Recensione al volume di Bruno Capponi: Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, ESI, Napoli, 2023, pagg. 307.

Di Clarice Delle Donne -

1.- Gli scritti di Bruno Capponi raccolti nel volume “Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile” (ESI, Napoli, 2023), di data e collocazioni editoriali diverse, sono dedicati al giudizio civile di legittimità.

Un giudizio visto da chi, studioso, avvocato e prima ancora giudice, è in grado di coglierne la dimensione fluida, e direi quasi ineffabile oramai, indotta dalla profonda ristrutturazione che da decenni ne vanno facendo in via pretoria la Cassazione e, in affanno e sull’onda di un’eterna emergenza, il legislatore, a volte assecondando a volte contrastando le istanze della Corte.

E poiché la (particolarissima) funzione svolta dal giudice di ultima istanza è da sempre il termometro dello stato di salute dell’intero sistema giustizia, le riflessioni dell’A. finiscono col toccare, a tutto tondo, proprio alcuni tra i temi centrali del dibattito mai sopito sulla giustizia civile (e soprattutto sui suoi mali).

Significativo in tal senso è già il titolo del volume che, nella sua interezza, si presta a due livelli di lettura.

Il primo e più immediato di essi rimanda alla latitudine del giudizio di legittimità. La Suprema sanziona infatti le violazioni di norme di diritto e gli errores in procedendo anche decidendo nel merito (alle condizioni imposte dalla legge: art. 384 c.p.c., c. 2). Il tutto alla luce del ruolo istituzionale di garante della “esatta osservanza ed uniforme interpretazione della legge”, secondo la immaginifica formula dell’art. 65 ord. giud.

Ad un secondo e più profondo livello di lettura emergono invece, inevitabilmente direi, le dinamiche del processo (di merito, appunto) che ha condotto alla decisione impugnata e, al fondo, le caratteristiche di quest’ultima. Caratteristiche filtrate dall’atto di parte che ne denuncia i vizi (profilo di legittimità) inaugurando un giudizio che, se già fisiologicamente dotato di un alto tasso di formalità e tecnicismo, è da tempo degenerato in un percorso ad ostacoli dominato dalla logica del respingimento.

Facce di una stessa medaglia o, per meglio rendere l’idea della realtà che aleggia, in tutta la sua spietatezza, nel volume, fili di un intreccio inestricabile. Tra la decisione delle controversie e il giudizio di ultima istanza si erge infatti, misteriosa quanto ineludibile, quella “nomofilachia” di cui la Corte è, almeno stando a inveterata interpretazione dell’art. 65 ord. giud., custode.

La nomofilachia pervade e plasma, nell’aritmetica della realtà, il giudizio di legittimità non meno che quello di merito a valle, vero ago della bilancia della giustizia tutta, ammonisce Capponi.

È infatti dal modo di intendere la nomofilachia che dipendono i criteri di accesso al giudizio di legittimità e il ruolo che Corte si cuce addosso in un determinato momento storico. Di conseguenza, è sempre la latitudine assunta dalla nomofilachia, vale a dire dalla (auto)percezione di quel ruolo, a stabilire quale contenzioso possa accedere all’ultima istanza e a quali condizioni, e quale invece debba considerarsi chiuso con la decisione di merito. A stabilire, insomma, che tipo di giustizia il nostro sistema appresta nei gradi di merito, e a beneficio di chi.

Ma il merito è nel mirino della riflessione di Capponi anche da un altro punto di vista.

Alla politica del respingimento spietato si aggiunge infatti la tendenza legislativa, rileva l’A. nell’introduzione, a rendere difficoltoso l’accesso agli stessi giudici di primo grado costruendo “(…) filtri di selezione o condizionamento (sotto forma di tentativi obbligatori di conciliazione, media-conciliazione, negoziazione assistita, promozione del ricorso all’arbitrato, etc.)”. Le impugnazioni, a loro volta, sono soggette a una serie di controlli di ammissibilità divenuti dal 2006 ad oggi (e in particolare con la sciagurata legislazione del 2012) sempre più pressanti.

Quel merito cui è sbarrato, in misura sempre crescente, l’accesso al giudizio di legittimità, potrebbe cioè ridursi a un primo grado di giudizio e addirittura mancare in favore di una soluzione stragiudiziale della lite.

Che distanza dalle vette incontaminate (dal merito, appunto) della nomofilachia!

Cui prodest?” è la domanda implicita che percorre il volume.

E soprattutto: cos’è la nomofilachia?

L’Autore sa fin troppo bene che a una domanda così spietatamente semplice non è possibile fornire una risposta semplice, e, a dire il vero, neppure una risposta sola.

Ci si trova infatti al cospetto di un concetto indeterminato che, proprio perché tale, non può che essere figlio dello spirito dei tempi, oltre che delle diverse sensibilità che, all’interno di una Corte dalle dimensioni elefantiache (e anche questo è un dato ben presente alla riflessione di Capponi), si manifestano.

Lontano, e forse all’origine dei mali dell’oggi, è lo spirito di quei tempi in cui, sull’art. 111 Cost. (olim 2, oggi) c. 7, la Corte stessa edificò il ricorso straordinario allargando l’ambito del giudizio di legittimità al controllo di ogni settore del contenzioso per il quale la legge non avesse previsto alcuno strumento di riesame/impugnazione del finale provvedimento.

Ben presto vittima di se stessa per l’ingestibile mole di ricorsi di cui si è trovata investita, e al fondo per aver dato la stura alla cultura del controllo diffuso, la Corte ha ben presto dovuto mettere in campo la strategia opposta, quella della chiusura a tutti i costi.

A fronte delle diverse (e spesso imprevedibili) motivazioni, la giustificazione culturale e istituzionale è rimasta però sempre la stessa: la difesa del ruolo nomofilattico, assunto a giustificazione ultima della sua stessa essenza di Giudice Supremo.

Prima brandita per aprire le maglie del controllo di legittimità, ecco dunque che ancora la nomofilachia sbarra invece l’accesso in Cassazione a tutto quel contenzioso che, per essere troppo “contaminato” da profili legati al caso concreto, non si presta al nobile scopo.

Di qui la storia di tutti i giorni: quella della netta separazione tra contenzioso che, per le sue caratteristiche, aspira all’eternità e viene consegnato, dopo il vaglio (nomofilattico, appunto) della Corte, alle massime, e contenzioso “minuto” che, se malauguratamente sale i gradini del Palazzaccio, li ripercorre ruzzolando vittima della politica del respingimento.

Una storia in cui anche il legislatore, assecondando le aspirazioni selettive della Corte, ha fatto e fa la sua parte. E dove la nomofilachia fatalmente imbocca una strada “altra” rispetto a quella che pur sempre si radica nella (corretta) decisione di una controversia.

2.- Ecco perché a me pare che chiave di lettura e collante di un volume dai contenuti ricchi e diversi che sarebbe qui difficile anche solo enumerare, possa considerarsi l’analisi del modo in cui la Suprema intende e interpreta il suo ruolo nel contesto delle modifiche normative che hanno investito il giudizio di legittimità negli anni recenti. Del modo, insomma, in cui la nomofilachia assurge a giustificazione ultima dell’attuale stato evolutivo di quel ruolo.

Si tratta di un profilo diverso da quello della scelta del contenzioso di cui ho appena detto ma altrettanto se non più sensibile.

Particolare attenzione è infatti riservata, nelle riflessioni dell’A., all’intervento realizzato dal d.lgs. n. 40/2006 sotto due profili: la rivitalizzazione del ricorso nell’interesse della legge (secondo la rubrica del previgente art. 363 c.p.c.) promosso dal Procuratore Generale (art. 363, commi 1 e 2, c.p.c.) e la pronuncia d’ufficio del principio di diritto (art. 363, comma 3, c.p.c.) in caso di ricorso che, dichiarato inammissibile, presenti una questione di diritto di particolare importanza.

La centralità di questi snodi è ben presente a Capponi, che con lucidità e perseveranza continua a segnalare e denunciare, da tempo, la lettura non testuale che la Corte fa del comma 3 dell’art. 363 c.p.c.

È una marcia solitaria quanto inesorabile, e proprio per questo insidiosa, quella che da tempo conduce la Suprema, denuncia l’A., ad applicare la disposizione in ogni caso in cui il ricorso non può essere deciso nel merito, con la ferale conseguenza di moltiplicare le fattispecie di inammissibilità di origine pretoria (e dunque sostanzialmente imprevedibili).

Alimentati dalla formulazione non chiara né perspicua dell’art. 360 bis c.p.c., gli spazi vuoti vengono colmati con inammissibilità create letteralmente a tavolino, quali quelle derivanti da difetto di autosufficienza del ricorso (a sua volta creazione della Corte in funzione di “smaltimento”), mancanza di specificità dei motivi, genericità, cui ora è prevedibile si aggiunga, avverte ancora Capponi, il mancato rispetto dei requisiti di chiarezza e sinteticità del ricorso [(art. 366, n. 4), nel testo introdotto dal d.lgs. n. 149/2022].

L’universo in espansione delle inammissibilità diviene, nella lucida riflessione di Capponi, il punto di vista privilegiato di un fenomeno che va ben oltre il formalismo, che pure negli anni è servito alla Corte per rifuggire l’esame nel merito dei ricorsi. Il formalismo, ammonisce infatti l’A., è una degenerazione nella percezione delle regole di forma, è la lettura disfunzionale di un testo normativo o la estrazione da esso di regole disfunzionali. Il che presuppone pur sempre una regola normativa, sia pure suscettiva di diverse letture, alcune più funzionali e coerenti di altre (pure legittime).

La Corte è andata invece ben oltre laddove ha cominciato a creare dal nulla una serie di artifizi del tutto slegati dal quadro normativo di riferimento per sbarrare l’accesso, come dimostra, ma è solo un esempio, la pagina buia della giurisprudenza sui quesiti di diritto. Nati quale soluzione tecnica (adottata dal legislatore del 2006) per favorire ricorsi più chiari e concisi volti ad una migliore e più celere decisione, essi sono stati invece usati dalla Corte come strumenti di autoregolazione del contenzioso in entrata, tradendo testo ed intentio legis.

Quando “(…) la regola viene volta per volta creata dalla Corte – quando cioè non siamo dinanzi a una regola bensì a un orientamento, magari fondato su “principi” e non su norme – può avvenire che il ricorrente non sappia quale preciso adempimento deve realizzare perché il suo atto venga dichiarato ammissibile”, chiosa Capponi.

E fa riflettere su un profilo fondamentale che, a mio avviso, non è adeguatamente messo in risalto semplicemente evocando il formalismo che, giova ripeterlo, presuppone pur sempre una regola normativa.

A differenza del formalismo infatti, che Satta bollava come paura di giudicare, la creazione di regole ad hoc in funzione di respingimento, il post-formalismo per così dire, fotografa una realtà più complessa e ben più preoccupante. Quella cioè di una Corte che sceglie consapevolmente di privilegiare, rispetto alla funzione giudicante, sia pure di vertice, la funzione di prima interprete delle norme di diritto a prescindere dal giudizio, dalla loro applicazione cioè a un caso controverso, ergendosi a intermediario privilegiato tra il legislatore e il giudice di merito.

Ecco l’altro volto della nomofilachia che emerge nella sua complessità dalle pagine del volume.

Essa si ammanta stavolta del diafano sembiante della “purezza” delle questioni oggetto di pronuncia della Corte, una purezza che non è semplicemente frutto di astrazione dalle peculiarità del caso deciso per orientare altre future decisioni su casi simili (ciò che è pur sempre fisiologico in un giudice di vertice), ma che sempre più spesso prescinde da una pregressa decisione, come l’esperienza massiva delle inammissibilità (anche non testuali) dimostra.

In queste ipotesi infatti la dichiarazione di inammissibilità, lungi dal consegnare la vicenda giudiziaria all’oblio, è solo l’occasione per dare alla Corte, oramai libera dai lacci dell’oggetto e del contraddittorio, il potere di costruire un “sistema” enunciando principi di diritto (anche su norme non direttamente coinvolte nei ricorsi ma individuate “in via consequenziale”), proiettati verso il futuro, posto che per definizione non gioveranno alle parti processuali.

La tendenza ha ricevuto nel 2022 anche una consacrazione legislativa. Il d. lgs. n. 149/2022 ha infatti introdotto nel tessuto del c.p.c. l’art. 363 bis disciplinante il rinvio pregiudiziale interpretativo, in cui si istituzionalizza il ruolo di primo interprete del diritto in capo alla Corte Suprema al di fuori del circuito del giudizio, che per definizione è sospeso in attesa che la Corte enunci il principio di diritto che sarà poi il giudice di merito ad applicare nel decidere la lite.

Anche su questo profilo la riflessione di Capponi affonda la lama.

Dettare principi di diritto senza decidere alcuna controversia significa infatti eludere i circuiti del contraddittorio, poiché sia la pronuncia nell’interesse della legge che quella conseguente all’inammissibilità del ricorso non contemplano il coinvolgimento delle parti processuali né prevedono quello di interlocutori culturali ma si consumano solo tra la Corte e la Procura Generale, pur dovendo costituire la guida della giurisprudenza successiva e ipotecando, in sostanza, un futuro che appartiene a tutti.

Ma significa anche assistere a una profonda involuzione in senso autoritario della Corte e, al fondo, dell’intero sistema giustizia.

Quando non chiamata ex post a stabilire quale sia la più corretta lettura delle norme applicate nelle decisioni di merito, anche scegliendo quale tra le interpretazioni consolidatesi sia meritevole di prevalere nella prospettiva dell’uniformità del diritto (nomofilachia retrospettiva, radicata cioè nella decisione), la Corte ne diviene, al contrario e in modo sempre più massivo, l’official dealer.

Di “nomofilachia anticipatoria” parla a questo proposito l’A. per esprimerne il carattere assolutamente sganciato dall’applicazione a un caso concreto o a una classe di casi che di quest’ultimo siano la generalizzazione, e più vicino invece alla riscrittura di un complesso normativo, se non proprio alla sua creazione dal nulla. Profilo, quest’ultimo, cui l’A. ha dedicato grande attenzione commentando, anche in scritti non inseriti nel volume, molte delle pronunce adottate dalla Sezione III nell’ambito del cd. Progetto esecuzioni.

Nella parte in cui enunciano i principi di diritto, le pronunce della Corte raggiungono perciò un livello di generalizzazione e di “sistema” da sembrare norme di produzione legislativa o regolamentare.

Ma il quadro è più complesso ancora perché (anche) quando pronuncia fuori dal circuito del giudizio la Corte fa sempre più spesso uso della tecnica cd. della “interpretazione costituzionalmente conforme”, quella cioè di adattare le norme scritte ai principi costituzionali spesso eludendole o disapplicandole proprio in nome del loro asserito contrasto con uno o più di essi.

Nell’ambito del processo civile il riferimento più eclatante è quello alla ragionevole durata del processo, principio costituzionale alla luce del quale la Corte ha provveduto negli anni ad una corposa riscrittura delle regole processuali e spesso alla loro interpretatio abrogans proprio perché, a suo dire, in contrasto con quel principio.

È questo un intreccio di profili, mi piace ripeterlo, non facile da districare ma centrale nella riflessione che l’A. consegna (anche) a questo volume.

L’inversione di direzione nella dinamica giudice-interpretazione delle norme di diritto evoca quel passato in cui la struttura gerarchica e verticistica della magistratura si manifestava anche quale controllo della Suprema sulla giurisprudenza. Controllo esercitato surrettiziamente attraverso il sistema della carriera e avente generali esiti di forte conformazione dei giudici inferiori.

Un passato non troppo lontano se solo si pensa ai primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, quando era ancora la Cassazione, in via provvisoria e in attesa dell’entrata in funzione della Consulta, ad essere anche investita del controllo di costituzionalità.

E non è un caso che una reale inversione di tendenza proprio nella struttura gerarchico-verticistica della magistratura si sia avuta solo dopo l’entrata in funzione della Corte costituzionale. La possibilità per ogni giudice, a prescindere dalla sua collocazione nell’ordine giudiziario, di sollevare questioni di illegittimità costituzionale, rendeva finalmente reale quell’ideale di potere diffuso presupposto dalla Costituzione e che spazzava via la figura del giudice funzionario.

Ponendosi come creatrice di sistemi o sottosistemi basati sui principi costituzionali nell’esercizio della “nomofilachia anticipatoria” delle pronunce d’ufficio e/o nell’interesse della legge, la Cassazione non sta allora solo inseguendo il ricorso storico di un ruolo privilegiato rispetto a tutti i giudici di merito, ma si sta anche appropriando di competenze riservate alla Corte costituzionale, peraltro silenziosamente mutando la tecnica del relativo scrutinio di legittimità costituzionale.

Anche il giudizio di costituzionalità delle leggi davanti alla Consulta è infatti concepito come incidentale, nella prospettiva cioè di una controversia e del contraddittorio tra due o più proposte applicative, perché solo nella dinamica applicativa emerge dal testo scritto della disposizione la norma nella sua reale portata.

L’interpretazione costituzionalmente conforme della Suprema è invece, nel contesto considerato, una cavalcata solitaria.

3.- I fili della lunga riflessione dell’A., che qui ho potuto solo a grandi linee abbozzare, si riannodano intorno ad una idea ben precisa. È quel monito antico quanto accorato a ritornare al giudizio, “(…) senza impicci, senza soverchie complicazioni. E che sia il legislatore, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso, togliendo alla Corte l’imbarazzo di dover essere il regolatore di se stessa”.

Idea condivisibile ma, credo che l’A. stesso ne sia ben consapevole, difficile da realizzare perché imporrebbe un cambio di passo che è la Corte stessa, almeno nella sua anima oggi più vitale, a non volere.

È ragionevole supporre, parla qui la sensibilità di giudice di Capponi, che la deriva autoritaria sia quantomeno rallentata dallo scarso sostegno dei giudici di merito, poco propensi a rinunciare al proprio ruolo di interpreti del diritto superiorem non recognoscentes, per adeguarsi a letture o riletture del sistema calate dall’alto e non affinate dal naturale passaggio dei gradi di giudizio.

È però altrettanto facile immaginare che proprio i giudici di merito, stretti tra un contenzioso esponenziale (anche se non ingiustificato) e il ruolo crescente e spersonalizzante assunto dall’ufficio per il processo (e dal contributo dell’intelligenza artificiale nel costruire la rete dei precedenti) possano essere indotti a quel conformismo che evoca un passato non troppo lontano.

D’altra parte, per dirla con Rousseau, “(…) ci sono sempre quattro versioni di una storia: la vostra, la loro, la verità e quello che è realmente accaduto.”

Non resta perciò, per scegliere almeno cosa sperare, che leggere, e magari rileggere, le pagine di Capponi.

In attesa, come sarcasticamente dice lui, di un possibile annus mirabilis.