Riforma Cartabia: prime riflessioni sulla disciplina transitoria con riferimento all’opposizione a decreto ingiuntivo

Di Amalia Gravante -

Sommario: 1. Art. 35 co.1, D. Lgs. 149/22, la regola generale dettata dalla disciplina transitoria 2. Disciplina transitoria e opposizione a decreto ingiuntivo, i rischi dell’errata individuazione della normativa applicabile 3. Il difficile rapporto tra art. 643 c.p.c. e le riforme, corsi e ricorsi storici 4. Le prime linee guida e note informative sull’applicazione della disciplina transitoria in caso di opposizione a decreto ingiuntivo.

1.L’art. 35 del D. Lgs. n. 149/22[1], nel regolare il passaggio dalla vecchia alla nuova normativa che disciplina il processo civile, stabilisce al primo comma una regola generale secondo cui: “le nuove disposizioni, salvo che non sia diversamente previsto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti[2].

La norma applica il principio “tempus regit actum”, di cui all’art. 11 delle preleggi, ai procedimenti instaurati successivamente all’entrata in vigore della riforma, stabilendo invece l’ultrattività della legge abrogata per i procedimenti già pendenti a quella stessa data.

La soluzione rinviene la sua ragion d’essere nell’inidoneità[3] dei principi generali che regolano l’applicazione della legge nel tempo a risolvere i problemi che possono sorgere allorquando, in pendenza di un processo, mutano le regole del “gioco”[4].

Il processo, infatti, non consta di un unico atto ad effetti immediati, bensì di una sequenza logicamente e cronologicamente ordinata di atti non omogenei (coordinati tra loro e spesso dipendenti) che convergono verso l’emanazione di un provvedimento[5].  Ne consegue che non è sufficiente stabilire, con riferimento al singolo atto, se esso sia sottoposto alla nuova o vecchia normativa in considerazione del momento in cui è stato posto in essere, ma occorre, altresì, tener conto dell’unica sequenza di cui l’atto è parte affinché non venga meno quella linea di continuità che lega tutti gli atti, sia quelli compiuti sotto la vigenza della normativa previgente che quelli da compiersi dopo l’entrata in vigore della legge successiva.

In considerazione di ciò, il Legislatore individua attraverso la disciplina transitoria “i casi in cui la nuova normativa opera retroattivamente, o la vecchia ultrattivamente, o addirittura per comporre un diritto terzo, derivante dalla commistione tra quello abrogato e quello nuovo e che sarà di applicazione necessariamente limitata nel tempo (il diritto transitorio è infatti per sua natura temporaneo), in modo da garantire la fondamentale regola della razionalità o «unità» del singolo procedimento[6].

Le norme transitorie, dunque, in considerazione del fine che perseguono, dovrebbero contenere indicazioni specifiche[7], piuttosto che il riferimento a concetti “liquidi” dai contorni indefiniti, poiché essi possono rendere più difficoltosa (invece che più agevole) l’individuazione delle norme che regolano gli atti[8] del processo nella fase di passaggio da una normativa all’altra.

In tal senso ha operato il Legislatore nel passato più lontano, vale a dire in occasione della riforma del 1940 e della controriforma del 1950. Ciò anche in considerazione dell’applicazione immediata delle nuove disposizioni ai procedimenti pendenti e della necessità di trapiantarle in seno ad essi. All’epoca, tuttavia, vi era il convincimento che le riforme servissero a rimediare agli errori del passato, nonché ad adeguare le norme alle mutate esigenze dei tempi[9].

Successivamente, almeno a partire dal 1973, il Legislatore ha mutato prospettiva, adottando la cd. tecnica del “doppio binario”[10], con suddivisione del contenzioso in due blocchi: giudizi “pendenti” e giudizi “instaurati successivamente” all’entrata in vigore della riforma; i primi assoggettati alle disposizioni previgenti e i secondi a quelle in vigore.

La disciplina transitoria di cui al D. Lgs. 149/22, pur prevedendo con riferimento ad alcune norme l’applicazione immediata o differita delle nuove disposizioni ai procedimenti pendenti, ha mantenuto come regola generale, all’art. 35, co.1, il sistema del doppio binario, ancorando il criterio discretivo – ai fini dell’individuazione della normativa da applicare – alla pendenza della lite.

La pendenza della lite, tuttavia, rimanda ad un concetto non univoco che – in generale – indica l’inizio del procedimento o il momento in cui la domanda realizza la pienezza dei suoi effetti; sebbene poi, ad altri fini e in altro senso, venga riferito anche alla contemporanea pendenza della stessa causa dinanzi a giudici diversi. Trattasi, ovviamente, di fenomeni diversi, benché il secondo (ovvero, la litispendenza in senso tecnico) presupponga il primo[11]. Fermo il distinguo che precede, quanto alla semplice pendenza, in dottrina si è precisato che la lite può considerarsi pendente (seppur in forma attenuata) anche quando il processo versa in uno stato o fase in cui non vi è un giudice obbligato a provvedere[12]. E’ stato, altresì, affermato che vi può essere una pendenza rilevante per una sola parte[13], che è a conoscenza del processo, o che una lite può essere ritenuta pendente in momenti differenti, a seconda dei fini per cui la pendenza viene in rilievo, vale a dire se per stabilire l’instaurazione del processo o la realizzazione del contraddittorio. Da tali premesse, parte della dottrina e della giurisprudenza[14] hanno ricavato il principio secondo cui, ai fini della pendenza, è sufficiente il contatto tra due dei tre soggetti del processo, sia che si tratti delle due parti (come accade nei processi che iniziano con citazione) sia che si tratti di una parte e il giudice (come accade nei processi che iniziano con ricorso). Ciò in quanto la costituzione del processo e la realizzazione del contraddittorio starebbero a rappresentare due realtà diverse: la prima relativa al momento iniziale del processo e la seconda alla statuizione, giacché il giudice non può pronunciarsi sulla domanda se la controparte non è stata citata. A tale nozione si contrappone, invece, quella di pendenza della lite tra due parti, intesa come res litigiosa, ovvero contesa che presuppone il contraddittorio.

2. In ragione di quanto precede appare evidente che la regola generale, dettata dalla disciplina transitoria all’art. 35, co. 1, apparentemente semplice[15] e pleonastica, in realtà non lo sia, poiché di difficile applicazione in relazione ad alcuni procedimenti, quale ad esempio quello per ingiunzione, specie quando le norme che regolano il processo mutano nel passaggio dalla fase monitoria a quella di opposizione. La questione non è di poco conto.

Le modifiche apportate al processo ordinario di cognizione, in uno all’introduzione del procedimento semplificato di cognizione, lasciano temere che da un’errata individuazione della normativa applicabile al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo possa discendere un irreversibile pregiudizio alle ragioni delle parti.

In particolare, con riferimento all’opposizione avverso un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale prima dell’entrata in vigore della riforma, ma notificato successivamente, vi è la necessità di comprendere se l’opposizione, proposta con citazione, debba o meno essere redatta ai sensi del novellato art. 163 c.p.c., con concessione dei termini liberi a comparire di cui al riformato art. 163 bis c.p.c. e se da ciò – o (eventualmente) da verifiche preliminari, estese anche alla normativa applicabile  – discenda il successivo deposito delle memorie integrative, di cui all’art. 171 ter c.p.c. Dall’altra prospettiva, ovvero quella della parte opposta, si pone viceversa il problema di stabilire se la costituzione in giudizio debba o meno avvenire nei termini di cui al novellato art. 166 c.p.c. e se prima dell’udienza di comparizione e trattazione occorra provvedere al deposito delle memorie integrative di cui all’art. 171 ter c.p.c.

In ragione dell’introduzione del procedimento semplificato di cognizione, non va poi tralasciato il dubbio sulla possibilità di esperire l’opposizione con ricorso e, in caso di errore, di salvare gli effetti della domanda, con mutamento del rito da semplificato a ordinario di cognizione pre-riforma (ipotesi diversa da quella disciplinata dall’art. 281 duodecies, co. 1, c.p.c.), sempre che ne ricorrano tutti i presupposti. A ciò potrebbe, altresì, aggiungersi un ulteriore nodo da sciogliere sulle sorti del decreto ingiuntivo emesso dal giudice divenuto incompetente, in ragione del vigente art. 7 c.p.c.[16].

Con riguardo, invece, all’ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo da proporsi davanti al Giudice di pace, occorre interrogarsi sia sulla forma dell’atto di opposizione che sui modi e termini per la costituzione delle parti. La normativa vigente, infatti, stabilisce che il procedimento davanti al Giudice di pace deve svolgersi – salvo i casi in cui sia diversamente previsto e nei limiti di compatibilità – esclusivamente secondo le regole del rito semplificato, che principia con ricorso e non con citazione[17], prevedendo, altresì, un sistema più articolato[18] di preclusioni in cui le parti potrebbero facilmente imbattersi[19]. I possibili rischi[20] derivanti dall’erronea scelta della normativa applicabile (si pensi ad eventuali pronunce d’inammissibilità[21] o alle decadenze e preclusioni processuali conseguenti alla tardiva costituzione ovvero al mancato deposito delle memorie integrative) impongono di cercare soluzioni e ciò, in primo luogo, attraverso le norme del codice di rito.

A tal riguardo non può che invocarsi l’art. 643, co. 3, c.p.c. (peraltro non inciso dalla Riforma), che testualmente recita: “la notificazione determina la pendenza della lite”.

Attesa la chiara formulazione della norma, potrebbe osservarsi che tanto basti a dirimere ogni dubbio e a far ritenere che la nuova normativa si applichi alle opposizioni proposte avverso decreti ingiuntivi notificati a far data dal 1 marzo 2023 e quella previgente alle opposizioni proposte avverso decreti notificati fino alla data del 28 febbraio 2023, poiché al 28 febbraio 2023 la lite risulterebbe già pendente[22].

Detta soluzione, tuttavia, potrebbe non essere così pacifica come sembra e, a ben vedere, come la storia insegna.

A non rendere pacifica la soluzione offerta dall’art. 643, co. 3, c.p.c. è proprio l’interpretazione non univoca della norma, che paga (e continuerà a pagare) il prezzo di inerire a un procedimento dalla complessa struttura e controversa natura[23].

3. Senza alcuna pretesa di completezza d’indagine e nei limiti di quanto strettamente necessario a svolgere queste prime riflessioni “a caldo”, sembra potersi affermare che, da un lato, la notificazione del ricorso e del decreto ingiuntivo costituisce indubbiamente il primo momento di contatto tra le parti (non diversamente da quanto accade in caso di notifica della citazione nel processo ordinario di cognizione[24]) e, dall’altro lato, che l’opposizione – secondo l’orientamento giurisprudenziale e dottrinario attualmente prevalente – non introduce un giudizio propriamente autonomo né un autonomo grado di giudizio, rappresentando pur sempre una fase – quantunque eventuale – di un giudizio già pendente che si fonda sulla domanda (di condanna) del creditore[25], tanto che: l’art. 640, co. 3, c.p.c. espressamente parla di “riproposizione” della domanda[26]; la notifica dell’opposizione va effettuata, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., presso il difensore dell’opposto[27] (così presupponendo un’azione pendente); il codice, all’art. 643, co. 3, c.p.c. fissa la pendenza della lite alla notifica del decreto ingiuntivo e non alla notifica dell’opposizione[28]; l’art. 645 c.p.c., stabilisce la competenza funzionale del medesimo ufficio che ha emesso il decreto opposto[29].

Se, dunque, l’opposizione a decreto ingiuntivo è una fase (eventuale) di un unico giudizio già pendente dalla notifica del ricorso e del decreto, ancor più si potrebbe obiettare che, ai fini dell’individuazione della normativa applicabile, occorra semplicemente tener conto del momento in cui detta notifica è intervenuta.

Sennonché, con riferimento all’art. 643 c.p.c., più volte sia la giurisprudenza che la dottrina hanno affermato che, trattandosi di un unico procedimento, taluni effetti della domanda retroagiscono al momento del deposito del ricorso per ingiunzione.

In particolare, ciò è stato sostenuto con riferimento alla competenza, ponendo l’accento sul disposto di cui all’art. 5 c.p.c., nonché – con riferimento alla litispendenza e alla continenza – in ragione dell’ultimo comma dell’art. 39 c.p.c.

Nella specie, al fine di armonizzare il disposto di cui all’art. 643 c.p.c. con altre norme e principi generali, si è operato un distinguo tra effetti della domanda che postulano la comunicazione all’altra parte[30] ed effetti della domanda che, invece, prescindono dall’instaurazione del contraddittorio. Rispetto a questi ultimi si è affermato che essi decorrono dalla pendenza semplice o, comunque, rilevante per una sola parte[31] e riconducibile al deposito del ricorso.

Le considerazioni che precedono acclarano che, come sopra anticipato, manca una nozione univoca di pendenza della lite.

E, aldilà di come la s’intenda, non può negarsi che vi sia differenza tra pendenza di un giudizio – intesa come instaurazione di un procedimento[32] presso l’ufficio su iniziativa di una parte – e pendenza di una lite tra due parti, intesa come res litigiosa.

In tale prospettiva è ben possibile affermare che, benché il contraddittorio ancora non sia integro, sin dal deposito del ricorso per ingiunzione già pende un processo dinanzi all’ufficio e che di ciò occorra in qualche modo tener conto ove, instaurato il procedimento, intervengano delle modificazioni delle norme che lo regolano.

Il problema non è affatto nuovo.

Il nostro Legislatore, come anticipato, già in passato ha fatto ricorso alla tecnica del “doppio binario”, stabilendo l’ultrattività delle disposizioni previgenti con riferimento alle liti pendenti all’entrata in vigore della riforma.

Pertanto – come spesso accade – al fine di comprendere il presente (e a volte anche per prevedere il futuro) può essere utile volgere lo sguardo al passato.

In particolare, in occasione della riforma del processo civile del 1990, introdotta con legge 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore nel 1995, il Legislatore, nel dettare la disciplina transitoria, adottò lo stesso criterio oggi adoperato all’art. 35, co. 1, D.Lgs. 149/22.

Conseguentemente, soprattutto con riguardo alla competenza, sorse il problema di stabilire se le riformate previsioni si applicassero o meno a quei procedimenti per ingiunzione, che, benché già instaurati, non risultavano ancora pendenti al momento dell’entrata in vigore della riforma.

La dottrina e la giurisprudenza prevalenti[33], mettendo in risalto il distinguo tra effetti della domanda da collegarsi al deposito del ricorso ed effetti riconducibili, invece, all’instaurazione del contraddittorio tra le parti[34], ritennero che con riferimento alla competenza occorresse aver riguardo alla proposizione del ricorso.

Ciò, forse, anche per arginare il rischio che si invalidassero (come in effetti pure accadde) decreti ingiuntivi legittimamente richiesti ed emessi dal Giudice, che era competente al tempo della proposizione della domanda, ma non più al tempo della notifica del ricorso e decreto ingiuntivo[35].

Parte della dottrina ritenne all’epoca che, ai fini della competenza, così come affermava la giurisprudenza, si dovesse guardare al deposito del ricorso, precisando però che, rispetto al rito, occorresse aver riguardo alla notificazione del ricorso e del decreto[36].

Successivamente, si consolidò il convincimento che la retrodatazione degli effetti della pendenza al deposito del ricorso per decreto ingiuntivo dovesse estendersi anche alla litispendenza e continenza[37].

Un significativo contributo, nell’ambito del suddetto orientamento, venne apportato dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 20596 del 1 ottobre 2007[38] (poi richiamata dalla giurisprudenza successiva[39]), che, nel rimarcare la necessità di una lettura correttiva e costituzionalmente orientata del disposto dell’art. 643, co. 3, c.p.c., poneva in più punti l’accento sulla mancata coincidenza della pendenza del processo con la pendenza della lite.

Secondo la pronuncia in esame, infatti, poiché nel procedimento per ingiunzione un processo già pende prima della pendenza della lite, conseguentemente, al verificatasi della condizione della pendenza della lite per effetto della notificazione del ricorso e del decreto, i suoi effetti retroagiscono al deposito del ricorso.

Il principio veniva allora affermato con riferimento alla continenza e ai fini della prevenzione.

4. La pronuncia delle Sezioni Unite, benché datata, è straordinariamente attuale, poiché ad essa rinviano le prime note e linee guida di alcuni tribunali[40], sebbene con riferimento all’applicazione della disciplina transitoria e, in particolare, dell’art. 35, co. 1, D. Lgs. 149/22 in caso di opposizione a decreto ingiuntivo.

Nella specie, nella nota trasmessa dal Presidente del Tribunale di Lecco al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati dello stesso tribunale, si afferma che – quanto all’interpretazione dell’art. 35, secondo cui la riforma si applica ai “procedimenti instaurati successivamente” al 28 febbraio – la questione relativa alle opposizioni a decreto ingiuntivo vada risolta “applicando il disposto dell’art. 643 comma III c.p.c., come interpretato da Cass. Sez. Un. 20596/2007”. Di conseguenza, presso Il Tribunale di Lecco “sarà applicato il vecchio rito a tutte le opposizioni a decreto ingiuntivo relative a decreti il cui ricorso sia stato depositato entro il 28 febbraio 2023”.

In maniera del tutto analoga, nelle linee guida del Tribunale di Venezia – sebbene con riferimento all’opposizione a decreto ingiuntivo da proporsi davanti al Giudice di pace – si afferma che con riguardo al problema intertemporale dell’applicazione del nuovo rito vada richiamato il principio dettato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con ordinanza n. 20596 del 1° ottobre 2007 nella parte in cui afferma che gli effetti della pendenza della lite, introdotti con la domanda di ingiunzione, retroagiscono al momento del deposito del ricorso, non costituendo l’opposizione a decreto ingiuntivo né impugnazione né giudizio autonomo, ma una fase ulteriore (anche se eventuale) del procedimento iniziato con ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo.

Il richiamo all’ordinanza n. 20596/2007, come evidente, non è utilizzato nelle linee guida o nelle note informative per affermare che, a condizione che vi sia la notificazione del ricorso e del decreto, gli effetti della pendenza della lite – ai fini della prevenzione – retroagiscono al momento del deposito del ricorso, quanto piuttosto per sostenere che – rispetto alla regola generale dettata dall’art. 35, co. 1., del D. Lgs. n. 149/22, vale a dire per stabilire quali siano le norme processuali applicabili all’opposizione a decreto ingiuntivo- occorra far riferimento alla data di deposito del ricorso.

Il che sembrerebbe andar oltre quanto affermato, a suo tempo, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

L’ordinanza n. 20596/2007, infatti, nel risolvere uno specifico contrasto sulla prevenzione in caso di continenza tra procedimento per ingiunzione e causa di accertamento negativo del credito, muoveva dalla premessa fondamentale che, nell’interpretazione dell’art. 643, co. 3, c.p.c, occorresse tener conto che “la prevenzione” è un effetto della costituzione del processo e non della realizzazione del contraddittorio.

Vien da sé che le osservazioni della Suprema Corte fossero – a monte – limitate al contrasto da dirimere e alla prevenzione, nonché fondate sul distinguo tra effetti della domanda che discendono dalla costituzione del processo e altri effetti che, viceversa, conseguono alla realizzazione contraddittorio.

Di ciò si trova conferma anche in altro passaggio del provvedimento, ove si afferma: “D’altra parte, poiché la fondamentale funzione della notifica del ricorso e del decreto è di provocare il contraddittorio mentre, come è stato rilevato (v. Cass. n. 5597 del 1992), “la prevenzione è un effetto della costituzione del processo e non della realizzazione del contraddittorio”, non contrasta con la predetta funzione riconoscere che il principale effetto processuale della pendenza retroagisca al momento della proposizione della domanda. Né il fatto che, a differenza dagli altri procedimenti su ricorso, nel procedimento d’ingiunzione il giudizio a cognizione piena è meramente eventuale, può escludere l’applicazione del principio generale enunciato nell’indicata decisione di queste sezioni unite, perché, comunque, il diritto di difesa dell’ingiunto è garantito dalla necessità che, per il verificarsi della litispendenza, con decorrenza dalla data del deposito del ricorso, il ricorso stesso e il decreto debbono essere notificati.”

In altri termini, è come se si fosse inteso dire che nel procedimento per ingiunzione, così come negli altri procedimenti che principiano con ricorso, il giudice deve intendersi adìto – ai fini della prevenzione – da quando il procedimento risulta incardinato presso l’ufficio sebbene la realizzazione del contraddittorio avvenga successivamente.

La Suprema Corte di Cassazione, peraltro, nell’analizzare se l’interpretazione offerta confliggesse o meno con il dato testuale dell’art. 643, co. 3, c.p.c., aggiungeva che il verbo determinare potesse leggersi anche come condizionare e che il concetto di pendenza potesse esser riferibile a significati e situazioni processuali diverse.

Il che acclara la piena consapevolezza che, con riferimento ad altri effetti o ad altro ambito, il concetto di pendenza potesse anche mutare.

Non va, infine, sottaciuto che l’ordinanza in esame fu guidata dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo in considerazione del rischio di moltiplicazione o abusiva proposizione di più giudizi per far valere le ragioni deducibili con l’opposizione.

Sul punto, nel provvedimento, si legge: “Tra i principi costituzionali che debbono guidare l’interpretazione delle norme processuali, ai fini della soluzione del contrasto, assume precipuo rilievo quello della ragionevole durata del processo che deve far prevalere quelle soluzioni che, in assenza di esigenze meritevoli di tutela, disincentivano la duplicazione di procedimenti aventi lo stesso oggetto e quindi quell’interpretazione che possa indurre il debitore a far valere nel giudizio di opposizione quelle ragioni che potrebbe essere indotto a dedurre in un autonomo giudizio di cognizione, al solo scopo di ottenere la dichiarazione di nullità del decreto ingiuntivo e la cancellazione di eventuali ipoteche giudiziali.”.

Ne discende che anche la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 643, co. 3, c.p.c. si ritenesse necessaria ai fini della soluzione del contrasto e rispetto alla continenza tra cause, non rispetto al procedimento per ingiunzione in sé considerato.

Alla luce di quanto sopra riportato, pertanto, appare lecito dubitare che l’ordinanza n. 20596 /2007 ambisse a dettare il criterio generale, che oggi sembra affermarsi, volendo piuttosto indicare un principio applicabile limitatamente al caso di continenza tra cause, secondo cui – ai fini della prevenzione – il procedimento per ingiunzione può considerarsi pendente sin dalla proposizione della domanda, a condizione che vi sia la notifica del ricorso e del decreto.

L’autorevole precedente, in tal senso inteso, non consente di stabilire cosa l’attuale Legislatore abbia voluto dire, nella disciplina transitoria, riferendosi ai procedimenti pendenti né di affermare quando la lite possa considerarsi pendente nel procedimento per ingiunzione, alla luce delle finalità che la disciplina transitoria persegue.

A tal riguardo, giova richiamare quanto già affermato in premessa, ribadendo che la disciplina transitoria, con riferimento alle riforme del processo civile, è chiamata a trovare soluzioni nei casi in cui l’immediata applicazione delle nuove disposizioni ai processi in corso può minare la coerenza e razionalità di quell’unica sequenza di atti di cui essi si compongono.

Nel procedimento per ingiunzione, tuttavia, una vera e propria serie concatenata di eterogenee attività delle parti e del giudice, secondo uno schema dialettico[41], si ha (o meglio si potrebbe avere) solo per effetto della notificazione e della realizzazione del contraddittorio.

Il che non vuol dire affatto che la fase monitoria sia priva di una propria rilevanza o di effetti, bensì che – ai fini della disciplina transitoria – in tanto può essere giustificata una deroga all’immediata applicazione delle nuove disposizioni al procedimento per ingiunzione in quanto, al tempo della loro entrata in vigore, sussista almeno il presupposto perché ulteriori concatenate attività siano compiute dalle parti e dal giudice.

A ragionar diversamente si finirebbe paradossalmente per pregiudicare le parti, privandole, attraverso un’ingiustificata disparità di trattamento, della possibilità di avvalersi di nuove disposizioni più “performanti”[42] (almeno sul piano astratto e nell’intenzione del Legislatore).

Ne consegue che, per più ragioni, appare preferibile che – ai fini della disciplina transitoria – siano considerati pendenti i procedimenti per ingiunzione in cui la notificazione del ricorso e del decreto risulti intervenuta, in termini di consegna degli atti all’ufficiale giudiziario, entro il 28 febbraio 2023 (e, dunque, non successivamente all’entrata in vigore della riforma).

Il tutto in assoluta conformità al disposto dell’art. 643, co. 3, c.p.c.

Ancorare la pendenza del giudizio alla disposizione codicistica risponde sia alle finalità della disciplina transitoria che alle esigenze di parità di trattamento e di certezza del diritto, non parimenti garantite da interpretazioni giurisprudenziali[43], semmai diversificate, tratte da “leading case”.

Ben è possibile, infatti, che la soluzione prospettata dai primi tribunali che si sono espressi sulla questione, non essendo ancorata al dato normativo ma ad una interpretazione giurisprudenziale (riferita ad altro e più ristretto ambito), possa non esser condivisa da tutti gli uffici dislocati sul territorio nazionale.

E non ci sarà, dunque, da stupirsi se presso i più uffici giudiziari, come già accaduto durante l’emergenza pandemica, saranno adottate linee guida o protocolli di contenuto diverso tra cui, di certo, non sarà agevole districarsi.

Nelle more, la progressiva erosione del contenuto dell’art. 643, co. 3, c.p.c. rischia, con ogni probabilità, di proseguire il suo corso o forse un rinvio pregiudiziale in Cassazione, ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., metterà fine alla lunga agonia.

[1] Il d.lgs. 149/2022 ha recato l’“Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”.

[2] L’art. 35 del D. lgs. n. 149/22 è stato sostituito dall’art. 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022 (Legge di bilancio 2023), n. 197 e parzialmente derogato dall’art. l’articolo 8, comma 9-bis, del D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni dalla Legge 24 febbraio 2023, n. 14. Nella sua originaria versione, l’art. 35, comma 1, d.lgs. 149/2022 disponeva che “Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”.

[3] L’osservazione, che si condivide, è da attribuirsi a B. Capponi, Note sull’entrata in vigore delle recenti novelle al codice di procedura civile (leggi nn. 80/2005, 263/2005 e 52/2006), in Giur. It., n. 12, 1 dicembre 2006, p. 1001 e ss..

[4] Circa le assonanze tra processo, come spazio ideale caratterizzato da ritualità e regole, e il gioco, si veda B. Cavallone, Il processo come gioco, in Riv. dir. proc., n. 6, 1 novembre 2016, p. 1548 e ss.

[5] G. Verde, Diritto processuale civile, 1. Parte generale, Vª ed., Bologna, 2017, p. 240. L’Autore, analizzando ciò che avviene nel processo, osserva che esso va avanti con il realizzarsi di successive situazioni giuridiche, atteso che: “un soggetto del processo compie un determinato atto e ciò crea una situazione giuridica in base alla quale lo stesso o altro soggetto è abilitato a compiere un atto ulteriore, che a sua volta è prodromico di una nuova situazione giuridica che legittima il compimento di ulteriori attività convergenti verso l’atto finale del processo. Tutto ciò pone sullo sfondo e rende scarsamente rilevante la relazione che lega i vari soggetti del processo, giacché quello che conta realmente non è il loro rapporto, ma l’essere essi coinvolti in un’unica vicenda e l’essere le loro attività reciprocamente implicate per convergere verso l’emanazione di un provvedimento”.

[6] cfr. B. Capponi, Note sull’entrata in vigore delle recenti novelle al codice di procedura civile (leggi n. 80/2005, 263/2005 e 52/2006), op. cit. L’Autore, opera una distinzione tra diritto intertemporale e disciplina transitoria, osservando che sebbene il principio del tempus regit actum ben possa e debba trovare applicazione anche con riferimento alle leggi processuali, sia demandato alla disciplina transitoria occuparsi, specie con riferimento alle liti pendenti, delle sorti degli atti compiuti in applicazione della legge abrogata e di raccordare tali atti con quelli che saranno posti in essere alla luce della legge sopravvenuta, in modo da garantire l’unità e coerenza interna del procedimento,  Trattasi, secondo l’Autore, di “soluzioni «operative» e «pratiche» che realizzano il passaggio da un sistema all’altro, e che il legislatore deve articolare sulla base di regole di esperienza, ragionevolezza ed opportunità, ovvero sulla base di giudizi di valore (i cui estremi sono ricompresi tra l’ultrattività delle vecchie disposizioni e l’applicazione retroattiva delle nuove), operazioni tutte che presuppongono un esercizio «ragionevole» di quella discrezionalità che è tipica del legislatore, e che lo stesso tende del resto a riservarsi nella misura più ampia possibile.” Di diversa opinione R. Caponi (si veda R. Caponi, Tempus regit processum ovvero autonomia e certezza del diritto processuale civile, in Riv. dir. proc., 2006, 2, p. 449 e ss.) che afferma la necessità di interpretare l’art. 11 delle preleggi alla luce del principio tempus regit processum secondo cui non si cambiano le regole del processo quando esso è in corso, dovendo le stesse essere previamente conoscibili dalle parti e non esposte all’alea di modificazioni sopravvenute. Detto principio, sebbene messo in ombra dalla statualizzazione della procedura, secondo l’Autore permea “di sé l’interpretazione dell’art. 11 delle Preleggi con riferimento alle leggi processuali (nonostante che la communis opinio sia in senso opposto): se la legge non dispone che per l’avvenire, la legge processuale non dispone che per i processi futuri (o quantomeno, non dispone che per i futuri gradi di giudizio)”. Ciò, in considerazione dell’esigenza di certezza e di garanzia nel trattamento delle situazioni processuali.

[7] B. Capponi, Un dubbio sul regime transitorio della riforma dell’art. 614 bis c.p.c., in www.judicium.it. L’Autore osserva che “l’<<arte>> di dettare le discipline transitorie non è delle più semplici, e forse le norme destinate a regolare l’applicazione di altre norme (<<norme su norme>>, si diceva un tempo) dovrebbero essere quelle più meditate e dettagliate”.

[8] Intesi in senso lato, vedi nota 4.

[9] B. Capponi, Il processo civile e il regime transitorio della legge n. 69 del 18 giugno 2009, in Corr. giur., n. 9, 1 settembre 2009, p. 1179.

[10] B. Capponi, Il processo civile e il regime transitorio della legge n. 69 del 18 giugno 2009, op. cit. L’Autore, esaminando le riforme del codice dal 1940 al 2009, osserva come solo a partire dalla riforma del rito del lavoro del 1973 il Legislatore abbia cominciato a distinguere tra processi già pendenti e processi instaurati successivamente all’entrata in vigore delle riforme, per sottoporre i primi alle disposizioni abrogate e i secondi alle nuove disposizioni, creando così un doppio binario ed una divisione in blocchi del contenzioso. Lo stesso Autore, in altra sede (B. Capponi, il diritto processuale civile <<non sostenibile>>, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, 3, p. 855 e ss.) ha osservato che “Si accontenta, il legislatore, di stabilire a quali regole debbano andare soggetti i separati blocchi di contenzioso, senza interrogarsi sulla razionalità della scelta di mantenere in vita un rito abrogato per il contenzioso pendente.(…) Insomma, quelle più recenti non sono state vere discipline transitorie, ma mere segnaletiche di diritto intertemporale processuale il loro obbiettivo è stato quello di individuare il diritto applicabile, non anche quello di (almeno tentare di) creare un insieme coerente tra vecchio e nuovo, favorendo l’applicazione di un solo rito civile che sia, quanto alle cause pendenti, frutto virtuoso di quella combinazione”.

[11] La pendenza funge, inoltre, da presupposto della continenza, ai cui fini è stabilito il criterio di prevenzione di cui all’art. 39, co. 3, c.p.c.

[12] G. Chiovenda, Rapporto giuridico processuale e litispendenza, in Saggi di diritto processuale civile, vol. II, Roma 1931, pp. 375 – 379.

[13] G. Frus, Pendenza della lite, tutela cautelare e procedimento monitorio, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1995, 2, p. 578.

[14] Per riferimenti v. G. Frus, op. cit., p 571. In giurisprudenza, si veda in particolare Cass., sez. un., 11 maggio 1992, n. 5597.

[15] B. Capponi, Un dubbio sul regime transitorio della riforma dell’art. 614 bis c.p.c., cit. L’Autore, analizzando l’art. 35, co. 1, D. Lgs. 149/2022, osserva come il sistema del “doppio binario” sia solo apparentemente chiaro, poiché non sempre in grado di identificare con certezza una disciplina transitoria o meglio di dettare una vera disciplina transitoria.

[16] La questione relativa al decreto ingiuntivo emesso dal giudice divenuto incompetente è stata ridimensionata (più che dall’art. 5 c.p.c.) dai principi affermati, nel tempo, dalla prevalente giurisprudenza con riferimento all’interpretazione dell’art. 643, co. 3, c.p.c. ai fini della competenza. Sul punto si rinvia al § 3.

[17] L. Viola, Opposizione a decreto ingiuntivo davanti al giudice di pace d.c. ( dopo Cartabia): quale atto?, in La Nuova Procedura Civile, 2023, 2, il quale evidenzia come anche in caso di decreto ingiuntivo opposto secondo il rito del lavoro, l’opposizione viene proposta con ricorso, richiamando a tal riguardo ( alla nota n. 3) Cass., sez. lav., sezione lavoro, ordinanza del 7.7.2020, n. 14023, nella parte in cui ha affermato che “L’opposizione a decreto ingiuntivo nelle materie soggette al rito del lavoro si propone con ricorso; tuttavia, ove sia, per errore, proposta con citazione, essa può impedire comunque che il decreto divenga definitivo, non già̀ se notificata alla controparte entro il termine di cui all’art. 641 c.p.c., ma solo se, entro tale termine, venga altresì̀ depositata in cancelleria”.

[18] Con riferimento alle preclusioni che nella previgente disciplina del processo davanti al giudice di pace maturavano nella prima udienza, salvo esigenza di differimento determinata dalla necessità di garantire il contraddittorio o da ulteriori richieste istruttorie, si vedano, ex multis, Cass. 21 aprile 2016 n. 8108 e Cass. 21 dicembre 2011 n. 27925.

[19] Si pensi, ad esempio, all’opponente che, nella difficoltà di comprendere se la costituzione debba avvenire con il semplice deposito del ricorso, ai sensi dell’art. 316 c.p.c., oppure depositando il ricorso notificato e il decreto di fissazione d’udienza, ai sensi dell’art. 319 c.p.c., sia costretto ad attendere che il decreto di fissazione d’udienza venga effettivamente emesso entro il termine ordinatorio di cinque giorni dal deposito del ricorso, stabilito dall’art. 318 c.p.c., per aver certezza di poter notificare ricorso e decreto alla controparte nel rispetto dei termini di cui all’art. 641 c.p.c. Pari difficoltà, seppur per ragioni diverse, potrebbe incontrare anche il creditore, quale parte opposta. In ragione del regime di preclusioni del rito semplificato, l’opposto avrà necessità di comprendere se, mancando nell’art. 319 c.p.c., che disciplina la costituzione delle parti, un rinvio al secondo comma dell’art. 281-undecies c.p.c., contenuto, invece, nell’art. 318, co. 2, c.p.c., debba o meno costituirsi dieci giorni prima dell’udienza. Ad oggi, tuttavia, la giurisprudenza sembrerebbe propendere per l’assegnazione del termine per la costituzione del convenuto, ai sensi dell’art. 318, co.2. c.p.c., che rinvia all’art. 281 – undecies, co.2, c.p.c. (cfr. Giudice di Pace di Avellino, 3 marzo 2023, n. 621, in www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_45608_1.pdf).

[20] A ben vedere, con riferimento all’opposizione proposta con procedimento ordinario dinanzi al tribunale, pur ravvisandosi rischi per entrambe le parti, vi è, forse, un piccolo indizio che potrebbe avvantaggiare l’opponente rispetto all’opposto. L’opponente, infatti, decorsi quindici giorni dal termine per la costituzione del convenuto, potrebbe, in ragione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c., ricevere una prima indicazione (anche in caso di mera conferma dell’udienza) sulla normativa che l’Ufficio adito riterrà applicabile.  Viceversa, l’opposto a quella stessa data – specie ove confidi nell’applicabilità della precedente normativa – ben potrebbe risultare non ancora costituito o risultare costituito, ma già tardivamente. Trattasi, ad ogni modo, di ben poca cosa specie se si tien conto che secondo i primi protocolli di intesa adottati presso alcuni Tribunali (si veda, ad esempio, il Protocollo d’intesa tra il Tribunale di Palermo e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, consultabile in www.tribunale-palermo.giustizia.it) chiariscono che in mancanza di un provvedimento, reso ai sensi dell’art. 171 bis, co. 3, c.p.c., l’udienza è da intendersi confermata. Ne discende che non possa farsi affidamento sull’emissione di un provvedimento ad hoc, così come non è possibile escludere che – anche in caso di emissione del decreto ex art. 171 bis, co. 3, c.p.c. – occorra attendere la prima udienza per una effettiva e compiuta valutazione in ordine alla normativa applicabile, atteso che in quella sede avvengono anche le verifiche sul rito (e ciò sia nel processo semplificato che in quello ordinario di cognizione dinanzi al tribunale).

[21] Il rischio di inammissibilità non è astratto, atteso che già nelle Linee Guida del 17.03.2023 del Tribunale di Venezia (in www.tribunale.venezia.giustizia.it/news/linee-guida-del-presidente-del-tribunale-in-ordine-all-opposizione-a-decreto-ingiuntivo-davanti-al-giudice-di-pace-a-seguito-della-riforma-cartabia), con riferimento al relativo circondario e al nuovo procedimento dinanzi al Giudice di Pace, si legge: “5.a Nell’ipotesi in cui l’opposizione venga proposta con ricorso relativamente ad un procedimento introdotto prima del °1 marzo 2023, l’opposizione sarà comunque ammissibile se il ricorso sia stato depositato e notificato entro il termine previsto per l’opposizione;

5.b Nell’ipotesi in cui l’opposizione sia relativa ad un ricorso per ingiunzione depositato dopo il 28.02.2023 e venga erroneamente introdotta con atto di citazione (anziché con ricorso) l’opposizione sarà comunque ammissibile se l’atto di citazione sia notificato e depositato in cancelleria (vale a dire iscritto a ruolo) entro il termine previsto per l’opposizione (cfr. a tale proposito, nel caso di rito del lavoro, Cass. 15 febbraio 2023 n. 4667);

  1. c Diversamente si incorrerà nella pronuncia di inammissibilità dell’opposizione e nella conferma del decreto ingiuntivo opposto”.

L’indirizzo fornito dalle Linee guida è conforme a quello di recente affermato da quella giurisprudenza che, rispetto ad un’opposizione proposta con citazione invece che con ricorso, in materia di rito locatizio, ne ha dichiarato l’inammissibilità poiché depositata in cancelleria successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 641 c.p.c. (cfr. Cass. 18 maggio 2021 n. 12556 con nota di V. Amendolagine, L’atto di opposizione a decreto ingiuntivo ha natura impugnatoria?, in Corr. giur., 2021, 12, n, p. 1584 e ss.).

[22] Quanto alle problematiche connesse al perfezionamento della notificazione (destinate progressivamente a ridursi) non potrebbe che tenersi conto del momento in cui il notificante consegna l’atto all’ufficiale giudiziario perché vi provveda, sulla base di ragioni analoghe a quelle che hanno consentito l’affermazione della scissione soggettiva nella notificazione per rendere il notificante immune da conseguenze non riconducibili ai suoi poteri di impulso e controllo, in ossequio del diritto di difesa e del principio di ragionevolezza. Si veda sul tema A. Giordano, Notificazione degli atti processuali con effetti sostanziali – Il principio di “scissione soggettiva” nella notificazione degli atti processuali con effetti sostanziali, in Giur. it., 2016, 7, p. 1623 e ss.; Id., Processo civile – «Sulla “scissione soggettiva” della notificazione. Una lettura secondo il principio di ragionevolezza», in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2016, 5, p. 749 e ss.

[23] Il dibattito relativo alla struttura si è incentrato principalmente su autonomia delle fasi ovvero unitarietà del procedimento. Nella specie, nell’ambito della dottrina e della giurisprudenza che hanno affermato l’autonomia dell’opposizione, una parte ha sostenuto che la stessa costituisse un’azione di accertamento negativo avente ad oggetto, per alcuni, il diritto fatto valere dal ricorrente, per altri, il decreto ingiuntivo o entrambi. In una posizione intermedia si è posta, poi, quella parte della dottrina e della giurisprudenza che ha ritenuto possibile ravvisare autonomia o continuità a seconda di quanto dedotto in opposizione. Di diverso avviso, invece, quella dottrina e giurisprudenza (prevalente), che hanno sostenuto l’unitarietà del procedimento, affermando che l’opposizione consenta di passare ad un ordinario processo di cognizione avente ad oggetto un’azione di condanna. Sotto il diverso profilo della natura, invece, il dibattito si è sostanzialmente incentrato sulla natura impugnatoria dell’opposizione ovvero di ordinario processo di cognizione. Per una ricostruzione dei più orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, si veda G. Vignera, La relazione strutturale tra procedimento monitorio e giudizio di opposizione, in Riv. dir. proc., 2000, 721 e 768; A. Tedoldi – C. Merlo, L’opposizione a decreto ingiuntivo, in Il procedimento d’ingiunzione, AA.VV. a cura di B. Capponi, Bologna, 2009, pp. 463-467; V. Amendolagine, L’atto di opposizione a decreto ingiuntivo ha natura impugnatoria?, op.cit., p. 1584 e ss..

[24] Cass., 12 marzo 2019, n. 7020, Cass., 23 luglio 2014, n. 16767; Cass., 15 luglio 2005, n. 15037.

[25] Cfr. nt. 19.

[26] Cass., Sez. Un., 01 ottobre2007, n. 20596.

[27] Cass., Sez. Un., 01 ottobre2007, n. 20596.

[28] G. Tomei, Procedimento di ingiunzione, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIV, Torino, 1996.

[29] Sulla competenza funzionale v.  N. Rascio, In tema di competenza funzionale, in Riv. dir. proc, 1993, 1, p. 159 s. ove l’Autore analizza anche il tema con riguardo all’opposizione a decreto ingiuntivo; E. Gabellini, Opposizione a decreto ingiuntivo: i problemi esegetici posti dall’art. 653 c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 3, p. 1109 ss.

[30] E. Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, p. 101.

[31] G. Frus, op. cit, p. 571.

[32] E. Fazzalari,“ Procedimento e processo (teoria generale) ”, in Enc. dir., XXXV, Milano 1986, il quale distingue tra <<procedimento>>, come serie di norme che disciplinano una condotta, a cui corrispondono una serie di facoltà, poteri, doveri quante e quali sono le «posizioni soggettive» che è dato trarre dalle norme,  e «processo», quale iter di formazione di un atto che contempla la partecipazione non solo “del suo autore, ma anche dei destinatari dei suoi effetti, in contraddittorio, in modo che costoro possano svolgere attività di cui l’autore dell’atto deve tener conto, i cui risultati, cioè, egli può disattendere, ma non ignorare”.

[33] Per una ricostruzione del dibattito occasionato dalla norma transitoria dell’art. 90 L. 353/90, si veda A. Storto, La giurisdizione e la competenza, in Il procedimento d’ingiunzione, op. cit., p. 234-240.

[34] In dottrina, cfr. E. Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, op. cit., p. 101.

[35] Sul punto cfr. Tr. Latina,12 dicembre 1996, con nota di A. Scala, Procedimento di ingiunzione e giudizi pendenti ex art. 90 l. 353/90, in Giur. civ., 1996, pp. 1986 – 1993.

[36]  In questo senso v. B. Capponi, in R.Vaccarella-B. Capponi-C. Cecchella, I nuovi interventi sulla riforma del processo civile. La disciplina transitoria dopo il 30 aprile 1995, Torino, 1995, p. 41 e ss. In senso conforme v. I. Pagni, La nuova disciplina transitoria della legge di riforma del processo civile, in Giur. it.,1995, 6, p. 1003 ss.

[37] G. Verde, Diritto processuale civile, 3. Processo di esecuzione Procedimenti speciali, Vª ed., Bologna, 2017, p. 180. L’Autore osserva come la disposizione, di cui all’art. 643, co. 3, c.p.c., sia stata erosa progressivamente con l’avallo della dottrina e della giurisprudenza, che principiando dall’affermare – con riferimento alla giurisdizione e alla competenza – che, ai fini di cui all’art. 5 c.p.c., dovesse aversi riguardo al deposito del ricorso, hanno finito per estendere detta retrodatazione anche alla prescrizione e alla decorrenza degli interessi anatocistici. Di tal che l’Autore pone un interrogativo su quali siano gli ulteriori effetti, determinati dalla notificazione del decreto, se non solo quelli della instaurazione del contraddittorio tra le parti.

[38] Per una compiuta analisi delle motivazioni della pronuncia de qua si veda F. Milena, Opposizione a decreto ingiuntivo, connessione e continenza: una occasione di riflessione non mancata dalla Sezioni Unite, in Corr. giur., 2009, 9, p. 1279.; L. Piccininni, Pendenza del procedimento di ingiunzione, effetti della domanda e criterio della prevenzione, in Riv. dir. proc., 2008, 6, p. 1759 e ss., con rilievi critici quanto a sovrapposizioni tra effetti propri della proposizione di una domanda ed effetti che discendono dalla pendenza della lite come contesa giudiziale tra due parti. L’autore, pur muovendo dei rilievi, apprezza la soluzione offerta dal provvedimento in funzione di una migliore tenuta del sistema processuale nel segno di una più forte adesione ai principi costituzionali, sebbene gli stessi – a suo avviso – andavano riferiti a quello del giusto processo e della tutela giurisdizionale dei diritti.

[39] Cass., 14 aprile 2017, n. 9712; Cass., 21 settembre 2015, n. 18564; Cass, 04 settembre 2014, n. 18707; Cass., 26 aprile 2012, n. 6511.

[40] Si veda la Nota del Presidente Tribunale di Lecco del 17.03.2023, in www.ordineavvocati.lecco.it/tribunale-di-lecco-entrata-in-vigore-della-riforma-cartabia/ e Linee guida del Tribunale di Venezia del 17.03.2023 in www.tribunale.venezia.giustizia.it/news/linee-guida-del-presidente-del-tribunale-in-ordine-all-opposizione-a-decreto-ingiuntivo-davanti-al-giudice-di-pace-a-seguito-della-riforma-cartabia.

[41] Sulla struttura dialettica, che caratterizza il processo, si veda E. Fazzalari,“ Procedimento e processo (teoria generale) ”, op. cit.; G. Verde, Diritto processuale civile, 1. Parte generale, op. cit., p. 240.

[42] B. Capponi, Un dubbio sul regime transitorio della riforma dell’art. 614 bis c.p.c., op.cit., il quale afferma che il riformatore dovrebbe perseguire l’obiettivo di garantire la più ampia applicazione possibile del nuovo diritto, piuttosto che quelle precedenti, modificate poiché giudicate inadeguate o superate. Lo stesso Autore in altra sede (cfr. B. Capponi, il diritto processuale civile <<non sostenibile>>, in Riv. trim. dir. e proc. civ., op. cit.) ha evidenziato che “la conservazione nel tempo di regole che lo stesso legislatore stima inadeguate o inopportune, garantendo sopravvivenza o ultrattività della vecchia disciplina che, limitando l’efficacia delle riforme, finisce per contraddire il canone della parità di trattamento. La teoria del «diritto transitorio» o delle «terze norme» risponde appunto ad un criterio di ragionevolezza, ponendosi l’obbiettivo di non differenziare i trattamenti se non in ragione di posizioni o diritti già definitivamente acquisiti (facta praeterita)”.

[43] G. Verde, Diritto processuale civile, 1. Parte generale, op. cit., p. 14, il quale, in ordine alla negazione della giurisprudenza come fonte del diritto processuale, afferma: “la riserva di legge è garanzia non soltanto dall’ingerenza del potere esecutivo verso l’ordine giudiziario ma anche di alterità e pre-ordinazione della fonte di disciplina del processo, quale fenomeno di diritto pubblico, rispetto sia al giudice che alle parti. Del resto, è stato puntualmente riconosciuto dalla stessa Corte di Cassazione che è proprio il precetto fondamentale della soggezione del giudice alla legge che impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché quella, nella sua dimensione dichiarativa, non può mai rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro di verifica del singolo atto processuale (Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144).”.