fascismo, che associavano alla posizione del partito-Stato l’avversione per l’individualismo liberale, in una «combinazione di ideali, programmi, provvedimenti (violentemente repressivi e fortemente restrittivi delle libertà, ma anche con profili modernizzanti), che aspirò addirittura a farsi modello da esportare. […] tra bolscevismo e liberalismo»[36]. Il problema dell’efficacia del consenso, come elemento discriminante e degradante del dolo, era preso in esame in funzione della considerazione della vita umana come diritto indisponibile, per l’interesse dello Stato a tutelare un bene socialmente preminente, secondo il binomio strumentale difesa dello Stato/difesa sociale, «per difendere non la società in quanto tale, o i singoli cittadini, ma se stesso, essendo questa la sola via di un efficace tutela di quella e di questi»[37].

Il diritto alla vita, come diritto indisponibile, non poteva essere oggetto di convenzione o di rinuncia. L’ordinamento giuridico si faceva carico della sua tutela, in quanto «le più gravi aggressioni portate contro la persona umana [erano] equiparate alle più gravi aggressioni portate contro lo Stato-persona»[38]. Il problema dell’efficacia del consenso dell’offeso fu affrontato dal legislatore, riservandolo alla sola fattispecie dell’omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. In questo caso, l’autore del reato godeva di una pena attenuata rispetto alla previsione dell’omicidio volontario ex art. 575 c.p. Il codice era silente, invece, sulla materia della lesione del consenziente. La libertà personale non era un valore assoluto, ma si palesava nello Stato. Lo Stato «per suprema esigenza sociale ha il diritto di proteggere il bene indipendentemente dal valore che il privato possa attribuirvi». Partendo da queste premesse, il compito del tribunale, nel silenzio della legge, doveva consistere nella ponderazione dei limiti al «diritto che ha l’uomo sulla integrità del suo corpo»[39]. La delicatezza del tema era suggerita dal dibattito seguente all’introduzione nel progetto preliminare del codice penale della fattispecie della lesione personale del consenziente (art. 589)[40] e dalla decisione di espungerla dal testo definitivo, in seguito al voto passato in Commisione di 8 componenti contro 7, segretario estensore Carlo Saltelli[41].

La previsione di una disciplina della lesione del consenziente, omologa a quella dell’omicidio del consenziente (art. 579), avrebbe creato più problemi di quanti ne fosse stata in grado di risolvere. Vincenzo Manzini, distinguendo in modo netto l’indisponibilità della vita dalla disponibilità dell’integrità personale, anche in casi non caratterizzati dallo scopo di cura, fu decisivo ai fini dell’orientamento della Commissione:

[…] vi sono invece molti casi in cui si può disporre della propria integrità personale, per es., per le così dette cure di bellezza, che non sono cure nel senso terapeutico, bensì adattamenti estetici. Ora può avvenire che in casi di questa specie chi si sottopone, per es., ad una depilazione può andare incontro a lesioni di una certa rilevanza, e lo stesso dicasi per le operazioni di plastica chirurgica. Ora in questi casi non è ammissibile che si punisca, e di ufficio, l’operatore. Lo stesso dicasi per certi giochi violenti, la boxe, il calcio, ecc. Il giocatore consente necessariamente a quelle lesioni che sono inerenti al gioco. Di omicidio si risponderà sempre, ma le lesioni sono una conseguenza spesso inevitabile di questi giuochi brutali; perciò si devono ritenere consentite a priori dai giocatori. Propone quindi di lasciar fuori dell’articolo questa ipotesi. […] Se bastasse ricorrere ai principi generali del diritto, sarebbe inutile parlare qui del consenso. Parlandone invece si viene a dire in primo luogo che non discrimina, e in secondo luogo che è causa di diminuzione. Ora non vi sarà giudice che non ravvisi l’ipotesi di consenso nei casi da lui indicati, ed il giudice quindi si riterrà obbligato a punire perché il consenso non discrimina. Ché se poi si riconosce al diritto consuetudinario la forza di far disconoscere quanto stabilisce questo articolo, allora converrà dire nella parte generale che la consuetudine ha forza di modificare le disposizioni penali[42].

Tra i suggerimenti pervenuti alla Commissione Ministeriale, al di là delle preoccupazioni dell’Associazione Italiana di Medicina Legale e della Corte d’appello di Ancona, che proponevano di includere l’aggravante per lo scopo di illecito lucro o di truffa come nelle simulazioni di infortuni tra assicurati[43], meritano una menzione particolare le osservazioni formulate per l’Università Cattolica di Milano dal penalista Giacomo Delitala, aderente al metodo tecnico-giuridico, ma non del tutto insensibile alle proposte dei positivisti:

Per le lesioni personali consentite, il Progetto si limita a disporre una semplice attenuazione di pena. A mio modesto avviso, sarebbe stata preferibile una diposizione più lata. Una disposizione, ad esempio, come quella contenuta nell’ultimo Progetto tedesco (§ 264): «La lesione personale del consenziente non è punita, se il fatto non è moralmente riprovevole». La ragione di questa mia preferenza sta nel fatto che anche le lesioni inferte nell’esercizio di un’attività medico-chirurgica vengono, a mio avviso, a trovare la loro giustificante nell’istituto del consenso. È opinione controversa e controvertibile. Altri, ad es., invoca la giustificante dello stato di necessità, altri ancora una particolare giustificante, determinata dallo scopo della lesione (scopo di cura), etc. […] Ma di stato di necessità non si può parlare, poiché l’interesse che si sacrifica e quello che si cerca di salvare appartengono entrambi alla medesima persona, e, quanto allo scopo della cura, se ha la sua importanza, non ha tuttavia un’importanza assoluta. Se non voglio curarmi, e non c’è una legge particolare, che me ne faccia obbligo nell’interesse generale (malattie contagiose), non potrà impormelo il medico, a proprio beneplacito. La ragione, che giustifica il trattamento medico-chirurgico, sta, quindi, nel consenso: reale o semplicemente presunto. Pertanto, salva la possibilità dei casi eccezionali sopra ricordati, non solo è illegittima l’azione curativa, in contrasto con la volontà manifestata dal paziente, ma anche quella, che, nel caso, in cui il paziente non possa esprimere il suo consenso, non tenga conto della gravità del pericolo, in confronto alla maggiore o minore certezza dell’esito favorevole: lo scopo di cura sussiste, ma l’azione è illegittima, perché non può presumersi il consenso. Ora, se questi rilievi sono esatti, la disposizione dell’art. 589 del Progetto non può non apparire insufficiente. Proporremo, pertanto, che il Progetto voglia stabilire, esplicitamente, l’impunità delle lesioni consentite e inferte a scopo curativo, e concedere, poi, una semplice attenuazione della pena, in tutti gli altri casi[44].

Nella stesura definitiva del codice Rocco, il problema del consenso dell’avente diritto trovò la sua disciplina all’interno dell’art. 50: «Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne»[45]. Nel determinare i limiti all’efficacia discriminante, la norma consentiva ai giudici di decidere, valutando i singoli casi sulla base del concetto fondamentale della disponibilità del diritto leso, senza rimanere imbrigliati dalle rigide asserzioni della dottrina manziniana:

L’attualità del problema e l’urgenza di risolverlo legislativamente sono rilevati nelle più diverse manifestazioni della vita moderna. Valga per tutti il ricordo delle questioni gravissime, che ognora si dibattono sull’efficacia del consenso nei giuochi ginnici, nelle più audaci operazioni chirurgiche, nella disciplina di circoli, associazioni, partiti e simili. Una norma direttiva era adunque indispensabile, ed il Progetto ha creduto di additarla, riferendosi alla disponibilità del diritto. Si è osservato che la disposizione difetta di valore concreto, perché non dichiara quali sono i diritti disponibili, ma è facile obiettare che il legislatore penale non può arrogarsi il compito di far l’elenco dei diritti disponibili. La materia trova regole, limiti, statuizioni in ogni ramo del diritto, privato e pubblico, scritto e consuetudinario, e l’interprete a tali fonti deve attingere, per decidere se il consenso validamente manifestato abbia efficacia discriminante[46].

Nel caso preso in esame dal collegio del Tribunale di Napoli, si trattò di prendere in considerazione i limiti circa la lesione del diritto all’integrità personale, ricorrendo al concetto di disponibilità del medesimo diritto in rapporto al consenso liberamente prestato ex art. 50 c.p., relativamente a un trattamento medico-chirurgico non necessitato da una patologia del consenziente, né dall’esigenza di impedire un danno grave e imminente al paziente ricevente, affetto da azoospermia. L’integrità personale era «un bene giuridicamente protetto», che dal piano individuale ascendeva a quello sociale. Ciò prefigurava la ferma condanna nei confronti di lesioni che avrebbero portato il consenziente ad essere destinatario di «una minorazione fisiologica e sociale», tale da impedire l’adempimento dei doveri di fronte alla Patria, allo Stato e alla Famiglia. In via generale, gli individui con monorchidia dimostravano piene capacità fisiche ed intellettuali, erano, quindi, idonei al servizio militare e potevano procreare. Nel caso particolare, le perizie e le risultanze scientifiche avevano evidenziato che il trattamento medico-chirurgico non aveva arrecato alcun danno allo studente, sul piano fisico e mentale. La capacità riproduttiva era rimasta inalterata, compensata da un processo di ipertrofia. Circa la perdita della funzione vicariante, il tribunale non riteneva di assecondare congetture legate ad eventi futuri, come tali non prevedibili.

Occorreva considerare pure che ci si trovava al cospetto di «uno dei più grandi progressi della scienza», impedirlo con il riscontro degli estremi di un reato avrebbe significato condannare l’Italia ad una posizione di retroguardia in Europa. La scienza, in ogni modo, doveva restare nel recinto dell’ordinamento giuridico-sociale. Il che comportava, ad esempio, sanzionare gli esperimenti umani che causavano gravi danni alla salute. La nobiltà del fine non aveva alcun rilievo sull’identificazione del dolo. Nell’ordinamento positivo non aveva infatti spazio applicativo la disciplina delle «compensazioni discriminatrici», ovvero il sacrificio di un individuo per il benessere altrui. Rispetto al caso in esame, i giudici escludevano l’esistenza del dolo, per mancanza negli imputati della coscienza di arrecare danno. Lo studente non aveva subito alcun danno permanente, di contro erano palesi i benefici ottenuti dal soggetto ricevente. La prestazione del consenso del soggetto passivo riguardo a una lesione personale guaribile entro dieci giorni, punibile pertanto solo a querela della persona offesa ex art. 582 c.p., acquisiva, inoltre, efficacia discriminante rispetto ai fatti lesivi dell’integrità personale conseguenti all’operazione chirurgica[47]. Secondo alcuni ambienti forensi, il tema della querela avrebbe costituito finanche la chiave di lettura dell’art. 50 c.p., evidenziando come principio generale di diritto penale non l’impunità dei reati consensuali, per effetto della disciplina dell’omicidio del consenziente ex art. 579 c.p., bensì il rilievo che si potesse validamente disporre soltanto dei diritti riferibili a delitti perseguibili a querela di parte[48].

Il Tribunale di Napoli, in conclusione, assolse tutti gli imputati secondo la formula «il fatto non costituisce reato», mancando il danno e il dolo[49].

Fra i tanti commenti alla sentenza si segnalarono, in particolare, quelli espressi dal libero docente di diritto e procedura penale dell’Università di Napoli, Alfredo Sandulli, e dal magistrato Loreto Severino. Il primo, politico socialista, noto studioso ed apprezzatissimo avvocato, che pagò con il discredito professionale le sue posizioni antifasciste[50], cercò di indirizzare l’analisi della decisione dei giudici napoletani nella direzione del criterio della nobiltà del fine, in aderenza agli insegnamenti della scuola positiva, «questo, in fondo, – anche senza dirlo esplicitamente – seguirono i magistati nel pronunziare la sentenza»[51]:

La sentenza qui riportata è interessante per la eccezionalità del caso, sottoposto all’esame del tribunale, e che, forse, difficilmente potrà ripetersi un’altra volta. Ma la sentenza non affronta, né risolve la questione relativa al criterio distintivo dei diritti, dei quali la persona, col suo consenso, può validamente disporre. Essa ha cercato di evitare la difficoltà del problema e, con un sistema empirico e semplicistico, si è diffusa a dimostrare che nel fatto non vi sarebbe stato alcun danno alla persona del consenziente. La esisenza del danno non ha, né può avere alcuna influenza sulla efficacia del consenso dato per menomare la propria integrità fisica. L’indagine era altra e consisteva nell’esaminare se, anche con la previsione o la certezza del danno, sia consentito disporre della propria persona. Il ragionamento della sentenza fa supporre che, se si fosse dimostrata la sussistenza o la possibilità del danno, si sarebbe pervenuto alla contraria conseguenza dell’affermazione della responsabilità. La perplessità, le incertezze, i tentennamenti, i dubbi che si rivelano traverso la motivazione sono possibili perché, l’articolo 50 del codice, così come è redatto, per la sua indeterminatezza, non offre alcuna direttiva e si presta alle più disparate opinioni. Al magistrato è consentita la più ampia possibilità di interpretazione e se gli si offrirà l’opportunità di una scappatoia – come nel caso qui esaminato – tranquillizzerà la propria coscienza inquieta. […] Si potrà bizantineggiare fin che si vorrà nell’indagare di quali diritti si può validamente disporre, ma non si arriverà mai a stabilire un concetto netto, certo e sicuro. La sapienza romana resta incrollabile nelle sue basi. Non si può procedere a definizione, né formulare un principio. Tutti i diritti possono essere, a volta a volta, disponibili o meno per la volontà dei titolari. Altra deve essere l’indagine sul consenso del subietto passivo, a seconda del dolo delle persone che al fatto partecipano, sia come soggetti attivi che passivi, e sul motivo determinante. Il consenso sarà valido se si agì per motivi giuridici, sociali, umanitari, pietosi, legittimi, che, per la nobiltà del fine, escludono ogni possibilità di dolo. Il consenso, invece, non avrà alcuna efficacia discriminante se, per motivi antisociali, antigiuridici, illegittimi, illeciti, malvagi, brutali o per fini di lucro, si sia agito dolosamente da persone temibili e pericolose per offendere il diritto altrui e per cagionare ad altri un danno[52].

I giudici napoletani, in realtà, non sembrarono interessati a perseguire l’orientamento del Florian. Quest’ultimo, in ossequio alla funzione pratica e sociale del diritto, non considerava tanto il fatto, relativamente al reato, ma si concentrava, piuttosto, sull’autore, in rapporto alla pericolosità sociale e alla meritevolezza della repressione[53]. Ciò che per il collegio aveva contato era escludere il reato per mancanza di una volontà giuridica criminosa, sia nel fatto, sia nella coscienza dell’agente.

Il giudice Loreto Severino, invece, era di stanza presso il Tribunale di Salerno, dopo aver svolto funzioni di pretore nel mandamento di Monza[54]. Si era già occupato del tema, in particolare sul versante degli innesti curativi ed estetici, del delitto sportivo e del dolo nelle lesioni consensuali[55]. L’argomento dei limiti alla disponibilità della propria integrità fisica assumeva un ruolo centrale. Il rapporto tra scienza medica e diritto era affrontato sia sul piano della perseguibilità a istanza privata, nei termini fissati dal codice penale a tutela dei diritti del singolo, sia nell’ambito della perseguibilità pubblica, in riferimento ai delitti che colpivano lo Stato e la società. Il consenso nel primo caso evitava il sorgere del delitto, nel secondo caso risultava inefficace, di fronte al reato di truffa o alla violazione dei doveri sociali e statali, secondo una tesi sviluppata in altra sede di commento:

[…] il prendere la cosa altrui col suo consenso, il coito consensuale, il sollazzarsi con minorenne, o con persona coniugata, consenziente il genitore o l’altro coniuge, l’entrare in casa di altri con il suo permesso, e via dicendo, non sono fatti delittuosi, perché il diritto su cui l’atto altrui viene a cadere, si appartiene all’uomo uti singulus, e questi può autorizzare altri a compiere quanto egli stesso può, in rapporto al diritto stesso, compiere. L’integrità personale, per quanto costituisca il più prossimo dei diritti dell’uomo, sfugge a nostro avviso, in linea generale all’influsso del consenso, nei fatti lesivi che la intacchino, per il suo valore sociale; e le ragioni dell’impunità del mancato suicidio e delle lesioni inferte a sé stesso, sono da ricercarsi tra quelle di indole morale, anziché giuridica, in quanto pena sufficiente sembra il dolore che l’individuo procurò a sé stesso con l’atto autolesivo. Solo l’interesse sociale può dare sanzione al consenso[56].

Sulla base di tali premesse, occorreva tener presente l’avvenuta trasformazione dello Stato, da liberale a fascista[57], con il superamento delle ideologie individualistiche in nome del valore sociale:

La disponibilità stessa può superare i limiti della privata perseguibilità, quando la lesione riceva giustificazione da un fattore di indole sociale, universalmente accolto, sia pure fondato su erroneo apprezzamento; ma nel contempo deve essere contenuta nei limiti massimi fissati dalla natura della stessa causa giustificatrice, la quale, almeno presso i popoli più civili, non spinge questi suoi limiti massimi sino alla mutilazione, al deturpamento, alla morte (giuochi violenti – trattamenti estetici di moda). Gli innesti curativi ed estetici veri e propri, essendo il loro fine l’eliminazione di un male (morbo, bruttezza), rientrano negli atti chirurgici curativi o estetici, affianco agli innesti da parte a parte dello stesso corpo, a questa sola, indefettibile condizione: che il vantaggio complessivo sovrasti al danno del soggetto cedente, il quale ha pertanto da conservare, dando altrui la floridezza, tutta la sua prestanza fisica dal lato salutare ed estetico, talché possa, come prima, e adempiere tutte le sue funzioni, e riuscire non repellente ai consociati: oltre, vi è il danno sociale, contro cui nulla può il consenso del leso, e niun altro diritto può accampare la scienza[58].

Riassumendo, le lesioni consensuali derivanti da operazioni chururgiche a scopo curativo, compresi gli innesti, oppure a scopo estetico dovevano considerarsi intrinsecamente lecite, perché non erano dirette ad arrecare danno. Mancava il dolo, vale a dire la volontà di danneggiare. Le lesioni derivanti da sport violenti, purché non esorbitanti rispetto alle regole del gioco, non erano punibili per effetto del consenso avvalorato dalla consuetudine. Le lesioni conseguenti a manovre non consentite, tuttavia, potevano essere sanzionate per colpa o dolo, a seconda dei casi. L’art. 50 c.p., per tale via, finiva per assumere le caratteristiche di un inutile orpello, che rischiava di prestarsi a fuorvianti teorie.

2. Il «diritto all’integrità del proprio corpo è disponibile tutte le volte che l’interesse del singolo alla disponibilità stessa si può conciliare con l’interesse sociale. E verso questo principio l’orientamento della dottrina e della legislazione moderna si accentua ogni giorno più»[59].

La Procura generale ricorse in appello. Si riteneva che il collegio non avesse ben valutato i fattori relativi all’entità del danno, alla validità del consenso e al dolo. La decisione era stata basata sull’assunto della punibilità “in tesi” della lesione chirurgica, dell’esclusione dell’indebolimento permanente dell’organo, dell’efficacia discriminante del consenso in relazione a una lesione lievissima, dell’esclusione, infine, per tutti gli imputati del dolo. La VII sezione della Corte d’appello di Napoli si pronunciò il 30 aprile 1932. Relativamente al danno, fu accolto l’orientamento dell’ufficio requirente. Gli organi che adempivano alla funzione della generazione avevano subito una menomazione permanente, anche se non erano state compromesse la potentia coeundi e la potentia generandi della persona operata. La perizia raccolta dal giudice istruttore si era concentrata soltanto sulla mancanza di problematiche relative agli aspetti psico-fisici successivi all’intervento, senza addentrasi sulla materia dell’indebolimento perpetuo dell’organo derivato da una lesione. Tanto la perizia quanto la letteratura scientifica utilizzata dal tribunale non potevano essere considerate decisive ai fini dell’esclusione del danno. Gli esiti, a cui era pevenuto il tribunale, erano stati condizionati dal metodo sperimentale del Voronoff, senza tener conto del diversificato mondo scientifico e delle critiche mosse a suo carico nel corso degli anni[60]. Occorreva distinguere tra innesto eteroplastico, causa di complicazioni varie, e innesto omoplastico, che rispondeva al criterio delle apprezzabili possibilità di successo, come nel caso in esame, riguardando l’ipotesi di resezione, praticata su uomini tra i venti e i quarant’anni, e di successivo innesto su soggetti non senescenti[61].

La Corte d’appello di Napoli aveva allargato il raggio d’azione allo scopo di individuare elementi utili alla decisione. Si poteva benissimo attingere al criterio della ragione naturale e ai risultati conseguiti nei campi della biologia e della fisiologia. La natura non creava organismi soverchi. Ogni perdita, quindi, determinava un danno permanente. Nel caso specifico, era stata alterata la funzione esocrina ed endocrina, sul piano della «disarmonia generale» nell’organismo e della «disarmonia particolare» nell’apparato genitale. Da ciò ne scaturiva, accanto al danno di natura meccanica, uno di natura psichica, confermato, quest’ultimo, dagli studi di carattere neuropatologico che associavano il disagio nei rapporti con le donne all’insorgenza di uno stato depressivo. Un ultimo e decisivo argomento riguardava la perdita totale della funzione vicaria dell’elemento gemello, che implicava una menomazione strutturale e funzionale, nonché un maggiore logorio e uno stato di pericolo della ghiandola superstite. Si trattava di un indebolimento certo e non eventuale, come sostenuto invece dal Tribunale di Napoli, e, quindi, di un danno effettivo, al di là di ogni ipotetica considerazione circa un ulteriore danno, certamente potenziale e non rilevabile, della perdita della facoltà di generare[62].

La corte, poi, prese in esame il secondo motivo d’appello, che collegava l’accertato danno in funzione dell’imputabilità. In questo caso si trattava di vagliare la dimensione del consenso nello spettro dell’efficacia discriminante applicabile ai reati di lesione personale. L’integrità personale era un bene sottratto al dominio del diritto privato, quindi inalienabile, anche se non mancavano le eccezioni alla regola generale, dall’ammissibilità di talune operazioni chirurgiche ed estetiche fino alle manifestazioni sportive caratterizzate dall’uso della violenza. Per questo motivo la figura del reato di lesione personale del consenziente era stata accantonata nel progetto preliminare del nuovo codice penale, lasciando, tuttavia, una lacuna normativa circa l’assenza di una disciplina sui limiti.

L’art. 50 c.p., nell’escludere la punibilità per chi ledeva o poneva in pericolo un diritto con il consenso del titolare, affidava all’interprete l’accertamento dell’esistenza di una disponibilità, in capo al consenziente, a cedere in modo valido una parte del proprio corpo: «Se la disponibilità esiste, la cessione è lecita; se la disponibilità non sussiste, la cessione è illecita. Da questo giudizio di liceità dipende la decisione definitiva se sia imputabile l’atto del chirurgo che è l’esecutore materiale di detta cessione»[63]. Secondo la corte d’appello, il Tribunale di Napoli aveva erroneamente collegato il giudizio sulla disponibilità alla prova della levità della lesione e, quindi, del danno. L’appellante Minervini, invece, aveva dedotto altrettanto erronamente l’illiceità della cessione di una ghiandola sessuale dalla contrarietà alla consuetudine in materia di menomazioni sessuali. La corte d’appello rilevava che quest’ultima afferisse soltanto ai casi di castrazione e di vasectomia duplice.

Donato Pafundi, sostituto procuratore del Re addetto al Ministero della Giustizia con funzioni amministrative nonché vice segretario del Consiglio superiore della magistratura, nel commentare la sentenza del Tribunale di Napoli del 1931 aveva sottolineato come già il diritto romano avesse riconosciuto la naturale facoltà di disporre dell’integrità del proprio corpo. Bisognava, tuttavia, escludere i casi di violazione di un pubblico interesse, come la mutilazione per sottrarsi al servizio militare, e i fatti moralmente riprovevoli senza alcuna utilità socialmente apprezzabile[64]. Sulla materia pesava il ruolo del brocardo scienti et consentienti non fit iniuria neque dolus[65]. Per quanto riguardava l’evirazione del consenziente, in un primo tempo ammessa, la compilazione giustinianea, rifacendosi a una costituzione di Adriano, aveva previsto la pena capitale per il medico e per lo schiavo consenziente[66]. Nella Novella 142 del 558 Giustiniano aveva rinnovato il divieto ed inasprito le pene, al fine di impedire il commercio di eunuchi praticato dalle popolazioni barbare in favore degli abitanti dell’Impero, aggiungendo il taglione alle pene dell’esilio e della confisca. Agli schiavi castrati era concessa la libertà, senza che rilevasse il riferimento alla prestazione del consenso del mutilato. Era consentita la castrazione a scopo terapeutico. L’asportazione dei genitali poteva configurarsi, infine, anche come pena accessoria rispetto alla sodomia[67].

Se il diritto romano pareva interessarsi alla materia soprattutto in riferimento alla condizione servile, il diritto canonico si era concentrato, piuttosto, sull’illiceità dell’ordinazione sacerdotale con riferimento alla privazione dei genitali. Il divieto di ammissione all’ordine riguardava il caso specifico dell’automutilazione dei genitali, «con l’intento di contrastare le correnti più radicali del cristianesimo originario, i cui adepti giustificavano tale atto come un mezzo per realizzare l’ideale di castità, per prevenire sospetti o per aderire al modello evangelico, interpretando in senso letterale il passo in cui Cristo accenna a chi si è fatto eunuco “per il regno dei cieli”. Al di là delle ragioni di natura teologica, dal punto di vista prettamente giuridico i commentatori medievali richiamano per questa regola il principio del diritto romano secondo cui “nemo debet esse dominus membrorum suorum” e rilevando la potenziale pericolosità di chi, avendo osato tanto contro se stesso, tanto più può osare contro gli altri»[68]. Il Liber extra prevedeva delle eccezioni nella circostanza di deformazioni intervenute dopo la promozione agli ordini. Il prete che subiva la castrazione ex iusta causa poteva continuare ad esercitare tutte le sue funzioni, mentre a chi compiva tale gesto sine causa gli era impedito di celebrare all’altare[69]. Restò a lungo sullo sfondo, invece, il nodo dell’utilizzo dei castrati in musica[70]. Si possono aggiungere, infine, i riferimenti alle Siete Partidas di Alfonso X nel XIII secolo e alle Sententiae receptae di Giulio Claro nel Cinquecento, che collegavano la castrazione alla punizione per offesa alla natura, condotta sulla propria persona o su persona altrui[71]. La legislazione sabaudo-italiana del 1859, all’art. 552, aveva disciplinato il crimine di evirazione[72], che fu poi abbandonato come fattispecie a sé stante, per confluire in modo implicito nell’ambito della materia della lesione personale.

Il posizionamento della Corte d’appello di Napoli contro la castrazione era chiaro e pareva adattarsi, con i dovuti accorgimenti, ad un orientamento maturato sul finire del XIX secolo ed esposto nei seguenti termini:

Ora un medico della California propone la castrazione non tanto per i delinquenti, quanto anche per gli alienati; reputando questo mezzo come il più efficace per migliorare la razza umana ed evitare sicuramente l’eredità criminale. Egli ritiene che l’interesse ben compreso della società esiga questa misura, la quale, una volta adottata, farà sì che il numero dei degenerati rapidamente decresca e parallelamente diminuisca il numero dei delitti. Un giornale della «scuola», nel dare la notizia, si compiace di «sentire dalla California caldeggiate le teorie positive». Non perché avversi alla «scuola»; ma, per altre ragioni, che sarebbe superfluo esporre, dacché il più volgare buon senzo basta a intuirle, non possiamo dividere questo compiacimento, anzi dobbiamo altamente riprovarlo[73].

In passato il diritto romano e quello canonico vietavano la castrazione, mentre nel XX secolo, secondo la corte d’appello, «contro di essa, insorge oggi l’umanità civile»[74]. La corte mostrava un analogo orientamento verso la vasectomia duplice che, nel recidere i dotti deferenti, operava una sterilizzazione, senza compromettere il resto della funzionalità dell’apparato genitale maschile: anche «questa operazione è condannata dai moralisti, ed è riprovata dai maggiori sociologi, per un cumulo di motivi che qui è superfluo ricordare; onde intorno ad essa, si è già formata una comune avversione»[75].

Si riconosceva il largo uso della sterilizzazione in America, nei confronti di delinquenti ed ammalati insanabili sulla base dell’ereditarietà, ma senza alcun accenno alla situazione europea, che era attraversata in quel frangente da un intenso dibattito sulla castrazione consensuale dei soggetti affetti da malattie sessuali. Nel 1929 la Danimarca adottò una legge in tal senso e qualche anno più tardi, rispetto alla sentenza della Corte d’appello di Napoli, esattamente tra il 1933 e il 1935, la Germania introdusse nel proprio ordinamento sia la sterilizzazione sulla base del consenso dei malati mentali, schizofrenici, epilettici e portatori di gravi menomazioni ereditarie, sia la castrazione coattiva per alcune categorie di delinquenti sessuali pericolosi, recidivi o autori di omicidio per ragioni sessuali, sia la castrazione consensuale dei delinquenti sessuali non recidivi, compresi gli omosessuali[76], con esiti normativi destinati a perdurare nel tempo. Tra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo sono emersi profili di chiara criticità in materia, sul piano dei trattamenti inumani e degradanti. Diversi ordinamenti giuridici adottano la castrazione chimica come punizione per i reati sessuali, a volte anche in modo coattivo, oppure come cura, vale a dire come terapia farmacologica per lo più reversibile, su base volontaria e informata, al fine di ridurre le pulsioni sessuali[77].

La Corte d’appello di Napoli non poteva assecondare la strategia del pubblico ministero, in quanto riconosceva soltanto alla castrazione e alla sterilizzazione l’ambito di operatività delle conseutudini contro le menomazioni chirurgiche dell’apparto genitale maschile, da ritenersi parte integrante della nuova legislazione penale. Nel caso in esame, invece, si aveva a che fare con una vicenda di monorchismo volontario, che, non inficiando la funzione procreativa, realizzava un «sacrificio limitato e sopportabile», dovuto a «una conquista recentissima della scienza», sulla quale non si era potuta formare alcuna norma consuetudinaria in contrario[78].

Il procuratore generale, in sede di dibattimento, aveva tentato di correggere il tiro, virando dalla consuetudine alla liceità. Potevano considerarsi leciti, questa era la tesi, soltanto la trasfusione di sangue e l’innesto di tessuto cutaneo, perché riguardavano atti di disposizione di parti del corpo riproducibili dall’organismo. La corte di merito ritenne questo tentativo altrettanto fallace, perché il criterio della reintegrazione dell’organismo si scontrava, non di rado, con le risultanze delle prestazioni sanitarie, che non sempre restituivano all’individuo le condizioni originarie, o con le conseguenze di azioni delittuose, come le trasfusioni compiute al di fuori dello stato di necessità[79].

Per la corte di merito i criteri della reintegrazione e della quantità del danno, adottati rispettivamente dall’appellante e dal tribunale, non erano idonei ai fini della determinazione dei limiti alla disponibilità di un organo umano. In una vicenda del tutto inedita, ci si affidò a un approccio da pionieri, ai confini estremi della terra fema giuspositivistica e ben oltre:

Il diritto di disporre del proprio corpo deve essere regolato, seguendo il criterio complesso del legislatore, da una norma superiore che comprenda in sé sia le leggi positive dello Stato, sia le leggi non codificate della natura, inquantoché alla natura sono sottoposte la vita e le leggi civili: sia gli insegnamenti della tradizione, armonizzati col processo di evoluzione dell’umanità; sia infine i comandi della coscienza umana. Attingendo a queste fonti, non è difficile definire la norma regolatrice. Essa può concretarsi nella seguente formula: L’alterazione del corpo umano è illecita, quando impedisce la funzione dell’individuo nella economia della vita. Questa formula può ritenersi completa per le seguenti ragioni. Nella vita esistono le leggi civili che ogni popolo si dona; esiste una legge di natura, comune alla umanità intera; esiste una legge morale, penetrata nelle coscienze attraverso il costume, la civilizzazione, la religione. Orbene, la funzione che l’individuo ha nell’economia della vità gli è imposta da queste tre autorità: la legge dello Stato, la legge della natura, la legge morale. Quando l’uomo si uniforma a queste tre leggi, egli adempie la funzione che nella vita sociale gli è assegnata, e quindi rimane libero di disporre della rimanente sua attività privata. A lui non si può chiedere di più, né si deve chiedere di meno. Questa definizione come tutte le altre, deve essere anche illustrata con gli esempi. E l’esempio migliore è dato proprio dalla operazione chirurgica attualmente controversa. Esaminando questa operazione in rapporto alle leggi dello Stato, si deve constatare che la cessione di una glandola sessuale ad un altro uomo che ne ha bisogno non impedisce all’individuo cedente il compimento dei doveri impostigli dagli ordinamenti politici e giuridici. Egli può sottostare agli obblighi delle pubbliche prestazioni, quali, ad esempio, l’assessorato della Corte d’assise e il servizio militare; egli può crearsi una famiglia sana e numerosa secondo gli interessi dello Stato; egli può esercitare i suoi doveri civili di patria potestà e di tutela in rapporto al nucleo familiare; egli, insomma, non viola alcun interesse sensibile della società civile a cui appartiene. Similmente, egli non viola alcun precetto della legge di natura. Difatti, avvalendosi delle conquiste della scienza, egli continua a possedere la facoltà della procreazione per la conservazione della specie; continua a conservare gli attributi minori del suo sesso e i privilegi della sua autorità di fronte alla famiglia; continua, insomma, a mantenere la sua personalità naturale. E, infine, egli non viola la legge morale, perché questa legge consente il sacrificio del corpo per la utilità di un bene superiore a quello perduto[80].

La morale irrompeva con forza nel discorso del progresso tecnologico e frantumava ogni possibile obiezione sul rapporto con l’ordine giuridico. Il legislatore italiano «ha infranto l’antico inconcepibile dualismo tra il diritto e la morale, ed ha tradotto in legge quanto più ha potuto di morale». I giudici, d’altro canto, avevano l’onere di «ispirarsi ad essa in quelle materie che devono essere decise non in base ad una norma positiva, ma in base alle regole generali del diritto»[81]. Prendeva corpo, in tal modo, il riferimento alla dottrina del positivista Florian, che collegava il delitto alla presenza di un fine o motivo, antisociale, illegittimo, contrario al diritto[82]. Si evidenziava, quindi, che la concordata lesione chirurgica aveva caratteristiche tali da configurare l’esistenza di un fine nobile, vale a dire il ripristino della potentia generandi del La Pegna, da valutarsi, in ogni modo, non tanto dal punto di vista delle libertà individuali della tradizione liberale, quanto dalla ben più ampia prospettiva etica del bene della discendenza, «uno dei maggiori beni familiari e sociali, una delle più nobili tendenze della umana natura, incoraggiata oggi anche dallo Stato». Potenza dell’iperbole, il compenso dell’avvocato, che non alterava la «nobile finalità della difesa», era assimilato, nel caso specifico, al lucro di uno studente consapevole, che non alterava la finalità oggettiva del “sacrificio”, non rilevando, pertanto, «una ignobile speculazione, avente un fine inferiore»[83].

Ne conseguì che le istanze della scuola positiva, recepite nel codice penale del 1930 circa la teoria dei moventi, offrirono alla Corte d’appello di Napoli l’opportunità per andare oltre la formula di non punibilità di cui all’art. 50 c.p. In ultima analisi, la corte, soffermandosi sul terzo motivo d’appello, che riguardava i contorni giuridici dell’elemento psicologico del reato ex art. 46 c.p., operò un’attenta disamina circa la materia del dolo. Il Tribunale di Napoli e il procuratore del Re avevano valorizzato soltanto alcuni aspetti della disciplina codicistica, rispettivamente gli elementi del danno e quelli della volontà, sorvolando sul nesso inscindibile tra i due rispetto ad un evento dannoso vietato dalla legge penale:

Nel caso in esame, il bene penalmente protetto, consistente nella integrità testicolare di Paolo Salvatori, non più esisteva. Giacché la protezione penale di quel bene era già cessata, in virtù del consenso alla lesione, dato dallo stesso Salvatori; consenso che, come innanzi si è visto, era legittimo ed operativo. Sicché i chirurgi non potevano avere la volontà e la previsione di danneggiare ciò che non esisteva. Né può immaginarsi a loro carico un reato putativo, del resto impunibile; inquantoché essi non pensarono mai di abusare della legge, ma credettero di compiere un dovere professionale, avvalendosi di un bene altrui legittimamente ottenuto. Essi, assorbiti dai nuovi orizzonti della chirurgia, ed animati dal fervore scientifico di giovare all’americano decaduto, non pensarono, non previdero, e certamente non vollero il danno dell’individuo cedente. Essi, infine, è bene rilevarlo, operarono con onestà professionale, sia nei rapporti del soggetto ricevente, sia nei rapporti di quello cedente. […] Nelle condizioni suddette il dolo non esiste; e la buona fede dei chirurgi si estende al loro mandante. Giustizia dunque impone che gli imputati siano prosciolti, perché il fatto ad essi ascritto non costituisce reato. E, così, il pronunziato dei primi giudici, rettificato nella motivazione, va confermato nel suo dispositivo[84].

Anche la sentenza della corte di merito fu oggetto di numerosi commenti in dottrina. Tra questi, quello del magistrato valdese Mario Piacentini, addetto al Ministero della Giustizia, la cui opera fu fondamentale per i culti acattolici in Italia[85]. Alla corte d’appello si rimproverava di aver esorbitato dai propri compiti, indugiando sul dolo, quando era sufficiente richiamare l’art. 50 c.p. ed escludere l’antigiuridicità dell’operato dei chirurghi. Restava, in ogni modo, l’occasione persa da parte del giudice-interprete di concentrarsi sull’individuazione del criterio di disponibilità ed indisponibilità dei diritti sulla base del codice penale, del sistema del diritto positivo e dei principi generali del diritto. Indisponibile era il diritto alla vita. Il lungo cammino che aveva portato alla depenalizzazione del suicidio in Italia, a differenza di altri ordinamenti, si era accompagnato alla necessità di punire i casi di partecipazione all’altrui suicidio, con formulazioni e modulazioni sempre più ampie e accurate, dall’art. 370 del codice Zanardelli agli artt. 579-580 del codice Rocco[86]. E pur tuttavia, Piacentini rilevava la continua evoluzione del concetto di dirittti disponibili, finanche per il diritto alla vita, apprezzando l’ampio potere discrezionale attribuito al giudice dal progetto cecoslovacco, che mirava a superare i vecchi codici penale e di procedura penale in vigore, austriaci e ungheresi, avendo come modello il Codice penale norvegese del 1902: «Dice, infatti, il § 271 al. 3 del detto progetto: “Chi cagiona la morte per compassione, con lo scopo di affrettare una morte inevitabile e prossima, e di liberare, per mezzo di essa, una persona dai dolori crudeli causati da una malattia incurabile o da altre torture corporali, contro le quali non esiste alcun rimedio, è soggetto ad una pena molto attenuata, o può andare esente da qualsiasi pena”. Il potere discrezionale sovraindicato, come si vede, è concesso non solo per una eccezionale attenuazione della pena, come dispongono il codice norvegese e molte leggi e progetti di vari Stati moderni, ma anche per applicare una totale esenzione da pena»[87].

Si poteva concludere sull’indisponibilità pressoché assoluta dei diritti della personalità umana, vita, libertà, onore, mentre si potevano definire i contorni della disponibilità del diritto sulla integrità del proprio corpo, che riguardava più da vicino il tema delle lesioni consensuali, mediante un riscontro tra l’art. 50 c.p. e l’art. 6 del Progetto del primo libro del codice civile. Era lasciato «al prudente apprezzamento del giudice lo stabilire in relazione al comune sentimento quando vi sia violazione della morale o della legge. È uno di quei casi, come quelli degli atti emulativi di che si è discorso, in cui non devesi temere di affidarsi alla coscienza del giudice»[88]:

In linea generale, a noi sembra che si possa affermare che è disponibile il diritto relativo all’integrità del proprio corpo tutte le volte che l’interesse individuale alla detta disponibilità coincida o, comunque, non urti con l’interesse sociale relativo alla disponibilità stessa. […] ludi sportivi sono, ora, non solo permessi, ma incoraggiati, anche per i fini di una supposta utilità sociale, per la quale l’educazione fisica, quella intellettuale e quella morale costituiscono i tre lati inscindibilmente uniti del triangolo su cui si basa la educazione razionale del cittadino moderno. […] Il principio dell’irresponsabilità penale, per le operazioni chirurgiche, è ben fissato nel Progetto di codice penale svizzero, che per molti aspetti è uno dei migliori redatti. […] Ora, si può negare ad un individuo il diritto di disporre della integrità del proprio corpo, per la sua bellezza? […] Il principio, improntato alla massima equanimità e moderazione, fissato dal magistrato francese, e nel quale si può convenire, è questo: Non è da condannarsi in sé e per sé la chirurgia estetica. Sono solo da condannarsi gli eccessi, i quali, come tutti gli eccessi, sono sempre colposi. Il chirurgo deve agire con la massima moderazione, senza precipitazione, e dopo un esame approfondito della parte da incidere o da asportare o, comunque, da correggere, e previo avvertimento di tutti i pericoli eventuali verso i quali l’operando può andare incontro. […] Vi sono, in terzo luogo, le operazioni alle quali si assoggettano molte persone dell’uno o dell’altro sesso, per evitare le noie ed i pericoli della maternità o paternità. […] Per tali operazioni è da tener presente, ora, l’art. 552 C.p. […] Esse, pertanto, sono lecite solo quando si debbono compiere per necessità terapeutiche o chirurgiche […]. Vi sono, infine, le operazioni fatte su di un paziente, col suo consenso, non a favore di lui, ma per procurarsi i mezzi per giovare ad altri (trasfusione del sangue, innesto di tessuti muscolari o cutanei da una persona all’altra; l’innesto di un testicolo o il trapianto ovarico da una persona feconda [uomo o donna rispettivamente] su di una persona infeconda). […] Tutto considerato, parmi sia di affermarsi che si può sempre consentire alla mutilazione non totale – ma parziale – di un proprio organo, anche se la mutilazione stessa abbia prodotto una lesione guarita oltre il decimo giorno; perché in tali casi, dal punto di vista sociale, il danno di uno è compensato dal vantaggio di un altro. D’altro canto, non si possono circoscrivere gli orizzonti della chirurgia. La chirurgia, per fare progressi, deve, pure, tentare nuove vie. […] Vi sono, infine, le lesioni consensuali che hanno per sfondo l’erotismo morboso (sadismo, masochismo) o l’ascetismo torturante, pur esso morboso […] Qui l’interesse individuale non coincide con quello sociale, e non si può parlare di disponibilità lecita del proprio diritto[89].

Il libero docente dell’Università di Napoli, Alfredo Sandulli, che aveva commentato anche la sentenza in primo grado, si mostrò più propenso all’analisi critica delle “manchevolezze” della corte d’appello, sulla base delle teorie del Ferri e del Florian sul movente, sul fine, sul dolo. Ne scaturiva una minuziosa descrizione dei casi che potevano contraddire l’assunto, ritenuto vago e generico, circa l’illiceità dell’alterazione del corpo umano in relazione all’impedimento della funzione dell’individuo «nella economia della vita», circa i doveri publici e civili secondo gli interessi dello Stato: «Se non si può porre divieto alla possibilità del suicidio, implicitamente si viene a riconoscere all’individuo il diritto di sopprimere la propria persona e non si può non ammettere il diritto di disporre del proprio corpo e, soltanto quando si viola un diritto altrui, la disponibilità non è più consentita e diventa illecito il consenso così come nel caso di colui che, per conseguire il premio di un infortunio, si fa cagionare una lesione personale»[90].

Il giurista napoletano evidenziava, inoltre, il dato non trascurabile del lucro dello studente, che, a suo dire, comprometteva la finalità oggettiva, in quanto possibile rivelatore di pericolosità e antisocialità rispetto a un comportamento «non soltanto illecito, ma perfino immorale, disonesto o turpe»[91]. Risultava problematico anche il collegamento tra la disponibilità del diritto e il venir meno del bene giuridico tutelabile per effetto del consenso: «Questa è una petizione di principio perché il consenso presuppone il bene giuridico ed esso persiste sempre, prima e dopo il consenso, e sarà violato quando il permesso fu dato da persona, che non aveva facoltà di concederlo». Anche l’analisi circa il dolo appariva fallace. In altri termini, i magistrati, di fronte alle lacune dell’art. 50 c.p., si erano affidati più alle argomentazioni dei trattati di patologia e di medicina legale, che alle ragioni del diritto:

Il dolo da parte loro [dei chirurghi] è sempre insussistente quando essi procedono ad operazione che, come risultato, produce non un danno, ma la guarigione o la salvezza della vita e, quando essi, per la loro esperienza e per la loro scienza, l’hanno creduta necessaria o addirittura indispensabile. E ad essi non può attribuirsi responsabilità né meno per colpa se l’operazione stessa, compiuta con tutta la maggiore diligenza ed usando i mezzi suggeriti dalla tecnica e dalla scienza, ebbe esito fatale. […] Se poi il chirurgo ottiene il consenso dell’ammalato per sottoporlo ad un’operazione non necessaria e che sia passibile di conseguenze letali, sarà, nell’ipotesi più benevola, responsabile di colpa e di colpa con previsione; ma se ottiene il consenso per uno scopo scientifico, non dovrebbe essere passibile di punizione, anche nel caso di evento fatale, perché avrebbe agito nell’interesse supremo della scienza, che spesso ha bisogno di sacrifici che tornano a vantaggio del dolorante genere umano, sacrifici che meritano di essere definiti eroici nel significato più nobile e puro[92]!

A corredo del commento del Sandulli, il professore dell’Università di Torino, Eugenio Florian, intervenne per sottolineare il rilievo nazionale di un caso che, unendo istanze provenienti dalle scienze mediche, dalla logica giuridica, dall’ermeneutica legale e finanche dalla morale, era diventato il banco di prova della letteratura scientifica. La sentenza della Corte d’appello di Napoli appariva di «gran pregio», ma la «indefinibilità giuridica dell’oggetto e la asperità del testo legislativo» avevano finito per prestare il fianco a rilievi critici. L’ardito utilizzo della materia del consenso, che aveva permesso di escludere «nientemeno che l’antigiuridicità» per l’operazione chirurgica e pareva aver determinato l’esito della sentenza, era stato sovraccaricato dal ricorso alla valutazione del dolo, segno inequivocabile delle insicurezze della corte sul fondamento principale della decisione relativo all’insussistenza del reato. Rimanevano, tuttavia, sul terreno le pregevoli intuizioni dell’estensore della sentenza, soprattutto quando apparivano assecondare le teorie proposte dal Florian medesimo:

La sentenza ebbe e mostrò la consapevolezza del punto più sensibile, dell’aspetto predominante nell’argomento del consenso: lo vide e benché distratta e quasi impedita dalle precedenti sue argomentazioni, non poté sottrarsi alla suggestione di esso, al suo fascino splendente. Ed ecco, senza necesità, assumere in pieno l’elemento soggettivo: ed allora su questa linea brillano lampi rivelatori: s’incontrano non solo il dolo, ma anche la nobiltà del fine […]. Il fattore predominante è, pertanto, sempre quello psicologico: la realtà dimostra che il criterio fondamentale, il criterio conduttore è il fine, il movente, senza del quale si vaga nel senso dell’opinabile. Ciò sia detto in linea generale e teorica senza affrontare il problema particolare. Se nel caso in esame la esimente nobiltà del fine ricorra o meno, trattasi d’un apprezzamento di fatto, che non spetta a noi[93].

 

 

3. «La causa, che ha avuto il suo epilogo in questa notevolissima sentenza della Corte Suprema, si riferisce ad un caso non comune di lesione consensuale per asportazione ed innesto di glandola sessuale: offre perciò all’esame degli studiosi una delle ipotesi più interessanti e più caratteristiche di lesione consensuale»[94].

 

Come auspicato dal Florian, la vicenda giudiziaria si concluse in Cassazione, il 31 gennaio 1934. Nonostante la richiesta di condanna da parte del pubblico ministero Marfori-Savini in violazione degli artt. 43 e 50 c.p., sulla base del riconoscimento in appello della sussistenza dell’indebolimento permanente dell’organo della generazione, il Supremo Collegio confermò il dispositivo del Tribunale e della Corte d’appello di Napoli, anche se intervenne sulla motivazione. Occorreva riparare ai vizi logici e giuridici sollevati dall’acceso dibattito dottrinale in quegli anni, intervenendo sulla ratio decidendi.

Il focus riguardava in modo esplicito l’art. 50 c.p. Il significato della disponibilità del diritto e dell’efficacia del consenso dell’avente diritto andava ricercato nel sistema del diritto privato e, in particolare, nel codice civile, all’art. 12 delle disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale, e agli artt. 436, 759, 1069, 1765, 1884.

Il consenso, quale manifestazione di volontà privata, operava indistintamente sul piano della disponibilità di un diritto, al pari di una cosa o di un bene: «per atti di disposizione con riferimento agli atti tra vivi, debbono intendersi quei negozi giuridici i quali importano la perdita o la diminuzione o la possibilità della perdita o della diminuzione di un diritto»[95]. La disponibilità era un concetto più ampio tanto dell’alienabilità, perché non si limitava ai diritti di natura patrimoniale, ma inglobava anche quelli sulla propria persona o su persona altrui, quanto della rinunciabilità, in quanto erano possibili diritti rinunciabili ma non disponibili, come il diritto di cittadinanza, oppure, viceversa, diritti disponibili ma non rinunciabili, quali i diritti sulla propria persona.

In caso di assenza di un’espressa previsione di legge si poteva ricorrere al principio della libertà negoziale, con i seguenti accorgimenti: «E può quindi ritenersi che il principio che il titolare di un diritto sia libero di compiere rispetto ad esso negozî giuridici in cui si concreta l’atto di disposizione incontri ostacolo nell’impossibilità giuridica di dar vita al negozio giuridico, o nel fatto che il negozio giuridico sia in contrasto con divieti espressamente posti dalla legge , ovvero nel fatto che il negozio giuridico contrasti col buon costume o con l’ordine pubblico: ostacoli, tutti, che rendono il negozio giuridico obbiettivamente invalido. Non può inoltre essere trascurato che il negozio dispositivo, come ogni altro negozio giuridico, deve avere anche quei requisiti necessari affinché un atto possa considerarsi valido, riguardato in relazione al suo autore, dal punto di vista, cioè, della validità subbiettiva dell’atto»[96].

Il Supremo Collegio approdò, per tale via, all’innovativa soluzione del consenso della parte offesa come negozio giuridico dispositivo di diritto penale, entrando nella disputa dottrinale che fino a quel momento aveva riguardato, rispettivamente, sia la negazione al consenso del carattere di negozio giuridico[97], sia l’affermazione del carattere di negozio, secondo l’orientamento prevalente di negozio di diritto privato[98] oppure quello ritenuto più persuasivo di speciale negozio di diritto penale[99]. Dalla lettura così orientata dell’art. 50 c.p. ne conseguiva l’efficacia a escludere il reato, in presenza dell’osservanza dei criteri di validità oggettiva e soggettiva. Restava ora da accertare se il diritto all’integrità personale potesse rientrare nella sfera della disponibilità tramite il consenso dell’avente diritto. Il diritto all’integrità personale era da ritenersi un diritto indisponibile, in quanto esprimeva la cifra dell’individuo come estrinsecazione della personalità in un dato contesto sociale e giuridico. Quando non vi era perdita totale, però, il consenso ritornava in gioco se rivolto ad autorizzare forme lesive sottese alla limitazione, restrizione o diminuzione del diritto. La presenza di tali condizioni escludeva qualsiasi riferimento alla possibilità di far emergere la prestazione del consenso in adesione a fattispecie criminali, come la procurata impotenza alla procreazione ex art. 552 c.p[100].

Sfrondato il campo dalle possibili obiezioni, rimaneva alla Cassazione la valutazione della contrarietà al buon costume di un siffatto negozio giuridico dispositivo, partendo dal dato inequivocabile che l’integrità personale non riguardava soltanto il tema dei diritti individuali, ma era parte integrante della sfera delle supreme esigenze sociali, in rapporto alla famiglia e allo Stato. Si trattava, insomma, di un bene sociale che poteva essere oggetto di un qualche “sacrificio” soltanto se era messa in evidenza l’importanza dello scopo da realizzare, vale a dire un risultato vantaggioso per la collettività. Il “sacrificio” del Salvatori, nella causa in oggetto, era rappresentato dall’indebolimento penalmente rilevante dell’organo della generazione, che non aveva, tuttavia, compromesso la funzionalità sessuale, né intaccato la capacità di adempiere ai doveri familiari e sociali. La Pegna aveva ottenuto da quel “sacrificio” un vantaggio alla propria salute, in conformità allo scopo per cui il consenso era stato prestato, senza che il compenso economico ne avesse alterato la finalità oggettiva, non trattandosi di azioni civilmente e moralmente obbligatorie.

Il “sacrificio” assumeva anche un’autonoma valenza sociale. Fra scienze demografiche e fascismo si era stabilito un sistema di relazioni condiviso dai giudici della Cassazione. Lo Stato interveniva con i mezzi necessari per favorire l’aumento della popolazione e, per il suo tramite, l’avvenire della “stirpe”. La potenza della nazione era determinata da un’adeguata politica demografico-natalista. Il gesto del Salvatori, in fin dei conti, facendo riacquistare la potentia generandi a Vittorio La Pegna, doveva incontrare non la riprovazione di una morale sociale astratta influenzata da visioni soggettive, bensì il favore di una morale concreta o pratica propria di un dato momento storico, vale a dire quella riferibile a una coscienza pubblica alimentata dal discorso dell’Ascensione del 1927[101].

Secondo il presidente della sezione II, Carlo Saltelli, la soluzione andava individuata all’interno del diritto positivo, senza mai perdere di vista «l’inscindibile nesso della normazione penale con la dottrina dello Stato fascista»[102], che aveva contribuito a costruire al fianco del Manzini e dei fratelli Rocco. La Corte d’appello di Napoli aveva erroneamente ceduto nella motivazione a istanze “giusnaturalistiche” che, tuttavia, non avevano inficiato la bontà del dispositivo e non potevano essere, quindi, motivo di annullamento della sentenza: «è facile opporre che regole giuridicamente obbligatorie non sono che le leggi positive. Le leggi non codificate della natura e i comandi della coscienza umana, quantunque moralmente approvati, non hanno efficacia giuridica se non trovino il loro riconoscimento in una disposizione di legge da cui traggano la obbligatorietà»[103].

Un ultimo errore della corte di merito aveva riguardato la formula adoperata per l’assoluzione, «perché il fatto non costituisce reato», confondendo, per via dell’inclusione della valutazione del dolo, i diversi piani del fatto che non costituisce reato per mancanza degli elementi positivi e del fatto che non costituisce reato per la presenza di una causa di esclusione del reato. Nel caso specifico, gli elementi costitutivi del reato, volontà, azione ed evento erano tutti presenti, mancava, invece, l’interesse da tutelare: «Il consenso dell’offeso non esclude né l’elemento obbiettivo né l’elemento subbiettivo del fatto, ma la illiceità dello scopo». La nuova formula di assoluzione doveva essere, di conseguenza, definita nel seguente modo: «trattandosi di persona non punibile per aver commesso il fatto col consenso dell’avente diritto»[104].

A Ernesto Battaglini, che nell’anno della sentenza fu nominato sostituto procuratore generale a Viterbo, toccò la nota di commento per la rivista La Giustizia penale, diretta da Gennaro Escobedo, avvocato di origini calabresi e noto studioso con attitudine «alla ricerca dell’equilibrio degli interessi confliggenti nel processo penale, nella continua verifica delle tesi opposte e nel tentativo di far prevalere la logica sostanziale su quella formale»[105]. La rivista, anche grazie al lavoro redazionale di Giulio Andrea Belloni, si era andata strutturando su un approccio aperto alle istanze comparatiste e all’interesse sempre più accentuato per le discipline dell’antropologia, psichiatria, statistica, sociologia, biologia, psicologia sperimentale e psicoanalisi[106].

Il magistrato lucano evidenziò come la tesi dell’illiceità del fatto avesse incontrato scarsi sostenitori, mentre svariate teorie si erano affastellate intorno alla ragione della liceità penale del fatto. Due erano le questioni fondamentali: la natura giuridica del consenso e la valida disponibilità del diritto. La Cassazione, a suo dire, era riuscita mirabilmente nell’intento di sciogliere i dubbi applicativi dell’art. 50 c.p. dovuti a una certa vaporosità del testo della norma. Nel novero dei diritti sulla propria persona, l’integrità del corpo aveva le caratteristiche per essere un diritto soggettivo. La libertà negoziale incontrava al riguardo i soli limiti derivanti dall’impossibilità di dar vita al negozio giuridico o dalla contrarietà del negozio giuridico alla legge, al buon costume e all’ordine pubblico. Circa la natura giuridica del consenso, non c’erano dubbi. Il Supremo Collegio aveva sbrogliato l’intricata matassa dottrinale, facendo proprie le intuizioni di Francesco Carnelutti, professore di procedura civile presso l’Università di Padova. Non rimaneva, infine, che elogiare l’orientamento tracciato per l’interprete nel rapporto tra morale sociale e liceità dell’oggetto del consenso, tramite il riferimento «alla natura dello scopo o fine o movente che induce il titolare del bene a consentire alla lesione o esposizione a pericolo». Per la determinazione dei limiti del danno, rispetto all’efficacia escludente il reato, era, infine, sufficiente far riferimento all’idoneità fisica e sociale dell’individuo di fronte alla famiglia e allo Stato[107].

A complemento della nota del Battaglini, nella sezione Bollettino bibliografico, la rivista Giustizia penale offrì un ampio resoconto delle novità editoriali in materia, a partire dal contributo scientifico dell’artefice della sentenza della Cassazione, Carlo Saltelli, pubblicato in un primo momento sugli Annali di diritto e procedura penale, che aveva fondato e dirigeva con Vincenzo Manzini e Arturo Rocco, e successivamente confluito in una autonoma veste monografica[108]. Ne emergeva il plauso nei confronti del Saltelli, sia come autore dell’opera più organica, sistematica e completa sulla questione, sia, soprattutto, come protagonista di una magistratura capace di districarsi con successo in un groviglio di rilevantissime problematiche dottrinali, tra diritto penale dello Stato e paradigma civilistico[109], e di intercettare alcune istanze avvertite nella comunità sociale:

La giurisprudenza, pertanto, non ostante il dissenso profondo della dottrina, si è orientata decisamente verso la non punibilità di fatti consimili, e, in tale orientamento, oltre che dall’intuito giuridico, si è lasciata guidare dall’uomo della strada, il quale, ancora prima che i giuristi avessero dato la chiave per la risoluzione della questione, sentiva, con il solo suo buon senso, ripugnanza a concepire come punibili detti fatti, compiuti con la perfetta convinzione di non commettere qualche cosa di illecito. […] E ciò non per la frequenza con la quale le quistioni stesse sono portate all’esame del magistrato (ché, anzi, i processi del genere sono rari), ma per il fatto che esse investono tutti i problemi più fondamentali della scienza criminale: quelli, cioè, relativi alla precisazione degli elementi costituivi del reato, al carattere eccezionale o meno della norma penale, all’ammissibilità dell’analogia e dei principi generali del diritto in materia penale, alla disponibilità dei diritti in genere e dei diritti personalissimi in particolare, alla natura giuridica del consenso dell’offeso, ai limiti entro i quali il concetto della disponibilità dei propri diritti (concetto privatistico) può fare il suo ingresso nel campo del diritto penale che è pubblico per eccellenza, ai rapporti tra ordine pubblico e morale, da una parte, e diritto penale, dall’altra. […] Di fronte alla concezione del Saltelli, alla quale noi aderiamo, non sembra, specialmente nel campo dello jus conditum, che si possano muovere obbiezioni che abbiano giuridica rilevanza. Le obiezioni mosse, specie dal punto di vista della morale o per l’invadenza di concetti privatistici nel campo del diritto penale, potranno, se mai, aver valore solo de jure condendo. Ma, anche de jure condendo, non scorgiamo – almeno allo stato attuale dei nostri principi etici e di ordine pubblico – esigenze inderogabili tali che valgano ad infirmare la costruzione giuridica alla quale sono informati la sentenza della Cassazione del 31 gennaio u.s. e questo esauriente studio del Presidente della II Sezione della nostra Corte Suprema[110].

Fu recensito anche il lavoro monografico di Vincenzo Spiezia, che aveva messo maggiormente a fuoco le teorie già espresse in un precedente articolo scritto, da brillante dottore in Giurisprudenza, nel solco della comunità accademica napoletana aderente alla scuola positiva del diritto penale[111]. Il libro era apprezzabilissimo sul fronte dell’analisi della liceità del trattamento medico-chirurgico, ma le lodi si infrangevano sul concetto di negazione dell’integrità fisica quale bene disponibile, che appariva portare dritto all’inquadramento dell’asportazione di una ghiandola sessuale nella fattispecie della lesione grave perseguibile d’ufficio ex art. 583 c.p.: «2° se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo»[112].

Sulla medesima lunghezza d’onda dello Spiezia era la riflessione dell’allievo di Eduardo Massari, Biagio Petrocelli. Egli era stato un protagonista delle prime fasi processuali, come pubblico ministero, davanti al Tribunale di Napoli. Più tardi, come professore di diritto e procedura penale nell’Università di Bari, offrì il suo contributo di commento alla sentenza della Suprema Corte, in conformità alla sua notoria visione dogmatica e conservatrice, «tendente al formalistico»[113]. Partendo dalla distinzione tra negozio giuridico e atto giuridico negò al consenso il carattere negoziale. La Cassazione si era affidata al criterio della liceità della causa nelle obbligazioni ex art. 1122 c.c., allo scopo di stabilire i limiti della disponibilità del bene dell’integrità personale. In assenza di un esplicito divieto normativo, essendo stata stralciata dalla stesura definitiva del codice Rocco la fattispecie della lesione del consenziente, e della contrarietà all’ordine pubblico, Petrocelli annotava che il fulcro principale della sentenza si era concentrato sulla contrarietà al buon costume, identificato nel caso di specie come morale sociale relativa alla «collettività-Stato», in funzione dello scopo particolare della «potenza demografica», entrando in contraddizione con la protezione della integrità e della sanità della stirpe per aver avvantaggiato un cittadino straniero. La morale, da non identificare con l’utilità, doveva, invece, perseguire fini universali di un bene superiore, in sintonia con la religione[114].

La presenza del lucro accresceva la convinzione in Petrocelli che la prestazione del consenso era inestricabilmente legata all’incasso della somma pattuita da parte di un «sedicente studente, proveniente non si sa se dall’Egitto o da quale altra parte del mondo e, per quanto risultava dal processo, privo almeno in Italia, di parenti ed amici che avessero potuto consigliarlo e proteggerlo, accolto non si sa bene come e perché nell’ospedale degli Incurabili, e scomparso durante il processso per direzione ignota, in una parola un paria della società»[115].

C’era un limite invalicabile dettato dalla natura e da Dio. Nel caso “Salvatori” questo limite era stato superato, come enfatizzato pure dalla stampa cattolica, tale da suscitare la riprovazione morale: «E vada al diavolo il grottesco vaticinio Woronoffiano di una umanità di vecchi e di malati ricuciti e ringalluzziti! L’istinto ci avverte che, come la scienza non arriverà mai a vincere la potenza della Morte, così non arriverà mai a impedire che si compia il naturale ciclo della decadenza. Il ritardarlo con le naturali resistenze di ciascun organismo e con le norme di una vita sana e sobria è opra eletta della civiltà e della scienza»[116].

L’indisponibilità del bene, dunque, offriva l’unica «soluzione rigorosamente giuridica, la sola giuridicamente consentita dal difettoso stato delle leggi vigenti, la sola giuridicamente fondata», vale a dire la responsabilità per lesione personale volontaria[117], secondo lo stile della lezione tecnico-giuridica. Più morbida appariva la linea del recensore del volume del Saltelli, nella medesima Rivista italiana di diritto penale. La Suprema Corte avrebbe fatto bene a mantenere la formula «perché il fatto non costituisce reato», potendo comprendere tanto l’assoluzione per difetto di dolo, quanto per sussistenza di una particolare causa di liceità. Per quanto non punibili, tuttavia, i trapianti omoplastici da uomo a uomo dovevano considerarsi illeciti in quanto immorali[118].

Il professore emerito dell’Università di Torino, Gaetano Arangio Ruiz, che aveva concluso nel 1932 la carriera accademica, insegnando istituzioni di diritto pubblico, volle offrire il suo contributo in una vicenda originata a Napoli, luogo della sua formazione universitaria e della sua prima libera docenza in diritto costituzionale[119]. L’innesto da uomo a uomo doveva innanzitutto ritenersi contrario alla morale e ai precetti della Chiesa cattolica: «Che il diritto non si riferisca alla morale è affermazione nuova: il vero è che, come già si è avvertito, non tutte le norme morali possono venir tradotte in imperativi giuridici, e, quel che è più, il diritto penale incontra svariati impedimenti verso atti immorali, verso turpitudini»[120]. Sul piano civilistico, dovevano considerarsi illeciti tanto il mercato del proprio corpo, quanto l’obbligazione a sottoporsi ad operazione chirurgica: «Di fronte al diritto privato, non è ammissibile una convenzione lecita che abbia ad oggetto la vendita di un testicolo umano per innestarlo ad altro uomo; e lo si sarebbe luminosamente provato se il giovane di Napoli si fosse ricreduto e l’acquirente avesse voluto adire il giudice civile. Non lo avrebbe adito, d’accordo, ma ciò palesa l’illecito. E, come il Supremo Collegio ha detto, l’azione o l’omissione deve essere “lecita” di fronte ad ambo i rami del diritto»[121]. La nota di chiusura totale era rappresentata dal tema della disponibilità nel campo penale: «Raccogliendo le vele, il punto tra disponibilità e indisponibilità del proprio corpo, è il seguente: La persona non ha diritto di disporre né del proprio corpo vivo e sano altro che per svolgere una attività personale lecita o che tale si reputi nella Società, né di parti del proprio corpo che non siano caduche o non siano suscettibili di riproduzione. È opinione abbastanza comune che il suicidio non è un diritto. Ebbene non è un diritto del pari l’auto-mutilazione. […] Individuo vale indivisibile: i chirurgi, dividendo, asportando, violano la legge di natura, la legge morale, il diritto. […] Il consenso non è mai operativo, perché la persona non ha diritto di ridursi in schiavitù, di sottoporsi al pieno potere altrui, di farsi oggetto di mercato. Così è, nei limiti esposti, anche per la lesione personale perseguibile d’ufficio»[122].

Dalla disamina dei vari orientamenti in dottrina, molti studiosi faticarono a riconoscere la disponibilità del diritto alla propria integrità personale, mentre altri appoggiarono, seppur con diverse sfumature, l’operato della magistratura italiana. Sandulli, nell’evidenziare alcune contraddizioni della sentenza della Suprema Corte, circa l’entità del danno cagionato, le riserve sulla disponibilità del diritto all’integrità personale e la pattuizione di un compenso economico, mostrò un’apertura favorevole, ritenendo di dover indicare come solo limite il contrasto con un diritto altrui o dello Stato. Del resto, come già evidenziato altrove, ciò che contava, una volta stabilito il criterio ermeneutico dell’art. 50 c.p., era l’individuazione di ogni possibile riferimento al metodo del positivismo penale: «In sostanza, la sentenza finisce per aderire all’opinione della indagine da farsi, sullo scopo, il movente, il fine, il valore sociale che determinarono il consenso e che furono ritenuti indispensabili nelle osservazioni contenute nelle note pubblicate in questa Rivista»[123].

Dalla medesima rivista della Scuola positiva, in ultimo, Florian fece trapelare l’ammirazione per il modo in cui le magistrature coinvolte avevano operato allo scopo di decifrare la natura del «tormentato e troppo dogmatico» articolo 50 c.p. Il «nobile sforzo», unito alla diffusa moltitudine di varianti interpretative da parte della dottrina, dettava al penalista, come bilancio definitivo, il de profundis della norma medesima, asservita a ciò che Sbriccoli ha specificato come civilistica penale, «risultato della trasposizione nel campo penalistico dei metodi di analisi, dei princìpi regolatori, dei sistemi classificatori, delle categorie esegetiche, della sintassi e della logica proprie, da secoli, del diritto privato»[124]:

Se una delle due sezioni del Supremo Collegio, per organo del suo Presidente, alto giurista e Magistrato espertissimo, ha creduto dovere interpretare l’art. 50, come sopra è spiegato, se cioè, nello sforzo più insigne ed autorevole per attribuire a detto art. il significato più proprio, non poté che ricondurre il problema penale nell’ambito del diritto civile, dove non spetta a noi indagare se la soluzione sarebbe esatta, è da concludere che l’art. 50 appare inafferrabile e che meglio sarebbe fare eco alle voci trascorse, che durante i lavori preparatori ne chiedevano l’eslusione come inutile, ed alle voci nuove, che ora ne chiedono l’abolizione. Inutile non solo, e forse addirittura dannoso, se prosterna la legge penale ai piedi del Dio dell’or, ancora una volta, del mondo signor[125]!

 

 

4. Conclusione

La «soluzione alquanto liberale»[126] della Cassazione penale muoveva dalla necessità di fornire risposte giuridiche adeguate a problemi recenti innescati dalle innovazioni tecnologiche e scientifiche in una società industriale di massa. È interessante il dato relativo alle aperture della magistratura verso i recenti progressi della medicina, ma occorre sottolineare come i profili modernizzanti di alcune soluzioni fossero parte di una visione volta ad armonizzare in un ordinamento complesso l’iniziativa individuale con il preponderante fine dell’interesse pubblico. Ciononostante, come evidenziato, la sentenza subì forti critiche da parte della dottrina. L’adozione del concetto di negozio giuridico di diritto penale era percepito come uno strumento per mascherare una rinuncia preventiva alla tutela giuridica. I trapianti omoplastici contrastavano con le ragioni della religione e della morale, in quanto la natura umana poteva essere “violentata” solo in caso di infermità, altrimenti doveva prevalere l’indisponibilità assoluta dell’integrità fisica. Il ricorso a una nuova formula di assoluzione, in apparenza più stringente circa la ratio decidendi, non dissipava le innumerevoli proposizioni interrogative, nell’ambito del dolo e delle cause di liceità delle lesioni. Assecondava, altresì, gli addebiti di invadenza dei concetti privatistici nella sfera del diritto penale.

Intrigante su quest’ultimo punto appare la posizione di Francesco Carnelutti, che aveva fornito le basi dottrinali per la soluzione della Cassazione, riguardo alla natura giuridica del consenso come negozio giuridico dispositivo di diritto penale[127]. Per il giurista friulano era fondamentale la collaborazione tra la scienza processuale civile e quella penale, come “scienze gemelle” in grado di costruire insieme una teoria generale del processo[128]. Egli riteneva quale criterio decisivo, rispetto alla formulazione del consenso del “datore”, la valutazione comparativa degli interessi in campo sulla base delle circostanze del caso concreto, «compresa l’età delle due persone e ciò che si può chiamare il valore sociale della loro vita». Tale principio doveva orientare la riflessione sulla liceità delle trasfusioni di sangue e, in astratto, anche dei trapianti omoplastici, anche se, per questi, il professore di procedura civile dell’Università di Padova, in seguito di quella di Milano, esprimeva delle riserve morali, ancor prima che giuridiche, seguendo una impostazione introdotta nel 1935, circa il tema dell’«atto socialmente dannoso», indipendentemente dall’esistenza o meno di una espressa previsione di legge[129]:

In questi termini va risolta non solo la questione della liceità della trasfusione del sangue, ma tutte le questioni analoghe quali sarebbero quelle relative al trasporto della pelle o agli innesti ghiandolari. In particolare, rispetto a questi ultimi, il criterio della menomazione della potenza genetica del datore di un testicolo, nel notissimo caso che si è agitato qualche anno fa in sede giudiziaria, è di per sé insufficiente perché è unilaterale; la cosa doveva essere considerata invece secondo il rapporto tra il danno così cagionato al datore e il vantaggio procurato al ricevitore; naturalmente io non oso esprimere dei giudizi in proposito, ma ho la impressione che, in tal caso, il giudizio possa non essere favorevole alla liceità. […] Ma quando poi, da questi criteri un poco astratti, si passa alla determinazione del quantum, cioè il vantaggio o il danno al corpo umano si traduce in termini di valore, e così in denaro, ci si domanda dove sia la bilancia che confronta delle entità così disparate; qui, appunto, riaffiora quella distanza tra l’uomo e le cose, che il semplice meccanismo della trasfusione sembra colmare. Eppure codesta bilancia bisogna trovarla, altrimenti, in una infinità di casi, il diritto dovrebbe rinunziare al suo compito. Noi ce la caviamo dicendo che, in questi casi, opera l’arbitrium iudicis, cioè, secondo la formula del codice civile, la prudenza del magistrato. E questo è uno dei lati, dai quali si mostra che il suo ufficio è, più di qualche volta, superiore alle forze dell’uomo[130].

Il punto di approdo del dibattito scientifico sollevato dal caso Salvatori è stato la disciplina privatistica degli «Atti di disposizione del proprio corpo», combinata con quella penalistica di un redivivo art. 50 c.p.[131]. L’art. 5 c.c. del 1942 ha fissato, in una logica di contemperamento di interessi contrapposti, liberali e individualistici da una parte, pubblicistici dall’altra, i limiti all’attività del singolo, nei casi di diminuzione permanente dell’integrità fisica o di contrarietà alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume. A partire dalla seconda metà del Novecento è sopraggiunta una lettura orientata dell’art. 5 c.c., alla luce dei principi costituzionali e delle norme comunitarie e internazionali, che legittima la disponibilità del proprio corpo nella cornice dei diritti e delle libertà fondamentali, in relazione al perseguimento del benessere psico-fisico e sociale, mandando in soffitta i riferimenti di natura patrimoniale e contrattuale, non, invece, alcuni strumenti di controllo pubblico sull’autodeterminazione individuale, variamente costruiti sulla base di ragioni giustificatrici. In una società biotecnologica, che ha frantumato con la scoperta del DNA e delle cellule staminali la concezione delle porzioni staccate del proprio corpo come res, le strette interconnessioni tra i diversi diritti della personalità, o i diversi profili del diritto della personalità, rappresentano la nuova cifra identitaria dell’uomo contemporaneo, aprendo nuove sfide e diversi interrogativi sul rapporto tra diritto, scienza e nuove tecnologie.

(*) Destinato agli Studi in memoria di Armando De Martino.

[1] C. SALTELLI, Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto (in tema di attentati alla integrità personale), Torino, 1934, 10.

[2] Ivi, 8.

[3] P. COSTA, Rocco, Alfredo, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, diretto da I. BIROCCHI – E. CORTESE – A. MATTONE – M.N. MILETTI, II, Bologna, 2013, 1701.

[4] M.N. MILETTI – E. MURA, Saltelli, Carlo, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., II, 1774.

[5] Ibidem.

[6] C. SALTELLI, Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto, cit., 9. Sulla letteratura in materia, cfr. G. DEL VECCHIO, Criminalità negli sport, Torino, 1927; R. GEFTER – WONDRICH, Imputabilità nelle lesioni cagionate in giuochi sportivi, in Riv. pen., 1927, 371 ss.; B. PETROCELLI, La illiceità penale della violenza sportiva. Contributo alla teoria generale delle cause di esclusione della illiceità penale, Roma, 1928, estr. da Riv. critica di diritto e giurisprudenza; L. SEVERINO, Il delitto sportivo, 2a rist. ampliata e aggiornata con la giurisprudenza e col nuovo codice penale, Milano, 1930; W. VALSECCHI, L’omicidio e la lesione personale nei giochi sportivi a forma di combattimento, in Riv. pen., 1930, 526 ss.; O. CECCHI, L’uccisione in combattimento di boxe non costituisce reato né illecito civile. Primo contributo allo studio giuridico della questione, Napoli, 1931; T. DELOGU, La teoria del delitto sportivo, in Annali dir. proc. pen., 1932, 1297 ss.; D. MILILLO, Illiceità penale della uccisione in combattimento di boxe, in Riv. it. dir. pen., 1933, 667 ss.

[7] C. SALTELLI, Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto, cit., 10.

[8] F. COLAO, Florian, Eugenio, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., I, 879.

[9] E. FLORIAN, Recensione a A. TESAURO, La natura giuridica del consenso dell’avente diritto come causa di esclusione del reato, Padova, 1932, in Scuola Positiva, 1932, I, 281.

[10] E. FLORIAN, Prefazione, in V. SPIEZIA, Limiti della liceità giuridica del trattamento medico chirurgico, Napoli, 1933.

[11] E. FLORIAN, Recensione a A. TESAURO, La natura giuridica del consenso, cit., 282.

[12] V. SPIEZIA, Limiti della liceità giuridica, cit., 8-9.

[13] Trib. Napoli, 13 dicembre 1931 (Pres. Ricciulli, Est. Vestini, P.M. Petrocelli), in Foro it., 1932, II, 140.

[14] U. OJETTI, Cose viste con una prosa di Gabriele d’Annunzio, I: 1921-1927, Firenze, 1951, 451.

[15] Ivi, 452.

[16] Ivi, 453.

[17] Cfr. G. DE SANTIS, Resezione della glandola sessuale e responsabilità penale del chirurgo, in Riv. pen., 1926, 188 ss.; R. BOSCO, Sulla pretesa responsabilità del chirurgo per la resezione di una glandola sessuale, in Foro pen. nap., 1927, 225 ss.; G. GUERRAZZI, L’innesto della glandola da uomo ad uomo. Considerazioni sugli acquisti di una polemica, Livorno, 1927.

[18] Trib. Napoli, 13 dicembre 1931, in Foro it., 1932, II, 141.

[19] AA.VV., Codice penale per il Regno d’Italia (1889), rist. an., a cura di S. VINCIGUERRA, Padova, 2009, 130-131.

[20] Trib. Napoli, 13 dicembre 1931, in Foro it., 1932, II, 142. Per la requisitoria integrale, cfr. B. PETROCELLI, Il consenso del paziente nell’attività medico chirurgica, in Annali dir. proc. pen., 1932, I, 514 ss.

[21] Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, 600.

[22] Ivi, 601. Sull’angolo visuale dei due giuristi circa la concezione del diritto, il problema della distinzione del diritto dalla morale e la «ricerca di un principio e di un fondamento unico di responsabilità», cfr. G. CAZZETTA, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (1865-1914), Milano, 1991, 377 ss.; G. CHIODI, Coviello, Nicola, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., I, 605 ss.; M.M. FRACANZANI, Adolfo Ravà. Fra tecnica del diritto ed etica dello Stato, Napoli, 1998; A. PINTORE, Ravà, Adolfo, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., II, 1660 ss.

[23] A. DI MAIO, De Ruggiero, Roberto, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., I, 716 ss.

[24] R. DE RUGGIERO, Prefazione alla 5a edizione, in ID., Istituzioni di diritto civile, I, Messina, 1929, IX.

[25] R. DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, cit., I, 211-212 e nota 1.

[26] Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, 601.

[27] Cfr. G. MAROTTA, Il contributo di Filippo Grispigni alla criminologia, in Arch. pen., 2016, 1, 194 ss.

[28] M. DONINI, Grispigni, Filippo, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., I, 1071.

[29] Cfr. P. COCO, Luci e ombre nell’opera di Filippo Grispigni, in Arch. pen., 2020, 1, 23.

[30] Ivi, 26-27 e nota 113.

[31] La produzione scientifica, anche in riferimento all’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi decenni, è fin troppo vasta. Solo a fini esemplificativi, cfr. M. CAVINA, Andarsene al momento giusto: culture dell’eutanasia nella storia europea, Bologna, 2015; La Corte costituzionale e il fine vita: un confronto interdisciplinare sul caso Cappato-Antoniani, a cura di G. D’ALESSANDRO ‒ O. DI GIOVINE, Torino, 2020; V. ZAGREBELSKY, Aiuto al suicidio. Autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in La legislazione penale, 12 marzo 2020; F.A. SIENA, L’aiuto a morire tra nuovi diritti e ‘soccorso solidale’, in Arch. pen., 2021, 1, 1 ss.; M.B. MAGRO, Disattivazione del “supporto vitale” della persona incapace di consenso e di azione ed evoluzione giurisprudenziale sull’aiuto al suicidio, in Quaderni del Dipartimento Jonico, 2021, 220 ss.; G. ARCONZO, Il diritto a una morte dignitosa tra legislatore e Corte costituzionale, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, 2023, 1, 60 ss.

[32] Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, 603.

[33] Ivi, 604-605.

[34] AA.VV., Codice penale per il Regno d’Italia (1889), cit., 130-131.

[35] S. VINCIGUERRA, Un nuovo diritto penale all’alba del Novecento: il codice Zanardelli. Appunti di comparazione con il codice del 1859, in AA.VV., Codice penale per il Regno d’Italia (1889), cit., XXXVI.

[36] I. BIROCCHI ‒ G. CHIODI ‒ M. GRONDONA, Presentazione, in La costruzione della ‘legalità’ fascista negli anni Trenta, a cura di IDD., Roma, 2020, 10.

[37] M. SBRICCOLI, Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli anni del fascismo, in Quad. fiorentini, 1999, 821.

[38] S. VINCIGUERRA, Dal codice Zanardelli al codice Rocco. Una panoramica sulle ragioni, il metodo e gli esiti della sostituzione, in AA.VV., Il codice penale per il Regno d’Italia (1930), Codice Rocco, rist. an., a cura di S. VINCIGUERRA, Padova, 2010, XXVI.

[39] Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, 606.

[40] Progetto preliminare di un Nuovo Codice Penale, Roma, 1927, 228.

[41] Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, Atti della Commisione ministeriale incaricata di dare parere sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, pt. IV, Roma, 1929, 79.

[42] Ivi, 77-78.

[43] Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, III, Osservazioni e proposte sul progetto preliminare di un nuovo codice penale, pt. IV, Roma, 1928, 194 e 197.

[44] G. DELITALA, art. 589, Università Cattolica del Sacro Cuore ‒ Milano, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, III, cit., 195.

[45] AA.VV., Il codice penale per il Regno d’Italia (1930), cit., 68.

[46] Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, pt. I, Roma, 1929, 93.

[47] Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, 608-610.

[48] F. VACCARO, Intorno all’art. 50 C.p., in Il Pensiero giuridico-penale, 1931, 3-4, 234 ss.

[49] Trib. Napoli, 13 dicembre 1931, in Scuola positiva, 1932, II, 92.

[50] E. ALTAVILLA, Commemorazioni, Alfredo Sandulli, in Oratoria, 1946, 1, 216 ss.

[51] Trib. Napoli, 13 dicembre 1931, in Scuola positiva, 1932, II, con nota di A. SANDULLI, Lesione personale del consenziente, 92.

[52] Ivi, 74; 91-92. Per utili spunti, nelle linee generali, cfr. F. COLAO, «Un fatale andare». Enrico Ferri dal socialismo all’«accordo pratico» tra fascismo e Scuola positiva, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. BIROCCHI ‒ L. LOSCHIAVO, Roma, 2015, 129 ss.

[53] O. CAMPONESCHI, Florian, Eugenio, voce del Dizionario Biografico degli Italiani, 48, Roma, 1997 (https://www.treccani.it/enciclopedia/eugenio-florian_%28Dizionario-Biografico%29/).

[54] Cfr. r.d. 11 luglio 1929, in Bollettino ufficiale del Ministero della Giustizia e degli Affari di culto, Roma, 1929, 769.

[55] Cfr. supra, nota 6. Cfr. anche L. SEVERINO, Il dolo nell’omicidio e nelle lesioni consensuali, in Il pensiero giuridico-penale, 1931, 40-47; 106-118.

[56] Cass. (Sez. I), 15 luglio 1932 (Pres. Marconi, Est. Rende, P.M. Del Giudice), in Foro it., 1932, II, con nota di L. SEVERINO, Omicidio e lesioni consensuali, 345-346.

[57] Cfr. AL. ROCCO, La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale allo Stato fascista, Roma, 1927, 5 ss.

[58] Trib. Napoli, 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, con nota di L. SEVERINO, La lesione consensuale per innesto chirurgico. L’innesto della ghiandola sessuale, 605.

[59] App. Napoli, 30 aprile 1932 (Pres. Binetti, Est. Ferraro, P.M. Minervini), in Giust. pen., 1932, II, con nota di M. PIACENTINI, Il consenso dell’offeso come causa di non punibilità delle lesioni, 1686.

[60] Cfr., a titolo esemplificativo, L. DARTIGUES, Technique chirurgicale des greffes testiculaires du singe à l’homme (d’après la méthode de Voronoff), Paris, 1923; N. HAIRE, Rejuvenation. The work of Steinach, Voronoff and others, London, 1924; N. PENDE, La verità scientifica su Voronoff e le sue esperienze, Milano, 1924, estratto da Gazzetta degli Ospedali e delle Cliniche, 1924, 9; L. DARTIGUES, Greffage sexuel anthropoïdo-anthropique du testicule du singe dans les bourses de l’homme, par la méthode Voronoff, Paris, 1925; E. NICARD, De Darwin à Voronoff, Paris, 1929; C. ORTALLI, Patologia sessuale. L’impotenza e la sua cura morale: guida pratica per malati e per medici, 2a ed., Roma, 1929; E. TINTO, Innesti Voronoff e fenomeni sessuali, Roma, 1930.

[61] Cfr. S. VORONOFF, Innesti testicolari. Comunicazione fatta al collegio di Francia, Parigi, ottobre 1922, ed. it., Milano, 1923; ID., Studio clinico di endocrinologia: innesti dalla scimmia all’uomo, ed. it., Milano, 1926; S. VORONOFF ‒ G. ALEXANDRESCU, L’innesto testicolare dalla scimmia all’uomo: tecnica operatoria, manifestazioni fisiologiche, evoluzione istologica, statistica, ed. it., Milano, 1930; S. VORONOFF, Étude sur la vieillesse et le rajeunissement par la greffe [1926], avec une autobiographie inédite de Serge Voronoff, preface de J.-L. FISCHER, Chilly-Mazarin, 1999.

[62] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, 1687-1689.

[63] Ivi, 1690.

[64] Cfr. Trib. Napoli, 23 novembre 1931, in Ann. dir. proc. pen., 1932, con nota di D. PAFUNDI, Il consenso dell’offeso nelle lesioni personali, 596 ss.

[65] Cfr. E. CALORE, Volenti non fit iniuria: una regula romana?, in RIDA, 2015, 223 ss.; C. DE CRISTOFARO, Volenti et consentienti non fit iniuria. Per la storia di una figura giuridica tra luci e ombre, in Teoria e storia dir. priv., 2022 (www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com).

[66] D. DALLA, L’incapacità sessuale in diritto romano, Milano, 1978, 105-106.

[67] M. MELLUSO, La schiavitù nell’età giustinianea. Disciplina giuridica e rilevanza sociale, Paris, 2000, 109-111.

[68] P. OSTINELLI, I chierici e il defectus corporis. Definizioni canonistiche, suppliche, dispense, in Deformità fisica e identità della persona tra Medioevo ed Età moderna, Atti del XIV Convegno di studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo (San Miniato, 21-23 settembre 2012), a cura di G.M. VARANINI, Firenze, 2015, 8.

[69] Ivi, 9.

[70] Cfr. K. CRAWFORD, Eunuchs and castrati. Disability and normativity in early modern Europe, London-New York, 2019, 130 ss.

[71] T. FERRARONI, L’enemigo de natura humana nella prospettiva di Ignazio di Loyola, in Perspect. Teol., 2021, 2, 312.

[72] AA.VV., Il Codice penale per gli Stati del Re di Sardegna e per l’Italia unita (1859), rist. an., a cura di S. VINCIGUERRA, Padova, 2008, 166.

[73] Varietà, La pena della castrazione (Dalla Rivista penale), in Riv. disc. carc., 1891, 220.

[74] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, 1691.

[75] Ibidem.

[76] S. SEMINARA, Il delitto tentato, Milano, 2012, 384-385 e nota 100.

[77] Cfr., a titolo esemplificativo, M. ULDRY, Sterilizzazione forzata delle persone con disabilità nell’Unione europea, ed. it., Bruxelles, settembre 2022 (https://www.fishonlus.it/files/2022/10/Forced-Sterilisation-IT-3.pdf); Corte EDU, Y.P. c. Russia, 20 settembre 2022: «La sterilizzazione della paziente senza il suo consenso informato configura una violazione dell’art. 8 CEDU» (https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=47955); A. MANNA, “Repressione è civiltà”? A proposito di violenza sessuale, femminicidi e ruolo del diritto penale, in Giur. pen. web, 2023, 4 ottobre 2023.

[78] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, 1691.

[79] Ivi, 1692.

[80] Ivi, 1692-1693.

[81] Ivi, 1693.

[82] Cfr. A. CERNIGLIARO, Libertà di stampa e “Teoria psicologica della diffamazione”, in AA.VV., Amicitiae Pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, I, Milano, 2003, § 10: Dal fine individuale al fine etico, 331 ss.

[83] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, 1694.

[84] Ivi, 1695.

[85] Cfr. D. FERRARI, Le minoranze religiose nel pensiero di Mario Piacentini (1929-1950), in Le minoranze religiose tra passato e futuro, Atti del Convegno (Genova, 17 novembre 2015), a cura di D. FERRARI, Torino, 2016, 191 ss.

[86] Cfr. G.P. MASSETTO, Il suicidio nella dottrina dell’età di mezzo, in Acta Histriae, 2004, 1, 139 ss.; M. FORTUNATI, “La pietosa ingiustizia dei magistrati”. Il dibattito sul suicidio dell’assicurato tra Ottocento e Novecento, in Historia et ius, 2016, paper 29; M. CAVINA, Andarsene al momento giusto, cit., passim.

[87] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, con nota di M. PIACENTINI, Il consenso dell’offeso, cit., 1680-1681. Cfr. anche M. PIACENTINI, Consenso dell’avente diritto (art. 50 C.p.), in Giust. pen., 1932, II, n. 104, 994.

[88] R. Corte d’appello di Catanzaro, Relazione sul progetto del primo libro del Codice civile, Mantova, 1932, 15.

[89] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, con nota di M. PIACENTINI, Il consenso dell’offeso, cit., 1681-1684; 1686. Cfr. anche App. Napoli, 30 aprile 1932, in Annali dir. proc. pen., 1932, con nota di M. PIACENTINI, Nuovi aspetti della questione relativa all’omicidio ed alle lesioni del consenziente, 952 ss.

[90] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Scuola positiva, 1932, II, con nota di A. SANDULLI, Ancora della lesione personale del consenziente, 322.

[91] Ivi, 323.

[92] Ivi, 323-324.

[93] App. Napoli, 30 aprile 1932, in Scuola positiva, 1932, II, con nota di E. FLORIAN, Nota aggiuntiva, 327-328.

[94] Cass. (Sez. II), 31 gennaio 1934 (Pres. e rel. Saltelli, P.M. Marfori-Savini), in Giust. pen., 1934, II, con nota di E. BATTAGLINI, L’art. 50 C.p. e gli innesti omoplastici, 374.

[95] Cass., 31 gennaio 1934, in Giust. pen., 1934, II, 378.

[96] Ivi, 379.

[97] Cfr. A. TESAURO, La natura giuridica del consenso dell’avente diritto come causa di esclusione del reato, Padova, 1932; G. BATTAGLINI, Sul consenso dell’avente diritto (art. 50 Codice penale), Padova, 1933.

[98] Cfr. F. GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, Roma, 1924.

[99] F. CARNELUTTI, Il danno e il reato, Padova, 1926.

[100] Cass., 31 gennaio 1934, in Giust. pen., 1934, II, 380. Dopo l’abrogazione nel 1978 del menzionato articolo, la Cassazione è intervenuta nei decenni successivi per chiarire che gli interventi di sterilizzazione volontaria irreversibile sono leciti, previa maggiore età e capacità di prestare un valido consenso, e che l’obbligazione assunta dai medici non è solo di mezzi, ma anche di risultato, implicando l’adempimento di un obbligo informativo sui vantaggi, sui rischi e sugli eventuali insuccessi. Cfr. S. TORDINI CAGLI, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, 2008, 31 ss.

[101] A. TREVES, Demografi, fascismo, politica delle nascite. Nodi problematici e prospettive di ricerca, in Popolazione e Storia, 2003, 1, 184. In una prospettiva più ampia cfr. EAD., Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, Milano, 2001.

[102] M.N. MILETTI ‒ E. MURA, Saltelli, Carlo, cit., 1773-1774.

[103] Cass., 31 gennaio 1934, in Giust. pen., 1934, II, 382.

[104] Ivi, 382-383.

[105] C. STORTI, Escobedo, Gennaro, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., I, 804.

[106] Cfr. F. MIGLIORINO, Gli eroici anni trenta de «La Giustizia Penale». Lettere di Gennaro Escobedo a Giulio Andrea Belloni (1931-1941), Macerata, 2022.

[107] Cass., 31 gennaio 1934, in Giust. pen., 1934, II, con nota di E. BATTAGLINI, L’art. 50 C.p. e gli innesti omoplastici, cit., 375-377.

[108] Cfr. C. SALTELLI, Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto (in tema di attentati alla integrità personale), in Ann. dir. proc. pen., 1933, 245 ss.; 369 ss., 493 ss.; ID., Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto, cit.

[109] Su questi temi, cfr. M. SBRICCOLI, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990) [1998], in ID., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), I, Milano, 2009, 640 ss.

[110] M. PIACENTINI, Recensione a C. SALTELLI, Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto (in tema di attentati all’integrità personale), Estratto dagli Annali di diritto e procedura penale, in Giust. pen., 1934, II, 470; 473-474, n. 17.

[111] V. SPIEZIA, Illiceità penale degli innesti omoplastici, in Scuola positiva, 1932, I, 147 ss.; ID., Limiti della liceità giuridica, cit.

[112] Recensione a V. SPIEZIA, Limiti della liceità giuridica del trattamento medico-chirurgico (Napoli, 1933, Alberto Morano), in Giust. pen., 1934, II, 475, n. 21.

[113] F. ANGIONI, Petrocelli, Biagio, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., II, 1564.

[114] B. PETROCELLI, Morale e consenso dell’avente diritto (Ultime considerazioni sugli innesti omoplastici), in Riv. it. dir. pen., 1934, 459-462.

[115] Ivi, 466.

[116] Ivi, 468.

[117] Ivi, 469.

[118] Recensione a C. SALTELLI, Disponibilità del diritto e consenso dell’avente diritto – Utet, 1934, in Riv. it. dir. pen., 1934, 564. Nel commentare le sentenze dei due primi gradi di giudizio, si espressero in modo contrario Teucro Brasiello, appartenente alla magistratura requirente partenopea, e, in senso favorevole, Ottorino Vannini, professore di diritto e procedura penale nell’Università di Siena. Cfr. Trib. Napoli, 13 dicembre 1931, in Riv. it. dir. pen., 1932, con nota di O. VANNINI, Lesione personale del consenziente, 428 ss.; App. Napoli, 30 aprile 1932, in Riv. it. dir. pen., 1932, con nota di T. BRASIELLO, Il consenso dell’offeso in tema di delitti contro l’integrità individuale, 757 ss.

[119] E. PELLERITI, Arangio-Ruiz, Gaetano, voce del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, cit., I, 90.

[120] Cass., 31 gennaio 1934, in Foro it., 1934, II, con nota di G. ARANGIO-RUIZ, Contro l’innesto Woronoff da uomo ad uomo, 153.

[121] Ivi, 157.

[122] Ivi, 160.

[123] Cass., 30 gennaio 1934, in Scuola positiva, 1934, II, con nota di A. SANDULLI, La lesione personale del consenziente nel giudizio del Supremo Collegio, 173.

[124] M. SBRICCOLI, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita [1990], in ID., Storia del diritto penale e della giustizia, cit., I, 582.

[125] Cass., 30 gennaio 1934, in Scuola positiva, 1934, II, con nota di E. FLORIAN, Il consenso dell’offeso in pratica (Le variazioni della giurisprudenza), 80.

[126] G. GIACOBBE, Trapianti, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 893.

[127] F. CARNELUTTI, Il danno e il reato, cit., passim.

[128] F. CARNELUTTI, Per una teoria generale del processo [1948], in ID., Questioni sul processo penale, Bologna, 1950, 18.

[129] F. CARNELUTTI, L’equità nel diritto penale, in Riv. dir. proc. civ., 1935, 116.

[130] F. CARNELUTTI, Problema giuridico della trasfusione del sangue, in Foro it., 1938, IV, 103.

[131] Cfr. R. ROMBOLI, Art. 5, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Delle persone fisiche, a cura di F. GALGANO, Bologna-Roma, 1988, 227 e nota 10; S. SEMINARA, La dimensione del corpo nel diritto penale, in Il governo del corpo, a cura di S. CANESTRARI ‒ G. FERRANDO ‒ C.M. MAZZONI ‒ S. RODOTÀ ‒ P. ZATTI, I, Milano, 2011, 209 ss.