CASS. 16 GENNAIO 2020 N. 800: IL GIUDICE “PUÒ ORDINARE” L’INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO

«Decernatur tamen, si placet» (Cicerone, Orationes in Catilinam, IV, 7).

Di Giuseppina Fanelli -

Cass. 16 gennaio 2020, n. 800

In caso di ricorso per cassazione inammissibile, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di tale termine si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (massima non ufficiale).

Nel caso di specie il tribunale, in grado d’appello, confermava la decisione di primo grado con la quale il giudice di pace aveva respinto la domanda proposta da un assicurato contro il proprio assicuratore per la responsabilità civile auto e nei confronti del danneggiante in relazione ai danni subiti dalla propria autovettura a seguito di sinistro stradale, non ritenendo provata la dinamica dei fatti suggerita dall’attore. Ricorreva per cassazione l’originario attore. Resisteva in giudizio l’impresa di assicurazione; non si costituiva il presunto danneggiante. La Corte di cassazione, pur avendo rilevato un vizio dell’integrità del contraddittorio (non essendo stata data prova del perfezionamento della notificazione del ricorso nei confronti del danneggiante, litisconsorte necessario), non concedeva termine per la rinnovazione della notificazione in ragione della delibazione di inammissibilità del ricorso per cassazione.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, confermata dalla pronuncia in oggetto, nel processo in cui il danneggiato propone domanda per l’indennizzo nei confronti del proprio assicuratore r.c. auto (sfruttando la procedura del c.d. indennizzo diretto), il presunto responsabile del sinistro è litisconsorte necessario e, pertanto, deve essere convenuto in giudizio (così, Cass., sez. VI, 20 settembre 2017, n. 21896).

Il regime tipico del litisconsorzio necessario prevede, tra le altre, l’applicazione delle seguenti disposizioni: a) l’art. 102 c.p.c., secondo il quale se il giudice rileva un vizio di integrità del contraddittorio, ordina alle parti di integrare il contraddittorio entro un termine perentorio (in mancanza, il giudizio si estingue); b) l’art. 183, comma I, c.p.c., a mente del quale all’udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione «il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità del contraddittorio»; c) l’art. 331 c.p.c., secondo il quale nelle cause inscindibili (tra le quali rientrano le ipotesi di litisconsorzio necessario) o tra loro dipendenti, se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta (in mancanza, l’impugnazione è inammissibile); d) l’art. 354 c.p.c., il quale prevede che in grado d’appello, qualora il giudice riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio, rimetterà la causa al giudice di primo grado (così anche l’art. 383, comma III, per il giudizio per cassazione) [1].

Questo è, in estrema sintesi, il regime del litisconsorzio necessario (anche nei gradi di impugnazione), come lo abbiamo imparato dai manuali di diritto processuale civile. Quel che c’è di nuovo è che, anche per le questioni relative al contraddittorio, si assiste ad una sempre più frequente disapplicazione delle regole processuali da parte dalla Corte di cassazione [2], disapplicazione giustificata ora facendo leva sulla ragionevole durata del processo, ora sulla mancanza di effettivo pregiudizio per il litisconsorte pretermesso. Nel solco di questa giurisprudenza si colloca la pronuncia in nota, nella quale la Corte di cassazione afferma che non è necessario integrare il contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. tutte le volte in cui l’esito del giudizio di cassazione (dal quale il litisconsorte è pretermesso) sarebbe comunque ad egli favorevole in ragione dell’inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso principale. In questo specifico caso la Suprema Corte ha sostenuto che l’inammissibilità del ricorso renderebbe «ultroneo ed inutilmente dispendioso e defatigante l’altrimenti necessario ordine di integrazione del contraddittorio» e che tale necessità deve essere bilanciata con il rispetto del «diritto fondamentale ad una ragionevole durata». Il “diritto” alla ragionevole durata del processo, desumibile dagli artt. 175 e 127 c.p.c., imporrebbe al giudice di evitare «comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti» (cfr. sentenza punto 2).

Si tratta di un orientamento abbastanza consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che pure desta qualche perplessità. Tra le pronunce più significative si ricordano: Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373 [3], nella quale i giudici di legittimità non hanno concesso termine per la notificazione del ricorso ad un litisconsorte pretermesso poiché, accertata la inammissibilità del ricorso, il pretermesso non subiva «un effettivo e concreto pregiudizio (giuridicamente rilevante)», posto che «la sua eventuale partecipazione ad un processo dall’esito scontato non potrebbe apportare alcun utile contributo ai fini della giustizia della decisione»; Cass., sez. II, 22 gennaio 2010 n. 2723 – rispetto alla quale abbiamo già avuto modo di formulare qualche sintetica considerazione, peraltro di diverso tenore rispetto a quelle odierne [4] – per un caso in cui il contraddittorio non è stato integrato in ragione della manifesta infondatezza del ricorso nel merito; Cass., sez. un., 22 marzo 2010, n. 6826 (richiamata dalla sentenza in nota), per un caso in cui doveva essere integrato il contraddittorio nei confronti del P.G., ma la Corte non ne ha ravveduto la necessità sulla base della seguente considerazione: «il rispetto del primario principio della ragionevole durata del processo in presenza di una evidente ragione di inammissibilità del ricorso, impone invero di definire con immediatezza, attraverso la necessaria pronunzia di inammissibilità, il ricorso stesso senza che si debba pervenire allo stesso esito definitorio dopo aver integrato il contraddittorio nei confronti del P.G., vieppiù considerando che la presenza di tale parte pubblica è stata comunque assicurata in sede di adunanza camerale»; Cass. 10 maggio 2018, n. 11287 (richiamata dalla sentenza in nota), nella quale la integrazione dei condomini (già contumaci in appello) in una controversia relativa all’illegittima apertura di luci e vedute è stata impedita dalla manifesta infondatezza del ricorso; Cass. 21 maggio 2018, n. 12515 (richiamata dalla sentenza in nota), secondo la quale in una ipotesi di nullità della notificazione del ricorso per cassazione proposto nei confronti della P.A. ed effettuata presso l’Avvocatura distrettuale anziché presso l’Avvocatura generale dello Stato, non è stata disposta la rinnovazione della notificazione stante in parte l’inammissibilità ed in parte la manifestamente infondatezza del ricorso; Cass., 26 settembre 2019, n. 24071, nella quale la superfluità dell’integrazione ex art. 331 c.p.c. è stata giustificata sotto il profilo della mancanza dell’interesse ad agire (e ad impugnare) ex art. 100 c.p.c., in un (inopportuno) bilanciamento con il principio della ragionevole durata del processo ed il divieto di abuso del processo (arg. ex art. 88 c.p.c.).

NOTE BIBLIOGRAFICHE:

[1] Quanto al regime della sentenza a contraddittorio non integro, si ricorderà che, secondo una prima opzione, la radicale invalidità della sentenza emessa a contraddittorio non integro impedirebbe a quest’ultima di manifestare qualsivoglia effetto sia nei confronti del litisconsorte pretermesso, che delle parti del giudizio, con la conseguenza: a) che la sentenza sarebbe priva di qualsiasi efficacia nei confronti tutte le parti del rapporto giuridico sotteso al processo (sentenza c.d. inutiliter data); b) che il vizio in esame non sarebbe suscettibile di sanatoria, neppure per effetto del passaggio in giudicato formale della sentenza, applicandosi l’art. 161, comma II, c.p.c., sottraendosi alla regola generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di gravame; c) che, pertanto, oltre al rimedio dell’opposizione ordinaria dell’art. 404, comma I, c.p.c., il pretermesso avrebbe anche la possibilità di riproporre un giudizio di primo grado (così G. Chiovenda, Sul litisconsorzio necessario (1904), in Saggi di diritto processuale civile, II, Roma, 1931, 427 ss., spec. 542 ss.; V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, I3, Napoli, 1961, sub art. 102, 287; Id., Lezioni di diritto processuale civile, I2, Napoli, 1961, 327 s., G. Fabbrini, voce Litisconsorzio necessario, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974; Id., L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968, 201 ss.). Per una seconda tesi, invece, la sentenza emessa a contraddittorio non integro sarebbe invalida, ma sarebbe tuttavia efficace nei confronti dei litisconsorti presenti con la conseguenza i litisconsorti presenti avrebbero a disposizione solo i mezzi di impugnazione ordinaria, mentre i pretermessi l’opposizione di terzo ordinaria (così, E. Redenti, Il giudizio civile con pluralità di parti, (1911), Milano, rist. 1960, 316 s.; E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 268 ss.; S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1973, 130 s.).

[2] Su questi temi, A. Panzarola, Una lezione attuale di garantismo processuale: le conferenze messicane di Piero Calamandrei, in Riv. dir. proc., 2019, 162 ss.; Id., Alla ricerca dei substantialia processus, ivi, 2015, 680 ss.; G. Scarselli, Sulla necessità di avere un codice di procedura civile e sul dovere dei giudici di rispettarlo e farlo rispettare (nota a Cass. 25 luglio 2019 n. 20152), in Judicium.it dal 25 luglio 2019. Un accenno anche in B. Capponi, nel dibattito A più voci sulla reclamabilità del provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo pronunciato dal giudice dell’opposizione a precetto, in Rass. es. forz., 2019, 3, 754, per il quale: «Quando si afferma che “a seguito della costituzionalizzazione del principio del giusto processo, la violazione delle regole processuali, per assumere rilievo, deve tradursi nella lesione di specifiche facoltà difensive che compete alla parte allegare e la sua deduzione deve essere sorretta da un interesse pratico, restando esclusa la necessità di regolarizzare il processo qualora non sia riscontrabile alcuna concreta contrazione dei diritti sostanziali e processuali”, è evidente che il vago riferimento al processo “giusto” serve non ad altro che a violare senza rimpianti le norme processuali».

[3] Con nota di A. Didone, Le Sezioni Unite e la ragionevole durata del «giusto» processo, in Giur. it., 2009, 669 ss.; L.P. Comoglio, Abuso dei diritti di difesa e durata ragionevole del processo: un nuovo parametro per i poteri direttivi del giudice?, in Riv. dir. proc., 2009, 1686 ss.

[4] Si placet, G. Fanelli, Note sulla «sollecita» e «sostanziale» definizione del giudizio alla luce del principio di ragionevole durata del processo e del nuovo art. 360 bis, comma 2º, c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011, 224 ss.

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